GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Middle East – Africa

La situazione in Medio Oriente dopo il 7 Ottobre

 

L’attacco che Hamas ha condotto contro lo Stato di Israele, lo scorso 7 Ottobre, rappresenta un ulteriore episodio del conflitto che devasta il Medio Oriente da circa un secolo (anno più, anno meno).

Per poter comprendere tale nuova fase di questa guerra infinita, è necessario esaminare gli aspetti che ad essa sono connessi al fine di potere avere una visione complessiva del suo significato.

Come tutti i conflitti, anche questo si svolge su piani paralleli ineluttabilmente interconnessi e le cui conseguenze richiedono una comprensione d’insieme per identificare le eventuali ipotesi di soluzione.

Non si tratta, quindi, di uno scontro manicheo dove il bene e il male si affrontano e dove basta manifestare contro l’uno e a favore dell’altro dei due contendenti per risolvere la situazione, ma ci troviamo di fronte a un conflitto dove sono in gioco molteplici interessi geopolitici e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali per la convivenza tra le nazioni che sono posti alla base del sistema di riferimento mondiale.

Gli aspetti da esaminare, per comprendere la situazione in corso e cercare di identificare gli eventuali sviluppi futuri, sono molteplici.

Innanzitutto, è necessario fare una premessa per comprendere l’evoluzione della situazione in Medio Oriente nel corso degli anni. Originariamente, il conflitto è nato come una guerra tra gli Stati Arabi e Israele; successivamente, dagli anni Novanta del secolo scorso, quando è iniziato un processo di distensione che attraverso varie tappe ha condotto alla accettazione parziale di Israele da parte di una serie di Paesi, il fronte arabo è stato sostituito dall’Iran. Questo cambio di paradigma ha trasformato il conflitto in una crociata finalizzata alla distruzione dello Stato Ebraico che il mondo sciita, cioè l’Iran, ha intrapreso come elemento fondamentale della sua politica di egemonia.

In sintesi, il problema sostanziale alla base di tutto è la concezioni di negare la presenza di Israele, non solo in quanto enclave non musulmana (in un territorio che si ritiene debba essere dominio esclusivo dell’Islam perché conquistato quattordici secoli fa), ma soprattutto quale fattore di ostacolo al conseguimento di una egemonia locale che rappresenta l’obiettivo geostrategico della leadership teocratica iraniana.

Con buona pace dei vari movimenti di intellettuali e delle organizzazioni studentesche dei campus universitari che hanno inscenato ipocrite manifestazioni pro-Palestina libera, il destino del Popolo Palestinese non interesse minimamente a nessuno degli attori mediorientali coinvolti in questo conflitto, il fattore critico è, invece, rappresentato dalla distruzione dello Stato di Israele, quale corollario della espansione di quella rivoluzione religiosa che ha ispirato l’Iran di Khomeini finalizzata ad eliminare uno degli ostacoli che si frappongono al conseguimento della supremazia regionale.

Fatta questa debita puntualizzazione si può esaminare la situazione considerando sia agli aspetti regionali sia a quelli di carattere globale che derivano da questa crisi e che potranno costituire le basi per i successivi sviluppi.

Per quanto riguarda gli aspetti regionali, essi sono numerosi e con conseguenze di notevole portata.

In primo luogo, l’offensiva di Hamas ha colto di sorpresa il mondo arabo destabilizzandolo e parcellizzando la sua reazione nei confronti dell’atteggiamento verso Israele.

Infatti, il supporto per Hamas non è stato deciso e unanime in considerazione della differente posizione diplomatica che caratterizza i Paesi del MENA (Middle East and North Africa) a seguito del processo di normalizzazione con Israele in atto da tempo nella regione. Inoltre, l’azione di Hamas ha creato una situazione di tensione interna in quasi tutti i Paesi, dove le manifestazioni di piazza (più o meno spontanee), tese a supportare il Popolo Palestinese, oltra a costituire un fattore di pressione sulla componente governativa, potrebbero tramutarsi in un pericolo per la tenuta di alcuni dei regimi.

In secondo luogo, l’indeterminatezza della situazione potrebbe portare a un coinvolgimento di altre protagonisti, con un allargamento del conflitto, la cui escalation destabilizzerebbe anche il Libano e aumenterebbe lo stato di crisi della Siria. Infatti, la tensione che da tempo caratterizza il settore nord di Israele, fomentata da una serie continua di provocazioni messe in atto principalmente da Hezbollah lungo il confine, potrebbe sfociare nella apertura di un secondo fronte, qualora l’Iran decidesse di impiegare le organizzazioni che finanzia, addestra e coordina che costituiscono lo strumento principale di pressione su Israele (in attesa della componente nucleare!).

In terzo lugo, quanto successo il 7 Ottobre ha profondamente scosso l’opinione pubblica israeliana gettando un’ombra sulle capacità dimostrate dal governo e dall’establishment nella gestione e nella conduzione della fase iniziale del conflitto.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, l’azione di Hamas rappresenta il corollario della fallimentare gestione della cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), incapace di governare, inetta, senza visione politica, che dopo aver perso, già da tempo, il controllo della Striscia di Gaza a favore di Hamas, si sta facendo fagocitare da Hamas anche nella Cisgiordania. Da strumento di governo inizialmente individuato per la realizzazione dello lo Stato Palestinese, come previsto dagli accordi di Oslo, si è trasformata in una organizzazione clientelare, corrotta che ha abiurato al suo ruolo consegnando Gaza e Cisgiordania nelle mani di organizzazioni di matrice terroristica che come detto, nascondendosi dietro la causa del popolo palestinese perseguono obiettivi e interessi di potere deliranti.

Spostando l’esame agli aspetti di carattere globale possiamo osservare i seguenti elementi critici.

La regione indicata come MENA, ma soprattutto il Medio Oriente propriamente detto, rappresentano l’area di crisi più importante nel contesto geostrategico mondiale. E’ il cardine della cerniera che lega l’Asia all’Europa ed è la porta dell’Africa!

Questo è uno dei terreni dove si gioca la partita fondamentale della costruzione del nuovo ordine mondiale perché è da qui che la Cina deve passare per sostenere il suo fabbisogno energetico e per accedere alle ricchezze dell’Africa e sempre da qui passa la possibilità per l’Occidente di rafforzarsi economicamente e politicamente nel confronto con il mondo indo-pacifico garantendo non la pace (parola utopicamente abusata) ma la stabilità e l’equilibrio alla regione. Le reazioni globali che hanno caratterizzato questa nuova crisi mediorientale dimostrano ancora una volta che il destino geostrategico dell’Occidente non risiede nel tentativo di riesumare la Guerra Fredda con la Russia (per dare soddisfazione ai rancori dell’Europa Orientale) ma nella partecipazione attiva alla gestione della situazione in questa regione chiave.

Successivamente, la crisi ha dimostrato che la politica statunitense non possa fare a meno di svolgere un ruolo di primo piano nel Medio Oriente, essendo l’unico attore in grado di agire sia come protagonista diplomatico sia come elemento di deterrenza contro la tentazione di una eventuale escalation.

La risposta tiepida della Cina e l’impossibilità della Russia di giocare un ruolo determinante lasciano a Washington il ruolo di arbitro della situazione in tutti i sensi. Quando non frenati da alleati titubanti e ambigui nelle loro scelte, gli Stati Uniti sono in grado di decidere e di agire in maniera diretta, dimostrandosi in grado di svolgere quel ruolo di grande potenza che molti, recentemente, davano per appannato.

Come ultimo fattore di analisi deve essere sottolineato, ancora, il ruolo dell’ONU, anzi l’assoluta assenza dell’ONU, che si dimostra per l’ennesima volta un organismo vuoto e privo di concretezza, incapace di svolgere il ruolo per il quale era stato creato, prigioniero nel suo stesso Palazzo di Vetro di una apatia e di una insipienza ipocrita che rendono, vieppiù, necessario provvedere a una sua ricostruzione concettuale e strutturale.

Tenendo in considerazione questo contesto geopolitico e geostrategico è possibile, quindi, formulare delle ipotesi riguardo all’evoluzione della situazione.

L’intenzione di Israele di produrre una risposta coerente all’attacco di Hamas è fuori discussione, resta da vedere come tale risposta sarà concepita.

Tralasciando gli aspetti puramente operativi che verranno adottati, ciò che rappresenta il centro di gravità per la risoluzione del conflitto è costituito da quello che avverrà durante e dopo l’azione militare, cioè le azioni diplomatico politiche che non solo Israele ma la comunità internazionale saranno in grado di mettere in atto per gestire la situazione, evitare un’escalation e avviare un processo di ricostruzione.

