GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Asia

Il manifesto di politica estera di Pechino

 

Mentre in Occidente ci auto illudiamo con una narrativa di “regime” unidirezionale e ingannevole che il conflitto ucraino rappresenti l’atto estremo dell’eterna lotta tra il Bene (noi Occidentali) e il Male (il resto del mondo che non la pensa come noi), non ci accorgiamo che la Cina sta ponendo le basi ideologiche del suo concetto di Ordine Mondiale in chiave dichiaratamente antioccidentale.

A un anno esatto di distanza dalla dichiarazione congiunta russo-cinese dove veniva affermato un nuovo paradigma del concetto di democrazia – uno Stato è democratico se si sente democratico – e una differente declinazione dell’idea dei diritti dell’individuo – finiscono dove inizia l’interesse dello Stato – la Cina ha emanato un nuovo documento particolarmente interessante.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica Cinese ha infatti emesso un documento intitolato “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”.

Se il titolo non fosse abbastanza esplicito da chiarire il contenuto, basta dare un’occhiata all’indice: dopo una breve, ma significativa, introduzione dove gli Stati Uniti sono presentati come il peggiore dei mali, seguono cinque capitoli dedicati a tutti quei settori dove gli USA impongono la loro egemonia politica, militare, economica, tecnologica, culturale.

Il fine che il documento si propone di conseguire è rappresentato dalle ultime due righe dell’introduzione dove si cita testualmente:

This report, by presenting the relevant facts seeks to expose the U.S. abuse of hegemony in the political, military, economic, finance, technological and cultural fields, and to draw greater international attention to the perils of the U.S. practises to world peace and stability and the well-being of all people.

Un incipit che farebbe sembrare dei principianti l’Imperatore Palpatine o il Signore dei Sith, i super cattivi galattici che impersonano il male assoluto nella saga di Star Wars.

Nel corso dei vari capitoli il documento spiega come gli USA impongano la loro egemonia nei differenti settori a detrimento del bene universale e della pace dei popoli.

Senza andare nel particolare di quelle che sono, in realtà, dichiarazioni di una propaganda che affonda le sue radici in una retorica derivante da una visione social-comunista da Libretto Rosso, è opportuno notare come alcuni argomenti, quasi accennanti casualmente, definiscano, invece, la visione cinese che propaganda un nuovo ordine mondiale.

Il primo di questi concetti riguarda l’accusa di aver fabbricato una falsa narrativa della “democrazia verso l’autoritarismo” per incitare all’allontanamento, alla divisione, alla rivalità e al confronto tra le varie nazioni. Anche l’idea USA della creazione di un “Summit per la democrazia” è un’iniziativa che viene aspramente criticata e accusata di causare la divisione nel mondo.

Il secondo concetto riguarda la sfera economico finanziaria, dove viene messo in discussione il sistema che regola la struttura globale ritenuto esclusivamente vantaggioso per il binomio USA – Occidente (probabilmente ci si dimentica due terzi del debito USA sono finanziati dalla Cina).

Il terzo elemento evidenzia un certo fastidio per il sistema di alleanze che gli USA hanno impostato nella gestione della loro visione diplomatico – strategica, percepito da Pechino come elemento coercitivo e destabilizzante perché escludente la sua partecipazione.

Il paragrafo finale delle conclusioni contiene una affermazione programmatica che invita le grandi nazioni a prendere l’iniziativa nel perseguire un Nuovo Modello di relazioni tra stato e stato basato sul dialogo e la partnership, e non il confronto e le alleanze; rimarca, inoltre, la posizione contraria della Cina verso qualsiasi forma di egemonia e di potere politico e sottolinea il rigetto di qualsiasi interferenza negli affari interni di altri paesi (concetti cari a Pechino per la risoluzione dei vari problemi come il Tibet, la minoranza uigura, Taiwan).

Non poteva mancare, a conclusione del tutto, l’invito agli USA a fare autocritica conducendo una seria introspezione al fine di esaminare con visione critica le loro malefatte, rifuggire dal loro comportamento arrogante e pregiudizievole e smettere di adottare comportamenti egemonici, prepotenti e bullizzanti!!!!!!  (“The United States must conduct serious soul-searching. It must critically examine what it has done, let go of its arrogance and prejudice, and quit its hegemonic, domineering and bullying practises”).

L’importanza del documento non risiede nelle affermazioni che vengono fatte o nella demonizzazione del comportamento degli Stati Uniti, ma nell’aspetto concettuale che esso si propone di realizzare.

Gli USA e i loro valori culturali (che in definitiva sono ampiamente condivisi dall’Occidente per intero) sono un pericolo per il mondo e contro questa visione la Cina si erge a baluardo proponendo un Nuovo Ordine.

Questo Nuovo Ordine non si basa sulla condivisione di quei concetti culturali e sociali che hanno ispirato l’Occidente come la democrazia, la libertà individuale, la libertà di espressione, la libertà di commercio e di movimento, ma un sistema dove tutti questi valori si fermano quando un superiore interesse da parte di un concetto di Stato astratto e imposto si inserisce e prevarica su tutto.

E la Cina, con estrema scaltrezza non propone sé stessa come elemento guida di questo nuovo sistema di relazioni internazionali, ma elenca i mali che il sistema occidentale, tiranneggiato dagli USA, comporta e produce, proponendolo all’attenzione del resto del mondo come il pericolo da cui è necessario e fondamentale difendersi.

Il problema da affrontare non è costituito dalla retorica da Libretto Rosso che la propaganda cinese usa o la veridicità o meno delle sue affermazioni, ma risiede nei concetti politici che la Cina intende veicolare per impostare una nuova concezione di valori culturali.

Il sistema proposto è un chiaro e mirato attacco contro gli USA che sono individuati come l’ostacolo principale verso un’egemonia cinese, mentre considera l’Europa come un sistema in completo decadimento, disunito e privo di peso politico, la cui insignificante importanza globale non costituisce alcun problema per l’affermazione del sistema cinese.

La forza di questa linea strategica che la Cina persegue da tempo, deriva, non tanto dall’efficacia della critica dei valori occidentali e dalla proposta di valori culturali alternativi, ma dalla nostra mancanza di visione globale del contesto internazionale, persi come siamo nella nostra piccola gabbia dorata dalla quale non vogliamo uscire.

Purtroppo, l’Europa non ha una visione strategica globale ma si dibatte tra vecchi rancori (il deuteragonismo franco-tedesco nel voler dominare l’Unione Europea), l’incapacità di uscire dal passato (la crisi ucraina ne è un esempio), la tendenza a rimanere ancorati a un orizzonte limitato (assenza della percezione del lato Sud dell’Europa e del mondo) e questo la porta a essere vulnerabile nei confronti dell’evoluzione che caratterizza lo scenario internazionale.

L’Occidente europeo si è fatto trascinare in un conflitto provocato da interessi che non gli appartengono e alimentato da vecchi rancori, dove una retorica ormai appartenente al passato vagheggia vittorie impossibili e imposizione di trattati di Versailles irrealistici (l’Ucraina sta vincendo su Facebook ma perde sul terreno!!!!!!). La nostra società annaspa in una crisi sempre più profonda e l’unica reazione è quella di chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un mondo in evoluzione e illuderci che la Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la rete 5G a basso costo, i finanziamenti ai progetti universitari, l’acquisto di proprietà ed esercizi commerciali da parte cinese, siano esclusivamente l’espressione di una benevola e innocua aspirazione a fare parte del nostro sistema e di interesse a condividere i nostri valori.

Non è così, e il documento del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese lo conferma senza ombra di dubbio.

Se non vogliamo essere schiacciati nel confronto per il Nuovo Ordine ed essere ridimensionati allo stato di colonie, dobbiamo aver il coraggio di guardare al di là del nostro piccolo orizzonte, utilizzare le capacità che l’Unione Europea ci consente di avere, se agiamo come un unico, solido, coeso organismo (lasciando perdere idiozie concettuali come i Paesi Frugali, quelli Virtuosi, i Quattro di Visegard e via dicendo) e quelle intrinseche che un istituzione di difesa collettiva e di integrazione come la NATO rende possibili, se trasforma la sua accezione di club in funzione anti Russia e si trasforma in un elemento di sviluppo dei valori e dei concetti condivisi da un Occidente unito e in grado di svolgere un ruolo da protagonista nel contesto internazionale.

I valori culturali che hanno disegnano e formato la nostra società sono senz’altro validi e meritano di essere proposti come un modello da seguire e da adottare e non dobbiamo vergognarci di sostenerli e di veicolarli, ma dobbiamo farlo senza l’arroganza che siano gli unici e che possano essere imposti come merce di scambio. Il modo migliore è dimostrare che la nostra società Occidentale non è decadente, immorale e pericolosa come la Cina la descrive ma, invece, rappresenta un modello i cui valori sono degni di essere accettati e condivisi anche dagli altri.

