GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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La nuova strategia di Hamas

 

L’esito delle operazioni militari all’interno della Striscia di Gaza suscita la preoccupazione, l’angoscia e la condanna da parte dei Governi, delle Organizzazioni Internazionali e dei media occidentali unanimi nel chiedere a Israele di interrompere il conflitto ed evitare una “catastrofe umanitaria”.

L’intento di questo insieme di iniziative è assolutamente condivisibile da un punto di vista concettuale e umano, quello che risulta meno accettabile, e alquanto dissonante, è la mancanza di un’uguale pressione nei confronti della controparte israeliana in questo ennesimo episodio del conflitto endemico che caratterizza il Medio Oriente da circa un secolo: non ci sono voci in questa levata corale di scudi che abbiano come soggetto il ruolo di Hamas!

Anche le discutibili manifestazioni di piazza e l’occupazione degli atenei (discutibili non in quanto proteste o espressione di dissenso in termini generali, ma perché frutto di una strumentalizzazione condotta da elementi estremizzati, prive di oggettività e avulse da una reale conoscenza e un’obiettiva analisi della situazione) sono indirizzate a senso unico contro Israele, colpevole di tutti i mali, tra i quali il peggiore è quello di cercare di sopravvivere in un mondo ostile che dichiara apertamente di volere la sua distruzione, e, soprattutto, non ammettono alcuna critica nei confronti di Hamas.

Fermo restando che il tributo di sofferenza imposto alla popolazione civile (palestinese e israeliana) sia altissimo e assolutamente condannabile, e che quindi sia lecito impegnarsi per identificare una soluzione che ponga fine a una tale situazione, rimane però il punto che nessuno dei citati protagonisti abbia condotto un’analisi sulle cause che hanno riacceso il conflitto e sugli obiettivi che Hamas ha inteso conseguire con l’attacco a Israele e, soprattutto cosa vorrebbe raggiungere dopo la cessazione delle operazioni militari.

Con l’attacco dello scorso ottobre Hamas si era prefisso di raggiungere una serie di obiettivi militari e politici finalizzati a ferire lo spirito della popolazione civile dell’area, indebolire Israele e creare le premesse per l’eliminazione dello stato ebraico.

Da un punto di vista militare, in primo luogo, l’efferatezza delle modalità che hanno contraddistinto le operazioni di Hamas aveva lo scopo di suscitare una risposta immediata, violenta e non ragionata da parte di Israele che avrebbe rovesciato il paradigma vittima-aggressore (buono-cattivo) a favore di Hamas.

Successivamente, l’idea era quella di essere supportati nella lotta contro il nemico sionista mediante l’apertura di un secondo fronte in Cisgiordania e un terzo in Libano, sperando di coinvolgere, ancorché indirettamente, l’Iran nel tentativo di infiammare tutta la regione e creare le condizioni per distruggere Israele (obiettivo dichiarato nel testo istitutivo dell’Organizzazione di Hamas).

Anche gli obiettivi politici erano molteplici: riqualificare l’immagine dell’Organizzazione agli occhi della popolazione della Striscia, offuscata dalla pessima gestione governativa e in calo costante di consensi, proponendosi come il difensore dei diritti della popolazione palestinese; sabotare il processo di distensione in atto (Patto di Abramo e intesa con l’Arabia Saudita) in modo da scongiurare il pericolo che il successo di tali iniziative potesse ridefinire l’assetto della regione favorendo la distensione tra Israele e i Paesi Arabi, minando così, il potere e l’autonomia di Hamas e vanificando la sua capacità di gestire la Striscia di Gaza (cioè l’enorme flusso di fondi che Qatar e donors mondiali – tra cui l’Unione Europea – riversano quotidianamente e che avrebbero dovuto essere usati a beneficio della popolazione civile e non per rifornire l’arsenale di Hamas come avvenuto, senza che nessuno dimostrasse o protestasse con sit-in o cortei); riproporre all’attenzione internazionale il problema palestinese assumendo il ruolo di principali difensori della causa nella regione

A otto mesi circa dall’inizio del conflitto, considerato che alcuni di questi obiettivi sono stati parzialmente raggiunti, altri, invece, non sono stati conseguiti affatto; che le operazioni militari continuano e che l’odioso ricatto sulla vita degli ostaggi (cosa che nessuno si è sognato di portare davanti a qualche Corte Internazionale di Giustizia!!!) non ha prodotto i risultati sperati, Hamas ha riconfigurato la sua strategia per il futuro.

