GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

Israele, il governo di solidarietà nazionale è un ibrido

Lunedì notte Benjamin Netanyahu e Benny Gantz hanno firmato l’accordo di Coalizione per l’Istituzione del Governo d’Emergenza di Unità Nazionale, un fascicolo di 16 pagine perlopiù atte ad evitare che uno dei due firmatari possa soverchiare l’altro.

L’intesa è stata trovata dopo che le precedenti trattative tra il Likud e il Blu e Bianco per formare un governo erano fallite nuovamente e, a più di un anno dalla crisi politica che ha investito il paese, per la seconda volta nell’arco di 12 mesi il presidente Reuven Rivlin aveva concesso in data 16 aprile un periodo di 21 giorni alla Knesset per designare un membro del parlamento idoneo a formare una maggioranza al proprio interno.
Nonostante il primo turno per la carica presidenziale verrà assunto da Netanyahu per 18 mesi, dai termini dell’accordo sembra che sia Benny Gantz ad incidere maggiormente sulla prossima legislatura; ad esempio molti deterrenti e contraltari sono posti al capo di Likud, come la previsione di un lungo periodo prima delle elezioni, in caso venissero indette da Netanyahu, in cui ad assumere il ruolo di primo ministro sarebbe lo stesso Gantz; inoltre tradire l’accordo di governo varrebbe a dire per il Likud un’enorme perdita di consensi in vista di eventuali elezioni.

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Israele: l’accordo per il governo d’emergenza e il possibile vaccino

Questa mattina il ministro della salute israeliano Yaakov Litzman ha annunciato tramite un comunicato ministeriale che nell’ultima giornata si è registrato il maggiore aumento di casi di contagio nel paese; nelle ultime 24 ore infatti il numero di contagiati è salito di 760 casi, per un totale di 6.200 pazienti e 30 morti. 

