GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!

I rapporti tra Iran e Azerbaigian sono sempre stati caratterizzati da un’accesa rivalità dovuta sia alla politica di potenza regionale di Teheran sia alle aspirazioni della minoranza azera in Iran di entrare a far parte di un Azerbaigian allargato.

Recentemente questo stato di tensione si è acuito a seguito dell’interesse iraniano di svolgere un ruolo più attivo nel decennale conflitto che investe il Nagorno-Karabakh. Il supporto che Teheran ha offerto all’Armenia ha scatenato una reazione decisa da parte di Baku che ha elevato il livello del confronto portando a un dispiegamento di forze da parte di entrambi i due Paesi lungo la linea di confine.

Tuttavia, se la possibilità di arrivare a uno scontro militare appare abbastanza remota, è opportuno sottolineare quali siano le premesse di questa nuova mossa di Teheran.

In primo luogo, questa escalation nei rapporti con Baku conferma la strategia iraniana di svolgere un ruolo importante, non solo nella regione mediorientale ma anche nel vicino Caucaso, nell’ottica di rafforzare e consolidare il ruolo di potenza regionale che rappresenta l’obiettivo del regime di Teheran.

In secondo luogo, dimostra che le recenti ondate di proteste interne, ritenute spesso in Occidente la premessa di una primavera iraniana, non hanno minimamente scalfitto la linea di politica estera perseguita dall’Iran, confermando la solidità dell’impianto statale del Paese.

Da ultimo, ma sicuramente di non minore rilevanza, questi recenti sviluppi dimostrano che è in atto un processo di ridefinizione degli equilibri regionali come conseguenza dell’andamento del conflitto in Ucraina.

La Russia pur continuando a essere la potenza protagonista dell’area caucasico-mediorientale, deve accettare come contropartita del supporto diretto o indiretto ricevuto nella gestione della crisi ucraina che sia la Turchia sia l’Iran possano svolgere un ruolo più incisivo nel perseguimento dei loro obiettivi geostrategici locali.

In tale scenario, infatti, Ankara cerca di risolvere i problemi legati alla componente militare del PKK che viene percepita come una minaccia costante alla sua integrità territoriale mentre Teheran vorrebbe eliminare la possibilità dell’espansione azera, considerata un probabile stimolo per pericolosi secessionismi nell’area settentrionale dell’Iran.

Ma il fattore più importante da valutare è che, lontano dall’essersi cristallizzato sulla crisi ucraina, lo scenario geopolitico mondiale continua a essere in continua evoluzione e che l’Occidente non lo percepisce.

Quanto avviene nella regione del Caucaso meridionale dovrebbe stimolare nell’Occidente una riflessione a più ampio spettro sulla gestione della crisi ucraina.

Ogni giorno la narrative che i nostri media ci propongono è quella dell’impossibilità di pervenire alla fine della crisi se non attraverso la sconfitta totale della Russia, il suo annichilimento politico, l’imposizione di un cambio di regime che, nella visione utopico-ipocrita dell’Occidente, preconizza la nascita di un sistema democratico, liberale, sottomesso e privo di identità nazionale.

La resa incondizionata, il ritiro oltre gli Urali, l’assunzione della piena e unica responsabilità del conflitto, il pagamento dei danni di guerra, e delle spese di ricostruzione, una nuova Norimberga, sono dei vaneggiamenti politici che fanno riferimento a un passato che non si ripeterà, semplicemente perché le condizioni e la situazione sono profondamente differenti.

Se questa narrative mediatica ha sviluppato un suo appeal che ha consentito di giustificare quelle che sono state in realtà le conseguenze di una valutazione geopolitica sbagliata, l’evoluzione del contesto mondiale ci deve spingere a un approccio al problema più pragmatico, più realista e meno intriso di morale spicciola, dove è imperativo porre fine a questa proxy war continuazione inutile della Guerra Fredda, con il conseguimento di una soluzione diplomatica bilanciata a beneficio di tutti: l’Ucraina, la Russia, l’Europa, gli Stati Uniti.

La domanda che i media occidentali dovrebbero fare è la seguente: è politicamente indispensabile che la crisi si concluda solo con una resa incondizionata e totale della Russia, come il mantra mediatico di Zelensky richiede in ogni apparizione pubblica del leader maximo dell’Ucraina, oppure non appare più opportuno (e diplomaticamente più corretto) ricercare una soluzione mediata che possa porre un termine al conflitto?

Fermo restando l’inaccettabilità del ricorso alla forza come risoluzione delle problematiche internazionali, siamo proprio sicuri che quanto sta avvenendo nell’Europa dell’Est sia solo il risultato di un delirio zarista – imperialista da parte di Putin e, magari, non sia invece la conseguenza di azioni politico-diplomatiche poco avvedute e di errori di valutazione geopolitica?

La visione dell’Occidente, nel corso della sua storia, è stata caratterizzata da un proselitismo con vocazione missionaria volta a propagandare i propri valori, sia nel campo religioso sia in quello culturale, nella convinzione assoluta che essi fossero non solo i migliori ma, anche, gli unici ai quali il genere umano dovesse aspirare per realizzarsi compiutamente.

Il punto non è quello di disquisire se il nostro sistema di valori sia realmente universale o meno, ma quello di chiederci se quello che noi, Occidente, consideriamo vero sia, realmente, ciò che gli altri percepiscono come realtà.

Nella fattispecie, il nostro costrutto culturale e sociale ci ha portato a identificare il significato che noi diamo ad alcuni valori come assioma assoluto e universale, senza il minimo dubbio che questo significato sia condiviso anche dagli altri a cui noi imponiamo, come assoluti, questi valori.

Inoltre, i traumi profondi che il XX secolo ha inciso nella nostra coscienza collettiva ci hanno spinto a identificare la soluzione ideale per sconfiggere i nostri incubi nella creazione di alcune istituzioni internazionali, che, permeate di buoni propositi e basate sui valori culturali di una società occidentale ritenuta universale, ci hanno consentito di sviluppare una specie di eden in un mondo dove il conseguimento del benessere e della pace sono ancora obiettivi di un orizzonte lontano.

L’ONU, l’Unione Europea, la NATO sono l’espressione diretta della nostra aspirazione a una serenità e una sicurezza universale e incondizionata. Chiunque metta in discussione questo assioma deve essere condannato e va fermato per il bene universale.