Israele, non solo deve attentamente calibrare l’intensità e la durezza della sua azione a Gaza, conformando la sua condotta alle leggi dei conflitti evitando, così, di perdere o compromettere il sostegno internazionale ricevuto, ma deve soprattutto impedire che la neutralizzazione di Hamas apra un vuoto di potere nella Striscia tale da creare una situazione di caos istituzionale peggiore di quella attuale.

Infatti, la situazione al termine delle operazioni militari rappresenta il punto focale dell’intera questione ed è il fattore sul quale devono concentrarsi gli sforzi della comunità internazionale.

A questo proposito è importante sottolineare come le azioni diplomatiche che i Governi dell’area hanno intrapreso, nel particolare la Giordania, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, tendano sia a identificare una linea d’azione comune che pianifichi la ricostruzione dell’area sia a moderare gli effetti della crisi umanitaria in atto nella Striscia.

Oltre a condividere e sostenere una tale linea d’azione il ruolo che la diplomazia internazionale deve svolgere dovrebbe avere un duplice obiettivo: scongiurare che le caratteristiche della risposta cinetica di Israele coinvolgano anche la popolazione civile di Gaza (che è la vera vittima dell’azione di Hamas) ed evitare che il coinvolgimento di Hezbollah e dell’Iran possa determinare una escalation incontrollabile, che non solo destabilizzerebbe l’area, ma, le cui ripercussioni avrebbero effetti catastrofici globali; contestualmente, identificare delle ipotesi di soluzione credibili per la fase la ricostruzione politica, istituzionale ed economica dell’area, finalizzata a creare una situazione di equilibrio e di stabilità.

Il conseguimento di questi obiettivi sarà possibile se la diplomazia statunitense sarà sostenuta e integrata dal coinvolgimento di tutti i protagonisti del consesso internazionale, in primis Cina, India ed Unione Europea.

Un elemento di assoluta criticità è rappresentato dalla necessità di impedire che l’Iran, direttamente o indirettamente tramite le organizzazioni che finanzia e gestisce in Libano, Siria e Cisgiordania, supporti l’apertura di un secondo fronte settentrionale espandendo la crisi.

Al momento, nonostante la retorica minacciosa dei comunicati di Teheran, appare dubbio un coinvolgimento diretto dello stato islamico, tuttavia, la capacità di controllo di Hezbollah potrebbe non rivelarsi così incondizionata da evitare un possibile intervento nel conflitto. Al fine di neutralizzare questa potenziale minaccia è necessario che il contesto internazionale intervenga sia attraverso i canali diplomatici sia, anche, con azioni di deterrenza.

Per quanto attiene, invece, alla necessità di ricostruire ciò che la azione di Hamas ha distrutto, le possibili ipotesi devono essere immediatamente identificate al fine di condizionare e limitare l’azione puramente militare.

Il discorso, in questo caso, risulta essere complicato dalle infinte variabili in gioco.

La rioccupazione militare permanente della Striscia da parte di Israele non appare essere la soluzione ricercata dallo stato ebraico; l’ANP al momento non ha né gli strumenti né le capacità per poter riassumere il ruolo che gli competerebbe, avendo perso ogni forma di supporto popolare; la formazione di una missione sotto egida dell’ONU non sembra trovare il consenso necessario e risulterebbe l’ennesimo esempio di burocratizzazione inutile di una crisi senza provvedere alla soluzione; la possibilità di ripristinare la situazione quo ante puntando sull’ala moderata di Hamas (se mai ce ne fosse ancora una) è poco credibile e priva di garanzie di affidabilità per il futuro; la formazione assistita di una governance basata sulle forze politiche di minoranza locali opposte ad Hamas potrebbe risultare una imposizione dall’esterno priva di appoggio popolare.

Queste sono solo alcune delle possibili ipotesi ed è difficile predire quale possa essere la soluzione che potrà essere adottata; comunque sia, il fulcro del problema non risiede a Gaza ma investe tutta l’area mediorientale.

E’ quindi indispensabile la concretizzazione di un’azione diplomatico-politica globale che riesca a identificare e mettere in atto una soluzione idonea a creare l’equilibrio e la sicurezza indispensabili per tutto il Medio Oriente, considerando, realisticamente le aspirazioni e le aspettative legittime di tutti senza ipocrisie culturali e senza nascondersi dietro devianti interpretazioni del credo religioso.

Una nuova guerra in Medio Oriente?

 

Le modalità con le quali, nel settore della Striscia di Gaza, l’organizzazione di Hamas ha condotto l’attacco contro lo Stato di Israele hanno drammaticamente elevato il livello della tensione che contraddistingue l’area, accrescendo il pericolo che la situazione possa evolversi dando luogo a un vero e proprio conflitto.

Il successo che ha caratterizzato la fase iniziale delle operazioni di Hamas ha colto di sorpresa un’opinione pubblica generalmente poco attenta agli sviluppi della situazione mediorientale e geopoliticamente concentrata su se stessa, che si è meravigliata per l’assenza, apparente, di un qualsiasi segnale che potesse presagire una tale operazione.

Purtroppo, invece, questa ripresa violenta delle dinamiche che caratterizzano la regione era stata ipotizzata e considerata come un’eventualità possibile a breve termine.

Quello che può essere considerato come una sorpresa e che come tale ha colto parzialmente sbilanciato Israele è stato il settore in cui questo attacco si è sviluppato: la Striscia di Gaza.

Nei mesi passati lo sviluppo di una serie di eventi aveva concentrato l’attenzione degli analisti nei confronti del settore settentrionale di Israele dove le attività dell’organizzazione di Hezbollah lungo il confine con Libano avevano alzato il livello della tensione in maniera estremamente pericolosa provocando reazioni abbastanza dure da parte del Governo Israeliano.

Indubbiamente l’operazione lanciata da Hamas ha conseguito un iniziale successo sfruttando la sorpresa causata sia dalla portata delle operazioni sia delle modalità tattiche adottate per l’attacco, ma la controreazione israeliana è stata immediata.

Adesso, il vero elemento critico di questa crisi è rappresentato dal livello della risposta che Israele intenderà adottare, in quanto le conseguenze avranno effetti complessivi che condizioneranno pesantemente l’attuale quadrò geostrategico regionale.

La situazione di Israele in questo momento è particolarmente delicata sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Infatti, all’interno le difficoltà incontrate dal Governo del premier Netanyahu nel portare avanti una serie di riforme politiche hanno acceso il dibattito politico creando una situazione di tensione nella società israeliana; mentre lo scenario estero è condizionato dal processo di normalizzazione dei rapporti con i vicini che passa obbligatoriamente per l’Arabia Saudita e dalla necessitò di contrastare l’influenza iraniana.

Per quanto attiene, invece, alle motivazioni che hanno indotto Hamas a scatenare il suo attacco queste possono essere identificate nei fattori che condizionano l’operato dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) anch’esse originate da criteri di politica interna e di politica estera.

In sintesi, l’ANP ha da tempo perso il controllo della Striscia di Gaza che è governata dall’organizzazione di Hamas e ultimamente ha visto il suo potere erodersi anche in Cisgiordania a favore di Hamas. L’attacco di questi giorni potrebbe essere il tentativo di Hamas di proporsi come il difensore del popolo palestinese e rivendicare il ruolo politico che adesso è della ANP.

La possibilità da parte di Israele di includere l’Arabia Saudita nel processo di normalizzazione viene considerata come una inaccettabile perdita di influenza della causa palestinese nel mondo arabo e come tale osteggiata. La possibilità di spingere Israele a scatenare una reazione particolarmente incisiva nei confronti di Gaza avrebbe l’effetto di congelare l’adesione del regno saudita ad un accordo per il riconoscimento di Israele.

Infine, non può essere trascurato l’interesse dell’Iran che, quale finanziatore e ispiratore dei movimenti islamici come Hamas, potrebbe aver sollecitato l’attacco per poter trarre elementi di valutazione riguardo alle reazioni israeliane nell’ottica del perseguimento dei suoi obiettivi di distruzione dello Stato di Israele.

Di conseguenza la risposta di Israele dovrà tenere conto di numerose variabili e di situazioni i cui pro e contro sono particolarmente significativi.

Un primo elemento, che sicuramente potrebbe condizionare le scelte successive, è rappresentato dalle dichiarazioni di supporto che sono venute dal contesto internazionale unitamente a quelle di condanna dell’azione di Hamas, che rappresentano un fattore particolarmente positivo per la loro prontezza (ha stupito l’immediata dichiarazione dell’Unione Europea per tramite della Presidente della Commissione) e che dimostrano una predisposizione favorevole in quanto affermano il diritto alla difesa da parte di Israele.

