GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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MEDIO ORIENTE

La nuova strategia di Hamas

 

L’esito delle operazioni militari all’interno della Striscia di Gaza suscita la preoccupazione, l’angoscia e la condanna da parte dei Governi, delle Organizzazioni Internazionali e dei media occidentali unanimi nel chiedere a Israele di interrompere il conflitto ed evitare una “catastrofe umanitaria”.

L’intento di questo insieme di iniziative è assolutamente condivisibile da un punto di vista concettuale e umano, quello che risulta meno accettabile, e alquanto dissonante, è la mancanza di un’uguale pressione nei confronti della controparte israeliana in questo ennesimo episodio del conflitto endemico che caratterizza il Medio Oriente da circa un secolo: non ci sono voci in questa levata corale di scudi che abbiano come soggetto il ruolo di Hamas!

Anche le discutibili manifestazioni di piazza e l’occupazione degli atenei (discutibili non in quanto proteste o espressione di dissenso in termini generali, ma perché frutto di una strumentalizzazione condotta da elementi estremizzati, prive di oggettività e avulse da una reale conoscenza e un’obiettiva analisi della situazione) sono indirizzate a senso unico contro Israele, colpevole di tutti i mali, tra i quali il peggiore è quello di cercare di sopravvivere in un mondo ostile che dichiara apertamente di volere la sua distruzione, e, soprattutto, non ammettono alcuna critica nei confronti di Hamas.

Fermo restando che il tributo di sofferenza imposto alla popolazione civile (palestinese e israeliana) sia altissimo e assolutamente condannabile, e che quindi sia lecito impegnarsi per identificare una soluzione che ponga fine a una tale situazione, rimane però il punto che nessuno dei citati protagonisti abbia condotto un’analisi sulle cause che hanno riacceso il conflitto e sugli obiettivi che Hamas ha inteso conseguire con l’attacco a Israele e, soprattutto cosa vorrebbe raggiungere dopo la cessazione delle operazioni militari.

Con l’attacco dello scorso ottobre Hamas si era prefisso di raggiungere una serie di obiettivi militari e politici finalizzati a ferire lo spirito della popolazione civile dell’area, indebolire Israele e creare le premesse per l’eliminazione dello stato ebraico.

Da un punto di vista militare, in primo luogo, l’efferatezza delle modalità che hanno contraddistinto le operazioni di Hamas aveva lo scopo di suscitare una risposta immediata, violenta e non ragionata da parte di Israele che avrebbe rovesciato il paradigma vittima-aggressore (buono-cattivo) a favore di Hamas.

Successivamente, l’idea era quella di essere supportati nella lotta contro il nemico sionista mediante l’apertura di un secondo fronte in Cisgiordania e un terzo in Libano, sperando di coinvolgere, ancorché indirettamente, l’Iran nel tentativo di infiammare tutta la regione e creare le condizioni per distruggere Israele (obiettivo dichiarato nel testo istitutivo dell’Organizzazione di Hamas).

Anche gli obiettivi politici erano molteplici: riqualificare l’immagine dell’Organizzazione agli occhi della popolazione della Striscia, offuscata dalla pessima gestione governativa e in calo costante di consensi, proponendosi come il difensore dei diritti della popolazione palestinese; sabotare il processo di distensione in atto (Patto di Abramo e intesa con l’Arabia Saudita) in modo da scongiurare il pericolo che il successo di tali iniziative potesse ridefinire l’assetto della regione favorendo la distensione tra Israele e i Paesi Arabi, minando così, il potere e l’autonomia di Hamas e vanificando la sua capacità di gestire la Striscia di Gaza (cioè l’enorme flusso di fondi che Qatar e donors mondiali – tra cui l’Unione Europea – riversano quotidianamente e che avrebbero dovuto essere usati a beneficio della popolazione civile e non per rifornire l’arsenale di Hamas come avvenuto, senza che nessuno dimostrasse o protestasse con sit-in o cortei); riproporre all’attenzione internazionale il problema palestinese assumendo il ruolo di principali difensori della causa nella regione

A otto mesi circa dall’inizio del conflitto, considerato che alcuni di questi obiettivi sono stati parzialmente raggiunti, altri, invece, non sono stati conseguiti affatto; che le operazioni militari continuano e che l’odioso ricatto sulla vita degli ostaggi (cosa che nessuno si è sognato di portare davanti a qualche Corte Internazionale di Giustizia!!!) non ha prodotto i risultati sperati, Hamas ha riconfigurato la sua strategia per il futuro.

Politicamente i vertici dell’Organizzazione hanno intrapreso un’azione di ravvicinamento verso la PLO (Palestine Liberation Organization) che risulta essere profonda ostile a Mahamoud Abbas, leader della PNA (Palestine National Authority), con il fine di poter essere comunque parte di qualsiasi struttura di Governo si possa configurare a Gaza al termine delle operazioni militari.

Una tale mossa, inoltre, consentirebbe alla struttura politica di Hamas di inserirsi anche nella Cisgiordania dove la PNA risulta essere in difficoltà di consensi.