Come evidenziano i dati Gerusalemme è la città più colpita, ma ciò che suscita interesse è il fatto che il secondo focolaio più grande del paese stia a Bnei Brak, una città di 185mila cittadini abitata prevalentemente dalla comunità haredi (ortodossa); solo nell’ultima giornata si è registrato un amumento di 159 pazienti affetti dal virus, per un totale di 730 casi. Le varie testate nazionali hanno riportato il fatto con notevole interesse poiché oltre alla cittadina in questione si è rilevato che il virus ha maggiore contagio in altre zone a prevalenza ortodossa, tant’è che l’esecutivo stesso sta valutando se decretare una quarantena differenziata per questi bacini, per via della reticenza delle comunità ortodosse a seguire le disposizioni sanitarie.
In un’ottica più ampia Israele è il secondo paese del Medio Oriente per contagi dopo l’Iran, dove il virus ha impattato fortemente e sta portando la Repubblica Islamica a dichiarare un’emergenza sanitaria disastrosa; tuttavia Gerusalemme sta dando notevoli risposte alla crisi pandemica sul piano politico e tecnologico, le quali se concretizzate potrebbero rinsaldare il ruolo di leadership nel quadrante medio-orientale.
Difatti in questa settimana i due partiti che da ormai più di un anno si contendono la guida del paese, ovvero il Likud di Netanyahu e il Blu e Bianco di Gantz, dovrebbero concludere un accordo per spartirsi l’esecutivo e formare un governo di coalizione per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In virtù dell’accordo i rispettivi leader divideranno nell’arco della legislatura la carica di premier e, a meno di imprevisti, Netanyahu, che guiderà il governo nella prima fase, finirà la sua carriera politica nel 2021, allo scadere dei 18 mesi previsti; dall’altra parte Benny Gantz in attesa di succedere al capo di Likud è stato già eletto presidente della Knesset il 26 marzo, con l’appoggio compatto dei parlamentari di Likud e successivamente, alla ratifica dell’accordo per il nuovo esecutivo, dovrebbe essere investito della carica di ministro della Difesa.
Sembrerebbe quest’evento una vera svolta per Israele in quanto tre consultazioni elettorali, la prima il 9 aprile dell’anno passato, non sono riuscite a dare al paese una leadership, tenendo in sospeso alcuni temi; ciononostante il nuovo governo di unità nazionale, secondo le indiscrezioni riportate dai media israeliani, dovrebbe essere costituito al solo scopo di far fronte all’emergenza e quindi difficilmente lavorerà sulle annose questioni che da anni affliggono Israele, come i rapporti con la Palestina o la questione della Cisgiordania. Sul fronte interno l’azione comune dei due leader ha creato non pochi scontenti nelle rispettive file, soprattutto sul versante Blu e Bianco. Il neo partito, fondato un anno fa a seguito di una coalizione elettorale fra i partiti Resilienza per Israele del generale Gantz e Yesh Atid del giornalista Yair Lapid, sta subendo una sorta di fuoriuscita da parte dell’ala più progressista, facente capo a quest’ultimo.
“Abbiamo formato Blu e Bianco per offrire un’alternativa al popolo israeliano, un partito centrista decente, onesto e basato su dei valori. I risultati delle elezioni hanno dimostrato che il paese aveva bisogno di un’alternativa, che è necessaria quanto l’aria, ma Benny Gantz oggi ha deciso di strisciare nel nuovo governo di Netanyahu, una decisione deludente. Questo non è un governo di unità, è un nuovo governo di Netanyahu. Gantz si è arreso e si è unito con il blocco estremista-ortodosso” ha detto Lapid lo stesso giorno dell’investitura di Gantz a capo della Knesset, aggiungendo che il suo blocco, quello ex-Yesh Atid, ha presentato la richiesta per fuoriuscire dalla coalizione e tornare a fare opposizione assieme al gruppo Telem e altri di sinistra.
Più in generale questo è il prezzo che ha dovuto pagare Gantz per unirsi nel governo con Likud; a sua difesa l’ex generale ha capito che tornare per la quarta volta a elezioni senza che vi sia stato un reale cambiamento avrebbe potuto rivelarsi il punto di non ritorno politicamente parlando, visto che il Likud negli ultimi sondaggi veniva dato in crescita, e che le ultime tre tornate elettorali sono costate allo stato circa due miliardi di dollari. D’altronde questa decisione ha spaccato in due il partito che in un anno era riuscito ad essere una seria alternativa al premier più intaccabile della storia di Israele, complice l’ampio spazio politico che è riuscito a ottenere nei momenti di opposizione: come per il Movimento 5 Stelle in Italia, Blu e Bianco non ha una definita posizione sulla tradizionale linea di lettura sinistra-destra, occupa un posto centrale e per certi versi è a metà tra il conservatorismo, una caratteristica diffusa nella politica israeliana, e il secolarismo-progressista in chiave anti-ortodossa (nelle posizioni di vertice), si è spesso detto a favore di un’apertura al dialogo con i partiti di sinistra mantenendo però una certa diffidenza verso le liste a maggioranza araba, ma soprattutto ha sempre avuto una continua avversione contro Benjamin Netanyahu, più volte definito dallo stesso Gantz un despota disonesto, paragonandolo ad Erdogan.
Nel frattempo, a margine di queste ultime vicende politiche, Israele si sta rendendo protagonista nel mondo per la sua ricerca contro il COVID-19. Secondo quanto riferito dal dott. Chen Katz, capo del dipartimento di biotecnologia del Migal Galilee Research Institute, l’istituto potrebbe presto trovare il vaccino contro il virus, in quanto già da quattro anni il Migal si sta concentrando sulla ricerca per un vaccino contro la famiglia dei coronavirus come la SARS e il MERS. Il vaccino dovrebbe consistere in una proteina e presto potrebbe arrivare, tuttavia anche se ultimato bisognerà aspettare i risultati di alcuni test e le pratiche d’ufficio prima di metterlo a disposizione; per questo il Migal sta cercando un partner disposto a snellire l’iter burocratico.

Gli USA sanzionano il Ministro degli Esteri iraniano

La tensione tra gli Sati Uniti e l’Iran continua la sua escalation. L’amministrazione Trump ha imposto sanzioni contro il Ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif lo scorso mercoledì con la motivazione di “aver agito o aver tentato di farlo per conto, direttamente o indirettamente” del leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, già sanzionato a fine giungo, secondo le informazioni fornite dal Ministero del Tesoro americano. Javad Zarif ha reagito rapidamente alla notizia, pubblicando un messaggio su Twitter in cui in modo piuttosto ironico  dichiara: “Grazie per avermi considerato una minaccia così grande per la vostra agenda”.

“Javed Zarif segue l’agenda imprudente del leader supremo dell’Iran ed è il principale portavoce  del regime in tutto il mondo. Gli Stati Uniti stanno inviando un chiaro messaggio al regime iraniano con l’intento di far capire che il suo recente comportamento è inaccettabile”, ha dichiarato il segretario del Tesoro Steven Mnuchin. “Mentre il regime nega ai suoi cittadini l’accesso ai social network, il Ministro iraniano diffonde propaganda e disinformazione in tutto il mondo attraverso queste piattaforme”, ha aggiunto Mnuchin.

Le sanzioni al capo della diplomazia iraniana includono il congelamento di tutti beni di sua proprietà negli Usa, nonché il divieto di trattare con lui a qualsiasi persona o entità nel territorio statunitense. “Non ha alcun tipo di effetto su di me e sulla mia famiglia, dal momento che non ho proprietà o interessi al di fuori dell’Iran”, ha risposto il Ministro, che ha aggiunto: “Il motivo delle sanzioni americane è che sono il portavoce dell’Iran nel mondo”. Quando Washington  sanzionò l’Ayatollah Ali Khamenei, Mnuchin annunciò che il prossimo della lista sarebbe stato proprio Javad Zarif. Tuttavia, la punizione è stata ritardata dopo che i funzionari del Dipartimento di Stato hanno cercato di dissuadere gli ordini del Presidente perché l’azione avrebbe chiuso in maniera defintiva la porta alla diplomazia, secondo il Washignton Post.