Un secondo fattore è rappresentato dalla necessità di calibrare una risposta che sia abbastanza decisa da eliminare o ridurre la minaccia di Hamas senza stimolare una reazione da parte di Hezbollah lungo il confine con il Libano o innescare una ennesima intifada nella Cisgiordania.

Infine, il particolare momento offre una possibilità a Netanyahu di ottenere un consenso politico interno che a seguito di una bilanciata soluzione di questa crisi, gli consentirebbe, probabilmente di ottenere il supporto di fazioni politiche più moderate che renderebbero meno significativa l’attività che la componente oltranzista del suo Governo sta cercando di imporre, riequilibrando, così la situazione di tensione sociale in atto nel Paese.

Se la situazione sul campo si sta evolvendo rapidamente a favore delle forze Armate di Israele (IDF) per ristabilire accettabili condizioni di sicurezza, le azioni che il Governo di Israele deciderà di adottare sono condizionate da una molteplicità di fattori che richiederanno soluzioni calibrate ed equilibrate, dove la volontà di adottare misure cinetiche definitive nei confronti di Hamas dovrà essere condizionata dalla necessità di conseguire una vittoria, soprattutto, politica e non solo militare.

E’, infine, opportuno sottolineare come la popolazione della Striscia di Gaza e quella israeliana adiacente siano le vere vittime di questa ennesima dimostrazione di come le organizzazioni terroristiche come Hamas, supportate e finanziate da Stati totalitari (Repubblica Islamica dell’Iran in primis) possano arrogarsi il diritto di essere riconosciuti come i rappresentanti di uno Stato o di una Nazione, quando invece le loro azioni sono dettate, esclusivamente, dal soddisfacimento di interessi di potere che nulla hanno a che fare con i diritti e la difesa della popolazione palestinese.

Iran: nuova diplomazia, ma stesso obiettivo

La teocrazia iraniana ha da sempre perseguito un duplice obiettivo strategico: assumere una leadership regionale affermandosi come potenza dominante nel Medio Oriente; costringere gli USA ad abbandonare l’area e allo stesso tempo detronizzare Israele. Questa è stata e rimane la direttiva geostrategica che orienta la politica dell’Iran, ciò che invece ha subito una rimodulazione è stato l’approccio della diplomazia persiana nei confronti dei Paesi del Golfo e della Penisola Arabica.

Nei mesi scorsi, infatti, la diplomazia di Teheran ha adottato una differente e nuova modalità esecutiva che ha sensibilmente modificato la posizione del Paese nei confronti dei rapporti con gli altri Stati del Medio Oriente.

Se il risultato più sorprendente dal punto di vista della ricaduta mediatica può essere considerato il riavvicinamento tra Teheran e Riyad, avvenuto grazie alla intercessione di Pechino, non devono essere assolutamente sottovalutati gli altri passi che l’Iran ha mosso nel tentativo di riconfigurare la sua posizione nell’ambito regionale.

La ripresa di relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi, le ricerca di un dialogo con Abu Dhabi, l’inizio di negoziati con il Bahrain, rappresentano altrettante iniziative diplomatiche volte a presentare l’Iran non come un antagonista scomodo e un vicino ambizioso, ma come un possibile interlocutore di livello e come un partner per la condivisone di progetti che soddisfino interessi reciproci.

Oltre a questi passi l’Iran si è mosso in altre direzioni, dimostrando di voler normalizzare anche situazioni diplomatiche basate sulla adozione di prospettive differenti che in passato hanno opposto Teheran sia al Cairo sia all’Oman. Nel particolare, sono state intraprese significative iniziative per la normalizzazione dei rapporti con l’Egitto, che costituisce uno dei Paesi protagonisti dell’intero MENA e antagonista principale nel ruolo di Paese guida dell’area.

Ma l’azione diplomatica iraniana è stata caratterizzata da una visione a 360°, in quanto sono stati ripresi i colloqui con la Turchia e di conseguenza con la Russia e la Siria per cercare di arrivare a una soluzione che possa risolvere le problematiche che affliggono la regione siriano irachena salvaguardando gli specifici interessi di tutte le potenze coinvolte.

A coronamento di questa serie di iniziative diplomatiche di assoluta importanza, per dare rilievo al nuovo corso della geopolitica di Teheran nei confronti dei Paesi del Medio Oriente, l’Iran ha proposto l’istituzione di un forum regionale dal quale sono esclusi gli USA e Israele, ottenendo una reazione di principio, complessivamente positiva, che potrebbe aprire a nuove prospettive di sviluppo delle relazioni nell’area.

Ovviamente, questo nuovo orientamento strategico non ha risolto d’emblée i numerosi dossier che ancora caratterizzano i rapporti tra Teheran e le Capitali Arabe; infatti, rimane elevata la tensione con il Kuwait e anche con gli stessi Emirati e l’Arabia Saudita a causa di problematiche di particolare rilievo, come rivendicazioni territoriali o il supporto a fazioni contrapposte nell’ambito della crisi yemenita.

Il nuovo contesto diplomatico vede quindi l’Iran proporsi come partner disponibile al dialogo e non come minaccioso vicino pronto a “flettere i muscoli” per conseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, rimane insita la diffidenza degli altri attori e la circospezione con la quale le iniziative di Teheran sono accolte, in quanto, nonostante il cambiamento di atteggiamento, rimane immutato l’obiettivo strategico iraniano che punta all’ acquisizione della leadership regionale.

Ma il punto di volta che sorregge il conseguimento di un tale obiettivo rimane quello della eliminazione della presenza USA nell’area.

Solo eliminando la presenza di Washington l’Iran può sperare di assumere quel ruolo di leadership che rappresenta il centro di gravità della strategia perseguita dalla teocrazia di Teheran.

L’eclisse dell’America, inoltre, renderebbe possibile, agli occhi dell’Iran, l’eliminazione del nemico atavico del regime: Israele.

Di conseguenza, se nei confronti dei Paesi del Medio Oriente la diplomazia iraniana ha adottato un atteggiamento decisamente più conciliante e meno aggressivo che nel passato, è nei confronti degli USA e di Israele che si concentra l’azione ostile e provocatoria dell’Iran.

Azione che alterna fasi dinamiche sia dirette, contro gli interessi commerciali nell’area (flusso attraverso il Golfo), sia indirette, con il continuo e massiccio supporto alle organizzazioni terroristiche di matrice islamica che conducono una sorta di proxy war contro gli interessi USA e che agiscono ai confini di Israele mantenendo elevato lo stato di tensione.

Ma quanto risulta efficace questa nuova impostazione diplomatico – strategica da parte di Teheran e come viene percepita dai vari Paesi nell’area mediorientale?

Certamente la fiducia negli USA come garante della sicurezza e dell’equilibrio nella regione ha subito un ridimensionamento notevole a causa di una linea politica priva di visione strategica adottata dalle amministrazioni americane che si sono succedute da Obama in poi (nessuna esclusa), linea che ha dimostrato l’incapacità di Washington di adattare la propria diplomazia a uno scenario i cui parametri sono in continuo mutamento. Le azioni volte a cercare di invertire questa tendenza poste in atto dalla attuale amministrazione, anche se si sono dimostrate poco efficaci e abbastanza maldestre, hanno avuto, almeno, il pregio di cercare di recuperare il terreno perduto.

La sensazione di insicurezza creatasi ha spinto i Governi dell’area a individuare delle alternative che possano colmare il vuoto lasciato dagli USA, offrendo la possibilità alla Cina di entrare quale attore di rilievo nell’area e concedendo alla Russia un rientro da protagonista nello scenario. Contestualmente, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza nelle capacità intrinseche di alcuni Paesi (Arabia Saudita, Egitto, Turchia) nel poter ricoprire un ruolo sempre più incisivo, ha fatto nascere il concetto di Media Potenza che sta cambiando gli assetti geostrategici generando nuovi centri di equilibrio regionale.

Nonostante la nuova impostazione diplomatica di Teheran possa essere considerata, pur con un certo ottimismo, di successo, rimane la diffidenza di fondo degli altri Paesi che temono che una volta eclissatasi la potenza USA l’aggressività dell’Iran non sia più contrastabile. La presenza della Cina, partner critico dal punto di vista commerciale ed economico, e di una Russia in difficoltà non sono considerate alternative affidabili per garantire la sicurezza e l’equilibrio.