Corruzione, scarsa capacità organizzativa e mancanza di unità di intenti nella gestione della Cisgiordania hanno notevolmente eroso il credito dei vertici del PNA nei confronti della popolazione locale che potrebbe essere spinta a identificare nel PLO e nei vertici di Hamas un’alternativa alla direzione del PNA.

La possibilità di inserirsi nella nuova struttura di governance che dovrebbe essere costituita per favorire la ricostruzione di Gaza e l’assestamento dei territori, al temine dell’attuale fase militare darebbe, quindi, la possibilità ad Hamas di introdursi nel panorama politico assumendo un ruolo nel sistema di governance in collaborazione con altre formazioni politiche, senza essere avere, quindi, l’intera responsabilità del governo come invece accaduto precedentemente a Gaza.

In sintesi, Hamas sta cercando di replicare il modello libanese di Hezbollah dove l’ala politica dell’Organizzazione partecipa al sistema di governo del Paese, legittimando la sua posizione quale entità politicamente rappresentativa, mentre, l’ala militare può continuare a perseguire l’obiettivo di combattere Israele nel Sud del Paese.

Infatti, per poter replicare una simile struttura Hamas ha ripreso i contatti con Al-Fatah (l’ala militare del PLO) cercando possibili intese nonostante i profondi dissidi che avevano causato lo scontro tra le due opposte fazioni nella striscia di Gaza negli anni 2005 2007.

Il disegno strategico di Hamas sarebbe quello di qualificarsi come entità politica ed entrare a far parte della struttura statuale che gestirà i territori palestinesi, così da poter controllare e indirizzare le azioni politiche senza avere, comunque, la responsabilità totale di governo, in questo modo avrà campo libero per poter condurre con maggiore libertà e autonomia le azioni militari contro Israele, sia dal fronte Sud (Gaza), sia da quello a Est (Cisgiordania) presumibilmente supportato da Al-Fatah, nell’ottica di poter coinvolgere anche Hezbollah a Nord.

Se questo disegno strategico dovesse realizzarsi sarebbe impossibile evitare un conflitto generale nella regione le cui conseguenze sarebbero disastrose non solo per l’equilibrio del Medio Oriente.

L’azione diplomatica internazionale deve assolutamente evitare che questo possa concretizzarsi, impedendo che Hamas si possa inserire nel processo politico di riassestamento dei territori palestinesi.

Per evitare che questo possa avverarsi è fondamentale che vengano adottate tutte le possibili azioni a livello internazionale, non solo per fare cessare le operazioni a Gaza, ma soprattutto, per identificare una soluzione che consenta di stabilire delle reali condizioni di pace e di stabilità che tengano conto delle legittime aspirazioni di tutti: uno Stato per i Palestinesi e la garanzia di vivere in sicurezza per Israele.

Soluzione che, come il passato recente dimostra, è possibile costruire e perseguire ma che non deve essere rifiutata da una minoranza politica per considerazioni di potere personale.

Il problema del Medio Oriente affonda le sue radici nella storia antica e recente e per la sua risoluzione necessita del contributo e della buona volontà di tutta la comunità internazionale che è la maggiore responsabile della situazione nella regione.

Spesso sfugge a molti che il capitolo più recente di questa storia (che magari anche l’attuale Segretario Generale farebbe bene a considerare) è iniziato nel 1947 quando l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato, approvandola, la Risoluzione n.181, senza, tuttavia, preoccuparsi minimamente della reale applicabilità di una soluzione come quella proposta dalla commissione UNSCOP, (composta dai rappresentanti dei seguenti 11 Stati: Australia, Canada, Guatemala, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Cecoslovacchia, Uruguay, Jugoslavia) che stabiliva sulla carta, la creazione di due entità Statali secondo aleatori criteri dimostratesi immediatamente di difficile applicazione.

Mi si consenta una considerazione personale, anche chi protesta, occupa atenei e marcia in corteo per sostenere una Palestina libera dovrebbe avere l’umiltà di informarsi riguardo a che cosa e a chi stanno supportando: popoli che vogliono vivere in pace o strutture terroristiche che perseguono obiettivi di potere nascondendosi dietro le aspettative di una popolazione; desiderio di sicurezza e di vita oppure volontà di distruggere l’altro per il perseguimento di un’interpretazione distorta della religione o della politica; ricorso all’estremismo religioso o razziale, oppure volontà di dialogo e di comprensione?

Una volta che avranno fatto chiarezza sui motivi che li spingono a scendere in strada e si saranno liberati dei condizionamenti di una ideologia estremizzante e accecante allora la loro protesta potrà essere utile e potrà concorrere nella individuazione di una soluzione umanamente accettabile.

Disinnescare il fronte libanese

Quando a Ottobre dello scorso anno Hamas perpetrò il suo attacco terroristico nella striscia di Gaza ottenne, immediatamente, il pieno supporto mediatico delle milizie filoiraniane di Hezbollah.

Tuttavia, anche se nei mesi successivi Hezbollah ha intensificato le sue attività offensive lungo la linea di confine, costringendo Israele ad evacuare diverse decine di migliaia di residenti dai paesi in prossimità dell’area, l’intensità delle operazioni non si è tradotta in uno scontro diretto e nell’apertura di un secondo fronte per Israele.

