GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Middle East – Africa

Washington e il Medio Oriente

U.S. President Joe Biden pauses during a meeting with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu to discuss the war between Israel and Hamas, in Tel Aviv, Israel, Wednesday, Oct. 18, 2023. (Miriam Alster/Pool Photo via AP)

Negli ultimi quindici anni il centro di gravità della politica estera di Washington si è spostato dal teatro Euroasiatico a quello Indo – Pacifico come conseguenza della scelta geostrategica di contrastare in quella Regione la crescente influenza cinese tendente a realizzare un nuovo sistema di ordine globale.

Questa priorità ha comportato un progressivo décalage dell’attività diplomatica USA sia in Europa, sia, soprattutto, nel Medio Oriente.

Nell’area europea, infatti, la possibilità di vincolare la Russia allo scenario europeo, limitandone la libertà di azione in quello asiatico, è stata realizzata con un impiego circoscritto delle risorse nazionali statunitensi, grazie a una gestione della crisi ucraina condotta coinvolgendo i partner europei della NATO mediante lo sfruttamento abilmente gestito della voglia di rivincita dell’Europa orientale e risuscitando il concetto di guerra fredda.

Diversamente, nell’area mediorientale il progressivo raffreddamento dell’interesse USA a svolgere un ruolo primario quale potenza garante della sicurezza e della ricerca di un equilibrio regionale aveva favorito, come conseguenza, lo sviluppo delle iniziative diplomatiche di Cina e Russia e l’aumentare delle tensioni nell’area a causa dell’emergere dei contrasti connessi alla volontà da parte di alcuni Paesi di assumere il ruolo di potenza regionale.

Le precedenti due Amministrazioni e quella attuale avevano progressivamente ridotto la presenza geostrategica nei Paesi dell’area adottando linee diplomatico-politiche ambigue e prive di visione a lungo termine, creando la sensazione della inaffidabilità della volontà statunitense di rivelarsi un alleato su cui poter contare per la propria sicurezza.

L’esplodere della crisi di Gaza ha costituito l’opportunità per la diplomazia di Washington di rivedere le proprie azioni e ridefinire i suoi interessi nella regione mediorientale.

Il riorientamento della posizione USA e la sua volontà a riassumere il ruolo di protagonista nella ricerca dell’equilibrio geostrategico del Medioriente non sono avvenuti con immediatezza, in quanto è stato necessario vincere l’inerzia iniziale per invertire il processo in atto e riconfigurare la propria posizione da parte dell’Amministrazione corrente.

Infatti, a seguito dei tragici fatti del 7 ottobre Washington ha agito, inizialmente, garantendo il pieno supporto politico, diplomatico e militare a Israele.

Subito dopo, però, ha avuto inizio un’intensa attività diplomatica che ha visto impegnato il Segretario di Stato Antony Blinken nel prendere contatto con tutti i maggiori attori politici dell’area al fine di iniziare a tessere le fila per individuare quali potessero essere le condizioni per pervenire a una soluzione della crisi.

Il tour de force tra le capitali arabe ha richiesto diversi passaggi e una lunga serie di colloqui per valutare le possibili proposte e identificare gli ulteriori eventuali elementi sui cui poter costruire le ipotesi di soluzione della crisi.

L’impegno diplomatico del Segretario ha prodotto una proposta per un piano volto a ottenere la fine dei combattimenti ma, soprattutto, a identificare una strategia per la gestione di quello che sarà il dopo conflitto.

L’accoglienza tiepida e piena di riserve che ha caratterizzato la risposta al piano da parte degli attori principali di questa crisi non può essere considerata come un successo di questa prima proposta, ha anzi confermato come la soluzione della crisi di Gaza sia ancora lontana dall’essere realizzata; tuttavia, l’impegno e la sollecitudine che sono stati profusi nella sua preparazione hanno dimostrato che l’interesse geostrategico di Washington si è riorientato verso il Medio Oriente.

Indipendentemente dalla possibilità o meno di vedere coronata da successo la proposta statunitense, l’elemento importante da sottolineare è il cambio di passo dell’Amministrazione, che ha confermato di ritenere nuovamente fondamentale un suo impegno nella regione.

Questo reindirizzamento dell’interesse geostrategico USA in Medio Oriente ha comportato alcune conseguenze di importanza rilevante.