Questa situazione genera, da un parte, un atteggiamento ambiguo nei confronti degli USA, contraddistinto da aperture caute e ricerca del massimo risultato ai fini del conseguimento dei propri interessi, cercando di evitare una situazione di completa dipendenza/sudditanza diplomatico politica alla strategia di Washington.

Dall’altra, un’azione abbastanza spregiudicata nell’intraprendere soluzioni alternative, ricercando partnership e collaborazioni dirette sia verso il Sud Emergente (Global South) sia verso l’Unione Europea, identificando in essa quelle realtà politiche in grado di formulare visioni strategiche di ampia portata.

Il successo della strategia iraniana non è affatto scontato; in primo luogo, le preoccupazioni degli altri Stati non sono state di certo ridimensionate da questo nuovo corso della diplomazia, in quanto gli artigli di Teheran sono sempre più affilati.

In secondo luogo, anche se gli USA hanno visto decadere la loro influenza regionale, rimangono comunque l’unica potenza che l’Iran considera con rispetto e teme e di conseguenza sono ancora un elemento critico nell’equilibrio della Regione.

In terzo luogo, inoltre, anche ammettendo la scomparsa della presenza USA, l’Iran si troverebbe a confrontarsi con una Cina decisamente in ascesa e desiderosa di imporre la propria leadership in quella regione che rappresenta il trait d’union tra l’Asia e il Mediterraneo, dove è puntata la direttrice strategica della Road and Belt Initiative di Pechino.

Infine, anche se Israele è attraversato e scosso da una crisi costituzionale senza precedenti e sembra aver perso la lucidità diplomatico politica che ne ha caratterizzato la storia, le sue potenzialità non possono essere sottovalutate e l’esito di un eventuale conflitto, oltre a non essere affatto scontato per Teheran, altererebbe drammaticamente l’assetto dell’intera regione e potrebbe trasformarsi in un clamoroso insuccesso per la teocrazia iraniana.

Quindi, in sintesi, il nuovo corso della diplomazia dell’Iran rappresenta il tentativo di rendere meno ostili i Paesi dell’area mediorientale, mostrando una postura meno aggressiva e più incline a forme di collaborazione locale limitate, il cui fine ultimo è comunque quello di porre le condizioni per eliminare la presenza USA, che rappresenta l’ostacolo insormontabile per poter raggiungere quella leadership regionale che l’Iran insegue dalla rivoluzione del 1979.

La diplomazia persiana ha radici millenarie e l’Iran di oggi ha ereditato questa raffinatezza di pensiero, ma lo scenario non è solamente limitato allo scontro Iran vs. USA in quanto il palcoscenico adesso ospita nuovi protagonisti le cui aspirazioni geostrategiche sono altrettanto aggressive e di portata globale.

Ma questa complessa scenografia geopolitica è estremamente fluida e quindi c’è posto anche per altri protagonisti ed è qui che l’Europa potrebbe trovare le condizioni adatte a recitare un importante ruolo in questo Grande Gioco che è in atto per costruire il Nuovo Ordine Mondiale.

Medioriente – il Nuovo Mondo del terzo millennio

Recentemente, nell’ambito di una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella quale dovevano essere discussi i termini per l’invio di ulteriori aiuti umanitari a favore delle aree colpite dal terremoto, che ha devastato la zona di confine tra Turchia e Siria, la Russia ha esercitato il diritto di veto bloccando, di fatto, l’approvazione della risoluzione. La scelta, da parte del rappresentante russo, di opporsi all’adozione di una misura tendente ad alleviare lo stato di crisi che caratterizza la regione conferma il supporto di Mosca alla linea politica siriana, la quale ritiene che la distribuzione, imparziale e non soggetta a controlli degli aiuti, possa favorire le fazioni politiche che contrastano il regime di Assad nella regione settentrionale del Paese.

L’eccezionalità del fatto in argomento non risiede nell’esercizio del diritto di veto da parte russa, ma nella reiterazione, in sede ONU per la diciassettesima volta nell’arco di pochi anni, di un comportamento a favore e a sostegno del regime siriano effettuata dalla Russia.

La chiave di lettura per comprendere le azioni di Mosca risiede nella impostazione della visione geostrategica russa che prevede l’espansione e il consolidamento dell’influenza del paese secondo una visione globale non eurocentrica, mirata a proporre e supportare il ruolo della Russia di grande potenza.

Nell’area particolare del Medio Oriente la Russia segue ormai da tempo una linea strategica che propone Mosca come partner politico privilegiato in grado di offrire supporto e collaborazione nell’ambito di un sistema di scambi non vincolato a una condivisione pregiudiziale di vincoli culturali o etici. Inoltre, si è dimostrata pronta a inserirsi in tutte quelle aree dove la presenza USA è meno forte o dove l’interesse americano sembra essersi affievolito.

La scelta che Russia e Cina hanno fatto di investire politicamente nell’area mediorientale e, nella sua visione più ampia nei Paesi del MENA, valutando questo come il teatro critico nel quale svolgere un ruolo determinante a livello geopolitico per il consolidamento del ruolo di potenza globale, deriva dal profondo mutamento che è in corso nell’area.

Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Oman, Kuwait, Bahrain, Siria, Iran, Iraq, Turchia, Israele, Libano, Giordania, Yemen non c’è Stato che recentemente non sia impegnato in un processo di revisione delle strategie per il conseguimento dei propri interessi nazionali che ha sconvolto lo statu quo che aveva caratterizzato l’area per decenni.

Le caratteristiche dello scenario strategico che stanno mutando non riguardano solamente la necessità di riconvertire, in un futuro più o meno imminente, economie basate sul petrolio, ma investono, soprattutto, la collocazione geopolitica che questi Paesi avranno nel contesto globale.

Il Medio Oriente, infatti, rappresenta la fascia avanzata di quel Global Sud che si vuole affacciare allo scenario internazionale da protagonista, ne ha le potenzialità, i mezzi e la volontà.

Gli eventi politici che hanno radicalmente mutato lo scenario sono stati caratterizzati da due fattori fondamentali.

Il primo riguarda l’ingresso della Cina e della Russia (per quest’ultima si può parlare di ritorno in alcuni casi) nel contesto geostrategico mediorientale come sostenitori di un nuovo ordine di rapporti, svincolato dalla ossessiva ricerca della condivisione/imposizione di concetti e di valori culturali ma basato sia sul conseguimento di benefici comuni e sul soddisfacimento di reciproci interessi locali, sia sulla ricerca di rapporti diretti bilaterali che escludono la creazione di coalizioni o alleanze limitative e con rapporto di subordinazione. L’azione di Pechino e Mosca è stata facilitata dalla generale perdita di fiducia nelle capacità degli USA di svolgere il ruolo di garante della sicurezza e di potenza equilibratrice dovuto alla ondivagante e ambigua politica estera che dall’amministrazione Obama in poi ha contraddistinto l’azione di Washington.

Il secondo fattore, invece, è rappresentato dalla progressiva transizione verso una multipolarità dello scenario internazionale, caratterizzata non solo dalla presenza di attori con prerogative globali (in essere o in divenire) che hanno affiancato protagonisti del vecchio ordine USA e Russia, come Cina, India, Brasile Sud Africa, Giappone, ma anche dalla nascita di una serie di medie potenze a carattere regionale in grado di svolgere un ruolo importante e decisivo per il mantenimento di un equilibrio non solo locale, ma complessivo.

In quest’ottica deve essere esaminato il processo di sviluppo geopolitico in atto nell’area in argomento. Gli esempi sono molteplici e riguardano tutta la regione. Come riferimento basti osservare casi emblematici di questa evoluzione geostrategica.

La Turchia, membro della NATO ma ostracizzata per l’ingresso nell’Unione Europea, persegue una politica in bilico tra Est e Ovest le cui attività vanno da una forte e consolidata presenza nel Mediterraneo alla più diretta azione nelle crisi siriana, libica e caucasica, al fine di conseguire lo status di potenza regionale.

L’Arabia Saudita, alleato storico degli USA sta riconsiderando i termini di questa partnership, mentre sta costruendo il futuro del post petrolio sconvolgendo il proprio sistema sociale e culturale.

Recentemente ha intessuto una serie di rapporti diplomatici con i nemici di sempre (Iran e Yemen) a vantaggio di interessi specifici e con l’intento di proporre il Paese come elemento di equilibrio geopolitico nell’area.

Israele che, nonostante le mutazioni del sistema sociale interno stiano scuotendo le fondamenta della sua democrazia, dimostra una proattività diplomatica volta al difficile processo del suo definito riconoscimento e alla costruzione di una cornice di sicurezza anti-iraniana adottando una politica di concessioni e accordi anche senza l’egida USA.