Nonostante l’incremento delle attività da parte di Hezbollah e la conseguente crescita della risposta israeliana, a sette mesi dall’inizio del conflitto a Gaza rimane ancora un’incognita come possa evolversi la situazione nel settore nord di Israele lungo il confine con il Libano.

Ciò che appare evidente, comunque, è che la precaria situazione di equilibrio preesistente al 7 Ottobre non possa essere più ripristinata e che una nuova soluzione debba essere ricercata. Il punto nodale della questione è se tale soluzione possa essere il frutto di accordi politico diplomatici o il risultato dell’uso della forza.

Allo stato attuale, anche se il rischio di una possibile escalation rimane alto, l’atteggiamento dei principali protagonisti induce a ritenere che si voglia evitare una guerra su larga scala.

Da una parte l’Iran non ritiene di essere ancora pronto a un confronto diretto con Israele e preferisce risparmiare il potenziale di Hezbollah evitando di vedere vanificati gli investimenti fatti nell’area per sostenere una delle risorse strategicamente più importanti nell’ambito della  visione politica in chiave antisraeliana.

Dall’altra parte Israele non intende, almeno per ora, aprire un secondo fronte che comporterebbe un riposizionamento delle forze privando le operazioni a Gaza del necessario supporto specifico.

Gli USA rappresentano il terzo protagonista in quanto una escalation nel Libano comprometterebbe la posizione di Washington nell’intero Medioriente, vanificando gli sforzi diplomatico politici messi in atto dall’amministrazione Biden per avvalorare il ruolo di garante dell’equilibrio nell’area.

Quindi, quali possono essere gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione USA per evitare che l’attuale situazione di attrito si trasformi in un conflitto aperto?

Da un punto di vista diplomatico l’azione che Washington sta sviluppando si articola in due direzioni.

Innanzitutto, la ricerca di un dialogo con la fazione politica di Hezbollah che si basa sulla proposta di un soddisfacente accordo che possa portare a un cessate il fuoco. I termini dell’accordo prevedono i seguenti punti:

  • costituzione di una zona cuscinetto lungo il confine dell’ampiezza di sette chilometri che comporta il ritiro delle forze di Hezbollah;
  • riduzione delle attività aeree di Israele nel Libano meridionale;
  • spiegamento di una forza libanese per il controllo degli accordi a Sud del Litani;
  • avvio di negoziati bilaterali per la definizione delle aree di confine lungo la Blue Line, il cui possesso è oggetto di contesa.

Per supportare tale linea di azione l’Amministrazione USA propone, inoltre:

  • la possibilità di supportare Sleiman Franhgieh il candidato sostenuto da Hezbollah nell’elezione al la carica di presidente del Libano vacante da due anni;
  • l’offerta di supportare economicamente lo sviluppo del Sud del Libano e di concorrere nel pagamento del personale delle Forze Armate Libanesi.

Successivamente, un’intensificazione delle azioni tese a coinvolgere i Paesi dell’area nella ricerca di una soluzione mediata che scongiuri il pericolo di una escalation che avrebbe dannose ricadute su tutta l’area stessa rischiando di compromettere il conseguimento di una situazione di stabilità.

Da un punto di vista politico l’Amministrazione Biden, invece persegue i seguenti obiettivi:

  • supportare Israele sia a livello politico, consentendo al Governo di Netanyahu di resistere alle pressioni interne offrendo la possibilità del raggiungimento di una accordo, che anche se non pienamente soddisfacente, consenta almeno la ripresa di una certa normalità permettendo il ritorno dei circa 80.000 sfollati; sia a livello militare rendendo possibile il consolidamento delle posizioni e il ripristino di un elevato livello di efficienza in termini di materiali e scorte quale deterrente per un eventuale ripresa delle attività da parte di Hezbollah;
  • rafforzare la posizione di Washington nell’area riducendo l’attrito con l’Iran, rinsaldando il ruolo di mediatore preferenziale e di potenza in grado di pervenire alla definizione di una situazione di equilibrio nell’area mediorientale e di garantirne la continuità.

Ovviamente quanto proposto dall’Amministrazione Biden risulta essere una soluzione ottimale ma non perfetta e perché questa ipotesi articolata possa aver successo è necessario che vengano superate le perplessità e le differenze di vedute che contraddistinguono le relative posizioni degli altri protagonisti.

Hezbollah, in primis, ha l’interesse che la situazione non si trasformi in un conflitto aperto in quanto il suo potenziale militare verrebbe seriamente compromesso riducendo le sue capacità di svolgere una pressione costante nello scenario interno libanese. La possibilità di conquistare la carica di presidente del Libano aumenterebbe il prestigio del gruppo e sarebbe un ulteriore passo verso il controllo politico del Paese.

Contestualmente, esistono delle difficoltà ad accettare l’offerta di finanziare la ricostruzione del Sud del Paese da parte USA in quanto diminuirebbe il prestigio dell’organizzazione e la priverebbe della possibilità di gestire gli eventuali fondi per fini propri.