Anche qui il punto non riguarda la valutazione di merito di queste organizzazioni, ma concerne il fatto di come queste organizzazioni siano viste e percepite da chi non ne fa parte.

Nel particolare, sia l’Unione Europea sia, soprattutto, la NATO sono considerate con sospetto e con paura dalla Russia nella cui matrice storico-culturale queste organizzazioni sono identificate come una minaccia alla propria indipendenza e alla propria sicurezza.

Quando la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha fatto emergere il problema del vuoto di potere nell’Est Europa la soluzione adottata è stata quella di inglobare i Paesi dell’Europa Orientale nella NATO e nell’Unione Europea nel tentativo di assimilare le nuove democrazie al contesto occidentale.

Ma questo processo non ha tenuto conto della percezione russa del problema, che si è manifestata nel momento in cui l’ombra della UE e della NATO si è proiettata sull’Ucraina (vertice NATO di Bucarest del 2008: Bucharest Summit Declaration – Issued by the Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council in Bucharest on 3 April 2008 – para 23. “NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO. We agreed today that these countries will become members of NATO…..”).

L’alternanza di governi pro Russia e pro USA che hanno caratterizzato la scena ucraina nel presente millennio, la difficoltà dei vari movimenti nazionalisti di accettare minoranze linguistico culturali di matrice russa in Ucraina e il tentativo di usare il Paese per conseguire obiettivi geostrategici da ambo le parti (Occidente e Russia) hanno avuto come conseguenza diretta l’acuirsi della crisi e il suo trasformarsi in conflitto.

Questo, nella narrativa occidentale, ha poi assunto la fisionomia di una crociata delle forze del bene dove un’Ucraina democratica e liberale difende la democrazia e la libertà dell’Europa minacciate dall’autocratismo zarista.

Purtroppo, la realtà è differente. La crisi ucraina è la conseguenza del concatenarsi di una serie di azioni diplomatico-politiche e di valutazioni geostrategiche superficiali, effettuate da parte di entrambe le parti in causa, dove gli interessi in gioco sono di carattere economico (l’Ucraina è un territorio enormemente ricco) e geopolitico (la percezione della sicurezza dei confini e il ruolo sulla scena mondiale). La Russia non attenta alla nostra democrazia e alla nostra libertà, che sono valori troppo radicati nella nostra cultura per essere minacciati da questa crisi.

La reale minaccia all’Europa siamo noi stessi quando abiuriamo ai nostri valori, quando non vogliamo vedere oltre la superficie, quando non ammettiamo una prospettiva differente dalla nostra, quando neghiamo la realtà perché mette in risalto i nostri errori. Questo è quello che sta accadendo nella gestione della crisi ucraina, vogliamo eliminare l’effetto perché non accettiamo la causa: Delenda Mosca!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

La diplomazia che non si vuole

Nei giorni scorsi la firma di una tregua ha consentito l’inizio dei negoziati di pace che hanno posto termine alla guerra civile che ha visto fronteggiarsi per oltre due anni il Governo Etiope e i separatisti del Tigrai. Questa guerra, segnata da eccessi di violenza e crimini da ambo le parti, ha causato più di 500.000 morti, provocato oltre due milioni di profughi e ha distrutto il tessuto sociale di un’intera regione.

Le ragioni del conflitto, che costituiva una seria minaccia per la fragile stabilità dell’intera regione del Corno d’Africa, sembravano insanabili ma, alla fine, dopo difficili negoziati condotti sotto l’egida USA, la diplomazia ha imposto una tregua, consentendo le premesse per raggiungere la pace.

Certamente l’Etiopia non è alle porte di casa nostra e risulta lontana, non soltanto geograficamente, ma anche dal punto di vista della nostra percezione di pericolo. Il conflitto che ha interessato la regione africana ha molte similitudini con quello che si sta svolgendo in Ucraina: è motivato da odio e rancori che si perdono nel tempo, ha prodotto un elevato numeri di morti e un enorme flusso di profughi, ha causato la distruzione di numerosissime strutture civili, è stato condizionato da un’estrema violenza. Tuttavia, è terminato con una soluzione diplomatica perseguita con razionalità e realismo che, alla fine, ha consentito di individuare e raggiungere una situazione di mediazione vantaggiosa per entrambe le parti.

La situazione in Ucraina, invece, sembra essere priva di una apparente via d’uscita che ponga termine al conflitto. Ma davvero non esiste una via diplomatica per poter porre fine a questa crisi? Quali sono, in realtà, gli ostacoli che si frappongono alla risoluzione del conflitto?

Le ragioni del perché sussiste questo stallo diplomatico sono molteplici e di differente natura.

Innanzitutto, il conflitto in Ucraina ha da subito assunto il ruolo di protagonista dei nostri media e ci è stato descritto come la rappresentazione della sfida ultima tra il bene e il male, contribuendo a creare un’impostazione mentale dell’opinione pubblica particolare e unidirezionale.

La narrazione di quanto accade ha anestetizzato la nostra capacità di guardare oltre l’orizzonte limitato del nostro microcosmo europeo, cancellando ogni altro riferimento a ciò che avviene nel contesto internazionale, facendoci dimenticare che, purtroppo, esistono altre situazioni di crisi, ugualmente drammatiche e pericolose, dove sono coinvolti quei valori di cui ci sentiamo i difensori e i portatori. Di conseguenza, non siamo in grado di realizzare che la difesa della democrazia e della libertà non si giocano sostenendo a spada tratta l’Ucraina acriticamente e senza realismo politico.

L’unidirezionalità con la quale l’opinione pubblica occidentale descrive il conflitto ci impedisce di accettare l’adozione di una azione diplomatica che si basi sul perseguimento di fattori oggettivi e realistici. Sicuramente e senza nessuna scusante il ricorso della Russia alle armi è da condannare a priori, ma questo non implica che non si debba comunque ricercare una soluzione diplomatica che possa mettere termine al conflitto.

In secondo luogo, la dinamica propagandistica adottata dalle due parti, riguardo alle eventuali possibili soluzioni, le ha spinte in un tunnel cieco, sclerotizzando la narrazione del conflitto su posizioni diametralmente opposte condizionate da premesse di base del tutto irrealistiche e irrazionali.

Da una parte, infatti, l’Ucraina (e i suoi sponsor – USA ed Europa) insiste per avere una situazione che riporti il confine a quello che era prima del 2014, chiedendo un ritiro completo e incondizionato della Russia entro i territori e i confini che esistevano prima della annessione della Crimea.