Politicamente i vertici dell’Organizzazione hanno intrapreso un’azione di ravvicinamento verso la PLO (Palestine Liberation Organization) che risulta essere profonda ostile a Mahamoud Abbas, leader della PNA (Palestine National Authority), con il fine di poter essere comunque parte di qualsiasi struttura di Governo si possa configurare a Gaza al termine delle operazioni militari.

Una tale mossa, inoltre, consentirebbe alla struttura politica di Hamas di inserirsi anche nella Cisgiordania dove la PNA risulta essere in difficoltà di consensi.

Corruzione, scarsa capacità organizzativa e mancanza di unità di intenti nella gestione della Cisgiordania hanno notevolmente eroso il credito dei vertici del PNA nei confronti della popolazione locale che potrebbe essere spinta a identificare nel PLO e nei vertici di Hamas un’alternativa alla direzione del PNA.

La possibilità di inserirsi nella nuova struttura di governance che dovrebbe essere costituita per favorire la ricostruzione di Gaza e l’assestamento dei territori, al temine dell’attuale fase militare darebbe, quindi, la possibilità ad Hamas di introdursi nel panorama politico assumendo un ruolo nel sistema di governance in collaborazione con altre formazioni politiche, senza essere avere, quindi, l’intera responsabilità del governo come invece accaduto precedentemente a Gaza.

In sintesi, Hamas sta cercando di replicare il modello libanese di Hezbollah dove l’ala politica dell’Organizzazione partecipa al sistema di governo del Paese, legittimando la sua posizione quale entità politicamente rappresentativa, mentre, l’ala militare può continuare a perseguire l’obiettivo di combattere Israele nel Sud del Paese.

Infatti, per poter replicare una simile struttura Hamas ha ripreso i contatti con Al-Fatah (l’ala militare del PLO) cercando possibili intese nonostante i profondi dissidi che avevano causato lo scontro tra le due opposte fazioni nella striscia di Gaza negli anni 2005 2007.

Il disegno strategico di Hamas sarebbe quello di qualificarsi come entità politica ed entrare a far parte della struttura statuale che gestirà i territori palestinesi, così da poter controllare e indirizzare le azioni politiche senza avere, comunque, la responsabilità totale di governo, in questo modo avrà campo libero per poter condurre con maggiore libertà e autonomia le azioni militari contro Israele, sia dal fronte Sud (Gaza), sia da quello a Est (Cisgiordania) presumibilmente supportato da Al-Fatah, nell’ottica di poter coinvolgere anche Hezbollah a Nord.

Se questo disegno strategico dovesse realizzarsi sarebbe impossibile evitare un conflitto generale nella regione le cui conseguenze sarebbero disastrose non solo per l’equilibrio del Medio Oriente.

L’azione diplomatica internazionale deve assolutamente evitare che questo possa concretizzarsi, impedendo che Hamas si possa inserire nel processo politico di riassestamento dei territori palestinesi.

Per evitare che questo possa avverarsi è fondamentale che vengano adottate tutte le possibili azioni a livello internazionale, non solo per fare cessare le operazioni a Gaza, ma soprattutto, per identificare una soluzione che consenta di stabilire delle reali condizioni di pace e di stabilità che tengano conto delle legittime aspirazioni di tutti: uno Stato per i Palestinesi e la garanzia di vivere in sicurezza per Israele.

Soluzione che, come il passato recente dimostra, è possibile costruire e perseguire ma che non deve essere rifiutata da una minoranza politica per considerazioni di potere personale.

Il problema del Medio Oriente affonda le sue radici nella storia antica e recente e per la sua risoluzione necessita del contributo e della buona volontà di tutta la comunità internazionale che è la maggiore responsabile della situazione nella regione.

Spesso sfugge a molti che il capitolo più recente di questa storia (che magari anche l’attuale Segretario Generale farebbe bene a considerare) è iniziato nel 1947 quando l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato, approvandola, la Risoluzione n.181, senza, tuttavia, preoccuparsi minimamente della reale applicabilità di una soluzione come quella proposta dalla commissione UNSCOP, (composta dai rappresentanti dei seguenti 11 Stati: Australia, Canada, Guatemala, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Cecoslovacchia, Uruguay, Jugoslavia) che stabiliva sulla carta, la creazione di due entità Statali secondo aleatori criteri dimostratesi immediatamente di difficile applicazione.