Lo stesso vale per l’offerta fatta per il pagamento degli stipendi alle Forze Armate Libanesi che diminuirebbe la possibilità di estendere il controllo sui militari per indebolire lo Stato.

Da ultimo, la creazione della zona cuscinetto con il ritiro delle forze pregiudicherebbe la narrative di Hezbollah che si basa sull’identificazione del movimento quale difensore dell’integrità del suolo libanese occupato da Israele.

Per quanto riguarda Israele, il Premier Netanyahu è sottoposto a una serie di pressioni politiche difficilmente conciliabili.

L’ala estrema della sua coalizione di governo insiste per evitare concessioni che non siano basate sulla ricerca di soluzioni di forza come premessa per uno scontro che ritengono comunque inevitabile, anche se non imminente.

Le persone che sono state evacuate dalla zona insistono perché si giunga a una soluzione che consenta il ritorno a una situazioni di normalità in una cornice di sicurezza.

Dal punto di vista militare il problema più grosso è rappresentato dalla possibilità di garantire il mantenimento degli accordi per il cessate il fuoco. In questo caso Israele insiste per la possibilità di monitorare il confine con i suoi sistemi di informazione e sicurezza; e per la riconfigurazione della missione di UNIFIL che si è dimostrata un fallimento completo (avvalorando l’ennesima ipocrisia delle Nazioni Unite nella gestione delle crisi) non essendo stata in grado di portare a termine la missione assegnata (disarmare le milizie e controllare la zona cuscinetto).

L’azione diplomatico politica di Washington è diretta a negoziare un cessate il fuoco a Gaza e, contestualmente, a evitare una escalation sul confine libanese che aprirebbe prospettive drammatiche.

L’ipotesi di soluzione individuata rimane al momento di dubbia applicabilità dati i constraints che condizionano la posizione di Hezbollah e di Israele, di conseguenza l’Amministrazione Biden deve riconfigurare la sua visione nell’individuare sia ulteriori eventuali proposte sia soprattutto utilizzare le sue risorse diplomatico politiche per smussare le posizioni dei due protagonisti determinando la possibilità di far convergere le posizioni verso una soluzione negoziale.

Il compito non risulta assolutamente facile in quanto le variabili in gioco sono numerose e particolarmente complicate, inoltre l’Amministrazione Biden non può contare sul sostegno di attori esterni (le Nazioni Unite sono completamente assenti e brillano per una passività imbarazzante, l’Unione Europea ricopre il suo ruolo di grande assente trastullandosi con la riedizione della Guerra Fredda e la Cina non ha ancora deciso se e come deve impegnarsi per svolgere il ruolo di grande Potenza che reclama di diritto) e soprattutto si avvicina un impegno elettorale che impone il conseguimento di un qualche risultato da poter sbandierare per invogliare l’elettorato.

La possibilità di un conflitto che nessuno vuole esiste ed è concreta, ma la volontà di evitare un ulteriore tragedia può spingere i vari protagonisti ad accettare una soluzione che, se non perfetta, rappresenta un punto di inizio per ulteriori sviluppi successivi, di conseguenza si può solo condividere la determinazione di Washington nel cercare di perseguire questa soluzione attraverso la diplomazia.

Washington e il Medio Oriente

U.S. President Joe Biden pauses during a meeting with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu to discuss the war between Israel and Hamas, in Tel Aviv, Israel, Wednesday, Oct. 18, 2023. (Miriam Alster/Pool Photo via AP)

Negli ultimi quindici anni il centro di gravità della politica estera di Washington si è spostato dal teatro Euroasiatico a quello Indo – Pacifico come conseguenza della scelta geostrategica di contrastare in quella Regione la crescente influenza cinese tendente a realizzare un nuovo sistema di ordine globale.

Questa priorità ha comportato un progressivo décalage dell’attività diplomatica USA sia in Europa, sia, soprattutto, nel Medio Oriente.

Nell’area europea, infatti, la possibilità di vincolare la Russia allo scenario europeo, limitandone la libertà di azione in quello asiatico, è stata realizzata con un impiego circoscritto delle risorse nazionali statunitensi, grazie a una gestione della crisi ucraina condotta coinvolgendo i partner europei della NATO mediante lo sfruttamento abilmente gestito della voglia di rivincita dell’Europa orientale e risuscitando il concetto di guerra fredda.

Diversamente, nell’area mediorientale il progressivo raffreddamento dell’interesse USA a svolgere un ruolo primario quale potenza garante della sicurezza e della ricerca di un equilibrio regionale aveva favorito, come conseguenza, lo sviluppo delle iniziative diplomatiche di Cina e Russia e l’aumentare delle tensioni nell’area a causa dell’emergere dei contrasti connessi alla volontà da parte di alcuni Paesi di assumere il ruolo di potenza regionale.

Le precedenti due Amministrazioni e quella attuale avevano progressivamente ridotto la presenza geostrategica nei Paesi dell’area adottando linee diplomatico-politiche ambigue e prive di visione a lungo termine, creando la sensazione della inaffidabilità della volontà statunitense di rivelarsi un alleato su cui poter contare per la propria sicurezza.