Dall’altra parte, la Russia insiste nel suo progetto relativo alla creazione di una serie di entità statali solo da lei riconosciute che possano creare una fascia cuscinetto lungo la frontiera tra la Russia e l’Ucraina, al fine di separare il territorio russo dalla compagine dell’Europa e della NATO, assicurando quel minimo di protezione che consenta a Mosca di non sentirsi completamente accerchiata da quelli che considerano essere i suoi nemici di sempre.

Entrambe le posizioni non possono realisticamente essere conseguite.

La Russia, anche se sulla difensiva dal punto di vista militare, rimane una potenza solida con un proprio progetto strategico connesso ai suoi interessi nazionali. E’ sicuramente provata dalle sanzioni ma non è piegata, ha ancori enormi risorse economiche e non è stata isolata nel contesto internazionale. Putin ha coinvolto la Russia e il suo orgoglio di grande potenza in una situazione dalla quale non può uscire a mani vuote. Una resa incondizionata stile Seconda Guerra Mondiale non è assolutamente una soluzione che possa essere accettata dalla Russia.

L’Ucraina definendo quale condizione per il termine del conflitto la restaurazione dei confini ante 2014, impone una condizione di difficile accettazione in quanto disconoscerebbe sia la situazione particolare delle regioni di confine contese, negando che esista un problema con le minoranze russe presenti (vedasi il Protocollo di Minsk), sia l’eccezionale situazione della Crimea che affonda le sue radici nel complicato processo che è seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

In sintesi, l’epoca delle vittorie definitive e delle rese incondizionate appartiene al passato e, quindi l’Occidente deve interrompere la politica di alimentare il conflitto militarmente, usando, invece, la diplomazia per accettare la situazione reale e lavorare per raggiungere una soluzione mediata che ridimensioni le due opposte visioni e consenta di comporre la crisi in atto, soluzione, tra l’altro sostenuta, sin dall’inizio, da uno dei più grandi diplomatici del nostro tempo: Henry Kissinger!

Infine, c’è un altro aspetto critico da considerare per mettere a fuoco con precisione la crisi della diplomazia in relazione al conflitto ucraino.

Il vero end state della crisi non è rappresentato dalla difesa della libertà e della democrazia messe in pericolo dalle aspirazioni zaristico-sovietiche di Putin, come la propaganda occidentale sbandiera ipocritamente.

Ciò che realmente interessa all’Occidente non è tanto la liberazione dell’Ucraina ma la eliminazione del presidente russo, ritenuto una personalità ingombrante, pericolosa e scomoda, soprattutto per la determinazione con la quale persegue il suo obiettivo di riportare la Russia ad essere un paese geopoliticamente importante e determinante nel contesto delle relazioni internazionali.

In tale quadro di situazione gli interessi USA sono quelli di eliminare la spina nel fianco rappresentata da una Russia forte e potente quale ulteriore possibile avversario nella contesa vitale con Pechino. Quelli dell’Unione Europea di disporre di una Russia docile e democraticamente inoffensiva sulla quale dirottare le proprie attenzioni di mercato.

Quelli dell’Est Europa, invece, di avere la soddisfazione di vedere umiliato il nemico atavico di sempre verso il quale gli odi e i rancori di un passato remoto e presente sono ancora vivi e accesi.

In sintesi, si sta usando l’Ucraina per cercare di ridimensionare la Russia al fine di eliminare un elemento geopoliticamente scomodo per il mondo occidentale nel confronto che oppone l’Occidente alla crescente potenza della Cina nel quadro dello scontro culturale economico finanziario, e forse militare, finalizzato alla costruzione e al mantenimento di un ordine mondiale basato sui principi e sulle specifiche culturali di cui l’Occidente ritiene di essere il depositario e il difensore.

Per concludere, le posizioni formali dei due campi sono opposte e ugualmente irrealistiche, ma non per questo non è impossibile individuare un accordo.

La soluzione diplomatica è possibile solo se essa può trovare una serie di condizioni cheato a quella che sarebbe, quindi, una sfida caratterizzata da quei valori di democrazia e di rispetto delle libertà che l’Occidente vuole proporre, sostenere e realizzare.

L’impasse

Mentre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite si consumava la rappresentazione tragicomica della inanità di questo consesso mondiale, retaggio di un mondo che non esiste più, roboante nei suoi propositi, elefantiaco nella miriade delle sue diramazioni, economicamente fallimentare, ma, soprattutto, impotente nella risoluzione dei conflitti che coinvolgono gli stessi Paesi che ne fanno parte e che era stato deputato a evitare, il Presidente Putin in un discorso alla Nazione ha dato inizio a un nuovo capitolo del conflitto che oppone la Russia all’Occidente (rappresentato sul campo dal suo campione del momento, l’Ucraina). Leggi Tutto

Una nuova NATO dopo Madrid?

Il vertice della NATO di Madrid, appena concluso, e la recentissima formalizzazione dell’ingresso di due nuovi membri nell’ambito dell’Alleanza sono stati presentati come un’altra risposta forte e decisa che il mondo occidentale ha voluto dare alla Russia. Il vertice ha inteso trasmettere l’immagine di una Alleanza compatta e determinata che si considera il baluardo della libertà e della democrazia contro il quale è destinata a infrangersi qualsiasi velleità di ricostituire un nuovo impero russo in Europa.

Un segnale importante che è stato, inoltre, esteso – peraltro in forma meno incisiva – anche nei confronti dell’altro autoritarismo che minaccia il mondo: la Cina, definita come l’avversario del prossimo futuro.

Se non ci limitiamo a un esame superficiale e spingiamo l’analisi oltre l’involucro mediatico delle dichiarazioni programmatiche e formali che contraddistinguono ogni vertice diplomatico politico ad alto livello, ci possono essere ulteriori chiavi di lettura che si prestano a valutare i risultati del vertice di Madrid.

In tale contesto possono essere fatte due osservazioni tra loro interdipendenti.

La prima riguarda il documento cardine che stabilisce la rotta che la NATO intende seguire. Si tratta del Concetto Strategico, cioè il documento programmatico che stabilisce e delinea le linee d’azione dell’Alleanza per i prossimi anni, approvato dal vertice di Madrid.