L’alternativa è di iniziare a imparare a usare le bacchette per mangiare!

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

Il dilemma strategico della Russia

Se si esamina con attenzione una carta geografica della Russia appare evidente, anche all’occhio del neofita, che l’immensa estensione territoriale di questo paese è controbilanciata, con esito negativo, dalla pressoché assoluta mancanza di accesso diretto alle rotte commerciali oceaniche che costituiscono, da sempre, la base sulla quale si sviluppa e progredisce l’economia di un grande paese.

Analizzando più nel particolare la situazione russa si può vedere che i pochi porti di cui dispone (davvero in numero esiguo non solo in relazione alla sua grandezza territoriale) sono caratterizzati da due fattori geopolitici limitativi che ne riducono l’importanza e ne condizionano l’utilizzazione.

Il primo è che i porti di Vladivostock a Est e di San Arcangelo a Ovest insistono in un’area geografica dove il mare ghiaccia per lunghi periodi dell’anno.

Il secondo fattore, di gran lunga più determinante nel dettare la linea geostrategica della politica russa, è quello che sia Vladivostok sia i due porti principali in acque calde, San Pietroburgo e Novorossiysk, insistono in un complesso di acque chiuse i cui accessi al mare aperto (gli Oceani Atlantico e Pacifico) sono controllati da alleanze di cui la Russia non fa parte o da Paesi con i quali non esiste un rapporto stabile di fiducia o che, addirittura, possono essere considerati potenzialmente ostili.

Da qui discende direttamente l’impostazione che ha guidato la politica estera della Russia, zarista e non, durante gli ultimi trecentocinquant’anni della sua storia.

Rifiutare di riconoscere o di considerare questo imperativo geopolitico, quando si ha che fare con la Russia, non solo è un errore macroscopico di valutazione ma è estremamente pericoloso.

Cambiando la carta geografica con una carta geopolitica non è difficile vedere che sia l’accesso diretto al Pacifico che quello all’Atlantico sono condizionati da alcuni punti di passaggio di importanza strategica per il controllo delle vie di comunicazione che non sono in mano russa. Da questa analisi deriva uno degli assi portanti della politica estera russa.

Nel settore asiatico la controversia, che da circa settant’anni contraddistingue le relazioni russo-giapponesi, ha come base il possesso delle isole Kuryli che sono la naturale chiusura della rotta verso il mare aperto (e caldo) su cui insiste la direttrice di Vladivostok.

La situazione è molto più complessa e delicata nello scacchiere euroasiatico dove la rotta di San Pietroburgo, che attraverso il Mar Baltico porta al mare del Nord e poi all’Atlantico, deve passare attraverso due strozzature naturali (il Golfo di Finlandia e gli Stretti di Danimarca) dove tutti i Paesi costieri ad eccezione di Svezia e Finlandia (a tutt’oggi) appartengono alla NATO.

Ancora più intricata è la situazione del porto di Novorossiysk, sul Mar Nero la cui rotta di accesso al mare caldo è limitata da due chiuse strategiche: il Bosforo e i Dardanelli per il Mar Mediterraneo e Gibilterra per lo sbocco nell’Atlantico. Anche in questo caso il controllo degli stretti in questione appartiene a Paesi membri della NATO.

Mettendo in relazione questa situazione con la posizione privilegiata in termini geopolitici di cui godono i principali antagonisti della Russia, gli Stati Uniti, la Cina, l’India, appare evidente lo sforzo di Mosca per assicurarsi, con ogni mezzo disponibile, l’accesso sicuro alle vie commerciali marittime mondiali.

Come si evince dall’analisi della storia della Russia il cardine di ogni sua direttrice politica è sempre stato condizionato dalla necessità di rompere l’accerchiamento dei Paesi considerati ostili e avversari non solo sulle sue frontiere terrestri ma, soprattutto, quello di cercare di acquisire il possesso e il controllo degli stretti fondamentali al fine di concretizzare quel concetto di sicurezza che permea la visione russa da sempre.

Fatta questa premessa, non può quindi sorprendere la direttrice strategica della politica che negli ultimi anni ha guidato le relazioni internazionali russe.

Limitando l’analisi al solo settore euroasiatico, appare abbastanza evidente per quanto precedentemente detto, che è attraverso tale chiave di lettura che devono essere considerate le azioni che hanno portato nel 2014 all’annessione plebiscitaria e unidirezionale della Crimea e che adesso stanno condizionando gli sviluppi del conflitto con l’Ucraina. La concentrazione dello sforzo militare russo sulla costa del Mar Nero implica il conseguimento di una condizione di stabilità che consenta lo sfruttamento del porto di Sebastopoli in aggiunta a quello Novorossiysk con una striscia di retroterra che garantisca un miglior collegamento con la Crimea.

Ulteriormente legato a questo imperativo geopolitico risulta essere la volontà russa di limitare l’espansione della NATO verso i suoi confini. La percezione di assedio e di mancanza di sicurezza che costituiscono il motivo principale del contrasto con l’Occidente si basano principalmente sulla paura di poter essere soggetti a un blocco economico disastroso se le rotte commerciali venissero strozzate e chiuse mediante il blocco degli stretti.

L’approccio politico nei confronti della Turchia, tendente a staccarla dall’orbita dell’Occidente e dalla NATO, le operazioni in Ucraina, miranti strategicamente a incrementare il controllo sulla sponda europea del Mar Nero, la ricerca di riacquisire una possibile influenza sui Paesi nel Mar Baltico, sono tutti elementi che adducono allo stesso obiettivo: garantire un accesso sicuro alle rotte commerciali atlantiche!

A questo punto, senza voler in alcun modo giustificare la modalità intrapresa per sostenere questa visione strategica e, quindi, condannando senza riserve il ricorso ad azioni militari come quella in corso, non si può non considerare con maggiore attenzione gli sviluppi che stanno caratterizzando lo scenario internazionale euro atlantico.

Il casus belli utilizzato dalla Russia, come giustificazione per lo scatenare il conflitto in atto, è stato la mancata considerazione delle sue legittime preoccupazioni (reali o solo presunte fa poca differenza) per la sicurezza dei suoi confini minacciati da un’espansione ulteriore della NATO, con la presunta adesione dell’Ucraina. Conflitto durante, tale elemento giustificativo è stato ulteriormente rafforzato da altri due eventi che incidono sulla questione citata delle rotte commerciali.

Il primo riguarda sia il blocco dei porti del Mediterraneo per l’attracco alle navi russe che ha causato notevoli problemi al trasporto, sia la richiesta di chiudere gli stretti del Bosforo presentata alla Turchia che, anche se non attuato ha comunque, ulteriormente, inasprito la posizione russa.

Il secondo molto più recente, invece, è la risonanza mediatica data ad una possibile, ancorché ancora in una fase iniziale di valutazione, adesione alla NATO da parte di Svezia e Finlandia, ipotesi prevalentemente e grossolanamente sostenuta, con enfasi, dagli USA e dal Regno Unito.

Queste mosse non hanno fatto altro che inasprire una situazione già tesa e drammatica e non sembrano essere frutto di una valutazione strategica attenta e lungimirante basata su una vision consolidata e studiata.

Fermo restando la indiscutibile volontà degli Stati di perseguire quelli che ritengono i loro interessi nazionali, ciò che appare evidente è l’assoluta mancanza di una visione strategica di vasta portata che possa contraddistinguere il campo occidentale.

L’abbandono da parte della Svezia di una neutralità, di comodo e spesso interessata, ma soprattutto la decisone simile della Finlandia, sulla base di una presunta minaccia alla loro sicurezza, non rappresenta certo la scelta migliore in un momento come quello attuale.

È un inutile ed è un pericoloso azzardo che non serve a dimostrare né la volontà americana di ricoprire il ruolo del difensore della democrazia e dell’Europa (recuperando un senso di fiducia ormai logoro), né il modo per poter indebolire e far cadere Putin!

La NATO è stata, e continua a essere, una organizzazione di estremo valore fondamentale per l’equilibrio geopolitico euroasiatico, ma non può essere trasformata in uno strumento di pressione nei confronti della Russia per servire una politica miope, demagogica e priva di profondità strategica come è quella che adesso caratterizza la presidenza americana.

Il dilemma strategico della Russia che riguarda come conseguire la sicurezza dell’accesso agli Oceani esiste è reale e non è legato alla presenza di Putin.

Putin non piace al consesso internazionale occidentale può anche essere; è sicuramente colpevole di aver iniziato un conflitto devastante che ha riportato la lancetta della storia indietro di mezzo secolo, è vero; ma non è negando la geopolitica e la geostrategia della Russia che l’Europa e gli USA possono cercare di eliminare un avversario scomodo e pericoloso, e nello stesso tempo sostenere e diffondere la visione occidentale che ricerca l’equilibrio di un sistema di relazioni internazionali basato sul rispetto della democrazia, del diritto e dei valori individuali e umani.