Mi si consenta una considerazione personale, anche chi protesta, occupa atenei e marcia in corteo per sostenere una Palestina libera dovrebbe avere l’umiltà di informarsi riguardo a che cosa e a chi stanno supportando: popoli che vogliono vivere in pace o strutture terroristiche che perseguono obiettivi di potere nascondendosi dietro le aspettative di una popolazione; desiderio di sicurezza e di vita oppure volontà di distruggere l’altro per il perseguimento di un’interpretazione distorta della religione o della politica; ricorso all’estremismo religioso o razziale, oppure volontà di dialogo e di comprensione?

Una volta che avranno fatto chiarezza sui motivi che li spingono a scendere in strada e si saranno liberati dei condizionamenti di una ideologia estremizzante e accecante allora la loro protesta potrà essere utile e potrà concorrere nella individuazione di una soluzione umanamente accettabile.

Usa 2024, il deja vù del 1968 incombe su Biden, Trump e Kennedy

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di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Le elezioni per la Casa Bianca del 2024 assomigliano sempre più, per atmosfere e analogie storiche, a quelle “spartiacque” del 1968. Allora trionfò il repubblicano Richard Nixon, un esperto politico veterano della Casa Bianca, per due anni vice di Eisenhower che aveva perso nel 1960 per un pugno di voti le elezioni contro John Kennedy. Nixon si prese la rivincita nel nel ’68, sconfiggendo il democratico Hubert Humphrey, vice del presidente Lyndon Johnson. Quest’ultimo, che all’inizio delle corsa non aveva dato segnali di voler rinunciare al potere, al primo test delle primarie del New Hampshire, superò solo di misura il “pacifista” e sconosciuto senatore del Minnesota Eugene McCarthy. Così pochi giorni dopo, in una scioccante diretta tv, Johnson annunciò agli americani di rinunciare a quello che sarebbe potuto essere un terzo mandato (LBJ era stato confermato presidente nel ’64 dopo essere subentrato come vice di Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963). Quelle elezioni del 1968 ribaltarono il metodo in cui fino ad allora agli americani erano stati imposti dai maggiori partiti i loro candidati per contendersi la presidenza. L’attuale sistema elettorale presidenziale delle primarie strutturato come è adesso, infatti iniziò a prendere forma proprio nel 1968. Prima, erano gli apparati dei partiti che sceglievano il “nominato” alla presidenza alle convenzioni politiche nazionali. Anche se avvenivano delle elezioni primarie prima, questi apparati spesso ne ignoravano le sentenze escogitando con le loro manovre e alleanze come scegliersi il candidato preferito durante le Convention. Dopo il 1968, cambiò tutto: sia i democratici che i repubblicani, non poterono più ribaltare i risultati delle elezioni primarie senza tener conto degli equilibri dei delegati arrivati dalle primarie.
Nel 1968 gli Stati Uniti erano un paese profondamente spaccato, con manifestazioni pacifiste ma altre anche violente, sulla lotta per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam. Venivano assassinati i leader di quei movimenti, come Martin Luther King, Malcom X fino al senatore Robert F. Kennedy, ex ministro della Giustizia nell’amministrazione del fratello John. Dopo la rinuncia del suo “nemico” Johnson, RFK aveva rotto ogni indugio ed era entrato nella corsa per la Casa Bianca per contendere a McCarthy e Humphrey la nomination democratica. Kennedy, una volta appartenente all’ala moderata del partito democratico, da senatore dello Stato di New York si era trasformato in un leader per i diritti civili e aveva dichiarato guerra alla estrema povertà, oltre a promettere una pace giusta per il Vietnam. Nella stessa notte della sua vittoria alle primarie della California, il 5 giugno 1968 Kennedy fu ferito mortalmente da colpi sparati a distanza ravvicinata nei corridoi di un albergo di Los Angeles e di cui fu ritenuto colpevole solo un giovane rifugiato palestinese, Sihran Sihran (ancora oggi in carcere), nonostante i colpi captati dalle registrazioni e che colpirono oltre al senatore altri suoi collaboratori, fossero superiori a quelli che la pistola impugnata da Shiran avesse potuto sparare.
Come sta avvenendo nel 2024 con Biden, allora il presidente in carica Johnson pur avendo ottenuto degli importanti risultati politici (la “Great society” e il “Civil Rights Act”) restava impopolare per via della recrudescenza della guerra in VietNam che per la prima volta mostrava immagini di massacri di civili negli schermi delle tv americane. Robert F. Kennedy, che entrò in quella corsa presidenziale del ’68 solo dopo la rinuncia di Johnson, è il padre dell’attuale candidato alla presidenza Robert F. Kennedy Jr. Anche RFK jr. aveva tentato nel 2023 di candidarsi nelle file del Partito democratico sfidando apertamente il presidente Biden, ma poi ha rinunciato optando per la candidatura da indipendente, lasciando così a quest’ultimo di conquistare indisturbato la nomination del partito. Ma se l’81enne Biden, come Johnson, avesse rinunciato a ricandidarsi? Probabile che RFK jr sarebbe rimasto in corsa nelle primarie del partito di suo padre e suo zio. Intanto alle primarie democratiche del ’24 il voto di protesta degli “uncommitted” (coloro che ancora non vogliono scegliere) è rimasto alto, in alcuni stati con punte del 15%, un segnale di grave pericolo per la tenuta della “coalizione’ che dovrebbe rieleggere Biden. Anche in questo, come avvenne per Johnson, la maggiore causa della protesta, soprattutto dei giovani americani, è un conflitto all’estero: quello tra Israele e i palestinesi.