Leggendo il testo, se analizziamo i contenuti, questi ci riportano, senza dirlo esplicitamente, indietro di 30 anni, delineando lo scenario della Guerra Fredda. Una Guerra Fredda 2.0, invero, ma dove l’avversario è sempre lo stesso, anche se con un nome differente; dove le Nazioni europee (dell’EST!) si ritengono minacciate dall’essere fagocitate da un impero che non è più portatore di una ideologia politica, ma che è ugualmente visto come il nemico, l’unico e il solo, che incarna il pericolo per la democrazia e la libertà; dove, è bene sottolinearlo, la caratura degli esponenti politici che guidano l’Occidente non è certo paragonabile a quelli che hanno gestito la prima Guerra Fredda! Il resto del contesto geopolitico internazionale non è considerato quasi non esistesse.

Per arginare questa marea che è sul punto di dilagare in Europa il rimedio è sempre lo stesso: una rivisitazione della struttura della NATO, più uomini, più strutture, più tecnologia, più mezzi per rendere la NATO sempre più efficiente e dotarla di un nuovo credibile importante strumento di dissuasione. Il progetto di mettere in campo una NATO Response Force (NRF) di 300.000 unità, come prova della rinnovata volontà di dimostrare la coesione e la determinazione a reagire dell’Alleanza, ha il sapore di una boutade di altri tempi (Otto milioni di baionette!!!!). Se a malapena, e solo sulla carta, ogni anno si appronta una NRF di 40.000 unità, l’incremento sbandierato sembra apparire, esclusivamente un bluff propagandistico.

Il punto critico del Concetto Strategico risiede nella mancanza di una visione che sottintenda una prospettiva geopolitica ampia e coerente con lo sviluppo del contesto internazionale. Il nuovo ordine mondiale che si sta delineando, e che sembra che l’Occidente non voglia vedere, ha abbandonato il confronto Est vs Ovest; non esiste più una contrapposizione tra blocchi monolitici i cui interessi sono limitati al possesso fisico di una porzione di territorio (per quanto grande che essa possa apparire ai nostri occhi di occidentali); non ci sono più Triplici Intese o Entente Cordiale, gli Stati si accordano in base a esigenze specifiche fondate sul perseguimento di obiettivi politici che variano da regione a regione. Non esiste più un sistema di equilibrio di potenze che possa essere gestito dal di fuori con un attore geopolitico la cui azione, volta per volta, possa riportare l’ago della bilancia al centro.

Tutto questo l’Alleanza sembra non averlo percepito! Il nuovo Concetto rimanda a un tempo passato, dove possiamo cullarci in una situazione nota, chiara, ben definita e priva di incognite: il nemico è la Russia che vuole invadere l’Europa per ricostituire il suo impero (zarista o post-sovietico sono solo sfumature).

L’Alleanza con il vertice di Madrid ha perso un’occasione storica, quella di trasformare una organizzazione dalle potenzialità immense e unica nel suo genere da strumento vincolato a una geopolitica provinciale e fuori dal tempo, a mezzo strategico per proiettare il mondo occidentale e la sua visione culturale basata sui valori della democrazia e della libertà, quale protagonista nella costruzione di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali.

La seconda osservazione riguarda un concetto che gli esiti del vertice hanno sancito e cioè che il baricentro politico dell’Alleanza si è spostato ad Est!

Sono i Paesi ex sovietici che oramai dettano le linee guida dell’Alleanza. La nuova frontiera della NATO è costituita dal cordone di Paesi che dal Baltico si estendono sino al Mar Nero.

Sono loro che hanno riportato indietro le lancette del tempo, vincolando la vision atlantica allo scacchiere di Nord – Est, entusiasticamente sostenuti dal settore nordeuropeo dell’Alleanza poco desideroso di ampliare la sua prospettiva geopolitica oltre il giardino di casa.

L’appartenenza all’Alleanza è stata intesa da questi Paesi come il mezzo di ricevere assistenza e protezione contro l’avversario storico di sempre, nei confronti del quale i rancori, gli attriti le rivendicazioni e il sentimento di rivalsa non si sono mai sopiti e che adesso trovano motivo di essere rispolverati e usati come elemento di pressione.

Questo spostamento del baricentro è stato reso possibile da due fattori.

Il primo riguarda il rapporto privilegiato che è stato stabilito tra questi Paesi e gli Stati Uniti. Il deteriorarsi dei rapporti euroatlantici degli ultimi vent’anni ha creato una serie di tensioni che ha visto un’Europa occidentale sempre meno coesa e sempre più recalcitrante nell’aderire alla linea politica USA, cosa che ha determinato per l’alleato americano la necessità di gravitare sul settore orientale dell’Europa: sicurezza in cambio di adesione incondizionata alla linea politica americana.

Agli occhi degli Stati Uniti la costituzione di una cintura di sicurezza dal Baltico al Mar Nero costituita da Paesi non ribelli e senza pretese di politiche autonome, che possa imbrigliare la Russia in Europa, ha costituito l’elemento fondamentale per risparmiare risorse ed energie da indirizzare verso la gestione degli altri scacchieri mondiali. La necessità del Regno Unito di ritagliarsi un nuovo ruolo in Europa dopo la Brexit dall’Occidente ha offerto, poi, l’occasione di usufruire di un sicuro alleato quale demoltiplicatore per la gestione del concetto di sicurezza contro l’Orso Russo.

Il secondo fattore, intimamente connesso al primo è stata l’assoluta mancanza di coesione strategica che i Paesi occidentali hanno dimostrato, e che si è tradotta nella traslazione del baricentro verso Est.

Nulla di nuovo, il fenomeno è lo stesso che si è prodotto nell’Unione Europea dove, purtroppo, stiamo assistendo a una mutazione dell’asse portante del concetto culturale che ha dato vita all’Unione Europea. I nuovi Paesi che sono stati accolti e inseriti nell’Unione dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica si sono certamente impegnati per modificare e rendere compatibile il loro impianto economico finanziario ai requisiti di ingresso nella comunità europea e ne hanno tratto i benefici che a essa erano legati. Ma non hanno cambiato il loro impianto culturale, sociale e politico che sono rimasti dissimili da quelli occidentali. Libertà, democrazia, trasparenza, stato di diritto sono concetti che ad Est dell’allineamento Amburgo – Trieste ancora vengono declinati in modo differente da come invece, li intendiamo a Ovest di tale allineamento.