Gli Stati Arabi e la crisi ucraina

 

La risposta negativa da parte degli Stati Arabi del Golfo o meglio la mancata adesione alle richieste americane di condanna della Russia, per l’invasione dell’Ucraina, ha posto l’accento sulle relazioni tra gli USA e i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), evidenziando il crescente scetticismo che viene riservato al ruolo degli Stati Uniti quale tradizionale partner privilegiato nell’aerea.

La posizione di strategica neutralità assunta dal GCC deriva dalla mutata impostazione geopolitica dell’area, dove l’espansione della influenza economico-politica della Cina e della Russia ha creato una nuova realtà multipolare che da tempo ha messo in discussione la leadership americana.

Le difficoltà dei rapporti USA – GCC sono originate rispettivamente dalla declinante fiducia nell’impegno degli Stati Uniti a garantire la sicurezza dei Paesi Arabi alleati e da parte USA dal disappunto per politiche regionali che ostacolano e rendono complesso il conseguimento degli obiettivi geopolitici americani.

Nel particolare, infatti, le relazioni tra gli USA e i Paesi del GCC, improntate sul binomio energia e sicurezza, hanno subito nel tempo un deterioramento causato da una serie di fattori che hanno caratterizzato, nell’ultimi quindici anni, la visione strategica USA nell’area evidenziandone una limitata profondità geopolitica.

Sotto il punto di vista dell’approvvigionamento energetico, la ricerca e il conseguimento dell’autonomia nel settore dei combustibili fossili attuato dagli USA ha generato l’errata asserzione che la produzione di energia degli Stati del GCC non avesse più un valore strategico. Anzi l’espansione dell’attività USA nel settore specifico è stata percepita come una concorrenza volta ad alterare il conseguimento di una collaborazione per conferire equilibrio al mercato globale dei combustibili, in un momento di particolare e delicata transizione verso fonti alternative.

Da qui è derivata la crescita di importanza della Russia nell’ambito dell’OPEC+ quale elemento di stabilità e di affidabilità nella gestione delle risorse energetiche fossili.

Per quanto attiene al concetto di sicurezza, questo ha rappresentato, da sempre, la principale ragione d’essere della presenza USA nella regione e delle sue positive relazioni con i Paesi del GCC.

La fiducia riposta nell’impegno a garantire la protezione agli alleati contro le minacce alla loro sicurezza e nella capacità di assicurare un equilibrio politico nell’area mediorientale è stata messa in discussione e si è incrinata per una serie di scelte politico – diplomatiche che hanno messo in dubbio l’importanza strategica dell’area nella visione americana.

L’inconsistenza politica e la ingenuità dimostrata nella gestione della cosiddetta Primavera Araba, il ruolo ambiguo e marginale svolto nel conflitto siriano, la scarsa considerazione delle esigenze di Paesi del GCC nella stipulazione degli accordi sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA) con l’Iran, Paese che è percepito come la principale minaccia alla stabilità dell’area, le continue dichiarazioni di interesse prioritario verso lo scacchiere Indo Pacifico nel tentativo di contrastare la sfida della crescente influenza cinese, hanno determinato uno scetticismo sempre maggiore nei confronti della determinazione americana a svolgere quel ruolo di garante della sicurezza che assicurava la stabilità dell’area, ritenuta fondamentale dai Paesi del GCC.

Scetticismo che è stato ulteriormente, aumentato dall’atteggiamento estremante attivo assunto dagli USA nella crisi ucraina (e dalle pressioni esercitate su Paesi del GCC per condannare la Russia) e dalla considerazione inerente alle risorse militari offerte all’Ucraina, giudicate quantitativamente sproporzionate in relazione a quelle rese disponibili per supportare gli alleati mediorientali nella loro domanda di sicurezza.

Nel particolare sono le relazioni dirette con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno maggiormente sofferto questo calo di fiducia nell’impegno USA nella regione ed è proprio verso questi due Paesi che si sono rivolte con più attenzione le iniziative politico economiche della Cina.

Pechino ha iniziato da lungo tempo una politica di penetrazione commerciale volta ad inserirsi nell’area mediorientale occupando tutti gli spazi lasciati vacanti dalla poco attenta visione USA.

Se, sino ad ora, le attività cinesi sono state condotte con circospezione evitando di poter essere considerate come attacco diretto volto a distruggere le relazioni di alleanza tra GCC e USA, le conseguenze della crisi ucraina hanno aperto nuove possibilità all’azione diplomatico economica della Cina.

Recenti incontri di vertice della Cina con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno reso chiara l’intenzione di Pechino di adottare una linea politica più decisa e più aperta nel sostegno degli interessi nazionali finalizzati all’acquisizione di una posizione dominante nell’area.

La posizione di strategica neutralità dei Paesi GCC assunta nei confronti della Russia, finalizzata a non danneggiare gli ottimi rapporti stabiliti con Mosca (stabilizzazione della crisi siriana e gestione congiunta delle quote di greggio) sono stati recepiti da Pechino come un segnale positivo nell’ambito di eventuali azioni intese a risolvere la questione di Taiwan. Inoltre, la rinnovata disponibilità alla partecipazione attiva al grande progetto della Belt and Road Initiative (B&RI) ha comportato la stesura di una serie sempre maggiore di accordi e partneship commerciali che hanno portato alla realizzazione di enormi investimenti da parte di Pechino.

Il risultato di questi accordi ha avuto due importanti conseguenze che hanno ulteriormente indebolito la posizione USA.

La prima è quella dell’inclusione della regione mediorientale in uno scacchiere geopolitico che oramai ha spazzato via tutti i precedenti riferimenti, estendendosi senza soluzione di continuità dall’Europa all’Asia globalizzando e trasformando il concetto di relazioni internazionali.

La seconda, strettamente connessa alla prima è quella della condivisone con Pechino di una visione strategica dove non esistono più vincoli all’ingresso nell’area di potenze esterne come l’India in aggiunta, ovviamente, alla presenza della Cina e della Russia, sulla base della ricerca di un sempre maggior volume di investimenti e di attività di cooperazione non solo limitate alla sfera economico commerciale.

L’aspetto fondamentale per i Paesi del GCC è la partecipazione a un mercato più ampio, dove gli investimenti e le partnership economiche offrono l’accesso a tecnologie e risorse indispensabili per affrontare la trasformazione da una società basata sullo sfruttamento delle energie fossili a un mondo con accesso a fonti alternative. Ed è questa la chiave di volta su cui si basa la strategia di Pechino!

Offrire un fondamentale supporto per l’accesso alle nuove tecnologie, proporsi come partner privilegiato nella transizione verso fonti rinnovabili e nell’attesa costituire il maggior partner per l’acquisto del greggio, senza pretendere come condizione pregiudiziale il rispetto di regole e di comportamenti sociali ritenuti intrusivi e moralmente inadeguati.

Attraverso il conseguimento di questi obiettivi Pechino vede la possibilità di creare un cuneo politico tra i Paesi del GCC e il loro principale attuale alleato, dando luogo a una revisione degli equilibri geopolitici.

Il fine ultimo non sembra essere quello di ricoprire un ruolo egemonico sostituendosi agli Stati Uniti ma, invece, di creare una specie di direttorato con Russia e India, escludendo progressivamente gli Stati Uniti da un’area che è la cerniera tra lo scacchiere Indo Pacifico e quello Euroasiatico.

Controllando tale area economicamente, finanziariamente e politicamente (ma non solo, in quanto si sta sviluppando anche una certa presenza militare cinese negli Emirati), la Cina creerebbe le condizioni migliori per la sicurezza degli assi di penetrazione marittimo e terrestre sui quali si articolala sua B&RI e che sono diretti al cuore economico del Vecchio Continente!!!!!

Nello stesso tempo la possibilità di coinvolgere in questa nuova realtà geopolitica sia la Russia (rivitalizzata nel ruolo di grande potenza) sia l’India (gigante che ancora si deve alzare in piedi) mediante la condivisone di una visione strategica comune, senza l‘Occidente, che focalizzerebbe questi due partner geopolitici in un’area di intervento lontana dalle coste cinesi dell’Asia e dal Pacifico lasciando alla Cina il ruolo di arbitro di questo nuovo ordine mondiale.

Questo è lo scenario che si può preconizzare in base all’analisi delle mosse che un Occidente, sempre più cieco, sempre più rinchiuso in sé stesso, privo di una visione politica a lungo raggio, prigioniero dei suoi ideali e delle sue idiosincrasie concettuali, ha messo in atto per contrastare una crisi, quella ucraina, che se pure frutto di un comportamento moralmente inaccettabile da parte russa, in qualche modo ha contribuito a stimolare e che non è in grado di affrontare con provabilità di successo.