Certo non sono gli Stati Uniti ad aver bombardato le città di Gaza piene di civili uccidendone oltre 30mila (dei soli corpi ritrovati), o a impedire ai camion con aiuti anche americani di raggiungere la popolazione – per metà composta da minorenni – affamata, ma Biden viene ritenuto “complice” del governo Netanyahu in questa guerra ormai bollata, non solo da chi protesta nelle strade ma anche nei forum internazionali, come un “genocidio”. Perché i giovani americani accusano la Casa Bianca di esserne complice? Perché continua e fornire armi a Israele e per aver impedito per mesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di approvare una risoluzione sul cessate il fuoco e, quando una risoluzione è stata finalmente approvata questa settimana (con 14 voti a favore e la sola astensione degli USA), di affondarla dichiarando pubblicamente di non considerarla “binding” (vincolante), dando un segnale di via libera a Israele per continuare a bombardare. Intanto, questa settimana, dopo aver scelto come sua vice la giovane avvocato e imprenditrice miliardaria della Silicon Valley, Nicole Shanahan (che fino a ieri dava i suoi soldi al partito democratico), RFK jr sembra avere tutte le carte in regola per essere un “terzo incomodo” competitivo tra gli sfidanti Joe Biden e Donald Trump. Come nel 1968 lo fu anche l’ex governatore dell’Alabama George Wallace tra Humphrey e Nixon.
Però Wallace, nei toni dei suoi comizi e nelle idee razziste che proponeva al blocco di elettori che attraeva (uomini bianchi con scarso livello di istruzione) assomiglia molto più al candidato “repubblicano” Donald Trump che a RFK jr. Infatti l’ex presidente, il primo della storia USA ad essere sotto processo penale, seppur ha vissuto già nelle stanze dei bottoni per quattro anni, continua a presentarsi come il candidato “anti-establishment”, unico in grado di drenare la palude (“drain the swamp”): nel linguaggio come nelle idee, sembra l’erede di Wallace. Tornando alla situazione internazionale, il 2024 assomiglia al 1968 anche per un altro conflitto, ancora più pericoloso per le sorti del mondo: quello tra la NATO e la Russia. Infatti poco prima delle convention repubblicane e democratiche del 1968, i carri armati sovietici entrano a Praga. Cosa avverrebbe alle convention dell’estate 2024 di Milwaukee e di Chicago se i carri armati russi entrassero a Kiev? Proprio giovedì, a New York, la campagna elettorale per la riconferma di Joe Biden ha cercato di mostrare la forza della sua coalizione e l’unità del suo partito, presentando il candidato con affianco gli ex presidente Barack Obama e Bill Clinton, organizzando una serata di raccolta fondi che ha superato la cifra record di 25 milioni di dollari. Con alcune delle singole donazioni anche di 500 mila dollari, è apparso sì un successo “finanziario”, ma che rispecchia una coalizione ben diversa da quella rappresentata dalle “micro donazioni” via internet che elesse nel 2008 alla Casa Bianca il primo candidato afro americano della storia.
Ecco quindi che alla serata nel centro di Manhattan che “dona” 25 milioni di dollari alla campagna per Biden, sono spuntati sia fuori che dentro, coloro che protestano con le bandiere della Palestina contro il presidente per la guerra a Gaza. Coalizione democratica forte e unita perché raccoglie 25 milioni in una notte? Altra coincidenza: nel 1968, la Convention democratica si tenne a Chicago, nella stessa metropoli dove il partito di Biden si ripresenta ad agosto per siglare la sua nomination. Nel 1968 quella convention rimase famosa nella storia americana non per aver dato la nomination – perdente – al vice di Johnson, Humphrey, ma per i sanguinosi scontri tra la polizia e i movimenti politici anti guerra del Vietnam, che oltre a mettere a ferro e fuoco Chicago, certificarono la frantumazione della coalizione democratica spianando la strada della vittoria a Richard Nixon. Anche Trump ha i suoi guai, ci sono ben 5 processi legali, soprattutto quelli con accuse penali gravissime per aver aiutato un’“insurrezione” cercando di negare ai cittadini americani il diritto costituzionale al voto, che potrebbero compromettere la sua nomination alla convention di luglio a Milwaukee o comunque la vittoria finale a novembre. Ma per la convention che attende Biden a Chicago, soprattutto se le crisi internazionali resteranno di tale gravità o addirittura peggiorassero, potrebbe apparire lo spettro di quella di 56 anni fa.
Nel 1968, i candidati a sfidarsi alle elezioni di novembre per la presidenza finirono per essere tre: Nixon, Humphrey e Wallace. Il candidato dei repubblicani prevalse, ma anche gli altri due vinsero stati e milioni di voti che mostrarono quanto spaccato fosse il paese. Tra otto mesi potrebbero essere ancora tre i candidati a competere: Kennedy, Biden e Trump. Chi resta favorito oggi, potrebbe non più esserlo il 5 novembre.