La miopia geopolitica dell’Alleanza unita a una certa pigrizia degli Alleati del fianco Sud nel prospettare un’alternativa ragionata alla nuova Guerra Fredda verso Est, stanno privando la NATO della possibilità di esprimere le sue capacità in scacchieri diversi da quello orientale ma che sono altrettanto importanti, pericolosi e critici per la posizione che l’Europa potrà avere nel futuro immediato.

Trascurare Africa e Medio Oriente è un errore di prospettiva colossale che limita e riduce le nostre chances occidentali di proporci come una valida alternativa culturale ed economica e come garanzia di stabilità e sicurezza nei confronti del polo rappresentato da Russia e Cina.

Non si tiene assolutamente conto che la Russia non esprime il suo disegno di grande potenza solo nei confronti dei suoi ex satelliti nell’Europa orientale, ma è presente sempre con maggior peso nel Mediterraneo, in Libia (grazie al “capolavoro” franco – inglese dell’eliminazione di Gheddafi), in tutto il Medio Oriente, dalla Siria sino all’Afghanistan. E a seguire, anche la Cina si sta consolidando in questi scacchieri, sia economicamente ma anche con le prime installazioni militari.

L’assenza di una prospettiva strategica a 360° e la cristallizzazione delle risorse e dell’impegno dell’Alleanza in senso unidirezionale verso Est rappresentano un fattore di debolezza intrinseco dell’Alleanza stessa che evidenzia come sia preminente l’interesse particolare di alcuni dei suoi membri ma non quello generale di tutti, avvalorando implicitamente una contrapposizione diretta verso la Russia stessa, che risulta essere oltre che pericolosa, anche, estremamente limitante.

Al di là del sottolineare una volontà condivisa nel non tollerare violazioni eclatanti del diritto internazionale come quelle commesse dalla Russia nel condurre il conflitto in Ucraina, il vertice dell’Alleanza non è stato in grado di generare una vision geostrategica all’altezza delle sue potenzialità e in linea con l’intrinseco valore geopolitico che il consesso dei Paesi occidentali è in grado di esprimere. Ci stiamo rituffando in una specie di Guerra Fredda per dare soddisfazione ai rancori mal sopiti del nostro Est europeo, perdendo di vista che la NATO costituisce l’unica organizzazione valida e utile per dare forma e consistenza al ruolo che l’Europa e l’Occidente che condivide i nostri valori, potranno svolgere nel nuovo sistema delle relazioni internazionali che sta prendendo forma adesso.

NATO – Back to the future!

La prossima settimana a Madrid si svolgerà il vertice dell’Alleanza Atlantica che dovrà definire il Concetto Strategico che guiderà la NATO verso il nuovo decennio.

Il contesto geopolitico nel quale questo particolare e fondamentale appuntamento si realizza è estremamente delicato e le decisioni che saranno assunte avranno un peso specifico enorme non solo per l’Alleanza stessa, ma per il posizionamento dell’Europa e del mondo Occidentale nell’ambito di un nuovo sistema di relazioni che si sta sviluppando a livello globale e che sembra essere assolutamente e deliberatamente ignorato dall’Alleanza

Senza dubbio la crisi ucraina condizionerà pesantemente le decisioni che saranno adottate, considerando, soprattutto, la narrativa che vede nella Russia l’unico e il solo pericolo che l’Alleanza deve fronteggiare.

L’ultima dichiarazione del Segretario Generale, una sorta di lascito spirituale in vista dell’approssimarsi del termine del suo mandato, ribadisce, infatti, la volontà di identificare nella Russia il nemico da combattere e da vincere!

Se il fine del Concetto Strategico, proposto da Stoltenberg e ampiamente sostenuto dai Paesi Membri del Fianco Orientale, dovesse essere questo, allora la NATO tornerebbe alle origini, annullando in un attimo gli ultimi trent’anni di storia europea.

Ma siamo davvero sicuri che questa sia la visione corretta e che l’interpretazione della realtà forgiata da una propaganda incessante e unidirezionale, che attribuisce a Putin la volontà di ricostituire un neo-impero post-sovietico in Europa Orientale, sia il criterio sul quale si debba basare la strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro?

Fermo restando, a priori, la condanna dell’azione russa in Ucraina, ritengo che la situazione richieda un esame più oggettivo e meno idealistico – utopistico di quello condotto al momento. Non si può ragionare solo ed esclusivamente in termini di buoni (la NATO) e cattivi (i Russi) identificando nella ricostruzione del conflitto Est vs Ovest la ragione di esistenza dell’Alleanza.

La fine della cosiddetta Guerra Fredda aveva, correttamente, posto il problema della gestione del vuoto di potere che si era generato nell’Europa dell’Est a seguito dello sconvolgimento geopolitico provocato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica; la soluzione individuata tra le differenti ipotesi è stata quella di ammettere nell’Alleanza, in rapida successione, tutti, o quasi, i Paesi ex satelliti di Mosca, nella convinzione di amalgamare e occidentalizzare velocemente il fronte orientale e allontanare la frontiera lontano dal cuore dell’Europa e spostarla sempre più vicino al confine della Russia.

Il passo successivo, che richiedeva una procedura burocratica un po’ più lunga e complessa, è stato quello di aprire le porte dell’Unione Europea a tutti, cercando di far coincidere i limites militari con quelli economico – finanziari.

Inizialmente tutto è andato bene e la soluzione adottata sembrava essere quella vincente: una Russia addomesticata e pronta a diventare una succursale per il mercato europeo, i Paesi ex satelliti finalmente liberi e democratici ammessi a godere dell’opulenza occidentale, sostenuti ampiamente da una UE prodiga di aiuti economici e fondi da spendere, dove la sicurezza era assicurata dalla loro acquisita membership alla NATO.

Poi piano piano c’è stato un mutamento della situazione. Prima le regole dell’UE sono diventate troppo strette e soffocanti per alcuni Paesi il cui sentimento nazionale si è sentito offeso e limitato dalle procedure intrusive di Bruxelles. Per carità, l’euroscetticismo è presente un po’ ovunque e la Brexit ne è la testimonianza lampante.

Ovviamente, la libertà di perseguire il proprio interesse geostrategico è sacrosanta e nessuno la mette in dubbio. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che la condivisione di visioni regionali comuni, preesistenti all’UE, ha consentito lo svilupparsi di accordi particolari tra Paesi membri, come i 4V (Gruppo di Visegràd) o l’iniziativa dei Tre Mari che vedono la partecipazione degli ex stati satelliti, le cui visioni generali sostengono delle linee di azione che alle volte sembrano esprimere posizioni alternative alla visione comune e generale della UE, se non addirittura contrarie.