L’esplodere della crisi di Gaza ha costituito l’opportunità per la diplomazia di Washington di rivedere le proprie azioni e ridefinire i suoi interessi nella regione mediorientale.

Il riorientamento della posizione USA e la sua volontà a riassumere il ruolo di protagonista nella ricerca dell’equilibrio geostrategico del Medioriente non sono avvenuti con immediatezza, in quanto è stato necessario vincere l’inerzia iniziale per invertire il processo in atto e riconfigurare la propria posizione da parte dell’Amministrazione corrente.

Infatti, a seguito dei tragici fatti del 7 ottobre Washington ha agito, inizialmente, garantendo il pieno supporto politico, diplomatico e militare a Israele.

Subito dopo, però, ha avuto inizio un’intensa attività diplomatica che ha visto impegnato il Segretario di Stato Antony Blinken nel prendere contatto con tutti i maggiori attori politici dell’area al fine di iniziare a tessere le fila per individuare quali potessero essere le condizioni per pervenire a una soluzione della crisi.

Il tour de force tra le capitali arabe ha richiesto diversi passaggi e una lunga serie di colloqui per valutare le possibili proposte e identificare gli ulteriori eventuali elementi sui cui poter costruire le ipotesi di soluzione della crisi.

L’impegno diplomatico del Segretario ha prodotto una proposta per un piano volto a ottenere la fine dei combattimenti ma, soprattutto, a identificare una strategia per la gestione di quello che sarà il dopo conflitto.

L’accoglienza tiepida e piena di riserve che ha caratterizzato la risposta al piano da parte degli attori principali di questa crisi non può essere considerata come un successo di questa prima proposta, ha anzi confermato come la soluzione della crisi di Gaza sia ancora lontana dall’essere realizzata; tuttavia, l’impegno e la sollecitudine che sono stati profusi nella sua preparazione hanno dimostrato che l’interesse geostrategico di Washington si è riorientato verso il Medio Oriente.

Indipendentemente dalla possibilità o meno di vedere coronata da successo la proposta statunitense, l’elemento importante da sottolineare è il cambio di passo dell’Amministrazione, che ha confermato di ritenere nuovamente fondamentale un suo impegno nella regione.

Questo reindirizzamento dell’interesse geostrategico USA in Medio Oriente ha comportato alcune conseguenze di importanza rilevante.

La prima: l’azione diplomatica del Segretario Blinken ha anticipato quella di eventuali altri attori geopolitici interessati a poter svolgere un ruolo da protagonisti, tagliando fuori non solo la Russia ma soprattutto la Cina, conferendo agli USA una posizione di vantaggio da sfruttare per rinforzare la sua importanza nell’area.

La seconda: la condotta del Segretario e dell’Amministrazione USA è stata caratterizzata da due fattori importanti quali la disponibilità a dialogare con tutte le entità politiche della Regione e la dimostrazione, indipendentemente dal supporto politico-diplomatico dato a Israele, di avere la volontà per esercitare pressioni politiche sul Governo di Netanyahu. Questi due fattori hanno conferito un notevole peso all’impegno di Washington che favorisce la possibilità per gli USA di ritornare a svolgere il ruolo di protagonisti dell’equilibrio nella regione.

La terza, invece, ha prodotto due differenti effetti i cui risvolti sono implicitamente connessi alla politica interna americana. In primo luogo, la possibilità per l’Amministrazione attuale di dimostrare di avere recuperato una visione geostrategica globale che affianca all’interesse per un diverso peso del rapporto euroatlantico, la necessità di contrastare l’avanzata cinese anche al di fuori del contesto Indo-Pacifico. In secondo luogo, la possibilità di sviluppare nell’area mediorientale un’azione diplomatica caratterizzata da una maggiore equidistanza tra i vari protagonisti conferisce alla posizione statunitense una chance di successo maggiore per ricoprire il ruolo di potenza in grado di garantire un equilibrio duraturo.

La combinazione di questi due effetti costituisce, infatti, un atout da giocarsi per l’attuale Amministrazione nelle prossime elezioni presidenziali al fine ottenere il supporto di quei settori non favorevoli alla crisi ucraina e contrari al supporto incondizionato verso Israele.

Come detto, le proposte di Washington per la soluzione della crisi non sono magari perfette e quindi stentano a essere condivise, la difficoltà a orientare le scelte del Governo israeliano verso la soluzione identificata per il dopo conflitto  è particolarmente importante e il progetto presentato richiede una ulteriore serie di consultazioni diplomatiche da parte dei Governi dell’area, tuttavia l’elemento fondamentale è la ritrovata volontà di iniziativa che sta caratterizzando l’azione di Washington nella Regione.

Ovviamente è prematuro affermare che questa inversione di rotta da parte dell’Amministrazione USA possa o meno aver creato le premesse per colmare il solco che si era formato tra i Paesi del Medioriente alleati od orientati a favore di Washington negli ultimi anni, restaurando la fiducia e il senso di affidabilità della politica americana quale potenza leader nella Regione.