Il governo americano afferma che con questa azione non si sta chiudendo la porta a possibili colloqui sulla situazione relativa al nucleare con l’Iran. Inoltre, “se dobbiamo avere un contatto ufficiale con l’Iran, vorremmo che fosse con qualcuno che sia in una posizione tale da prendere decisioni”, ha detto il funzionario dell’amministrazione Trump alla stampa, screditando in tal modo il ruolo del Ministro degli Esteri Zarif. Le dichiarazioni sono particolarmente  delicate in un momento in cui la tensione è ai massimi livelli, iniziato lo scorso 8 maggio 2018 con il ritiro degli Usa  dall’accordo nucleare.

Di Mario Savina

UK conferma la cattura di due navi nello Stretto di Hormuz.

La Gran Bretagna ha confermato nella giornata di venerdì il sequestro da parte iraniana di due imbarcazione nello Stretto di Hormuz, una delle quali è stata già rilasciata. Il Ministro degli Esteri inglese Jeremy Hunt ha dichiarato la sua preoccupazione nelle scorse ore, descrivendo queste azioni inaccettabili.

Inizialmente la Guardia Rivoluzionaria iraniana ha annunciato la cattura  di una petroliera britannica durante l’attraversamento dello Stretto di Hormuz per “non aver rispettato la legge marittima internazionale”. L’incidente, poche ore dopo che un tribunale di Gibilterra aveva esteso  la detenzione della nave iraniana Grace1 a 30 giorni, segna una nuova svolta nello scontro che Teheran sta affrontando con l’Occidente da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’accordo nucleare lo scorso anno.

Un comunicato militare che ha dato voce a tutti i media iraniani identifica la petroliera intercettata come la Stena Impero. Secondo i dati visionati da siti web di monitoraggio marittimo, la nave stava navigando attraverso acque internazionali tra l’Iran e gli Emirati Arabi Uniti quando improvvisamente ha cambiato rotta, dirigendosi verso le coste iraniane. Una fonte militare non identificata citata dall’agenzia iraniana IRNA ha indicato che la nave aveva “disattivato il suo localizzatore e ignorato diversi avvertimenti prima di essere catturata”. In mattinata l’Iran ha giustificato tale atto come conseguenza del comportamento della stessa Stena Impero, che avrebbe ignorato più volte la richiesta di soccorso da parte di una piccola imbarcazione travolta poco prima dalla stessa nave britannica. Questa giustificazione, negata dall’armatore, si inserisce nella strategia con cui Teheran sta rispondendo alla politica di massima pressione americana.

 “La Stena Impero si è scontrata con una piccola barca da pesca”, ha riferito Alahmorad Afifipur, direttore generale degli affari marittimi della provincia di Hormuz, citato dall’agenzia IRNA. Secondo questo ufficiale, l’equipaggio avrebbe cercato di comunicare con la petroliera, ma no avendo ricevuto nessuna risposta avrebbero comunicato l’accaduto al proprio dipartimento. Di conseguenza, sarebbe stato l’ordine alle forze navali di condurre la nave britannica al porto di Bandar Abbas, dov’è in corso l’inchiesta. I 23 membri dell’equipaggio rimangono a bordo. La società proprietaria della Stena respinge tali accuse assicurando che la nave abbia rispettato tutte le normative e che si trovasse in acque internazionali al momento del sequestro. Viene confermato anche che l’equipaggio è in buone condizioni.

La seconda petroliera sequestrata dagli iraniani, il Mesdar, ha continuato il suo viaggio dopo essere stata rilasciata. La nave, che sventola bandiera liberiana ma di proprietà inglese, circa 40 minuti dopo l’assalto alla Stena Impero ha svoltato bruscamente in direzione Arabia Saudita per fare poi rotta verso l’Iran. Al momento quest’ultimo non ha comunicato la cattura di una seconda nave. Il governo inglese sta esaminando con urgenza lo stato della Stena Impero. Londra “monitora attentamente la situazione dai resoconti di un possibile incidente nel Golfo” ha confermato la BBC, che riporta una riunione del Comitato di emergenza Cobra. Lo scorso 9 luglio la Gran Bretagna aveva portato il livello di minaccia alle navi inglesi che attraversano questa zona a “critico”, il livello più alto.