L’Iran, che nonostante abbia avviato un processo di normalizzazione diplomatica con l’Arabia Saudita, continua a supportare le organizzazioni estremistiche della regione (Libano, Yemen, Siria) e a estendere la sua influenza sull’Iraq. Se, internamente, la necessità di reprimere le proteste popolari ha favorito la scalata a posizioni di potere dell’ala militare del regime che sta perseguendo un processo di miglioramento ed espansione dello strumento militare, di cui il nucleare sembra essere il punto di arrivo, dal punto di vista delle relazioni estere il progressivo avvicinamento all’orbita russo-cinese evidenzia il distacco da una politica di equidistanza e la volontà di essere supportata nella sua crociata anti USA.

L’Oman che si è ritagliato un ruolo particolare dal punto di vista diplomatico identificandosi come la risorsa ideale per mediare situazioni apparentemente inconciliabili e pervenire alla stipulazione di accordi politici di fondamentale portata. Gli accordi tra gli USA e i Talebani e il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita sono solo due dei successi che la diplomazia omanita ha reso possibile.

Non solo, in tutti i Paesi del Medioriente sono in via di sviluppo politiche e strategie tendenti a cambiare l’assetto della regione e a conferire maggior peso specifico all’area. Anche la rivitalizzazione della Lega Araba che ha ultimamente posto le condizioni per riammettere la Siria nell’ambito dell’organizzazione dimostra la volontà di cambiare la situazione.

Un ultimo indicatore è rappresentato dalla volontà di trasformare la regione da un’area di sfruttamento delle risorse naturali a un polo di attrazione di investimenti e di capitali verso un settore terziario che ha conosciuto un’esplosione senza limiti nell’ultimo decennio: creazione delle premesse per il turismo di massa e organizzazione di eventi culturali e sportivi a livello mondiale costituiscono solo la punta di un iceberg che non rimane circoscritto all’area locale ma prevede l’espansione verso una sorta di conquista del monopolio occidentale in questi settori (su tutti si deve considerare la scalata al mondo del calcio e la conquista del circuito golfistico americano).

Cina e Russia (e India recentemente) sono visti come partner, magari non del tutto affidabili e anche pericolosi, ma necessari per conseguire gli obiettivi nazionali dai Paesi dell’area, in quanto non essendo il loro approccio basato sulla richiesta di adesione a valori sociali e morali, consentono lo stabilirsi di rapporti esclusivamente di interesse finanziario e commerciale, che non necessariamente sfociano in alleanze.

Ritornando al veto della Russia in sede di Consiglio di Sicurezza, appare, quindi, palese che Mosca sia pure in difficoltà per gli sviluppi della crisi ucraina ragiona e opera in termini di grande potenza. La proattività di Mosca, diretta o indiretta, in Asia e in Africa, continua a contraddistinguere la sua azione diplomatico politica aprendo nuove finestre di opportunità per la sua affermazione quale protagonista critico nella trasformazione in atto nello scenario mondiale.

Nonostante la nostra cieca e ipocrita narrative di una Russia impegnata nel resuscitare la Guerra Fredda la realtà e ben diversa. Mosca ha una visione globale che ha noi Occidente manca del tutto.

La volontà di rivalsa dei paesi dell’Europa dell’Est e del Baltico nei confronti della Russia sta legando l’Europa a un passato che ormai è remoto, impedendogli di dedicare le risorse e le capacità di cui è in possesso per affrontare con successo il cambiamento che è in atto nel sistema delle relazioni mondiali.

La sfida che dobbiamo affrontare viene dal Sud del mondo e non da un anacronistico conflitto EST -OVEST!

Dobbiamo renderci conto che la Guerra Fredda e l’esotismo delle gesta di Lawrence d’Arabia appartengono al passato, sono mondi che non possiamo resuscitare e che non ci appartengono più. Il futuro dell’Occidente non è assicurato dall’espansione globale della NATO (il cui Segretario Generale ha perso il senso della misura invocando interessi asiatici dell’Alleanza!) e neppure dalla crociate in difesa di concetti e valori di cui ci riempiano la bocca ma che spesso calpestiamo per gli interessi personali!

Il processo di sviluppo che sta avendo luogo nel Medioriente, (e di riflesso nell’Africa), rappresenta la chiave di volta del mondo che verrà. Questo la Russia lo ha capito bene e ha indirizzato le sue scelte geopolitiche coerentemente, l’Occidente invece si ostina a vivere nel passato prigioniero di vestigia imperiali oramai defunte e di rancori atavici nordeuropei verso l’Orso Russo.

Ben vengano, quindi le iniziative del nostro Paese verso questo Nuovo Mondo, che sembra aver ritrovato la via per perseguire interessi strategici nazionali orientando la nostra diplomazia al di là del Mediterraneo.

Global South e Nuovo Mondo Multipolare

Mentre in Europa abbiamo reinventato la Guerra Fredda nell’illusione di fermare la storia, cullandoci nel decadente mito della superiorità della cultura occidentale, sorretti dalla presunzione di avere il diritto di imporre sanzioni a chiunque non condivida la nostra narrative, il mondo si è trasformato sotto i nostri occhi.

Il processo di creazione di un nuovo ordine multipolare non è più una eventualità o una possibilità ma è diventata una realtà che sta ridimensionando il ruolo e l’importanza dell’Occidente nel contesto globale, rendendo obsoleto e inadatto il nostro sistema di aggregazioni e di alleanze (oramai roboanti a parole ma quasi prive di efficacia reale – più sono le ammissioni meno potente diventa il sistema!).

Un’Europa incerta e indecisa, profondamente divisa in quanto a scelte strategiche, che si nasconde dietro la bandiera dell’effimera chimera dell’Unione Europea, prigioniera di dinamiche culturali utopistiche, affannosamente alla ricerca di un grande fratello a cui affidare la propria sicurezza, che si culla nell’illusione che organizzazioni, ormai datate e fuori tempo, possano garantire il mantenimento di uno statu quo non più aderente alla realtà geostrategica, ha perso di vista l’evoluzione dello scenario internazionale.

Il nuovo ordine multipolare è caratterizzato dalla presenza di entità geopolitiche che rispondono a nuovi concetti organizzativi dove coesistono potenze di dimensioni globali e medie o piccole potenze che svolgono ruoli determinanti e critici quali attori regionali.

È un sistema dove l’aggregazione degli Stati non avviene in base al concetto di amico aut nemico che ha forgiato il nostro sistema di relazioni, ma si basa sempre più sulla condivisione di interessi che possono essere economici, finanziari, geopolitici, industriali, di sicurezza, di sviluppo e via dicendo che non hanno il crisma dell’unicità o delle unidirezionalità, non sono persistenti e non sono globali, ma soprattutto non impediscono la libertà di azione di ciascuno Stato che può aggregarsi a seconda dei propri interessi nazionali senza dover sottostare a scelte di campo astringenti e limitative.

L’altra caratteristica che caratterizza questi rapporti risiede nella assenza di condizionamenti ideologico culturali quale base per lo stabilirsi di accordi o partenariati.

Le grandi organizzazioni che si stanno affermando non mirano a garantire una sicurezza globale e non sono dirette alla diffusione o alla condivisione di concetti culturali a premessa della partecipazione a esse. Il BRICS, la New Development Bank (NDB) e lo Shanghai Cooperation Organization (SCO) che rappresentano la punta emergente della volontà di sistematizzare questo nuovo ordine multipolare sono in crescita e in espansione perché rappresentano un’attrattiva interessante per un Global South emergente e che non vuole essere costretto, obbligatoriamente, a dover assumere una posizione nei confronti dei protagonisti che si contendono l’egemonia mondiale.

Le iniziative e le attività in questo senso hanno assunto proporzioni vastissime espandendosi con enorme rapidità dal Medio Oriente all’Africa per coinvolgere l’intera area dell’Indo-Pacifico.

Per avere un’idea del complesso fenomeno della costruzione di questo nuovo sistema può essere indicativo esaminare l’evoluzione che ha contraddistinto il processo di perseguimento degli interessi geostrategici nazionali dell’Arabia Saudita negli ultimi anni.

Sotto la guida del Principe Mohammed bin Salman (MbS) l’Arabia Saudita ha intrapreso un enorme processo di trasformazione al fine di dotare il Paese degli strumenti necessari per affrontare, con successo, un futuro immediato in termini geopolitici, dove le riserve fossili non saranno più un fattore di potenza.