Successivamente, è iniziato lo sviluppo di una lenta ma costante narrativa tendente a evidenziare un sentimento strisciante di insicurezza e di minaccia che dal Baltico si è esteso verso il Mar Nero, le cui origini sono state identificate in una presunta volontà da parte di Putin di ricostruire lo scomparso impero sovietico.

La Russia è un vicino scomodo, certamente, e le recenti vicende storiche hanno profondamente segnato la memoria delle popolazioni, ma è anche vero che i rapporti tra Mosca e l’Est Europa sono stati contraddistinti nei secoli da una rivalità accesa che ha comportato un continuo alternarsi dei rapporti di forza tra i vari contendenti, il cui profondo sentimento nazionale e un’orgogliosa visione di se stessi ha purtroppo lasciato delle cicatrici che facilmente si ripresentano come ferite aperte.

Questo insieme di condizionamenti si è riflesso sulla NATO e sulla sua visione geopolitica spostando progressivamente, ma decisamente, l’attenzione sul fronte orientale.

Nel tempo si sono susseguiti una serie di analisi, allarmi, studi, rivelazioni più o meno precisi e veritieri che hanno presentato una realtà sempre più cupa e a tinte fosche nella quale il gigante russo si stava affilando le unghie per scatenarsi contro i poveri ex satelliti bramando di riportare i propri confini a quelli della Cortina di Ferro. Tra minacce di cyberattacchi, proliferare di troll sul web, attribuzioni di atti ostili di hybrid warfare, presunti rapporti segreti sulle strategie di conquista di Putin, nel corso degli ultimi anni si è concretizzata una narrativa a sostegno di uno scenario premonitore di una terza guerra mondiale.

Contestualmente, sono aumentate le richieste di sicurezza e di presenza della NATO nello scacchiere nordorientale, con un maggior spiegamento di forze (più basi uguale più entrate!) e una maggiore richiesta di supporto tecnico militare. Anche il clima esercitativo della NATO, che è sempre stato politicamente corretto nel non identificare direttamente la Russia come l’avversario contro cui prepararsi, ha subito delle modifiche sostanziali abbandonando, soprattutto negli ultimi anni, quella formale asetticità nel costruire i suoi scenari operativi di esercitazione.

Tutto questo è stato ampiamente sostenuto in ambito NATO dai Paesi nordici a cui non pare vero aver ritrovato un nemico che gli consenta di crogiolarsi in una comfort zone, abbastanza vicina, dove le incognite sono ridotte al minimo, dove si conosce tutto di un avversario ben definito e identificato che non impone la necessità di sconvolgere il proprio assetto di pensiero per affrontare un ambiente culturalmente distante, difficile da capire e che non si vuole affrontare perché richiede uno stravolgimento del proprio paradigma mentale (il Mediterraneo come porta di accesso all’Africa, il Medio Oriente quale cerniera di due mondi ormai prossimi).

Ovviamente la Russia non è stata con le mani in mano e ha sfruttato questa politica di revival da guerra fredda alimentando la narrativa raccontando la sua verità.

Alla fine, quello che è in atto da almeno un decennio è una specie di proxy war tra la componente ex sovietica della NATO e la Russia, dove i primi, facendosi scudo del fatto di essere membri della NATO, cercano di provocare la Russia stessa (a questo proposito l’ultima iniziativa della Lituania con il blocco dei rifornimenti all’enclave di Kaliningrad non sembra essere una mossa diplomatica proprio brillante), mentre i secondi non perdono occasione di gridare al vento di essere accerchiati da un’Alleanza bellicosa e pericolosa.

Si potrebbe avere l’impressione di assistere a un tentativo di rivalsa storica, dove persistono vecchie ruggini e non sopiti rancori che spaziano dal Principato di Kiev alla Federazione Polacco Lituana, passando attraverso l’epoca delle Crociate del Nord, per arrivare a un andirivieni di spartizioni territoriali che hanno modificato i confini dell’Est europeo stratificandosi in un miscuglio di minoranze e maggioranze etnico linguistiche difficile da distinguere e da accertare.

Senza entrare nel merito di queste rivendicazioni, vere o presunte che esse siano, il problema principale è che tutto ciò è stato fatto utilizzando come ombrello di protezione l’appartenenza alla NATO e quindi una presunta sicura protezione da parte di una ritorsione dell’orso russo.

Vista in questi termini, e pur considerando che la Russia non è immune da colpe, la NATO ha buttato via trent’anni di storia ritornando all’anno zero: il 1949!

Il nuovo Concetto Strategico probabilmente sancirà questo ritorno al futuro e non solo perché c’è l’influenza dell’onda emotiva della crisi ucraina, ma soprattutto perché manca una visione strategica ampia, equilibrata e profonda che sia in grado di spingere lo sguardo dei vari Paesi Membri al di là dei limitati interessi che ne pervadono la politica nazionale.

Il ritorno al futuro sottolinea che non esiste un interesse comune e condiviso dell’Alleanza Atlantica in se stessa ma, purtroppo, solo ed esclusivamente un insieme di interessi parziali, che sfruttano la NATO limitando le sue capacità di poter essere un attore di rilievo nel panorama geopolitico globale e relegandola al ruolo di deuteragonista in uno scenario europeo la cui importanza si sta dissolvendo in una evanescente rincorsa del passato.

Come la Russia vede la crisi ucraina

Russian President Vladimir Putin (foreground left) and Russian Prime Minister Dmitry Medvedev  EPA/MIKHAIL KLIMENTYEV / RIA NOVOSTI / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

 

 

 

Il clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua conclusione. Le sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta dell’aggressore. O almeno, così sembra.

Infatti, l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni. La NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la sua reale forza. La propaganda occidentale, travestita da informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il coraggio di concedere un diritto di replica.

La diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la giustizia. Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.

Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia, legalità e diritti individuali!

Questa è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni. Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse da quelle che noi assumiamo debbano essere?

Forse sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).

Nel condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione occidentale sugli sviluppi del conflitto.

Procediamo innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il punto di vista militare!

La mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare del conflitto.

Ma la conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin! Lo scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della leadership di Putin.

Infatti, le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo prestabilito: l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima russa delle aree orientali dell’Ucraina.

Se consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!