Per il presidente statunitense Donald Trump, l’incidente darebbe ragione alla politica assunta dagli Usa nei confronti dell’Iran, confermando i continui problemi causati dal Paese mediorientale ma mostrandosi abbastanza indifferente all’accaduto, ritenendolo una questione britannica e non americana. L’episodio si aggiunge ad un clima di alta tensione nelle acque che circondano lo Stretto di Hormuz, dove transita un quinto del petrolio consumato nel mondo. Secondo molti analisti la responsabilità di tale situazione è da imputare al comportamento iraniano, assunto in risposta alle sanzioni statunitensi imposte al Paese. Giovedì gli Usa avevano comunicato che un drone iraniano era stato abbattuto dopo essersi avvicinato a meno di un chilometro dalla nave da guerra anfibia USS Boxer e aver ignorato più volte le richieste di ritirarsi. Fatto smentito dalle autorità iraniane e dai suoi militari.

Di Mario Savina

Libia, la Francia conferma “nostri i missili”

AFRICA/Medio oriente – Africa di

Il governo francese si trova in una situazione di forte imbarazzo viste le ultime notizie che lo collegano in maniera “negativa” al maresciallo Khalifa Haftar, il militare di 76 anni che ha iniziato l’assedio di Tripoli nell’aprile scorso dando luogo ad uno scontro con le brigate del governo di accordo nazionale, sostento dall’ONU, in cui si stimano ad oggi mille morti, tra cui più di cento civili. L’esecutivo di Emmanuel Macron è stato costretto a confermare nella giornata di mercoledì che i quattro missili ritrovati in un campo delle truppe di Haftar appartengono alla Francia, anche se ha assicurato che sono inutilizzabili.

Il Governo di Unità Nazionale, con sede a Tripoli e riconosciuto dalle Nazioni Unite, è riuscito ad espellere le truppe di Haftar dalla città di Gharian il 26 giugno, ottanta chilometri a sud della capitale. Durante il recupero di questa enclave  le brigate fedeli a Serraj hanno ritrovato quattro missili Javelin. Le armi erano state vendute dagli Stati Uniti alla Francia, secondo il New York Times. Fonte della Difesa transalpina hanno confermato che i missili appartengono alla Francia, sottolineando che si trattano di unità “danneggiate e fuori uso”, che dovrebbero essere distrutte e che non costituiscono una violazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite dal 2011. Ma questa spiegazione, come sottolinea anche il New York Times, non chiarisce come quei missili siano finiti in un campo delle truppe di Haftar, situato nei pressi di un fronte di guerra. Il governo guidato da Serraj ha denunciato in numerose occasioni che sia l’Egitto che gli Emirati Arabi Uniti avrebbero rotto l’embargo per fornire armi ad Haftar. Allo stesso modo, dalla parte opposta, Haftar sostiene che la Turchia fornisca droni a Tripoli, elemento, secondo molti, chiave in questa guerra. I quattro missili Javelin sono stati acquistati, secondo il New York Times, nel 2010 a 170.000 dollari ad unità. Questo è un tipo di arma venduto solo agli alleati militari ritenuti “vicini”. Secondo la versione francese, i missili erano destinati all’autoprotezione di un distaccamento francese schierato per raccogliere  informazioni su questioni antiterroristische, che d’altra parte conferma la continua presenza di unità francesi nella zona, sottolineando di non essere mai stati consegnati a forze locali di alcun tipo. “Non c’è mai stato un tentativo di vendere, prestare o trasferire qualsiasi tipo di armi in Libia”, conferma Parigi, evidenziando che i missili sono stati “temporaneamente archiviati per essere distrutti”.

Khalifa Haftar ha iniziato la sua crociata contro il governo di accordo nazionale nel 2014. Si è stabilito nell’est del Paese e da lì ha assediato per due anni la città di Bengasi, controllata da diversi milizie islamiche. Per conquistare Bengasi, ha ricevuto aiuti militari dall’Egitto, dagli Emirati e dalla Francia. Il fatto che il governo francese abbia cercato  di appoggiare  con le proprie forze speciali Haftar non è mai stato un segreto. A luglio 2016, l’allora Presidente Hollande aveva annunciato che tre soldati delle forze speciali francesi erano morti in un incidente nella parte orientale della Libia. Era la prima volta che i francesi ammettevano ufficialmente la loro partecipazione al conflitto libico. Se Hollande forniva sostegno militare, il suo successore, Macron, ha concesso la legittimità politica ad Haftar quando ha promosso nel luglio 2017 e poi nel maggio 2018 due separati incontri a Parigi tra Haftar e il primo ministro riconosciuto dalle Nazioni Unite, Fayed el Serraj. Anche se Macron non ha mai trattato allo stesso modo Serraj e Haftar, alcuni comportamenti e concessioni hanno reso Haftar una parte inevitabile da considerare per la soluzione del conflitto libico. Tuttavia, Haftar ha boicottato tutti i tentativi di pace guidati dall’Onu. Nel pieno della sfida alla comunità internazionale, il feldlmaresciallo ha assediato la capitale Tripoli nello stesso giorno in cui il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si trovava nella capitale libica per preparare una conferenza  di pace che includeva lo stesso Haftar.