Pur rimendo un interlocutore privilegiato per gli USA l’Arabia Saudita ha diversificato e ampliato i propri orizzonti geopolitici stabilendo, da tempo, solide relazioni economico commerciali con la Cina, che hanno consentito la convergenza di specifiche visioni politiche.

Pur perseguendo una politica di leadership nel mondo arabo il Paese ha adottato un nuovo corso nelle relazioni che lo legano ai Paesi Mediorientali: il processo è culminato con il l’accordo per ristabilire le relazioni con l’Iran, ma è stato preceduto da una serie di rinnovate intese con gli altri attori dell’aerea, Turchia, Israele in primis. Non si tratta di alleanze o patti tutt’altro, queste azioni si basano sulla possibilità di poter condividere interessi e risorse comuni al fine di perseguire obiettivi pratici. Il criterio alla base è che le differenze di posizioni su temi geopolitici generali restano ma non sono considerate come un ostacolo al conseguimento di un accordo che offra benefici immediati e concreti di carattere economico – finanziario.

La recente richiesta dell’Arabia Saudita di entrare a far part e del BRICS, oltre ad essere favorita dalle importanti relazioni commerciali con la Cina, delinea la volontà del Paese e della sua leadership di poter legare lo sviluppo del progetto Vision 2030 alla Belt and Road Initiative cinese per contribuire, da protagonista, a definire i contorni di un nuovo ordine mondiale extra-occidente rappresentato dalle potenze emergenti (direi piuttosto già emerse) e dal Global South che si identificano e si raggruppano sotto l’egida dell’organizzazione del BRICS.

Il progetto è sostenuto ideologicamente dal conseguimento di una diversità globale, costruita nel mondo per il mondo dove i Paesi come l’Arabia Saudita svolgono il ruolo fondamentale degli elementi di equilibrio del sistema.

Inoltre, con la richiesta di ingresso nel BRICS e di partecipazione alla NDB, il Paese si è assicurato un forte sostegno per la candidatura di Ryad quale sede dell’Expo 2030, obiettivo che coronerebbe la Vision 2030 e che rafforzerebbe la narrative del BRICS di diversità globale e nuovo ordine mondiale.

Contemporaneamente, però, MsB ha effettuato una lunga visita in Francia dove sono stati raggiunti importanti accordi di carattere tecnico, scientifico, energetico e commerciale attraverso il French – Saudi Investiment Forum che porteranno a un incremento sostanziale dell’interscambio commerciale tra i due Paesi consentendo all’Arabia Saudita di evitare una dipendenza esclusiva da Pechino.

Da ultimo, ma non di minore importanza in quanto evidenzia la capacità di considerare e valutare le potenzialità offerte dai nuovi orizzonti, va sottolineata l’intraprendenza dimostrata nel settore dell’organizzazione di grandi eventi sportivi, iniziata con l’acquisizione di club calcistici, proseguita con l’ingresso come sponsor nel mondo della F1 e la disponibilità a essere sede di meeting e manifestazioni di alto livello, che si è concretizzata con il successo dell’accordo di fusione del più prestigioso ed esclusivo circuito golfistico, quello del PGA Tour, con il Liv Golf il tutto basato su una disponibilità di risorse economiche inimmaginabile per qualsiasi altro sistema di investimento di fondi.

In sintesi, l’Arabia Saudita rappresenta l’archetipo del Paese sul quale si basa la nuova multipolarità globale.

Ha stretti rapporti con le principali potenze, ma non si riconosce nel ruolo di alleato di nessuna di loro, in questo modo si estrapola dalla classificazione di filo-occidentalismo o filo-orientalismo, sviluppa un approccio multipolare che gli consente di scegliere e valutare le opportunità che meglio soddisfano i propri interessi nazionali.

È preoccupato della propria sicurezza a livello regionale e per questo cerca di sviluppare un sistema di relazioni internazionali che consentano di eliminare o mitigare i possibili attriti geopolitici con i vicini, ma nello stesso tempo sviluppa una sua politica di difesa appoggiandosi a una grande potenza ma condividendone solo le linee strategiche che la riguardano.

Ricerca rapporti di cooperazione ma non di sudditanza, è disponibile ad alleanze specifiche su un piano di parità, senza sentirsi vincolata da queste, a colloquiare con qualunque altro attore possa rappresentare una risorsa per il conseguimento di opportunità o di interessi nazionali.

Diversifica le fonti di approvvigionamento dei beni e delle risorse essenziali al suo sviluppo in modo da ridurre o eliminare la dipendenza da un singolo Paese, ricercando un equilibrio nei rapporti e negli scambi commerciali che gli garantisca l’indipendenza diplomatico – politica.

Ha, soprattutto, una chiara visione di quelli che sono gli obiettivi che rappresentano i suoi interessi nazionali e ha sviluppato e implementato una strategia per poterli perseguire.

Questo processo che ha trasformato in senso radicale il sistema delle relazioni internazionali è solo all’inizio e gli sviluppi successivi, sicuramente, comporteranno una ulteriore definizione di un mondo multipolare con regole e criteri differenti da quelli ai quali siamo abituati e che consideriamo immutabili.

L’Europa vive in una realtà ovattata che si basa sulle regole di un mondo uscito dalla tragedia del Secondo Conflitto Mondiale che non è più reale nonostante si cerchi di mantenerlo in vita artificiosamente. L’ONU e le organizzazioni a essa collegate hanno visto il loro prestigio e il loro valore intrinseco diminuire e devono essere riformate dal profondo per riacquisire la centralità alla quale erano deputate.

L’Unione Europea è un consesso che si sta distaccando sempre più dalla realtà delle necessità dei Paesi Membri e che viene usato come paravento per interessi particolari di nazioni alla ricerca dell’impero perduto. Giochiamo ancora con definizioni da barzelletta (Paesi Virtuosi, Paesi Frugali), mentre abbiamo abiurato ai concetti culturali e politici fondamentali che erano stati posti alla base del progetto, nella smania di accogliere tutti senza limiti e in osservanza a utopistici deliri di universalità, senza considerare le conseguenze di accollarsi oneri difficilmente sostenibili.

Abbiamo attaccato lancia in resta l’Orso Russo perché ci serviva un nemico sul quale far ricadere le nostre insicurezze e soprattutto ricreare quella situazione di pericolo che serve al Nord dell’Europa per non volgere lo sguardo a Sud ed evitare di affrontare una realtà che sconvolgerebbe la loro comfort zone.

Mentre ci guardiamo il nostro ombelico credendo che sia quello del mondo, ci stiamo perdendo la trasformazione che sta cambiando il contesto geopolitico globale. È opportuno cambiare rotta, smettere di inseguire realtà virtuali e dissanguarci in un conflitto dove in pericolo non sono la sopravvivenza del mondo libero la democrazia, ma solo gli interessi particolari degli USA e il desiderio di rivalsa dell’Europa orientale nei confronti della Russia.

Le possibilità ci sono e l’Europa ha risorse intellettuali, morali, culturali, scientifiche economiche e finanziari sufficienti per emergere in questo nuovo ordine come protagonista. E se questo non bastasse, anche il nostro Paese possiede le capacità necessarie per svolgere un ruolo determinante in un contesto regionale e sembra che le recenti iniziative in politica estera siano dirette a costruire e rafforzare l’immagine di una Italia più intraprendente e più sicura delle proprie possibilità.

Il manifesto di politica estera di Pechino

 

Mentre in Occidente ci auto illudiamo con una narrativa di “regime” unidirezionale e ingannevole che il conflitto ucraino rappresenti l’atto estremo dell’eterna lotta tra il Bene (noi Occidentali) e il Male (il resto del mondo che non la pensa come noi), non ci accorgiamo che la Cina sta ponendo le basi ideologiche del suo concetto di Ordine Mondiale in chiave dichiaratamente antioccidentale.

A un anno esatto di distanza dalla dichiarazione congiunta russo-cinese dove veniva affermato un nuovo paradigma del concetto di democrazia – uno Stato è democratico se si sente democratico – e una differente declinazione dell’idea dei diritti dell’individuo – finiscono dove inizia l’interesse dello Stato – la Cina ha emanato un nuovo documento particolarmente interessante.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica Cinese ha infatti emesso un documento intitolato “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”.

Se il titolo non fosse abbastanza esplicito da chiarire il contenuto, basta dare un’occhiata all’indice: dopo una breve, ma significativa, introduzione dove gli Stati Uniti sono presentati come il peggiore dei mali, seguono cinque capitoli dedicati a tutti quei settori dove gli USA impongono la loro egemonia politica, militare, economica, tecnologica, culturale.