Ma questo scenario non è stato ancora concretizzato, c’è ancora tempo e c’è ancora spazio per una ripresa da parte dell’Occidente che, con le risorse immense umane, morali ed economiche che possiede ha le capacità per proporre un’alternativa geopolitica a Cina e Russia in grado di sostenere lo sviluppo, la cooperazione e la partnership economica dei Paesi del GCC pur non abiurando al pieno rispetto dei principi universali di libertà e democrazia su cui si basa l’Occidente.

Ovviamente non solo solo gli Stati Uniti che devono riprendere alla mano una vera linea di politica mondiale, ma anche l’Europa è chiamata a liberarsi dal torpore egoistico dei sui Stati membri che ne tiene frenate le energie e a darsi degli obiettivi concreti e unitari da conseguire.

Un nuovo ordine internazionale

 

Russian President Vladimir Putin, right, and Chinese President Xi Jinping (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Il 4 febbraio scorso, in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici a Pechino, nella sede del China Aerospace Studies Institute, Cina e Russia hanno firmato una dichiarazione congiunta, denominata “Joint Statement of the Russian Federation and the People’s Republic of China on the International Relations Entering a New Era and the Global Sustainable Development”.

Il documento rappresenta un atto di profondo valore geopolitico, i cui elementi fondamentali sono stati recepiti in modo generico dall’opinione pubblica occidentale che ne ha superficialmente interpretato i contenuti riducendoli a un accordo, più o meno formale, tra Pechino e Mosca volto, principalmente, a esprimere il sostegno e il supporto reciproco tra i due Paesi in vista delle possibili azioni russe verso l’Ucraina.

Ma il fine del documento non è affatto questo! Se si scorre il testo ci si accorge subito che si tratta di un programma volto a porre le basi per l’affermazione di un nuovo ordine mondiale che soppianterebbe quello emerso al termine del Secondo Conflitto Mondiale e, soprattutto, quello che è stato sviluppato al termine della Guerra Fredda.

E l’intenzione programmatica non è affatto celata, ma, addirittura, apertamente esplicitata già nel titolo stesso, dove viene sottolineata l’inizio di un Nuova Era delle Relazioni Internazionali.

Il punto cardinale dell’intero documento è centrato sulla convinzione che la leadership mondiale dell’Occidente sia al tramonto e che quindi il sistema delle relazioni internazionali debba essere gestito impostando una nuova serie di regole.

Il contenuto del documento, lungo e articolato nel suo svolgimento, sottolinea la volontà dei due firmatari di partecipare in modo attivo e responsabile alla risoluzione delle molteplici problematiche di interesse globale (sviluppo economico, clima, sicurezza nucleare, cyber domain, controllo dello spazio), sottolineando l’importanza degli organismi internazionali (ONU in primis) e l’adesione ai valori universalmente riconosciuti (democrazia e diritti umani).

Da un punto di vista formale il documento è un capolavoro di diplomazia, in quanto esplicita le stesse idee e gli stessi propositi formali che contraddistinguono il concetto di relazioni internazionali dell’Occidente (convivenza pacifica, reciproco rispetto, collaborazione internazionale); li propone in termini assolutamente condivisibili e, soprattutto, tocca e ribadisce l’assoluto rispetto e la convinta adesione agli stessi ideali – la democrazia e i diritti umani – che hanno rappresentato i criteri fondamentali del sistema di valori sviluppato nel secondo dopoguerra.

Anzi, nel sostenere la loro tesi Russia e Cina si identificano come i veri rappresentati della democrazia e dei diritti umani.

In generale, quindi, il documento espone dei concetti pienamente condivisibili e assolutamente non nuovi, ribadendo la centralità delle Organizzazioni Internazionali quali elementi di sviluppo e di stabilità.

Se però si legge con attenzione il testo ci sono una serie di indizi che preludono all’atto finale di accusa rivolto contro gli Stati Uniti e contro tutto l’Occidente. Già nelle prime righe si afferma che la democrazia è un valore universale dell’umanità e non un privilegio di un limitato numero di Stati (Cap I “…the democracy is a universal human value, raher than a privilege of a limited number of State…”).

Immediatamente dopo viene esplicitato il concetto su cosa sia la democrazia definendola come il mezzo attraverso il quale i cittadini partecipano al bene comune e all’implementazione del concetto di governo popolare. La democrazia è quindi esercitata in tutte le sfere della vita pubblica e ha come scopo il soddisfacimento delle necessità del popolo, garantendone i diritti e salvaguardandone gli interessi. A questo concetto, condivisibile nella sua generalità, ne fa seguito un altro che, invece, rappresenta il vero paradigma ideologico che il documento sostiene.

Non esiste un tipo di formato la cui validità sia generale per indirizzare i Paesi verso la democrazia (Cap. I “There is no-size-fits-all template to guide countries in establishing democracy”) e dipende solamente dalla popolazione decidere se il proprio Paese è uno Stato democratico (Cap I “It is only up to the people of the country to decide wheter their State is a democratic one.”).

A questa serie di affermazioni fa da corollario il concetto che il tentativo di certi Stati di imporre il loro standard di democrazia, monopolizzando, a loro favore, un concetto universale e stabilendo alleanze esclusive finalizzate al conseguimento di una egemonia ideologica, costituisca una minaccia totale e pericolosa per la stabilità dell’ordine mondiale stesso (Cap. I “Certain States’ attempts to impose their own democratic standards…….undermine the stability of the world order.”).

L’atto introduttivo completa il presupposto ideologico con l’affermazione che il sostegno della democrazia e dei diritti umani non devono essere usati come strumento di pressione nei rapporti internazionali.

A tale proposito Russia e Cina si oppongono all’abuso dei valori democratici e al sostegno della democrazia e dei diritti umani come pretesto per l’ingerenza negli affari interni di uno Stato, chiedendo invece, il rispetto delle differenze culturali e delle differenze degli Stati, concludendo che è interesse dei firmatari promuovere una reale democrazia (Cap. I “They oppose the abuse of democratic values ……interference in internal affairs of sovereign states…..to promote genuine democracy.”).

Fatta questa premessa di carattere ideologico è nel terzo punto del documento che Cina e Russia sviluppano il loro concetto di ordine caratterizzato dai seguenti principi:

  • dichiarazione di mutuo supporto per la protezione dei loro interessi fondamentali, integrità della loro sovranità e opposizione a ogni forma di interferenza nei loro affari interni;
  • completo supporto di Mosca al principio di una sola Cina e opposizione a ogni forma di indipendenza di Taiwan;
  • contrasto di ogni tentativo da parte di Stati esterni di alterare la stabilità delle regioni di interesse e di interferire negli affari interni delle nazioni sovrane e opposizione a ogni forma di rivoluzione di qualsiasi colore.

Il testo prosegue con l’affermazione che certi Stati, certe alleanze politico militari e certe coalizioni sono ritenute responsabili di ricercare vantaggi a detrimento della sicurezza generale, stimolando rivalità e instabilità a detrimento dell’ordine pacifico. Vengono citate sia la NATO sia la AKUS quali elementi di instabilità regionale. i cui fini sono in netto contrasto, invece, con le organizzazioni promosse dalla Cina e dalla Russia.

L’affondo conclusivo evidenzia la visione degli interessi specifici di Pechino e di Mosca in merito agli scacchieri geopolitici di riferimento:

  • condanna della politica degli Stati Uniti nello scacchiere indo-pacifico, in quanto ritenuta responsabile di produrre effetti negativi sulla pace e sulla stabilità della regione;
  • supporto e condivisione da parte della Cina alle proposte avanzate dalla Russia, per dare vita ad accordi legalmente astringenti che consentano di creare delle condizioni di sicurezza durevoli in Europa.

Il documento, quindi, presenta una nuova interpretazione dei valori su cui l’Occidente basa la sua concezione filosofico-morale: la democrazia e i diritti umani non rappresentano più due concetti oggettivi ma devono essere intesi soggettivamente, a seconda delle situazioni, delle popolazioni che li devono applicare e degli Stati che ne devono salvaguardare l’applicazione. In sintesi, i valori non sono assoluti ma variano a seconda della percezione dei singoli Stati!

Con questo documento la Cina, soprattutto, ha deciso di proporsi, formalmente, come l’alternativa a un Occidente ormai ritenuto in declino, sostituendosi agli Stati Uniti come campione di valori e modelli universali. Per questo motivo ha cooptato la Russia, offrendo i termini di un accordo politico di mutuo sostegno e di cooperazione ad ampio spettro, facendo leva sulla ambizione di Mosca di riprendere il ruolo di grande potenza del quale si ritiene, ingiustamente, spodestata dall’Occidente.

Le implicazioni che derivano da questo documento sono praticamente dirompenti e volte a stravolgere il complesso delle relazioni internazionali così come concepito.