Anche se la politica statunitense riuscirà a ridare consistenza e credibilità alla sua posizione di grande potenza indispensabile per l’equilibrio nell’area, i rapporti con altri grandi protagonisti della scena mondiale (Cina in primis) che hanno rivoluzionato la diplomazia della/nella Regione continueranno a far sentire il loro influsso e dovranno, comunque, essere tenuti in considerazione nella impostazione della visione che l’Amministrazione statunitense (democratica o repubblicana che sia nel futuro non ha importanza) dovrà impostare per conseguire i propri obiettivi geostrategici in una Regione fondamentalmente critica per la costruzione di un nuovo ordine mondiale liberale e democratico.

 

Ankara e la ricerca dell’equilibrio geopolitico

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during his meeting with mukhtars at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, March 16, 2016. REUTERS/Umit Bektas – RTSAPB4

In occasione della imminente visita di Putin in Turchia il Presidente Erdoǧan ha dichiarato l’intenzione di svolgere il ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto ucraino facendosi promotore di una possibile situazione negoziale tra le due parti.

L’iniziativa sembra voler sottolineare la volontà della Turchia di riprendere a svolgere quel ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geopolitico di Erdoǧan, conferendo alla diplomazia del Paese il ruolo di garante degli equilibri regionali.

Il tentativo di rientrare a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche dell’area euroasiatica, quale protagonista, è stato determinato dalla necessità di ribilanciare la posizione di flessibilità pragmatica caratteristica della Turchia di Erdoǧan compromessa dall’atteggiamento unilaterale fortemente critico espresso nei confronti di Israele nell’ambito del conflitto in atto a Gaza.

Il criterio che ha guidato la politica estera turca sotto la presidenza di Erdoǧan è stato quello di una diplomazia pragmatica volta ad accrescere l’importanza e il prestigio della Turchia al fine di svolgere un ruolo centrale, non solo nel bacino mediterraneo orientale, ma estendendo tale ruolo a tutta l’area euroasiatica.

Il concetto di proiezione geostrategica della Turchia, che ha visto il Paese intervenire in tutti gli scenari di crisi dall’area, Libia, Siria, Ucraina, Caucaso, è stato permeato dal criterio dell’adozione di una visione  realista e sempre attenta a essere percepita, quando possibile, nel ruolo di mediatore o garante di un equilibrio volto ad evitare profondi sconvolgimenti.

Il caso più emblematico di questa linea diplomatico strategica è l’atteggiamento che Erdoǧan ha assunto nei confronti della crisi ucraina.

La Turchia ha sostenuto la sovranità ucraina, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, ha aspramente criticato le azioni russe ed è stato il primo Paese a supportare con aiuti militari l’Ucraina.

Tuttavia, ha controbilanciato queste sue attività ponendo la massima attenzione a mantenere stabili i legami di natura economica con la Russia, ha appoggiato in maniera tiepida le risoluzioni internazionali di condanna contro Mosca, si è opposto alle sanzioni e agli sforzi per isolare diplomaticamente Putin, incrementando gli scambi e le relazioni economiche con la Russia.

Inoltre, a più riprese, ha svolto il ruolo di mediatore sfruttando la posizione di grande potenza (regionale) in grado di riscuotere la fiducia di ambedue i contendenti, portando a termine accordi importanti come le condizioni di esportazione del grano e lo scambio di prigionieri.

Anche la posizione assunta nei confronti della annessione della Svezia alla NATO deve essere interpretata alla luce della volontà di ricercare un equilibrio dell’intero sistema favorevole agli interessi della Turchia e propedeutico al suo ruolo di Paese leader. Il veto è caduto quando sono stati conseguiti i due obiettivi di Erdoǧan: assunzione di una linea di condanna della Svezia dell’organizzazione del PKK e avvio del processo di acquisizione di un lotto di F16 da parte USA.

Il tutto ribilanciato dall’apertura diplomatica nei confronti della Russia concretizzata nel summit di questi giorni, che rappresenta l’occasione per riprendere il ruolo di mediatore, oltre a far coincidere l’evento con la prima visita di Putin in un Paese dell’Alleanza Atlantica dopo l’inizio della crisi e nonostante la richiesta di provvedimenti coercitivi emessa da organismi internazionali nei confronti di Putin stesso.

Ma è nell’area mediorientale dove questa posizione di equilibrio è stata completamente offuscata e messa in discussione a seguito della dura presa di posizione di Erdoǧan nei confronti di Israele e del suo leader Netanyahu.

Gli interessi turchi nell’area sono estesi e abbastanza articolati.

In primo luogo, vi è il rapporto stretto con il Qatar, che rappresenta il partner economico più importante per finanziare i progetti di crescita della Turchia.

In secondo luogo, ci sono le attività condotte nello scenario siriano volte sia a contrastare l’ISIS, sia a circoscrivere il fenomeno dell’autonomia curda. Qui l’intesa con la Russia e la possibilità di una sovrapposizione di interessi con l’Iran fanno da bilanciere alla posizione di membro della NATO che, se pur in alcuni casi tiepida e sfumata, rimane, comunque, un punto non in discussione.