Di Mario Savina

Il ritorno dei jihadisti maghrebini dell’ISIS minaccia la sicurezza europea

Negli ultimi cinque anni più di 50.000 jihadisti di oltre cento paesi si sono recati in Siria, Iraq e Libia per unirsi ai ranghi dello Stato Islamico (ISIS). E solo dalla zona maghrebina il numero dei combattenti partiti è altissimo, una mobilitazione senza precedenti. Il ritorno dei sopravvissuti in Paesi come il Marocco, la Tunisia o l’Egitto è una minaccia per questi territori, ma anche per l’Unione Europea, secondo uno studio pubblicato nei giorni scorsi da un centro studi di Bruxelles, Egmont, e dalla fondazione tedesca Konrad-Adenauer-Stiftung.

Il rapporto, prologato dal coordinatore europeo della lotta contro il terrorismo, Gilles de Kerchove, avverte che il ritorno di jihadisti nordafricani può generare instabilità nella regione con un potenziale “impatto negativo sulla sicurezza europea”. Il rischio di contagio è rafforzato perché, appunto, la maggior parte dei combattenti stranieri provenienti dall’Europa sono di origine nordafricana, il che rafforza i legami dei circoli jihadisti attraverso il Mediterraneo. Questa relazione può avere un impatto duraturo sulla sicurezza di entrambe le regioni. Il documento ricorda che il contagio è già avvenuto in precedenti ondate di combattenti e collega agli attentati di Casablanca (2003) e Madrid (2004) a gruppi di marocchini che si sono trasferiti in Afghanistan  dopo la vittoria dei talebani nel 1996 e in Iraq dopo l’invasione degli Stati Uniti nel 2003. In questa occasione, il rischio è ancora maggiore perché la mobilitazione di combattenti maghrebini è stata maggiore delle precedenti, compresa quella dei jihadisti anti-sovietici attivi in Afghanistan negli anni ’80. Ora, che l’autoproclamatosi Califfato è stato espulso anche dalla sua ultimo roccaforte in Siria, molti governi si trovano ad affrontare la sfida del ritorno dei sopravvissuti. Ci sono Paesi che si rifiutano di accettarli, come Olanda e Svizzera. Altri sono disposti   ricevere i propri cittadini, ma nessuno ha una formula magica per fermarli, processarli, arrestarli e riabilitarli, se possibile. Lo studio in questione si concentra su come dovrebbero affrontare una simile sfida i governi di Egitto, Tunisia e Marocco. L’Algeria non fa parte delle indagini perché il numero di jihadisti che si sono arruolati con l’ISIS è molto basso, secondo i ricercatori. Kerchove sottolinea nel prologo la cooperazione esistente  tra le autorità europee e i Paesi del Nord Africa, ma l’UE è pronta ad aumentare i suoi sforzi dato il rischio in essere, in particolar modo per quei soggetti in possesso di doppia nazionalità, una di queste europea. Dei tre Paesi analizzati nel rapporto, il Marocco appare di “gran lunga” il più preparato ad affrontare il ritorno dei jihadisti: ha adottato misure legali rafforzando contemporaneamente i suoi servizi di sicurezza. E, cosa unica nel Maghreb, ha avviato programmi di deradicalizzazione nelle carceri. “Al contrario”, osserva lo studio, “Egitto e Tunisia sono molto meno trasparenti e sistemici nelle loro procedure”.

Il Marocco è il Paese che fornisce le cifre ufficiali più accurate sulla situazione: i marocchini che si sono recati in Iraq e in Siria tra il 2013  e il 2017 sono stati 1.664, tra cui 285 donne e 378 bambini. Di questi, 596 sono morti in combattimento o in attacchi suicidi. Ne sono tornati 213, tra cui 52 donne e 15 bambini. Quasi tutti sono stati consegnati alla giustizia e incarcerati, con sentenze che vanno dai 10 ai 15 anni, secondo fonti ufficiali. Il Marocco ha riformato la sua legislazione antiterrorismo nel 2014 includendo pene che prevedono carcere dai 5 ai 15 anni e multe fino a 45.000 euro per coloro che aderiscono o cercano di unirsi a gruppi armati non statali, sia al di fuori che all’interno dei confini. Questa legge è stata la chiave per affrontare la situazione attuale. Inoltre, nel 2016 è stato lanciato un programma all’interno delle carceri chiamato “Moussalaha” (Riconciliazione) che mira alla deradicalizzazione e reintegrazione dei terroristi, mirando sia a chi non è mai uscito dal Paese sia a chi è ritornato dopo aver combattuto all’estero. Lo studio sottolinea “l’efficienza” con cui il Marocco combatte il terrorismo, ma sottolinea che, ad eccezione del programma precedentemente menzionato, non ci sono altre iniziative di riabilitazione. “E non c’è nulla di specifico per i rimpatriati, che sono trattati come il resto dei terroristi. Né è previsto nulla per donne e bambini”. Inoltre, molte sono le accuse di tortura e i limiti alle libertà civili, in nome della lotta al terrorismo: molte ONG denunciano in modo ciclico l’arresto di salafiti non coinvolti in attività terroristiche.