Il documento, infatti, sostiene la creazione di un sistema dove alla popolazione viene riconosciuto primariamente il diritto a poter beneficiare di un livello di sviluppo economico e sociale, ma dove libertà e interessi individuali si sfumano sino a scomparire quando sono considerati un ostacolo per la solidità e la sicurezza del sistema di governo. E perché questo modello funzioni non c’è spazio per la visione di democrazia che l’Occidente si ostina a voler imporre.

Se un tale sistema può, difficilmente, suscitare un proselitismo in Occidente, dove democrazia e rispetto dei diritti umani sono valori radicati e pienamente condivisi, vi sono tuttavia alcune tipologie di regimi che possono aderire e supportare una tale impostazione dell’ordine mondiale.

Il primo e, forse, più importante scacchiere a cui è indirizzata una tale interpretazione di un nuovo corso delle relazioni internazionali è senz’altro l’area mediorientale e nordafricana (MENA), dove la Cina è attiva da parecchio tempo. I contenuti del documento, infatti, possono costituire un’alternativa ideologica valida per gli Stati dell’area che indipendentemente dalla loro forma di governo (repubbliche nazionaliste, monarchie e regimi religiosi) potrebbero sicuramente trovare nella formula proposta del conseguimento di un benessere sociale e di uno sviluppo economico elevato, conseguenza di uno Stato autoritario, la risposta ideale alla pretesa occidentale di imporre valori che, considerati in senso assoluto universali, non tengono conto della necessità di un’applicazione soggettiva e in linea con il mantenimento primario di una formula autoritaria di Governo.

A questo punto, non è solo un sistema di valori che viene messo in discussione dal documento, ma l’intero impianto geopolitico che è stato creato dalle due guerre mondiali.

L’Occidente ha il dovere di rispondere e di sostenere i valori universali che sono i pilastri della nostra civiltà accettando la sfida e sostenendo la sua posizione, iniziando proprio da quello scacchiere del quale l’Europa è parte integrante: il Mediterraneo, l’Africa del Nord e il Medioriente.

 

La “propulsione al plasma”: la sfida tra Wuhan e Boston sulla costruzione di aerei a zero emissioni.

Sin dal primo volo aereo più di 100 anni fa, gli aeroplani sono stati azionati utilizzando superfici mobili come eliche e turbine. La maggior parte è stata alimentata dalla combustione di combustibili fossili. L’Electroaerodynamics, in cui le forze elettriche accelerano gli ioni in un fluido, viene proposta come metodo alternativo di propulsione di aeroplani — senza parti in movimento, quasi silenziosamente e senza emissioni di combustione. Tuttavia, nessun aereo con un tale sistema di propulsione a stato solido, è riuscito a spiccare il volo. La rivista Nature nel suo studio “Flight of an aeroplane with solid-state propulsion” dimostra come un sistema di propulsione a stato solido può sostenere il volo a motore, progettando e pilotando un aereo più pesante dell’aria a propulsione elettro-aerodinamica.

Leggi la pubblicazione originale sulla rivista scientifica Nature: Flight of an aeroplane with solid-state propulsion.

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La Corea del Nord e la legge di attrazione.

La bandiera del Partito dei Lavoratori di Corea, che raffigura l’emblema dell’ideologia “Juche”, ossia del socialismo nordcoreano (falce, martello e, in rappresentanza degli intellettuali, pennello calligrafico). Fonte Wikipedia

Adesso non prendetemi per pazzo. Il titolo è bizzarro, non solo per motivi di marketing o di SEO. Chi di Voi lettori ha mai sentito parlare della legge di attrazione? Ma sì dai, quella teoria bizzarra d’oltreoceano, diffusa inizialmente attraverso il libro “The Secret” (a cui poi sono seguiti una serie di “successi” editoriali), secondo cui se pensiamo intensamente e con fiducia ad una cosa, sia essa positiva o negativa si avvererà: praticamente se si pensa a ad un obiettivo personale, o ad una nostra paura, queste si materializzeranno. Se pensiamo ad una persona probabilmente la incontreremo o ci telefonerà. Ecco. Qualche volta, lo confesso, ho “applicato” la legge di attrazione e quello che avevo pensato si è verificato. Non voglio venderVi libri o teorie e non sono un coach o un motivatore. Ma erano diversi giorni – lo giuro! – che pensavo alla Corea del Nord. Ero scettico ma mi sto ricredendo.

È un argomento che mi ha sempre appassionato, per carità. Ma da diversi giorni guardavo documentari e leggevo notizie su quel Paese, sia in relazione alle normali nozioni che su di esso sono diffuse, sia alle trattative con gli USA che sembrerebbero in stallo. Molti penseranno che mi sono limitato a rinverdire le mie conoscenze a seguito del discorso di Capodanno da parte di Kim Jong-Un.

No, non è vero. Ci pensavo da prima. Ho controllato la mia cronologia internet ed è chiaro che la legge di attrazione ha funzionato. Per esempio: ho guardato sia su Sky che su Youtube (ovviamente in lingua originale) il lungo documentario del giornalista Michael Palin della BBC. Dopo pochi giorni, il 24 dicembre, una Corte statunitense ha condannato la Corea del Nord ad un risarcimento stratosferico per la morte del giovane studente 22enne Otto Warmbier, che – punito con 15 anni di lavori forzati per aver rubato un manifesto politico nell’area riservata di un hotel per turisti di Pyongyang – era ritornato a casa in coma dopo meno di un anno e mezzo di detenzione. La vicenda ormai è solo relativamente recente. Probabilmente i nordcoreani non avrebbero voluto farlo morire lì da loro (ed è strano che il giovane sia morto in seguito a torture o maltrattamenti, perché tutti i prigionieri stranieri pare vengano trattati molto bene, in qualità di merce di scambio per richieste di natura diplomatica nei confronti degli Stati di appartenenza). Ovviamente non esistono strumenti giuridici per costringere la Corea del Nord a pagare. E non credo che la DPRK impugnerà la decisione… La precisazione sull’albergo per turisti a Pyongyang è che, secondo alcuni siti internet, esistono solo pochi hotel riservati agli stranieri ed in alcuni di essi non esisterebbe il terzo o il quinto piano: vale a dire, secondo alcuni siti (di cui non escluderei comunque la matrice esageratamente complottista) un piano dell’hotel sarebbe destinato a spiare gli ospiti dell’albergo. Ecco come il giovane Warmbier sarebbe incappato nelle maglie della draconiana giustizia nordcoreana: entrando nel piano interdetto agli ospiti e trafugando, probabilmente per gioco, un manifesto di propaganda. Peccato fosse stato filmato ed arrestato all’aeroporto proprio il giorno della sua partenza verso gli States.

Successivamente, dopo qualche giorno, ho guardato i documentari sudcoreani di “Asian Boss”, in cui si intervistano alcuni disertori – o meglio defectors –  che sono scappati dal Nord per trovare rifugio al Sud, via Cina. Ebbene, dopo qualche giorno ecco il discorso di Kim Jong-Un, che ricorda agli Stati Uniti di limitare le sanzioni, salvo sospendere il processo di denuclearizzazione. Altra conferma della legge di attrazione. Ho cominciato a dare di nuovo un’occhiata in rete e mi era venuto in mente un vecchio gloriosissimo post del nostro ex Ministro degli Esteri Alfano, in cui si annunciava l’allontanamento dell’ambasciatore nordcoreano a Roma, Mun Jong-nam, come “persona non grata” (non gradita, nel senso latino del termine), in segno di protesta per i lanci missilistici del regime di Kim, peraltro sanzionati oltre che dall’ONU anche dall’UE (su European Affairs ne avevamo parlato qui).

Era un po’ che non cercavo informazioni su via dell’Esperanto, sede dell’ambasciata a Roma. Ed

L’ambasciata della DPRK in Italia, in via Esperanto 26 a Roma, secondo Google Street View.

effettivamente le informazioni sono sempre state molto poche, anche prima di tutti questi eventi. Esistono dei siti internet che diffondono i dati sulle ambasciate e sugli uffici consolari: ma sulla rappresentanza diplomatica della DPRK si trova sempre poco o nulla. Sull’ambasciatore, e anche sulla vicenda del suo allontanamento, esistono alcuni post sul sito internet della sezione italiana della KFA, l’associazione dell’amicizia della Corea del Nord. Per inciso, la KFA è un’associazione fondata da Alejandro Cao de Benós, che è un attivista spagnolo, anche cittadino nordcoreano, incaricato della DPRK per i rapporti con l’occidente. La KFA, apprendiamo dal suo sito, consente ai soci di viaggiare in Corea del Nord, in qualità di ospiti graditi, lungo degli itinerari che normalmente non sono aperti ai comuni turisti, nonché di partecipare a diverse iniziative culturali pro-DPRK. E in questo non c’è assolutamente nulla di male. Anzi. I viaggi per turisti (e per giornalisti) normalmente sono infatti sempre guidati ed organizzati.