– Foto Library of Congress –

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Tusk “Guerra pericolo reale, siamo in un’era prebellica”

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MILANO (ITALPRESS) – “Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato. E’ reale, è già iniziata più di due anni fa. La cosa più preoccupante è che ogni scenario è possibile. E’ la prima volta dal 1945 che ci troviamo in una situazione del genere. So che sembra devastante, soprattutto per i più giovani, ma dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. E’ l’era prebellica. Non sto esagerando. Sta diventando ogni giorno più evidente”. Lo dice il premier polacco, Donald Tusk, in un’intervista a Repubblica. “Il nostro obiettivo principale deve essere quello di proteggere l’Ucraina dall’invasione russa e di tutelare la sua indipendenza e integrità. Il destino dell’Ucraina è soprattutto nelle nostre mani. Non mi riferisco alla sola Polonia o all’Ue, ma all’intero Occidente” aggiunge. “Non c’è motivo per cui gli europei non debbano rispettare un principio fondamentale e spendere almeno il 2% del Pil per la difesa. Il punto di partenza è questo. Noi spendiamo il 4%, ma è anche vero che la nostra situazione è più complessa di quella della Spagna o dell’Italia. Il 2% del Pil, però, deve essere considerato unmust. Non capisco chi lo mette in discussione. Possiamo discutere di Eurobond per la difesa e di un maggiore coinvolgimento della Bei” conclude Tusk.(ITALPRESS).

Foto: Agenzia Fotogramma

Ilaria Salis, respinti i domiciliari

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ROMA (ITALPRESS) – A Budapest il giudice ha respinto l’istanza di Ilaria Salis per ottenere gli arresti domiciliari. La donna, detenuta in Ungheria con l’accusa di aver aggredito due militanti neonazisti, è arrivata stamani in Aula al Tribunale di Budapest per un’udienza, ancora in manette e catene, come era avvenuto a gennaio. “Ilaria Salis – afferma la segretaria del Pd Elly Schlein – resterà in carcere a Budapest. Dopo essere stata portata ancora una volta in Aula catene ai polsi, alle caviglie e guinzaglio, oggi i giudici ungheresi hanno deciso anche di negarle gli arresti domiciliari. Uno schiaffo irricevibile ai diritti di una persona detenuta, di una nostra connazionale. Ci aspettiamo che il governo di Giorgia Meloni reagisca, subito”.
-foto Agenzia Fotogramma –
(ITALPRESS).