In terzo luogo, deve essere considerato il rapporto con i restanti Paesi del Golfo che è contraddistinto da una alternanza di aperture e di parziali chiusure diplomatiche, ma che persegue l’obiettivo di affermare la Turchia come un Paese capace di assicurare la stabilità dell’area in alternativa a un predominio iraniano.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, vi è la questione religiosa, dove l’avvicinamento di Erdoǧan verso una visione meno laica del Paese e più orientata ad una maggiore ortodossia, conseguenza delle alleanze politiche interne che hanno reso possibile le ultime due elezioni del presidente, consente alla Turchia di aspirare al ruolo di guida del mondo islamico.

Tuttavia, nonostante le critiche dirette di Erdoǧan nei confronti di Israele e le dichiarazioni di supporto alla comunità palestinese, la Turchia è fuori dal contesto diplomatico che lavora per giungere a una soluzione mediata della crisi.

Malgrado, infatti, le buone relazioni con il Qatar la diplomazia turca è stata esclusa dal processo dove, invece, sia Egitto che Arabia Saudita svolgono un ruolo principale. Questo fattore ha sbilanciato la posizione di Ankara privandola della possibilità di influenzare gli eventi e relegandola ad un ruolo sussidiario che mette a serio rischio le sue aspirazioni di leadership.

Per poter comprendere tale situazione di impasse è utile fare le seguenti considerazioni.

Dopo una età dell’oro nelle relazioni turco – israeliane contraddistinte da iniziative diplomatiche quali il riconoscimento quasi immediato di Israele e la non partecipazione al ciclo delle guerre arabo – israeliane e proseguite anche da Erdoǧan nei suoi mandati iniziali, sia con un intenso scambio commerciale e con intese di carattere economico, sia con una proattiva azione diplomatica mirata a raggiungere una soluzione al problema palestinese sostenuta da una collaborazione attiva con le fazioni moderate di Hamas e dell’Autorità Palestinese, i rapporti hanno iniziato a intiepidirsi per sfociare in una serie di azioni politiche decise nei confronti di Israele che hanno creato profonde divergenze tra i due Paesi.

L’acuirsi delle relazioni diplomatiche è stato sottolineato da una serie di prese di posizioni intransigenti e dirette da parte di Erdoǧan che hanno interessato gli ultimi dieci anni e che sono determinate del crescente supporto alla causa palestinese espresso dal Presidente turco.

La decifrazione di questa linea politica del Presidente è particolarmente complessa se consideriamo i seguenti fattori critici.

Nonostante la maggioranza della popolazione sia a favore di una posizione di mediazione o di neutralità nei confronti della crisi tra Hamas e Israele, le azioni di Erdoǧan hanno indirizzato la sua politica in senso opposto, privando Ankara della libertà d’azione e della flessibilità necessarie a prendere parte al processo di mediazione in atto.

I rapporti tra Autorità Palestinese e Turchia, sebbene, non critici non hanno mai rappresentato il cardine della politica di Ankara e il sostegno dato alla causa palestinese non è mai stato determinante e incisivo, inoltre, anche i rapporti tra Hamas e la Turchia non sono stati caratterizzati da una visione coincidente, infatti, pur essendo di credo sunnita, Hamas ha legami molto più stretti con l’Iran che rappresenta l’antagonista principale della Turchia nell’area specifica.

Inoltre, all’inizio della crisi di Gaza Erdoǧan ha mantenuto una posizione di neutralità offrendosi come mediatore per raggiungere una possibile soluzione negoziale, per poi abbandonare repentinamente questa linea di condotta equilibrata e prediligere atteggiamenti di critica feroce nei confronti di Israele.

Alla luce di tali fattori la linea politica di Erdoǧan può essere perciò, motivata dalle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il supporto alla questione palestinese è dettato da considerazioni esclusivamente personali che ne influenzano la visione politico-diplomatica.

In secondo luogo, il supporto alla causa palestinese deriva anche dalla necessita di gestire la componente islamica della sua compagine di governo al fine di non essere schiacciato da pressioni interne che potrebbero compromettere la sua posizione di forza e la stabilità del governo stesso.

In terzo luogo, l’ostilità e il risentimento per essere stato messo ai margini del processo di distensione tra i Paesi del Golfo e Israele, avviato e sostenuto da USA e Arabia Saudita prima della crisi.

Da un ultimo, ma non meno importante, un errore di valutazione nell’aver voluto assumere un ruolo intransigente e decisamente ostile verso Tel Aviv nell’ottica di cogliere l’opportunità di rilanciarsi come leader della comunità islamica regionale che appoggia e sostiene Hamas.

Le conseguenze diplomatico-politiche di queste linee di azioni hanno posto la Turchia, e a maggior ragione il suo leader, in una situazione precaria rischiando di vanificare le aspirazioni di Ankara a poter ricoprire il ruolo dichiarato di potenza regionale

Indubbiamente la sensibilità politica di Erdoǧan gli ha consentito di comprendere che questa situazione ha compromesso l’equilibrio del suo baricentro politico e che il persistere in una tale direzione avrebbe comportato una serie di conseguenze negative e quindi ha immediatamente invertito la tendenza.