Il fine che il documento si propone di conseguire è rappresentato dalle ultime due righe dell’introduzione dove si cita testualmente:

This report, by presenting the relevant facts seeks to expose the U.S. abuse of hegemony in the political, military, economic, finance, technological and cultural fields, and to draw greater international attention to the perils of the U.S. practises to world peace and stability and the well-being of all people.

Un incipit che farebbe sembrare dei principianti l’Imperatore Palpatine o il Signore dei Sith, i super cattivi galattici che impersonano il male assoluto nella saga di Star Wars.

Nel corso dei vari capitoli il documento spiega come gli USA impongano la loro egemonia nei differenti settori a detrimento del bene universale e della pace dei popoli.

Senza andare nel particolare di quelle che sono, in realtà, dichiarazioni di una propaganda che affonda le sue radici in una retorica derivante da una visione social-comunista da Libretto Rosso, è opportuno notare come alcuni argomenti, quasi accennanti casualmente, definiscano, invece, la visione cinese che propaganda un nuovo ordine mondiale.

Il primo di questi concetti riguarda l’accusa di aver fabbricato una falsa narrativa della “democrazia verso l’autoritarismo” per incitare all’allontanamento, alla divisione, alla rivalità e al confronto tra le varie nazioni. Anche l’idea USA della creazione di un “Summit per la democrazia” è un’iniziativa che viene aspramente criticata e accusata di causare la divisione nel mondo.

Il secondo concetto riguarda la sfera economico finanziaria, dove viene messo in discussione il sistema che regola la struttura globale ritenuto esclusivamente vantaggioso per il binomio USA – Occidente (probabilmente ci si dimentica due terzi del debito USA sono finanziati dalla Cina).

Il terzo elemento evidenzia un certo fastidio per il sistema di alleanze che gli USA hanno impostato nella gestione della loro visione diplomatico – strategica, percepito da Pechino come elemento coercitivo e destabilizzante perché escludente la sua partecipazione.

Il paragrafo finale delle conclusioni contiene una affermazione programmatica che invita le grandi nazioni a prendere l’iniziativa nel perseguire un Nuovo Modello di relazioni tra stato e stato basato sul dialogo e la partnership, e non il confronto e le alleanze; rimarca, inoltre, la posizione contraria della Cina verso qualsiasi forma di egemonia e di potere politico e sottolinea il rigetto di qualsiasi interferenza negli affari interni di altri paesi (concetti cari a Pechino per la risoluzione dei vari problemi come il Tibet, la minoranza uigura, Taiwan).

Non poteva mancare, a conclusione del tutto, l’invito agli USA a fare autocritica conducendo una seria introspezione al fine di esaminare con visione critica le loro malefatte, rifuggire dal loro comportamento arrogante e pregiudizievole e smettere di adottare comportamenti egemonici, prepotenti e bullizzanti!!!!!!  (“The United States must conduct serious soul-searching. It must critically examine what it has done, let go of its arrogance and prejudice, and quit its hegemonic, domineering and bullying practises”).

L’importanza del documento non risiede nelle affermazioni che vengono fatte o nella demonizzazione del comportamento degli Stati Uniti, ma nell’aspetto concettuale che esso si propone di realizzare.

Gli USA e i loro valori culturali (che in definitiva sono ampiamente condivisi dall’Occidente per intero) sono un pericolo per il mondo e contro questa visione la Cina si erge a baluardo proponendo un Nuovo Ordine.

Questo Nuovo Ordine non si basa sulla condivisione di quei concetti culturali e sociali che hanno ispirato l’Occidente come la democrazia, la libertà individuale, la libertà di espressione, la libertà di commercio e di movimento, ma un sistema dove tutti questi valori si fermano quando un superiore interesse da parte di un concetto di Stato astratto e imposto si inserisce e prevarica su tutto.

E la Cina, con estrema scaltrezza non propone sé stessa come elemento guida di questo nuovo sistema di relazioni internazionali, ma elenca i mali che il sistema occidentale, tiranneggiato dagli USA, comporta e produce, proponendolo all’attenzione del resto del mondo come il pericolo da cui è necessario e fondamentale difendersi.

Il problema da affrontare non è costituito dalla retorica da Libretto Rosso che la propaganda cinese usa o la veridicità o meno delle sue affermazioni, ma risiede nei concetti politici che la Cina intende veicolare per impostare una nuova concezione di valori culturali.

Il sistema proposto è un chiaro e mirato attacco contro gli USA che sono individuati come l’ostacolo principale verso un’egemonia cinese, mentre considera l’Europa come un sistema in completo decadimento, disunito e privo di peso politico, la cui insignificante importanza globale non costituisce alcun problema per l’affermazione del sistema cinese.

La forza di questa linea strategica che la Cina persegue da tempo, deriva, non tanto dall’efficacia della critica dei valori occidentali e dalla proposta di valori culturali alternativi, ma dalla nostra mancanza di visione globale del contesto internazionale, persi come siamo nella nostra piccola gabbia dorata dalla quale non vogliamo uscire.

Purtroppo, l’Europa non ha una visione strategica globale ma si dibatte tra vecchi rancori (il deuteragonismo franco-tedesco nel voler dominare l’Unione Europea), l’incapacità di uscire dal passato (la crisi ucraina ne è un esempio), la tendenza a rimanere ancorati a un orizzonte limitato (assenza della percezione del lato Sud dell’Europa e del mondo) e questo la porta a essere vulnerabile nei confronti dell’evoluzione che caratterizza lo scenario internazionale.

L’Occidente europeo si è fatto trascinare in un conflitto provocato da interessi che non gli appartengono e alimentato da vecchi rancori, dove una retorica ormai appartenente al passato vagheggia vittorie impossibili e imposizione di trattati di Versailles irrealistici (l’Ucraina sta vincendo su Facebook ma perde sul terreno!!!!!!). La nostra società annaspa in una crisi sempre più profonda e l’unica reazione è quella di chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un mondo in evoluzione e illuderci che la Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la rete 5G a basso costo, i finanziamenti ai progetti universitari, l’acquisto di proprietà ed esercizi commerciali da parte cinese, siano esclusivamente l’espressione di una benevola e innocua aspirazione a fare parte del nostro sistema e di interesse a condividere i nostri valori.

Non è così, e il documento del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese lo conferma senza ombra di dubbio.

Se non vogliamo essere schiacciati nel confronto per il Nuovo Ordine ed essere ridimensionati allo stato di colonie, dobbiamo aver il coraggio di guardare al di là del nostro piccolo orizzonte, utilizzare le capacità che l’Unione Europea ci consente di avere, se agiamo come un unico, solido, coeso organismo (lasciando perdere idiozie concettuali come i Paesi Frugali, quelli Virtuosi, i Quattro di Visegard e via dicendo) e quelle intrinseche che un istituzione di difesa collettiva e di integrazione come la NATO rende possibili, se trasforma la sua accezione di club in funzione anti Russia e si trasforma in un elemento di sviluppo dei valori e dei concetti condivisi da un Occidente unito e in grado di svolgere un ruolo da protagonista nel contesto internazionale.

I valori culturali che hanno disegnano e formato la nostra società sono senz’altro validi e meritano di essere proposti come un modello da seguire e da adottare e non dobbiamo vergognarci di sostenerli e di veicolarli, ma dobbiamo farlo senza l’arroganza che siano gli unici e che possano essere imposti come merce di scambio. Il modo migliore è dimostrare che la nostra società Occidentale non è decadente, immorale e pericolosa come la Cina la descrive ma, invece, rappresenta un modello i cui valori sono degni di essere accettati e condivisi anche dagli altri.

L’alternativa è di iniziare a imparare a usare le bacchette per mangiare!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

Gli Stati Arabi e la crisi ucraina

 

La risposta negativa da parte degli Stati Arabi del Golfo o meglio la mancata adesione alle richieste americane di condanna della Russia, per l’invasione dell’Ucraina, ha posto l’accento sulle relazioni tra gli USA e i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), evidenziando il crescente scetticismo che viene riservato al ruolo degli Stati Uniti quale tradizionale partner privilegiato nell’aerea.

La posizione di strategica neutralità assunta dal GCC deriva dalla mutata impostazione geopolitica dell’area, dove l’espansione della influenza economico-politica della Cina e della Russia ha creato una nuova realtà multipolare che da tempo ha messo in discussione la leadership americana.

Le difficoltà dei rapporti USA – GCC sono originate rispettivamente dalla declinante fiducia nell’impegno degli Stati Uniti a garantire la sicurezza dei Paesi Arabi alleati e da parte USA dal disappunto per politiche regionali che ostacolano e rendono complesso il conseguimento degli obiettivi geopolitici americani.