Israele, 30 razzi sul nord dal Libano

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ROMA (ITALPRESS) – Una raffica di almeno 30 razzi è stata lanciata dal Libano contro la città settentrionale israeliana di Kiryat Shmona. Lo rende noto l’IDF israeliano. I filmati che circolano online mostrano che il sistema di difesa aerea Iron Dome ha abbattuto alcuni razzi. La polizia dice che gli agenti stanno gestendo diversi siti di impatti di razzi nella città, dove sono stati causati danni alla proprietà. Le sirene hanno risuonato questa mattina non solo nella città settentrionale di Kiryat Shmona ma anche in diverse aree circostanti. La regione di confine del Libano ha visto un aumento della violenza negli ultimi giorni. Il servizio di soccorso di Magen David Adom afferma che non ci sono notizie iniziali di feriti nell’attacco. Un uomo di 25 anni è stato dichiarato morto dopo essere stato tirato fuori da un edificio colpito da un razzo Hezbollah nella zona industriale di Kiryat Shmona. Lo ha riferito il servizio di ambulanze israeliano di Magen David Adom. L’uomo, che non è residente a Kiryat Shmona, non aveva segni vitali quando è stato tirato fuori dalla struttura industriale dai soccorritori, dice il servizio. I medici ne hanno dichiarato il decesso sul posto. Un altro uomo, sulla trentina, è stato tratto in salvo illeso dall’edificio danneggiato. I miliziani libanesi hanno lanciato questa mattina una ventina di razzi sul nord Israele.
-foto Agenzia Fotogramma –
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A Baltimora crolla un ponte dopo l’urto di una nave cargo

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ROMA (ITALPRESS) – Un grave incidente si è verificato alle 6.30 italiane a Baltimora, quando una nave cargo si è scontrata contro il pilone del Francis Scott Key Bridge. Il ponte è crollato facendo finire decine di veicoli in acqua. Il bilancio dell’incidente al momento non è noto. Dopo la collisione la nave si è incendiata ed è affondata, mentre il collasso di una sezione del ponte, lungo 2,6 chilometri, ha fatto precipitare diversi autoveicoli nel fiume Patapsco. Sul posto sono subito intervenuti la guardia costiera, la polizia di Baltimora, i vigili del fuoco e diverse altre agenzie statali con imbarcazioni di soccorso. Secondo alcuni testimoni circa 10 veicoli erano sul ponte quando è crollato. I soccorritori stannno cercando almeno sette persone che risultano disperse e che si pensa siano cadute in acqua.
Il portavoce dei vigili del fuoco di Baltimora, ha detto che “la nostra attenzione in questo momento è rivolta al salvataggio e al recupero di queste persone”, definendo il crollo un incidente con molte vittime. Secondo il direttore delle comunicazioni dei vigili del fuoco di Baltimora, c’è motivo di credere che ci fossero veicoli e forse un rimorchio che sono finiti in acqua sul ponte crollato. Secondo i media locali potrebbero esserci 20 operai finiti nelle acque de fiume che stavano lavorando sul ponte al momento dell’impatto. La nave, operante sotto bandiera di Singapore, sarebbe la Dali che era diretta a Colombo, nello Sri Lanka. Il sindaco di Baltimora Brandon Scott ha dichiarato in un post sui social media di essere a conoscenza dell’incidente e di essere in contatto con il governatore Wes Moore e i funzionari locali. “Il personale di emergenza è sul posto e gli sforzi sono in corso”, ha detto Scott su X. Il Key Bridge, inaugurato nel 1977 dopo cinque anni di costruzione e costato circa 110 milioni di dollari, ed è uno dei tre valichi a pedaggio del porto di Baltimora. Secondo un rapporto del governo dello stato del Maryland pubblicato lo scorso novembre, il ponte ha trasportato più di 12,4 milioni di veicoli commerciali e passeggeri nel 2023.
(ITALPRESS).
– Foto: Agenzia Fotogramma –