Se le dimostrazioni di supporto per la causa palestinese fanno riferimento a una retorica altisonante, l’approccio diplomatico sta mutando, nell’ottica di proporre una Turchia interessata alla collaborazione e alla ricerca di soluzioni negoziali.

In attesa di poter svolgere un ruolo più attivo nella crisi di Gaza, Erdoǧan ha puntato su un altro teatro, quello ucraino, dove proponendo una sua ipotesi di soluzione alla crisi ha rilanciato immediatamente l’immagine di una Turchia disponibile al dialogo e alla mediazione in grado di poter svolgere quella funzione di garante dell’equilibrio geopolitico adeguata a interpretare il ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geostrategico di Erdoǧan.

Conflitto nella striscia di Gaza, urgente il cessate il fuoco

MEDIO ORIENTE/Senza categoria di

Mentre dai fronti di guerra dell’Ucraina, dopo quasi due anni, non viene percepito alcun segnale di possibile cessazione e soluzione del conflitto, un’altra polveriera è esplosa nella fin troppo martoriata terra di Palestina, con l’attacco a Gaza deciso dal governo di Tel Aviv, a seguito del terribile e sanguinoso attentato di Hamas del 7 ottobre che ha provocato una strage di militari e civili, seguita dal sequestro di circa 250 ostaggi, ai fini di aprire nuovi margini di trattativa con Israele.

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Libano, bombe Israele vicino a base italiana dell’Onu

MEDIO ORIENTE di

L”artiglieria israeliana ha effettuato poco fa tre bombardamenti di artiglieria contro località nel sud del Libano, situate nei pressi della base italiana della missione Onu (Unifil) nel sud del Libano, senza
fare vittime o danni materiali al compound militare.
Lo riferiscono testimoni oculari vicini alla base di Shamaa, quartier generale del contingente italiano che in Libano conta più di un migliaio di soldatesse e soldati. Le fonti affermano che l’artiglieria israeliana ha preso di mira la zona di Tayr Harfa, Jebbine e Yarin a tre chilometri di distanza dalla base di Shamaa.

Medio Oriente: la pace “impossibile” e la convivenza necessaria

MEDIO ORIENTE di


Il dramma degli ostaggi israeliani, la catastrofe umanitaria a Gaza, in breve il fiume di violenza che scorre in Terrasanta mal cela una realtà evidente a chiunque osservi la situazione senza pregiudizi politici o religiosi. Ciò che rende questa guerra disperata e disperante è il fatto che nessuna delle parti in conflitto ha obiettivi strategici realizzabili: Hamas non può neanche immaginare di cancellare lo Stato ebraico (sarebbe militarmente e politicamente impossibile) e Israele ha della propria sicurezza solo un concetto “tattico” (rispondere colpo su colpo e con la massima durezza, pur sapendo che Hamas sopravviverebbe anche alla completa distruzione di Gaza).

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Parte la conferenza di Parigi per gli aiuti umanitari a Gaza

MEDIO ORIENTE di

La “conferenza umanitaria” su Gaza convocata da Emmanuel Macron a Parigi ha l’obiettivo di facilitare la consegna degli aiuti umanitari alla Striscia, resa difficile dai bombardamenti israeliani in risposta all’attacco di Hamas il 7 ottobre. La conferenza si è inaugurata stamattina presso il Palazzo dell’Eliseo, simbolo della presidenza francese nel cuore di Parigi. Nonostante l’assenza di Israele, Macron ha discusso con il premier Benjamin Netanyahu la scorsa martedì e prevede ulteriori colloqui al termine dell’assemblea, secondo fonti della presidenza francese. Leggi Tutto

DIFESA: NAVE VULCANO CON A BORDO OSPEDALE “ROLE 2” PRONTA A PARTIRE PER IL MEDIO ORIENTE.

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

Oggi, al termine delle operazioni di carico, l’unita sarà pronta a lasciare il Porto di Civitavecchia per Cipro dove si ricongiungerà alle navi italiane già presenti nell’area (“San Giusto”, “Fasan”, “Margottini” e “Thaon di Revel”) attualmente impegnate nell’Operazione “Mediterraneo sicuro” e da lì sarà pronta per essere schierata ove ritenuto più idoneo il suo impiego.

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La situazione in Medio Oriente dopo il 7 Ottobre

L’attacco che Hamas ha condotto contro lo Stato di Israele, lo scorso 7 Ottobre, rappresenta un ulteriore episodio del conflitto che devasta il Medio Oriente da circa un secolo (anno più, anno meno).

Per poter comprendere tale nuova fase di questa guerra infinita, è necessario esaminare gli aspetti che ad essa sono connessi al fine di potere avere una visione complessiva del suo significato.

Come tutti i conflitti, anche questo si svolge su piani paralleli ineluttabilmente interconnessi e le cui conseguenze richiedono una comprensione d’insieme per identificare le eventuali ipotesi di soluzione. Leggi Tutto

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Maurizio Iacono
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