Nel particolare, infatti, le relazioni tra gli USA e i Paesi del GCC, improntate sul binomio energia e sicurezza, hanno subito nel tempo un deterioramento causato da una serie di fattori che hanno caratterizzato, nell’ultimi quindici anni, la visione strategica USA nell’area evidenziandone una limitata profondità geopolitica.

Sotto il punto di vista dell’approvvigionamento energetico, la ricerca e il conseguimento dell’autonomia nel settore dei combustibili fossili attuato dagli USA ha generato l’errata asserzione che la produzione di energia degli Stati del GCC non avesse più un valore strategico. Anzi l’espansione dell’attività USA nel settore specifico è stata percepita come una concorrenza volta ad alterare il conseguimento di una collaborazione per conferire equilibrio al mercato globale dei combustibili, in un momento di particolare e delicata transizione verso fonti alternative.

Da qui è derivata la crescita di importanza della Russia nell’ambito dell’OPEC+ quale elemento di stabilità e di affidabilità nella gestione delle risorse energetiche fossili.

Per quanto attiene al concetto di sicurezza, questo ha rappresentato, da sempre, la principale ragione d’essere della presenza USA nella regione e delle sue positive relazioni con i Paesi del GCC.

La fiducia riposta nell’impegno a garantire la protezione agli alleati contro le minacce alla loro sicurezza e nella capacità di assicurare un equilibrio politico nell’area mediorientale è stata messa in discussione e si è incrinata per una serie di scelte politico – diplomatiche che hanno messo in dubbio l’importanza strategica dell’area nella visione americana.

L’inconsistenza politica e la ingenuità dimostrata nella gestione della cosiddetta Primavera Araba, il ruolo ambiguo e marginale svolto nel conflitto siriano, la scarsa considerazione delle esigenze di Paesi del GCC nella stipulazione degli accordi sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA) con l’Iran, Paese che è percepito come la principale minaccia alla stabilità dell’area, le continue dichiarazioni di interesse prioritario verso lo scacchiere Indo Pacifico nel tentativo di contrastare la sfida della crescente influenza cinese, hanno determinato uno scetticismo sempre maggiore nei confronti della determinazione americana a svolgere quel ruolo di garante della sicurezza che assicurava la stabilità dell’area, ritenuta fondamentale dai Paesi del GCC.

Scetticismo che è stato ulteriormente, aumentato dall’atteggiamento estremante attivo assunto dagli USA nella crisi ucraina (e dalle pressioni esercitate su Paesi del GCC per condannare la Russia) e dalla considerazione inerente alle risorse militari offerte all’Ucraina, giudicate quantitativamente sproporzionate in relazione a quelle rese disponibili per supportare gli alleati mediorientali nella loro domanda di sicurezza.

Nel particolare sono le relazioni dirette con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno maggiormente sofferto questo calo di fiducia nell’impegno USA nella regione ed è proprio verso questi due Paesi che si sono rivolte con più attenzione le iniziative politico economiche della Cina.

Pechino ha iniziato da lungo tempo una politica di penetrazione commerciale volta ad inserirsi nell’area mediorientale occupando tutti gli spazi lasciati vacanti dalla poco attenta visione USA.

Se, sino ad ora, le attività cinesi sono state condotte con circospezione evitando di poter essere considerate come attacco diretto volto a distruggere le relazioni di alleanza tra GCC e USA, le conseguenze della crisi ucraina hanno aperto nuove possibilità all’azione diplomatico economica della Cina.

Recenti incontri di vertice della Cina con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno reso chiara l’intenzione di Pechino di adottare una linea politica più decisa e più aperta nel sostegno degli interessi nazionali finalizzati all’acquisizione di una posizione dominante nell’area.

La posizione di strategica neutralità dei Paesi GCC assunta nei confronti della Russia, finalizzata a non danneggiare gli ottimi rapporti stabiliti con Mosca (stabilizzazione della crisi siriana e gestione congiunta delle quote di greggio) sono stati recepiti da Pechino come un segnale positivo nell’ambito di eventuali azioni intese a risolvere la questione di Taiwan. Inoltre, la rinnovata disponibilità alla partecipazione attiva al grande progetto della Belt and Road Initiative (B&RI) ha comportato la stesura di una serie sempre maggiore di accordi e partneship commerciali che hanno portato alla realizzazione di enormi investimenti da parte di Pechino.

Il risultato di questi accordi ha avuto due importanti conseguenze che hanno ulteriormente indebolito la posizione USA.

La prima è quella dell’inclusione della regione mediorientale in uno scacchiere geopolitico che oramai ha spazzato via tutti i precedenti riferimenti, estendendosi senza soluzione di continuità dall’Europa all’Asia globalizzando e trasformando il concetto di relazioni internazionali.

La seconda, strettamente connessa alla prima è quella della condivisone con Pechino di una visione strategica dove non esistono più vincoli all’ingresso nell’area di potenze esterne come l’India in aggiunta, ovviamente, alla presenza della Cina e della Russia, sulla base della ricerca di un sempre maggior volume di investimenti e di attività di cooperazione non solo limitate alla sfera economico commerciale.

L’aspetto fondamentale per i Paesi del GCC è la partecipazione a un mercato più ampio, dove gli investimenti e le partnership economiche offrono l’accesso a tecnologie e risorse indispensabili per affrontare la trasformazione da una società basata sullo sfruttamento delle energie fossili a un mondo con accesso a fonti alternative. Ed è questa la chiave di volta su cui si basa la strategia di Pechino!

Offrire un fondamentale supporto per l’accesso alle nuove tecnologie, proporsi come partner privilegiato nella transizione verso fonti rinnovabili e nell’attesa costituire il maggior partner per l’acquisto del greggio, senza pretendere come condizione pregiudiziale il rispetto di regole e di comportamenti sociali ritenuti intrusivi e moralmente inadeguati.

Attraverso il conseguimento di questi obiettivi Pechino vede la possibilità di creare un cuneo politico tra i Paesi del GCC e il loro principale attuale alleato, dando luogo a una revisione degli equilibri geopolitici.

Il fine ultimo non sembra essere quello di ricoprire un ruolo egemonico sostituendosi agli Stati Uniti ma, invece, di creare una specie di direttorato con Russia e India, escludendo progressivamente gli Stati Uniti da un’area che è la cerniera tra lo scacchiere Indo Pacifico e quello Euroasiatico.

Controllando tale area economicamente, finanziariamente e politicamente (ma non solo, in quanto si sta sviluppando anche una certa presenza militare cinese negli Emirati), la Cina creerebbe le condizioni migliori per la sicurezza degli assi di penetrazione marittimo e terrestre sui quali si articolala sua B&RI e che sono diretti al cuore economico del Vecchio Continente!!!!!

Nello stesso tempo la possibilità di coinvolgere in questa nuova realtà geopolitica sia la Russia (rivitalizzata nel ruolo di grande potenza) sia l’India (gigante che ancora si deve alzare in piedi) mediante la condivisone di una visione strategica comune, senza l‘Occidente, che focalizzerebbe questi due partner geopolitici in un’area di intervento lontana dalle coste cinesi dell’Asia e dal Pacifico lasciando alla Cina il ruolo di arbitro di questo nuovo ordine mondiale.

Questo è lo scenario che si può preconizzare in base all’analisi delle mosse che un Occidente, sempre più cieco, sempre più rinchiuso in sé stesso, privo di una visione politica a lungo raggio, prigioniero dei suoi ideali e delle sue idiosincrasie concettuali, ha messo in atto per contrastare una crisi, quella ucraina, che se pure frutto di un comportamento moralmente inaccettabile da parte russa, in qualche modo ha contribuito a stimolare e che non è in grado di affrontare con provabilità di successo.

Ma questo scenario non è stato ancora concretizzato, c’è ancora tempo e c’è ancora spazio per una ripresa da parte dell’Occidente che, con le risorse immense umane, morali ed economiche che possiede ha le capacità per proporre un’alternativa geopolitica a Cina e Russia in grado di sostenere lo sviluppo, la cooperazione e la partnership economica dei Paesi del GCC pur non abiurando al pieno rispetto dei principi universali di libertà e democrazia su cui si basa l’Occidente.

Ovviamente non solo solo gli Stati Uniti che devono riprendere alla mano una vera linea di politica mondiale, ma anche l’Europa è chiamata a liberarsi dal torpore egoistico dei sui Stati membri che ne tiene frenate le energie e a darsi degli obiettivi concreti e unitari da conseguire.

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Maurizio Iacono
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