Per quanto riguarda l’Egitto, l’immagine è più cupa. Non si sa quanti ne siano rimasti o quanti ne siano tornati, sebbene le fonti non ufficiali gestite dall’ONU stimino tra 350 e 600 jihadisti egiziani  all’estero. Non esiste una legislazione appropriata per affrontare il ritorno, a cui si aggiunge una mancanza di trasparenza da parte delle autorità. Lo studio sottolinea che la tortura e le confessioni forzate predominano e che le carceri sovraffollate sono diventate centri in cui la radicalizzazione si sta espandendo. Il modo in cui l’Egitto affronta il ritorno dei jihadisti non solo non previene la violenza, ma piuttosto ricrea e rafforza la stessa dinamica che ha portato i jhadisti all’estero.

Infine, la Tunisia è il paese con il maggior numero di terroristi nei ranghi dell’ISIS in relazione alla sua popolazione di 11,5 milioni di abitanti. Le stime vanno dai 7.000 presenti in Siria, secondo le Nazioni Unite e i 3.000 secondo le autorità tunisine. A questi vanno aggiunti anche quelli presenti in Libia, stimati fra i 1.000 e i 1.500. La maggior parte di quelli che sono ritornati in patria (circa 1.000 fino a marzo 2018) sono stati condannati a cinque anni di reclusione. Il rapporto si rammarica del fatto che la Tunisia abbia affrontato il problema concentrandosi solo sulle misure di punizione: alcuni rimpatriati rimangono diversi mesi in prigione senza essere processati, mentre altri vengono rilasciati dopo essere stati interrogati sommariamente. Ciò suggerisce che la gestione di questo problema da parte del governo è arbitraria ed esposta al caso.

Il problema dei jihadisti che ritornano nei Paesi di provenienza deve essere affrontato con umiltà e trasparenza, con una condivisione di informazione tra i diversi governi interessati, sia europei che nordafricani o mediorientali, conclude lo studio.

Di Mario Savina

Egitto: Al Sisi e la riforma costituzionale per governare fino al 2034

AFRICA/Medio oriente – Africa di

Il parlamento egiziano ha iniziato giovedì un processo per una riforma costituzionale il cui obiettivo principale è quello di estendere il limite di due mandati di quattro anni a due di sei anni, con una clausola di transizione che si applicherebbe solo al presidente Abdelfatà Al Sisi, consentendogli di presentarsi in altre due occasioni una volta concluso l’attuale mandato nel 2022. Questo aprirebbe le porte al leader, che ha preso il potere con un colpo di stato nel 2013 e che guida un regime fondato su restrizioni alle libertà, trasformandolo in un possibile presidente a vita. Con la riforma, Al Sisi, 64 anni, potrebbe rimanere  al potere fino al 2034. L’Egitto sarebbe così una dittatura di fatto.

Non c’è stata sorpresa nel voto: 485 deputati della camera legislativa hanno votato a favore della riforma costituzionale, mentre 16 si sono opposti. Con la maggioranza dei partiti di opposizione banditi, specialmente quelli con ideologia islamista, il Parlamento è dominato in modo schiacciante dalle forze filogovernative. Sebbene gli emendamenti siano stati presentati da un gruppo di 120 deputati, nessuno dubita che Al Sisi sia il loro vero promotore. Secondo la legge, saranno ora discussi in commissione prima di essere sottoposti ad una votazione finale in aula e, successivamente,  si terrà un referendum popolare. Il processo potrebbe durare diversi mesi. La modifica più importante riguarda l’articolo 140, che si intende modificare per estendere il limite legale a due mandati presidenziali di sei anni. Tra le altre riforme presenti, spicca la riserva di quota femminile del 25% dei seggi dell’Assemblea popolare – ora ci sono 90 deputati, il 15% totale -. Allo stesso modo, è prevista  la reintegrazione  di una Camera Alta, sciolta dopo il colpo di stato: maggiori poteri del presidente nella nomina di alte cariche del potere giudiziario e l’attribuzione all’esercito del ruolo di protettore di “Costituzione e democrazia”. L’opposizione ha espresso il suo rifiuto frontale alla riforma e, soprattutto, alla clausola che stabilisce che il nuovo limite dei mandati non sarà applicato fino alle prossime elezioni. “Questi emendamenti significano il ritorno al Medioevo” e “al potere concentrato in una sola persona”, ha detto Ahmed Tantawi, un giovane deputato di sinistra, nel dibattito, criticando che i cambiamenti sono fatti sulla misura di una “persona”, il cui nome non si può pronunciare.