Secondo punto. L’Occidente deve scongiurare un’escalation del conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.

Quindi, per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass e in Crimea.

Ma questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto. Infatti, anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.

Quindi nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme. Putin è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e lo vive intimamente.

Una situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.

Altro elemento di analisi. La posizione di potere di Putin all’intero dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di stato.

Sicuramente l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia politica. Duma e Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente. Come pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura russa: un nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.

La dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione democratica che i media occidentali danno come imminente. Non ci sarà una Primavera Russa!!

Infine. Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno facendo perdere la guerra.

Voci e notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.

Che Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca. Errori di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna purga di carattere staliniano.

Quindi Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi collaboratori rimane intatta. Non esiste la possibilità che il sistema politico di Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.

Il quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.

La dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.

Sostenere militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della NATO) perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa di un Putin disperato e fuori controllo.

Per quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia, ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.

La soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori: il primo è il diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione russa della sua sicurezza; il secondo concerne la ridefinizione delle ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni geopolitiche.

Entrambi i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.

L’Occidente è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.

Mosca ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della Russia.

Questa visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e dall’altra.

Il punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale. Un ordine dove gli strumenti per la risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.

E l’Ucraina? L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le premesse per l’esplodere di questo conflitto.

Svezia e Finlandia nella NATO. Cui prodest?

La notizia che la Svezia e la Finlandia abbiano recentemente formalizzato la loro richiesta di entrare a far parte della NATO è stata presentata come un colpo definitivo assestato all’avventura russa in Ucraina e come un successo politico che consente all’Alleanza di annoverare tra le sue fila anche due giganti della scena internazionale capaci di imbaldanzire e ridare fiducia a un’organizzazione ormai in stato vegetale e incapace di opporsi, se non a parole, al malvagio Putin e alle sue mire zariste.

La decisione è maturata sulla scia degli avvenimenti che hanno direttamente interessato l’Europa orientale, sconvolgendo non solo tutto il sistema geopolitico occidentale ma anche l’equilibrio dei rapporti tra la Russia e la NATO stessa.

La sensazione di minaccia e di pericolo che le attività russe hanno generato in Occidente ha determinato la decisione da parte dei due Paesi Scandinavi di abbandonare la loro condizione di neutralità formale e di divenire parte integrante dell’Alleanza Atlantica e anche della NATO.

Fermo restando il diritto di ogni Paese di perseguire in piena autonomia i propri interessi nazionali e di basare su essi le proprie scelte politiche, la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia stimola una serie di considerazioni sulla natura della decisione e sulla tempistica con la quale è stata presentata, nonché sulla opportunità, in termini strategici, della condivisione di un tale passo.

In primo luogo, i due Paesi non condividono lo stesso retaggio storico e hanno maturato esperienze differenti nei confronti della Russia e quindi è difficile riconoscere le stesse motivazioni alla base della loro scelta.

La Svezia, da oltre due secoli, ha adottato una posizione di neutralità formale, che gli ha consentito di non essere coinvolta direttamente nei conflitti che hanno cambiato l’Europa, sfruttando, però, tale posizione per ottenere dei benefici economici senza nessuna remora morale. I suoi rapporti con la Russia non sono stati caratterizzati da particolari ostilità da quando Gustavo III e Caterina II siglarono la pace di Värälä alla fine del XVIII secolo, inoltre, non ha nessuna minoranza russofona nel suo territorio e non ha ricevuto, da parte di Putin, pressioni, dirette o velate, che potessero mettere in pericolo la sua sicurezza. Ha una fiorente industria militare e da molto tempo, partecipa alle attività della NATO, dato che il suo strumento militare è pienamente integrato nelle procedure dottrinali dell’Alleanza e che anche il suo personale ricopre incarichi di consulente presso alcuni dei comandi della NATO stessa, senza peraltro che ciò abbia suscitato particolari rimostranze da parte russa.

Il percorso storico della Finlandia è, invece, alquanto differente ed è legato a doppio filo al suo ingombrante vicino. L’indipendenza guadagnata dopo la dissoluzione dell’Impero zarista, la Guerra d’inverno e la partecipazione al Secondo Conflitto Mondiale dalla parte della Germania hanno condizionato nel dopoguerra i rapporti russo finlandesi, indirizzando le scelte politiche del Paese verso una posizione di neutralità, che ha consentito alla Finlandia di non essere sovietizzata, ma che ha lasciato una insoddisfazione di fondo per il ridimensionamento territoriale subito. Da tempo pure la sua neutralità è stata più formale che sostanziale, avendo operato delle scelte dirette mediante l’adesione all’Unione Europea e la partecipazione stabile alle attività addestrative della NATO, anche in questo caso, senza per questo destare particolari attriti con Mosca. Infatti, i rapporti con la Russia, pur non volendoli considerare pienamente amichevoli, non hanno mai registrato particolari problematiche e non ci sono state da parte russa minacce dirette alla sicurezza della regione.

Quindi si può ipotizzare che le motivazioni alla base della richiesta di entrare nel Club Euroatlantico siano state condizionate non solo dalla generale paura che il risveglio dell’orso russo ha diffuso nell’Occidente, ma anche e, soprattutto, da considerazioni opportunistiche di politica interna e da pressioni esterne volte a costruire l’impressione che un’sistema Euroatlantico, riportato in vita da un’agonia annunciata, sia in grado di presentare un fronte comune omogeneo e compatto, anche dal punto di vista militare, tale da opporsi con successo alle mire espansionistiche di Mosca.

Per quanto attiene al particolare momento scelto dai due Paesi per inoltrare la loro richiesta di adesione possono essere fatte alcune considerazioni di carattere generale.

Da un punto di vista strettamente propagandistico la decisione dei due Paesi di abbandonare una posizione di neutralità radicata nel tempo e di schierarsi, anche militarmente con l’Occidente antirusso, avrebbe avuto un impatto maggiore e ben più importante se essa fosse avvenuta dopo gli avvenimenti che hanno interessato la Crimea. Nel 2014 una scelta di tale portata avrebbe dimostrato una reale volontà del Club Euroatlantico di contrastare seriamente ulteriori avventure di Mosca nell’Est europeo. Invece il consesso euroatlantico ha svalutato il ruolo e l’importanza della NATO vagheggiando e delirando sulla costruzione di un concetto di difesa europea.