A New York la premiazione dell’Italian Reputation Award

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NEW YORK (ITALPRESS) – Si è svolta presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York la premiazione dell’Italian Reputation Award, l’importante riconoscimento rivolto alle personalità che si sono distinte in ambito reputazionale grazie ad un costante impegno e all’innovazione profusa nei diversi settori professionali per la promozione dell’Italia nel mondo.
L’evento è stato condotto dalla giornalista Francesca Di Matteo che ha scandito l’alternarsi degli ospiti e dei premiati nella sala della casa della cultura italiana nella Grande Mela.
L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra l’Istituto italiano di Cultura di New York diretto da Fabio Finotti e da Reputation Research guidato da Davide Ippolito, per dare risalto all’impatto culturale che gli italiani, grazie alla loro professionalità, competenza e costanza nel lavoro, contribuiscono a rafforzare il brand Italia su scala globale.
Il direttore Finotti ha introdotto la serata di premiazione leggendo una lettera inviata dal sottosegretario al ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale Maria Tripodi, nella quale ha ringraziato Fabio Finotti, Davide Ippolito, Pasquale Antonio Riccio di Progetto Alfa e Mattia Iovane direttore de Il Newyorkese, media partener dell’evento, definendo “gli Italian Reputation Awards importanti perché pongono sotto i riflettori la varietà di settori nel quale il prestigio italiano agisce nel mondo: l’arte, la musica, l’enogastronomia, e, insieme, la tecnologia, la scienza, la finanza, la comunicazione – aggiungendo – che come è stato giustamente sottolineato dagli organizzatori, gli Awards sono più di un semplice premio, sono innanzitutto un tributo all’impegno ed ai risultati di personalità che con il loro spirito di iniziativa ed il duro lavoro sono riusciti ad eccellere, contribuendo a rafforzare quel patrimonio di credibilità di cui il sistema Italia, termine mai così appropriato come nella celebrazione odierna, gode nel mondo”.
Dopo aver letto il messaggio del sottosegretario Tripodi, il direttore Finotti ha poi passato la parola al Console Generale d’Italia a New York Fabrizio Di Michele che ha voluto evidenziare l’importanza di questa iniziativa e ha espresso la propria felicità nel vedere a New York “una tale concentrazione di talenti italiani dai più diversi background, proprio perché la Grande Mela per definizione concentra le risorse d’eccellenza del mondo”, ha affermato il Console Di Michele.
Oltre all’Istituto Italiano di Cultura di New York e a Reputation Research, l’Italian Reputation Award è stato promosso da RetImpresa, Progetto Alfa, IARL – Italian American Reputation Lab e Federmanager Academy.
Il Console Di Michele è stato il primo a consegnare il premio, che consiste in una moneta su cui è incisa la dea della reputazione realizzata dal maestro artigiano Marco de Luca, ad una collega, la Console Generale d’Italia a Detroit Allegra Baistrocchi, definita da Di Michele come un’eccellenza italiana della diplomazia e un modello per chi svolge questo ruolo così importante e delicato.
Gli altri premiati sono: Leonora Armellini, John Viola e Basil Russo, Franco Rossi, Diego Pisa, Mauro Porcini, Giuseppe Romano, Gianmario Bertollo e Maria Sole Pavan, Marco Chiellini, Anna Rondolino, e una menzione speciale da Reputation Review per Alessia Panella e Maria Azzurra Rinaldi.
La pianista Leonora Armellini si è esibita al pianoforte durante la consegna dei premi accompagnando la serata con una dimensione musicale che è stata molto apprezzata dal pubblico in sala.
Sono intervenuti nel corso delle premiazioni Micheal Cascianelli, Head of School at La Scuola d’Italia, Alma Laias dell’American Chambre of Commerce, Don Luigi Portarulo sacerdote Our lady of Pompeii, Domenico Veneziano Director of Urology at Northwell Health LIJ Valley Stream Hospital, il ristoratore Ciro Iovine, l’artista Verdiana Patacchini, Pasquale Antonio Riccio presidente di Progetto Alfa e Mattia Iovane giornalista e direttore de ilNewyorkese.
Infine, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura Finotti ha premiato il giornalista e scrittore Alain Elkann testimone della Reputazione italiana declinata nei suoi aspetti migliori e più complessi per i numerosi libri che ha scritto e divulgati in tutto il mondo, per le sue lezioni all’University of Pennsylvania e per la sua attività come Presidente della FIAC, Foundation for Italian Art and Culture.
– foto ufficio stampa Italian Reputation Award –
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Gaza, l’Onu approva la risoluzione per il cessate il fuoco

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NEW YORK (ITALPRESS) – Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione per il cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza e per l’immediato rilascio degli ostaggi israeliani.
La nuova bozza di risoluzione ha avuto il via libera con 14 sì, mentre gli Usa si sono astenuti.
Nel documento si «chiede un cessate il fuoco immediato per il Ramadan rispettato da tutte le parti che conduca ad un cessate il fuoco durevole e sostenibile e il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, nonchè la garanzia dell’accesso umanitario per far fronte alle loro esigenze mediche e umanitarie».
Una decisione “molto attesa”, come ha commentato in un post su X il segretario generale Antonio Guterres, che ha aggiunto: “Questa risoluzione deve essere attuata. Un fallimento sarebbe imperdonabile”.
-foto Agenzia Fotogramma-
(ITALPRESS).