Per motivi di stabilità. I deputati legati al presidente hanno giustificato la loro posizione nell’interesse della stabilità. “Viviamo in una regione piena di rischi e minacce, e vogliamo che il nostro paese rimanga stabile, per questo vogliamo cambiare alcune parti della Costituzione”, ha detto lo speaker del Parlamento, Ali Abdel-Aal, all’inizio della sessione. “Non permetteremo all’Egitto di essere governato da tifosi o partiti deboli. Pertanto, tutti noi dovremmo lasciare che il presidente Al Sisi continui al potere per un lungo periodo in un momento in cui l’Egitto ha un bisogno disperato della sua leadership”, ha detto Ayman Abu-Ela, portavoce di Egitto Libero, partito neoliberale. Al Sisi è stato eletto presidente nel 2014, un anno dopo aver organizzato un colpo di stato contro Mohamed Morsi, presidente eletto regolarmente. Nel 2018, il leader è stato rieletto con oltre il 97% dei voti, in una tornata elettorale in cui tutto sembrava una farsa. “Nella sua forma attuale, gli emendamenti costituzionali avranno una grave e vasta portata per la regola delle conseguenze del diritto, la separazione dei poteri e la natura dello stato egiziano”, lamenta Mai al-Sadany, avvocato e ricercatore presso il think-tank TIMEP. Secondo Al-Sadany, il disegno di legge di riforma viola l’articolo 226 della Costituzione, che permette solo di modificare le disposizioni relative alla rielezione del presidente di”fornire maggiori garanzie”. L’attuale Costituzione è stata approvata nel 2014, quando il regime non era ancora consolidato e aveva bisogno di presentare un aspetto democratico alla comunità internazionale per cercare il suo sostegno. In teoria, l’attuale legge fondamentale riconosce e protegge i diritti  e le libertà fondamentali. Tuttavia, la sistematica violazione della sua lettera e dello spirito da parte delle autorità egiziane ha trasformato in una lettera morta. “Il rispetto delle disposizioni della Costituzione è la chiave  per lo stato di diritto in un paese. La proposta di modifica della Costituzione è l’ultimo di una lunga lista di leggi problematiche, di uno stato di emergenza indefinita, e della chiusura dello spazio pubblico” aggiunge Al-Sadany.

Di Mario Savina

29° summit della Lega Araba – Leader uniti su Palestina e Iran

 

 

Si è concluso domenica scorsa il summit della Lega Araba, giunto alla sue 29esima edizione. L’incontro, tenutosi a Dharan (Arabia Saudita) ha visto riunirsi i 21 membri attivi della lega e personalità di spicco dello scenario internazionale, come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, il presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki e il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Unico membro assente la Siria, sospesa dalla Lega nel novembre del 2011, quando iniziarono le rivolte nel paese ed in seguito alle azioni repressive condotte dal regime di Assad a danno della popolazione civile.

I vari paesi membri erano rappresentati dai capi di stato e di governo, ad eccezione del Qatar che, invece, ha inviato il proprio rappresentate presso la Lega Araba. Un gesto, questo, accolto non molto positivamente dal resto della comunità araba. Ricordiamo, infatti, che da parecchi mesi i rapporti della monarchia con i paesi arabi e mediorientali si sono fortemente incrinati, determinando una crisi diplomatica proprio tra vicini di casa. In particolare, lo scorso 5 giugno, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar, accusando quest’ultimo di fornire supporto a gruppi estremisti e terroristi. L’invito del Qatar a partecipare al summit era arrivato insieme all’annuncio che la crisi diplomatica non sarebbe stata posta nell’agenda dell’evento. L’assenza dell’emiro del Qatar, è stata, dunque, percepita come un segno di arroganza, che ha gettato ulteriore benzina su un fuoco ancora molto ardente.

Il vertice si è concentrato maggiormente sui temi in agenda, mostrando come vi sia una notevole unità di pensiero tra i leader su temi d’importanza cruciale per il contesto arabo e mediorientale e gli equilibri tra la regione e gli attori esterni.

Tre i grandi temi trattati: la questione israelo-palestinese, la guerra in Yemen e la pericolosa influenza dell’Iran. Non sono, invece, stati messi in agenda, come accennato, né la crisi diplomatica con il Qatar né la guerra in Siria. Tuttavia, un comunicato stampa pubblicato dalla Lega Araba al termine del summit invoca la conduzione di “independent International investigation to guarantee the application of International law against anyone proven to have used chimical weapons”. Da notare, infatti, che il summit ha avuto inizio 24 ore dopo l’attacco di USA, Gran Bretagna e Francia sui alcuni siti militari siriani. Tale azione nasce in risposta ad un presunto attacco chimico condotto dal regime contro alcuni ribelli, attacco per altro negato dal presidente Bashar e l’alleato russo.