Sembrerebbe, secondo alcuni documentari riportanti le dichiarazioni dei disertori, che in Corea del Nord anche i cittadini no

n godano del pieno diritto di circolazione all’interno del Paese. Pare che per spostarsi da una provincia all’altra o addirittura all’interno di una stessa provincia sia necessario un documento di autorizzazione. Ma questo è quanto raccontano i defectors. Ovviamente nulla è confermato, né smentito.

Mi sono sempre chiesto se l’ambasciatore partecipasse ai periodici incontri della diplomazia presente a Roma, agli auguri di Natale, alle feste nazionali dei singoli Paesi che normalmente sono oggetto di invito tra le comunità diplomatiche residenti in una Capitale. Non ho notizie certe, ma non credo che ciò sia avvenuto con frequenza. Altrimenti la cosa avrebbe destato anche un minimo scalpore. Da qualche parte, ieri, ho letto che l’ambasciatore non era completamente o del tutto accreditato Mi sembra strano perché dall’elenco delle rappresentanze diplomatiche straniere in Italia, reperibile qui sul sito del M. A. E. C. I., risulta anche l’ambasciata della DPRK.

A ora di pranzo, sempre di ieri, leggo un’agenzia in cui si dice che l’incaricato d’affari della Corea del Nord in Italia, il 48enne Jo Song-gil, che era di fatto il diplomatico di Pyongyang di rango più alto nella nostra penisola, ha disertato con tutta la sua famiglia. Ossia è scappato dalla sede diplomatica e non si sa dove sia, almeno dalla fine di novembre. Era rimasto l’unico diplomatico “operativo”, dopo l’allontanamento dell’ambasciatore. L’elemento eccezionale sembrerebbe proprio che l’incaricato d’affari fosse in Italia con la sua famiglia, cosa che – pare – non sia generalmente concessa ai diplomatici nordcoreani, proprio perché in caso di tradimento lascerebbero la propria famiglia in Patria. Molte fonti giornalistiche sostengono che in caso di tradimento o diserzione, il regime avvii dei procedimenti sanzionatori nei confronti dei familiari dei traditori. La possibilità concessa all’incaricato d’affari lascia presumere che questi fosse un soggetto di altissimo rango e di comprovata fedeltà al governo nordcoreano.

La bandiera della Repubblica Democratica Popolare di Corea (fonte Wikipedia)

Analogo episodio era occorso in Gran Bretagna, quando il vice ambasciatore, con la sua famiglia, aveva disertato e abbandonato la sua sede diplomatica.

Adesso sembrerebbe che il diplomatico accreditato in Italia, prossimo alla scadenza del suo mandato, abbia chiesto asilo politico in o ad una non meglio specificata nazione occidentale. Questo è quanto confermano fonti sudcoreane.

L’ambasciata della DPRK a Roma è sicuramente strategica, perché consente a qual Paese orientale di intrattenere relazioni diplomatiche oltre che con il Belpaese, anche con la FAO, l’IFAD ed il WFP, tutte agenzie ONU che si occupano di aiuti umanitari nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione. Alcune di esse hanno anche una rappresentanza in quel Paese. Purtroppo la Corea, negli scorsi anni, è stata colpita da numerose carestie che hanno in parte affamato la popolazione. A questo si aggiunge l’inevitabile arretratezza industriale dell’agricoltura nazionale che risente del regime sanzionatorio rivolto alla DPRK dalla comunità internazionale. Pertanto, le agenzie “alimentari” dell’ONU sono fondamentali.

La nostra Farnesina nega di essere a conoscenza di quanto abbia fatto o stia facendo il diplomatico. Non sappiamo se e quanto ci sia l’opera di una intelligence nostrana o straniera in tutto questo. Devo ammettere che non ho nemmeno idea di quali possano essere gli interessi italiani in Corea del Nord. L’Italia non ha una sua ambasciata a Pyongyang: le funzioni diplomatiche e consolari sono assolte dall’Ambasciata d’Italia a Seul, per cui gli Italiani in difficoltà in Corea del Nord possono rivolgersi all’Ambasciata svedese o alle altre ambasciate di stati dell’UE in DPRK (ad esempio quella Romena). L’unico modo di raggiungere la Corea del Nord è un volo da Pechino, da Shenyang o dalla russa Vladivostok. Il visto è obbligatorio per quasi tutti i Paesi del mondo (tranne per i cittadini di Singapore. Una volta erano esonerati dal visto anche quelli della Malesia, ma le relazioni diplomatiche tra i due Paesi si sono interrotte a seguito dell’assassinio del fratellastro di Kim Jong-Un, Kim Jong-Nam, avvenuto nel 2017 a Kuala Lampur in circostanze misteriose).

Di questa vicenda, che continuerò a monitorare, ho capito due cose: la prima è che il dossier Corea del Nord è tutt’altro che in via di risoluzione e che probabilmente gli USA non sono gli unici attori (unitamente alla Corea del Sud) nel processo di pacificazione e denuclearizzazione della penisola (mi piacerebbe molto dire riunificazione, ma sarebbe troppo), perché anche l’Europa (intesa come UE o come singoli Stati membri) presto potrebbe avere un suo ruolo.

La seconda cosa che ho capito, e che più di tutto mi stupisce, è che forse la legge di attrazione funziona davvero.

RANA PLAZA, 5 ANNI DOPO: la catastrofe che ci invita a riflettere sul fatto che viviamo in una società globale

Asia di

Era la mattina del 24 aprile del 2013 quando a Dhaka, la capitale del Bangladesh, un edificio commerciale di 8 piani crollò alle 8:45 lasciando solo il piano terra intatto. Chi era presente lo descrisse come un terremoto ma la notizia più tragica fu la conferma che 3.650 operai erano presenti al momento del crollo. Il bilancio finale fu di 1.135 morti e 2.515 feriti. Il Rana Plaza, il nome dell’edificio commerciale, conteneva fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Fu uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna ed è diventato il simbolo dello sfruttamento della manodopera asiatica da parte degli appaltatori delle multinazionali dell’abbigliamento che fanno finta di non sapere cosa succede all’altra estremità della catena. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. I dipendenti delle fabbriche di abbigliamento lavoravano in condizioni indegne e senza misure di sicurezza, fu ordinato loro di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina. Tra i dipendenti più della metà erano donne accompagnate dai figli che erano stati lasciati negli asili nido aziendali all’interno dell’edificio. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per marchi quali: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee. Le scene seguenti vedono i parenti delle vittime in fila per il riconoscimento all’obitorio, li con una sensazione di malessere che aumentava e i passi che diventavano sempre più pesanti, li sospesi in un limbo ad aspettare di conoscere la sorte di familiari o amici. Si vedono, inoltre, anche operai sopravvissuti partecipare alle operazioni di soccorso e fotografi che fanno di tutto per documentare il disastro e diffondere in tutto il mondo la sofferenza di migliaia di lavoratori. È grazie a questi che possiamo vedere gli ultimi momenti strazianti di due persone che non si sono volute separare fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo abbraccio.

April 25, 2013 – “A Final embrace” di Taslima Akther

Questo è solo uno dei numerosi incidenti accaduti in Bangladesh negli ultimi 10 anni e la stessa Dhaka ha visto un terribile incendio nel 2012 che uccise almeno 112 lavoratori. I responsabili si sono rifiutati di lasciare che i lavoratori fuggissero anche dopo che gli allarmi antincendio si sono attivati e nessuna delle fabbriche coinvolte avevano un sindacato per rappresentare i lavoratori e per aiutarli a combattere contro le richieste mortali dei gestori. Ali Ahmed Khan, capo del servizio antincendio e della protezione civile, disse che i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’architetto dell’edificio, Massoud Reza, affermò che l’edificio era stato progettato per ospitare solo negozi e uffici, non fabbriche. L’edificio non era progettato con una struttura abbastanza forte da sopportare il peso e le vibrazioni dei macchinari pesanti. Le operazioni di salvataggio e recupero proseguirono nei 17 giorni successivi al crollo, il 10 maggio fu salvata, quasi illesa, dalle macerie una donna di nome Reshma.