Sale a 140 il bilancio delle vittime dell’attentato a Mosca

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MOSCA (RUSSIA) (ITALPRESS) – Sale a 140 il bilancio provvisorio delle vittime dell’attentato avvenuto in una sala concerti di Mosca e rivendicato dall’Isis. Secondo il governatore della regione di Mosca Andrej Vorobyev i morti potrebbero essere di più, si sta ancora cercando nelle sale e nei sotterranei.
In un post su Telegram, lo Stato islamico ha affermato che i suoi uomini armati sono riusciti a fuggire dopo la sparatoria. Tra le vittime vi sarebbero anche dei bambini. Il comitato investigativo ha aperto un procedimento penale come attacco terroristico. Ci sono state anche delle esplosioni nell’edificio, dove si è propagato un incendio. Il direttore dei servizi di sicurezza russi Fsb ha riferito al presidente Vladimir Putin l’arresto di 11 persone, tra cui i quattro terroristi coinvolti nell’attentato.

“Se è accertato che si tratta di terroristi del regime di Kiev è impossibile trattare diversamente loro e i loro ispiratori ideologici. Tutti loro devono essere trovati e distrutti senza pietà come terroristi. Compresi i funzionari statali che hanno commesso una simile atrocità. Morte per morte”, ha detto Dmitry Medvedev capo del Consiglio di sicurezza russo sul suo canale Telegram.
“L’Ucraina certamente non ha nulla a che fare con le sparatorie e le esplosioni a Crocus. Non ha assolutamente senso. Innanzitutto l’Ucraina combatte con l’esercito russo da più di due anni. Tutto in questa guerra sarà deciso solo sul campo di battaglia. Gli attacchi terroristici non risolvono alcun problema”, ha risposto su X, Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky.
Su quanto accaduto a Mosca è intervenuto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. “Non abbiamo segnalazioni di italiani, ho parlato con il nostro incaricato d’affari a Mosca pochi istanti fa e anche l’unità di crisi del ministero degli Esteri non ha avuto alcuna segnalazione o richiesta. Gli italiani che sono iscritti nella nostra app sono stati informati. Seguiamo la situazione e certamente il governo condanna ogni atto terroristico. Siamo vicini alle famiglie delle vittime. Ho informato il presidente del Consiglio e sono in contatto con lei”, ha detto Tajani al Tg1.
“Non abbiamo notizie e informazioni, quindi tutto è possibile. Sembra comunque un attacco terroristico e c’è la ferma condanna da parte dell’Italia, stiamo seguendo la vicenda per vedere se ci sono nostri connazionali”, ha aggiunto.

– Foto Ipa Agency –

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Putin “Terroristi come nazisti, arrestati stavano fuggendo in Ucraina”

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MOSCA (RUSSIA) (ITALPRESS) – In un videomessaggio il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato il lutto nazionale per domani, 24 marzo, in segno di cordoglio per le vittime dell’attentato di ieri a Mosca.
“I 4 terroristi sono stati arrestati mentre tentavano di raggiungere l’Ucraina, dove vi sarebbe stato rifugio per loro”, ha detto Putin, che ha aggiunto: “Hanno agito come facevano i nazisti. Individueremo e puniremo chiunque sia dietro questo atto barbaro, terroristico e criminoso verso il nostro popolo”.
“Noi conosciamo la minaccia del terrorismo. Nessuno potrà spezzare la nostra unità. Non cederemo al panico”, ha aggiunto.
“La Russia anche nei momenti peggiori è sempre diventata più forte e sarà così anche questa volta – ha sottolineato il presidente -. Il nostro compito è essere uniti e allineati come sull’attenti, e lo saremo”.

– Foto Ipa Agency –

(ITALPRESS).

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