 

PALESTINA E ISRAELE

Riflettori puntati su Palestina ed Israele, tema che ha portato alla luce una posizione peculiare dei paesi arabi. Da un lato, la ferma opposizione alla decisione del presidente statunitense Donald Trump di spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima come capitale della nazione israeliana. Per un paese come gli Stati Uniti, che ha sempre giocato un ruolo di mediazione nel conflitto arabo-israeliano, un gesto simile viene visto dai leader mediorientali come uno spostare la propria posizione di neutralità verso quella di terza parte in causa, un passo decisamente significativo (e se vogliamo, pericoloso) in un contesto delicato come quello del Medio Oriente. Come sottolineato dal re Salman -che ha rinominato il vertice “Jerusalem summit” proprio per sottolineare la solidarietà verso il popolo palestinese- i leader arabi riconoscono il diritto del popolo palestinese di stabilire un proprio stato indipendente, con Gerusalemme come capitale. La stessa Gerusalemme Est appartiene, a loro opinione, ai territori palestinesi. In aggiunta, il re Salman ha annunciato la donazione di 150 milioni di dollari all’amministrazione religiosa che gestisce i siti religiosi musulmani a Gerusalemme, come la moschea Al-Aqsa e di altri 50 milioni per i programmi condotti dalle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente.

Dall’altro lato, invece, i leader arabi –ad eccezione del presidente Abbas- si sono espressi a favore del piano di pace proposto da Trump per il conflitto tra i due popoli. I dettagli di questo piano, tuttavia, non sono ancora stati resi noti, ma potrebbe prevedere una soluzione a due stati.

 

GUERRA IN YEMEN

Altro tema caldo è stato la guerra civile che da circa tre anni logora lo Yemen, e vede coinvolti (sul campo e a livello di interessi in gioco) diversi attori mediorientali accanto a potenze straniere come Russia e Stati Uniti. Il paese è teatro di scontri tra le forze fedeli al governo di Hadi, che di fatto ha perso il controllo di numerose porzioni del territorio nazionale, e i ribelli Houthi, alleati con l’ex presidente Saleh e supportati militarmente e finanziariamente dall’Iran. In campo, inoltre, una coalizione militare a guida saudita, che vede impegnati paesi occidentali (USA; Francia, GB) e alleati mediorientali, come gli Emirati Arabi.  Ancora una volta i leader arabi hanno riaffermato il loro supporto alla nazione e l’obiettivo di ripristinare l’unità, l’integrità, la sicurezza, la sovranità e l’indipendenza della nazione yemenita. La totale responsabilità attribuita ai ribelli Houthi, rimanda ad un altro tema centrale del summit: l’Iran e la politica aggressiva sul piano internazionale.

 

L’AGGRESSIVITÀ’ DELL’IRAN

Non sono mancate nel corso della giornata condanne alle politiche condotte all’estero dall’Iran, dettate da atteggiamenti aggressivi e perpetuate violazioni dei principi del diritto internazionale. Diretto riferimento al supporto ai ribelli Houthi in Yemen, ma anche al regime di Bashar al Assad in Siria. Chiaro il tentativo del re Salman di sfruttare il summit per allineare i paesi arabi contro lo storico rivale Iran. L’Iran, ad oggi, è visto come la principale causa di instabilità nella regione, “colpevole” di destinare le proprie risorse finanziarie e militari per alimentare guerre per procura in paesi dilaniati da anni di guerra civile, come appunto Siria e Yemen. In Siria, come detto, le milizie shiite iraniane supportano le forze governative di Assad, regime anche questo shiita. Similmente in Yemen, l’esperienza militare e le armi iraniane sostengono i ribelli Houthi, che hanno nel corso del conflitto conquistato diverse porzioni del territorio nazionale, compresa la capitale Sana’a. Non è mancata la risposta iraniana: il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Bahram Qasemi ha, infatti, dichiarato che le accuse sollevate in occasione del summit sono solo il risultato della pressione esercitata dal suo più grande nemico, l’Arabia Saudita, paese ospite del summit.

 

Vediamo, quindi, come le acque nel Medio Oriente continuino ad essere piuttosto agitate. Sebbene si possa intravedere un’unità d’intenti in alcuni ambiti, i temi caldi sono ancora molti ma soprattutto manca allo stato attuale un vero e proprio “corse of action” per raggiungere gli obiettivi raggiunti. È auspicabile, dunque, che questo messaggio di allineamento dei paesi arabi si trasformi ora in un’azione pratica, che possa portare, step by step, a garantire una maggiore sicurezza e stabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

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Paola Fratantoni
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