Sohel Rana, proprietario del palazzo, venne arrestato qualche giorno dopo il crollo, mentre cercava di fuggire in India. È una delle 42 persone che le autorità del Bangladesh hanno incriminato per omicidio, con l’accusa di avere ignorato gli avvertimenti sulla fragilità e l’insicurezza dell’edificio e le raccomandazioni, ricevute il giorno prima del crollo, di non consentire l’ingresso ai lavoratori. Rana è accusato insieme ad altre diciassette persone anche di avere violato il regolamento edilizio, per avere trasformato illegalmente il palazzo in un complesso industriale di nove piani. Due giorni dopo il crollo dell’edificio, i lavoratori tessili delle zone industriali di Dhaka, Chittagong e Gazipur hanno dato luogo ad insurrezioni, prendendo di mira veicoli, edifici commerciali e fabbriche di abbigliamento. Successivamente i partiti politici di sinistra e il Partito Nazionalista del Bangladesh hanno chiesto l’arresto e il processo dei sospettati e l’istituzione di una commissione indipendente per identificare le fabbriche pericolose. Il 1º maggio i lavoratori protestarono e sfilarono a migliaia attraverso il centro di Dhaka per chiedere condizioni di lavoro più sicure e la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza. I funzionari governativi locali riferirono di essere in trattative con l’Associazione dei produttori ed esportatori del Bangladesh per pagare gli stipendi in sospeso, più altri tre mesi. Dopo che i funzionari hanno promesso ai lavoratori sopravvissuti che sarebbero presto pagati, questi hanno concluso la loro protesta. L’associazione ha quindi compilato un elenco dei dipendenti sopravvissuti. Il giorno dopo, 18 industrie di abbigliamento, di cui 16 a Dacca e 2 a Chittagong, sono state chiuse. Il Ministro per l’industria tessile, Abdul Latif Siddique, ha detto ai giornalisti che sarebbero state chiuse ancora più fabbriche nell’ambito di rigorose nuove misure per garantire la sicurezza. A giugno dello stesso anno però la polizia ha aperto il fuoco su centinaia di ex lavoratori e di parenti delle vittime del crollo, che protestavano per chiedere gli arretrati e i risarcimenti promessi dal governo e dall’associazione dei produttori. La stessa scena si è avuta a settembre quanto almeno 50 persone sono rimaste ferite quando la polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro una folla di manifestanti che bloccavano le strade di Dhaka.

Il caso Rana Plaza ha suscitato numerose proteste in giro per il mondo che hanno coinvolto anche le aziende non coinvolte direttamente nell’incidente ma che utilizzano fabbriche in Bangladesh. L’International Labour Organization (ILO) nei giorni successivi al disastrò avverti di non boicottare i prodotti Made in Bangladesh poiché avrebbe causato un numero elevato di disoccupati ma occorreva porsi l’obiettivo da porsi di migliorare e cambiare le condizioni di lavoro. Lo scopo, ancora oggi, è di cambiare il modo in cui i paesi cercano di attrarre investimenti stranieri. È il modello di business che deve essere cambiato poiché i costi bassi non devono essere perseguiti a scapito della vita delle persone e della loro sicurezza. Nel 2015 Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto Whoever Raises their Head Suffers the Most” che si basa su interviste con più di 160 lavoratori di 44 fabbriche, la maggior parte delle quali sono imprese commerciali al dettaglio in Nord America, Europa e Australia. Nelle interviste sono state segnalate violazioni come aggressioni fisiche, abusi verbali (anche di natura sessuale), lavoro straordinario forzato, negazione del congedo di maternità retribuito e il vizio di non pagare gli stipendi e i bonus in tempo o in pieno. Nonostante le riforme del diritto del lavoro, i lavoratori che cercano di formare i sindacati devono affrontare minacce, intimidazioni, il licenziamento e aggressioni fisiche per mano dei datori di lavoro o per opera di picchiatori assunti. Ad esempio, in una fabbrica di Dhaka, alcune leader sindacali femminili hanno dovuto affrontare minacce, abusi, ed hanno dovuto subire un aumento drammatico dei carichi di lavoro, dopo aver presentato i moduli di registrazione del sindacato. Nelle interviste con Human Rights Watch, sei donne che hanno contribuito all’istituzione del sindacato hanno detto che sono state perseguitate per questa sola ragione, ricevendo persino minacce a casa di alcune di loro. Non appena sono stati presentati i moduli di registrazione, i gangster locali sono andati a casa delle donne e le hanno minacciate dicendo “Se ti avvicini alla fabbrica ti spezziamo le mani e le gambe”.

“Collapse of Rana Plaza” di Rahul Talukder

I “Rana Plaza” europei

Il fenomeno interessa strettamente anche l’Europa, un rapporto di Clean Clothes Campaign rivela condizioni di grave sfruttamento nella produzione di abbigliamento “Made in Europe”. Il rapporto documenta bassi salari endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Per molti marchi questi paesi rappresentano paradisi per i bassi salari e molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo che questo concetto sia sinonimo di “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. Inoltre, i salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili e vedono soprattutto lavoratrici raccontare che a volte non hanno nulla da mangiare o che a mala pena riescono a pagare le bollette. Le interviste a lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo. Tra le condizioni di lavoro pericolose vi è l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento. Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato o perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è: “Quella è la porta”. A essere coinvolte sono tre milioni di persone: in Turchia, Georgia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bosnia, Croazia, Slovacchia. Queste vengono sottopagate da marchi come Zara, H&M, Hugo Boss, Nike, Levi’s, Max Mara, Benetton, Versace, Dolce e Gabbana e Prada. Queste persone vengono pagate con salari che si aggirano intorno al 30% della media nazionale. Inoltre, vengono messe in atto strategie retributive per nascondere il non raggiungimento dei minimi salariali. Si va dalla “sottrazione di congedi retribuiti e dello straordinario” alle irregolarità dei congedi stessi. Poi in tutta l’aria geografica presa in considerazione dalla ricerca, sembra sia prassi non dare ai lavoratori stipendi arretrati e liquidazioni dopo la chiusura degli stabilimenti.

5 anni dopo il Rana Plaza

Il 17 aprile, a una settimana dal quinto anniversario del crollo, la “Campagna Abiti Puliti” (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) e i suoi alleati hanno iniziano una sette giorni di pressione sui marchi internazionali affinché si assumano le loro responsabilità nel garantire fabbriche sicure in Bangladesh firmando l’Accordo di Transizione 2018. L’Accordo porta avanti il lavoro svolto con l’attuale Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh sottoscritto nel 2013, a partire dalla scadenza di maggio. L’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh ha contribuito in maniera significativa a migliorare la sicurezza delle fabbriche in quel Paese. Un’estensione dell’inziale programma quinquennale è stata già firmata da oltre 140 marchi, coprendo più di 1.300 fabbriche e circa due milioni di lavoratori. L’obiettivo è di aumentare il numero di operai salvaguardati rispetto al precedente accordo. Il nuovo accordo offre la possibilità di includere anche fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento. È ad esempio il caso di marchi come IKEA, chiamati ad assumersi anche loro la responsabilità di garantire la sicurezza per i propri lavoratori. L’Accordo 2018 include disposizioni migliorate per il risarcimento per i lavoratori infortunati e riconosce l’importanza della libertà di associazione sindacale nell’assicurare che i lavoratori abbiano voce in capitolo nella protezione della propria sicurezza. I tecnici dell’Accordo hanno ispezionato più di 1.900 fabbriche di abbigliamento bengalesi fornitrici dei marchi che lo hanno sottoscritto. Grazie a questo accordo i tecnici sono stati in grado di correggere 97.000 rischi per incendi, problemi elettrici e strutturali; inoltre, l’accordo è stato in grado di risolvere 183 reclami formulati dai lavoratori. Nel gennaio 2018 IndustriALL e UNI hanno raggiunto un accordo, nell’ambito del meccanismo legalmente vincolante dell’Accordo, che prevede un impegno a pagare 2,3 milioni di dollari da parte dei marchi internazionali da destinare alla messa in sicurezza di più di 150 fabbriche sue fornitrici.  Questo, dopo un altro accordo di successo con un marchio globale inadempiente, presso il tribunale arbitrale dell’Aia nel dicembre 2017.