Ma questa scelta di far parte dell’Alleanza la Svezia e la Finlandia non l’hanno concretizzata, eppure già si potevano intravvedere quali potessero essere gli sviluppi futuri in termini di sicurezza e pericolosità dell’aera. E nessuno al tempo ha esercitato pressioni per suggerire o stimolare una così radicale scelta di campo.

Se, invece, consideriamo l’aspetto in termini geostrategici, la mossa di spingere Svezia e Finlandia a presentare la loro richiesta, non appare essere un capolavoro di diplomazia, in quanto comporta due conseguenze pericolose.

La prima, fermo restando la condanna assoluta dell’uso della forza da parte di Mosca, se le motivazioni adottate da Putin sono basate sulla necessità di dimostrare la volontà russa di non sottostare a un accerchiamento da parte della NATO, percepito a torto o a ragione come una minaccia diretta al territorio della Russia, la decisone di Svezia e Finlandia e le pressioni sulla Georgia per fare altrettanto, non sembrano essere la scelta migliore per riuscire a disinnescare una situazione diplomatica che sta diventando ogni giorno più tesa e difficile da risolvere. Il termine di questo conflitto richiede una soluzione di compromesso, che ci piaccia o meno, che dia la possibilità ad entrambe i contendenti di potersi ritirare con un qualche cosa da esibire come risultato positivo, quindi, la proposta dei due Paesi nordici non è né tempestiva, né strategicamente coerente, in quanto non fa che incrementare e giustificare, in un certo senso, la schizofrenia russa.

La seconda riguarda, invece, l’obiettivo strategico alla base della posizione assunta dagli Stati Uniti e condivisa, obtorto collo, anche dal resto dell’Occidente: la caduta di Putin.

Il sostegno all’Ucraina e la conclusione vittoriosa del conflitto con la Russia hanno come scopo fondamentale quello di dimostrare da una parte la ritrovata capacità degli Stati Uniti ad impegnarsi sia come difensore del concetto di democrazia e del rispetto della legalità internazionale, sia come garante dell’ordine mondiale, dall’altra la volontà di decretare e realizzare la caduta politica di un avversario pericoloso e scomodo come Putin.

Quello che tale visione strategica non considera e che il problema non è rappresentato da Putin in quanto tale e dal suo modo di intendere le relazioni internazionali, ma dalla particolare percezione che la Russia stessa ha del mondo e del ruolo che ritiene gli spetti nel contesto globale.

La considerazione che la Russia ha di sé stessa può non essere condivisa e, quindi, può anche essere contrastata, ma deve essere riconosciuta e considerata alla stessa stregua di quanto avviene per tutti gli altri Paesi che, a torto o a ragione, ritengono di avere una missione affidata loro dalla storia alla quale uniformano il perseguimento della loro politica internazionale, come la Cina, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e gli stessi Stati Uniti.

L’aver scoperto di essere impreparati a gestire una crisi come quella ucraina e di essere impotenti contro un avversario che si riteneva addomesticato per mancanza di una visione strategica, porta ad accettare, come valide, scelte politiche azzardate come quella di stimolare un allargamento della NATO, sperando in tale modo di ottenere un risultato politico che si rifletta sulla tenuta del regime di Putin.

Il punto non è Putin ma la sensazione di insicurezza nella mentalità russa che una cattiva gestione della comunicazione sulla percezione della NATO ha generato negli anni.

A questo proposito uno studio commissionato alla Rand Corporation da parte dell’Aeronautica degli Stati Uniti nel 2017, avente come oggetto Hybrid Warfare in the Baltics Threats and Potential Responses, effettuato da Andrew Radin, aveva generato delle raccomandazioni sulle scelte strategiche da porre in atto per contrastare una possibile escalation della situazione nell’Europa orientale di cui la più importante era costituita dal seguente passo:

“The United States and NATO should take action to mitigate the risks that a NATO deployment in the Baltics will increase the potential for low-level Russian aggression. To this end, the United States and NATO should avoid basing forces in Russian-dominated areas, should consider measures to increase transparency or avoid the perception that deployed forces may be used to pursue regime change, and should develop a sound public relations campaign to convince local Russian speakers that NATO is not deploying forces against them.”

Le premesse per poter adottare un atteggiamento più attento e più lungimirante ci sono state ma, probabilmente, la necessità di dimostrare una nuova vitalità nel campo delle relazioni internazionali da parte di una Amministrazione USA condizionata da una visione morale e non pragmatico – strategica della sua politica estera, ha portato alla situazione che abbiamo oggi.

Per ovviare alla impossibilità di contrastare un avversario politicamente deciso e che persegue gli interessi nazionali secondo una strategia diretta, agli Usa e all’Europa non basta aumentare il numero dei Paesi membri, accogliendo Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica, ma serve la definizione di una politica reale, con obiettivi condivisi e comunemente accettati e, soprattutto, la volontà di impegnarsi in prima persona nel conseguimento di tali obiettivi, senza delegare e senza nascondersi dietro la foglia di fico della partecipazione al Club Euroatlantico sperando che le proprie responsabilità siano assunte asetticamente dall’organismo di cui facciamo parte.

In conclusione, Svezia e Finlandia, e anche Georgia, hanno tutto il diritto di seguire una loro politica che concretizzi i loro interessi nazionali e quindi chiedere di poter aderire ad un organismo nel quale la loro percezione di sicurezza possa essere aumentata, ma la NATO e i suoi Paesi membri, hanno lo stesso diritto, e anche il dovere, di valutare con attenzione l’opportunità della richiesta in relazione al contesto geopolitico in atto e la valenza delle conseguenze che le loro scelte possono determinare.

Putin ha sbagliato e la modalità scelta per far valere quelle che ritiene essere le sue ragioni sono da condannare senza riserve, ma l’Occidente non può sperare di ripristinare la legalità internazionale e la pace in Europa, semplicemente ingrandendo la NATO e riducendo alla figura di una sola persona la caratterizzazione di un rapporto politico con un Paese che, invece, esprime una percezione politica di sé stesso e del contesto internazionale precisa e definita, ancorché differente dalla nostra. Alla fine, Putin potrà essere anche detronizzato e l’Ucraina sarà ammessa nell’ l’Unione Europea e forse anche nel Club Euroatlantico, ma il problema della NATO, percepita come un organismo di pressione e pericoloso per la stabilità mondiale, rimarrà e non solo agli occhi della Russia, ma anche a quelli della Cina!

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Maurizio Iacono
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