La catastrofe del Rana Plaza ha avuto degli effetti positivi come quello di risvegliare l’opinione pubblica dei paesi sviluppati e quello di stimolare le organizzazioni internazionali che proteggono i diritti degli operai tessili in Asia. Il Bangladesh, secondo esportatore di abiti al mondo (dopo la Cina), ha beneficiato di questa mobilitazione, culminata con la firma di un accordo sulla sicurezza patrocinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro di cui abbiamo appena visto gli effetti. Rimane però ancora molto da fare. Migliaia di strutture in Bangladesh non hanno ancora sottoscritto l’accordo per cui varie associazioni stanno lottando per l’estensione fino al 2021. Il lavoro minorile resta un problema enorme, come le condizioni salariali dei lavoratori tessili, e gli scioperi proclamati in Bangladesh per sostenere rivendicazioni in questo senso sono stati duramente repressi. A questo punto abbiamo tutti il dovere di riflettere dato che il fenomeno investe anche l’Europa e le fabbriche in Europa. Le grandi aziende dovrebbero riflettere sul loro modello economico basato sull’abbassamento dei prezzi e i consumatori dovrebbero chiedersi qual è il costo umano dietro ai vestiti. Ed è quello che ci invita a fare il documentario “True Cost” del 2015. Siamo sempre più disconnessi dalle persone che confezionano i nostri vestiti e ci sono circa 40 milioni di lavoratori nel settore tessile, molti dei quali non condividono gli stessi diritti o protezioni di molte persone in Occidente. Costantemente abbiamo avuto modo di vedere lo sfruttamento del lavoro a basso costo e la violazione dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei diritti umani in molti paesi in via di sviluppo in tutto il mondo. L’industria della moda rappresenta uno dei più grandi punti di connessione per milioni di persone. La moda è un mondo che parte dall’agricoltura, passa per la produzione e finisce nella vendita al dettaglio e, ad oggi, abbiamo alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza e distruzione ambientale che il mondo abbia mai visto. Questi sono i risultati della cosiddetta “Moda veloce”, l’industria della moda oggi si può riassumere con il motto “vai veloce o vai a casa”. Un capo di abbigliamento dura in media cinque settimane e per produrlo ci vogliono tra le sei e le otto settimane. Al posto delle tradizionali collezioni “autunno-inverno” e “primavera-estate”, un marchio fast fashion può produrre due ministagioni a settimana con enormi costi umani e ambientali, dovuti alla produzione di cotone e alla tinteggiatura dei tessuti. Ovviamente con elevati guadagni da parte di queste multinazionali. Il problema è che un boicottaggio non avrebbe senso perché danneggia chi si vorrebbe aiutare, un punto di partenza è chiedersi “chi ha fatto i miei vestiti?” per riflettere sui meccanismi di produzione e fare pressione sui grandi marchi. Dobbiamo trovare un modo per continuare a operare in un mondo globalizzato che valuti le persone e il pianeta come essenziali. Come clienti in un mondo sempre più disconnesso, è importante sentirsi in contatto con i lavoratori che confezionano i nostri vestiti e informare i marchi che ci prendiamo cura di queste persone e della loro voce. Perché, come ci ricorda la rivista “Internazionale” con il suo mini-documentario in 6 parti, “ci sono vite dietro le etichette.

Afghanistan: Passaggio di consegne alla “Joint Air Task Force”.

Asia/SICUREZZA di

Si è svolta a Herat, presso “Camp Arena”, sede del contingente militare italiano del Train Advise Assist Command West(TAAC-W), la cerimonia del passaggio di consegne della Joint Air Task Force (JAFT). Il comando sarà affidato al Colonnello Cosimo De Luca, che subentra al comandante uscente Luca Tonello. La JAFT, costituita nel 2007 è composta da militari provenienti da tutti i reparti dell’Aereonautica Militare. Dal 2015, in concomitanza con la fine della missione ISAF e l’inizio della missione NATO “Resolute Support”, gestisce l’aeroporto di Herat e si occupa della formazione tecnico professionale degli operatori del settore. Durante la cerimonia il Colonnello Luca Tonello, con un discorso di commiato, ha ringraziato vivamente tutte le articolazioni del TAAC-W, sottolineando in particolare “ la professionalità e l’assoluta dedizione” del personale della JAFT. Durante il proprio periodo di comando sono state portate a termine le attività  di addestramento  del personale dell’Afghan Civil Aviation Authority(ACAA) nelle funzioni essenziali per la gestione dell’aeroporto, il tutto in un periodo di transizione da una gestione diretta dell’aeroporto con personale dell’Aereonautica Militare, ad una gestione per il tramite di ditte civili contrattualizzate dalla NSPA  (contractors).  Quest’ultima è la principale agenzia di logistica e approvvigionamento dell’organizzazione NATO. Il comandante Cosimo De Luca dovrà gestire la transizione alla successiva fase di integrazione del personale afghano all’interno degli organici dei “contractors” e assicurare il completamento dell’addestramento del rimanente personale ACAA. Alla cerimonia erano presenti numerose autorità civili e militari. Il comandante del contingente italiano del TAAC-W, Massimo Biagini, ha maturato parole di elogio nei confronti della JAFT: “ La JATF ha svolto e svolge un ruolo fondamentale sia per lo sviluppo dell’aeroporto di Herat, sia per la funzionalità del supporto aereo alle forze della coalizione” .  Hanno partecipato inoltre il Direttore dell’Aeroporto Internazionale Mr. Mohammad Azam Azami e l’Head of Office della Nato Support and Procurment Agency (NSPA), Mr. Gerry Holden.

Dure parole dell’UE contro la Corea del Nord e il Myanmar.

Il 16 ottobre è stato un giorno intenso anche sotto il punto di vista delle operazioni più squisitamente politiche dell’UE.

Prima di tutto il Consiglio ha adottato delle conclusioni sul Myanmar/Birmania, abbastanza dure, in cui si legge che “la situazione umanitaria e dei diritti umani nello Stato di Rakhine è estremamente grave” per via delle notizie, recentemente diffuse, su violenze nei confronti della popolazione e di gravi violazioni dei diritti umani (uso di mine, violenza di genere, uso indiscriminato di armi da fuoco). Nel documento si parla della popolazione Rohingya, che sta fuggendo in Bangladesh, e si lancia un appello a tutte le parti in conflitto

Rohingya in fuga verso il Bangladesh su mezzi di fortuna (fonte www.rai.it)

affinché le violenze cessino. Nel frattempo, l’UE ha intensificato l’assistenza umanitaria a favore dei rifugiati Rohingya in Bangladesh e si è dichiarata pronta a estendere le proprie attività a favore di tutte le persone in stato di necessità nello Stato di Rakhine, una volta che venga consentito l’accesso ad una sua missione (in virtù del principio giuridico internazionale secondo il quale uno Stato in crisi debba necessariamente acconsentire all’ingresso di organizzazioni internazionali nel suo territorio). 

D’altro canto – si legge in una nota – l’UE si è compiaciuta del fatto che alcuni enti governativi si stiano occupando del triste fenomeno dell’apolidia dei Rohingya e che il governo si stia in qualche modo impegnando a consegnare alla giustizia  i responsabili delle violazioni dei diritti umani (spesso commesse anche nei confronti di minori) e lo ha invitato a collaborare con la Commissione Internazionale dei Diritti Umani dell’ONU, che ha stabilito una missione in quei territori.

Nel contempo però, l’UE ha stigmatizzato lo sproporzionato uso della forza da parte delle forze di sicurezza ed ha annunciato che rivedrà tutti gli accordi di cooperazione concreta in materia di difesa, confermando la permanenza del vigente embargo su armi e affini e promettendo anche misure più drastiche, in ogni sede, qualora la situazione dovesse non mutare.  Insomma: una situazione ancora in divenire, e dagli scenari mutevoli, anche perché in Myanmar esiste una Delegazione UE, ossia una vera e propria ambasciate dell’Unione, che dipende dal Servizio di Azione Esterna.

Una delle strade “deserte” di Pyongyang, capitale della Corea del Nord.

Altro fronte aperto rimane quello della Corea del Nord. Il 16 ottobre il Consiglio in versione “Affari esteri” ha infatti discusso del dossier, con particolare riferimento allo sviluppo di armi nucleari e di missili balistici che hanno violato totalmente ogni risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite al riguardo.

L’UE ha comminato ulteriori sanzioni, che rafforzano quelle già decise in ambito ONU:

 

  • il divieto totale di investimenti dell’UE in Corea del Nord, in ogni settore: in precedenza il divieto era circoscritto agli investimenti nell’industria nucleare e delle armi convenzionali, nei settori minerario, della raffinazione e delle industrie chimiche, della metallurgia e della lavorazione dei metalli, nonché nel settore aerospaziale. Ora non si può investire più in Nord Corea. 
  • il divieto totale della vendita di prodotti petroliferi raffinati e petrolio greggio, senza alcuna limitazione in pejus. Prima c’erano dei limiti, già insopportabili, che comunque permettevano un minimo commercio di idrocarburi. Ora tutto questo non sara proprio più possibile. 
  • la riduzione dell’importo delle rimesse personali, da parte dei nordocreani residenti all’estero, da 15.000  a 5.000 euro, in ragione dei sospetti che queste siano utilizzate per sostenere programmi illegali connessi al nucleare o ai missili balistici. Quindi, difficoltà anche a spedire i soldi a casa: non verranno nemmeno rinnovati i permessi di lavoro per i cittadini nordcoreani presenti nel territorio dell’Unione (tranne per coloro che godono della protezione internazionale, perché rifugiati. In poche parole, solo ai dissidenti del regime dei Kim verranno garantiti lavoro ed assistenza). 

Il Consiglio ha inoltre inserito negli elenchi delle persone ed entità soggette al congelamento dei beni e a restrizioni di viaggio tre persone e sei società che sostengono i programmi nucleari illeciti. Sono quindi 41 le persone e 10 le società sottoposte a misure restrittive nei confronti della Corea del Nord – che si aggiungono alle 63 persone e 53 entità designate dalle Nazioni Unite – a cui si sta cercando in tutti i modi di “tarpare le ali” per fare pressione sul (pericoloso) governo di Pyongyang. 

(fonte www.consilium.europa.eu)

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Domenico Martinelli
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