La prima: l’azione diplomatica del Segretario Blinken ha anticipato quella di eventuali altri attori geopolitici interessati a poter svolgere un ruolo da protagonisti, tagliando fuori non solo la Russia ma soprattutto la Cina, conferendo agli USA una posizione di vantaggio da sfruttare per rinforzare la sua importanza nell’area.

La seconda: la condotta del Segretario e dell’Amministrazione USA è stata caratterizzata da due fattori importanti quali la disponibilità a dialogare con tutte le entità politiche della Regione e la dimostrazione, indipendentemente dal supporto politico-diplomatico dato a Israele, di avere la volontà per esercitare pressioni politiche sul Governo di Netanyahu. Questi due fattori hanno conferito un notevole peso all’impegno di Washington che favorisce la possibilità per gli USA di ritornare a svolgere il ruolo di protagonisti dell’equilibrio nella regione.

La terza, invece, ha prodotto due differenti effetti i cui risvolti sono implicitamente connessi alla politica interna americana. In primo luogo, la possibilità per l’Amministrazione attuale di dimostrare di avere recuperato una visione geostrategica globale che affianca all’interesse per un diverso peso del rapporto euroatlantico, la necessità di contrastare l’avanzata cinese anche al di fuori del contesto Indo-Pacifico. In secondo luogo, la possibilità di sviluppare nell’area mediorientale un’azione diplomatica caratterizzata da una maggiore equidistanza tra i vari protagonisti conferisce alla posizione statunitense una chance di successo maggiore per ricoprire il ruolo di potenza in grado di garantire un equilibrio duraturo.

La combinazione di questi due effetti costituisce, infatti, un atout da giocarsi per l’attuale Amministrazione nelle prossime elezioni presidenziali al fine ottenere il supporto di quei settori non favorevoli alla crisi ucraina e contrari al supporto incondizionato verso Israele.

Come detto, le proposte di Washington per la soluzione della crisi non sono magari perfette e quindi stentano a essere condivise, la difficoltà a orientare le scelte del Governo israeliano verso la soluzione identificata per il dopo conflitto  è particolarmente importante e il progetto presentato richiede una ulteriore serie di consultazioni diplomatiche da parte dei Governi dell’area, tuttavia l’elemento fondamentale è la ritrovata volontà di iniziativa che sta caratterizzando l’azione di Washington nella Regione.

Ovviamente è prematuro affermare che questa inversione di rotta da parte dell’Amministrazione USA possa o meno aver creato le premesse per colmare il solco che si era formato tra i Paesi del Medioriente alleati od orientati a favore di Washington negli ultimi anni, restaurando la fiducia e il senso di affidabilità della politica americana quale potenza leader nella Regione.

Anche se la politica statunitense riuscirà a ridare consistenza e credibilità alla sua posizione di grande potenza indispensabile per l’equilibrio nell’area, i rapporti con altri grandi protagonisti della scena mondiale (Cina in primis) che hanno rivoluzionato la diplomazia della/nella Regione continueranno a far sentire il loro influsso e dovranno, comunque, essere tenuti in considerazione nella impostazione della visione che l’Amministrazione statunitense (democratica o repubblicana che sia nel futuro non ha importanza) dovrà impostare per conseguire i propri obiettivi geostrategici in una Regione fondamentalmente critica per la costruzione di un nuovo ordine mondiale liberale e democratico.

 

Ankara e la ricerca dell’equilibrio geopolitico

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during his meeting with mukhtars at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, March 16, 2016. REUTERS/Umit Bektas – RTSAPB4

In occasione della imminente visita di Putin in Turchia il Presidente Erdoǧan ha dichiarato l’intenzione di svolgere il ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto ucraino facendosi promotore di una possibile situazione negoziale tra le due parti.

L’iniziativa sembra voler sottolineare la volontà della Turchia di riprendere a svolgere quel ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geopolitico di Erdoǧan, conferendo alla diplomazia del Paese il ruolo di garante degli equilibri regionali.

Il tentativo di rientrare a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche dell’area euroasiatica, quale protagonista, è stato determinato dalla necessità di ribilanciare la posizione di flessibilità pragmatica caratteristica della Turchia di Erdoǧan compromessa dall’atteggiamento unilaterale fortemente critico espresso nei confronti di Israele nell’ambito del conflitto in atto a Gaza.

Il criterio che ha guidato la politica estera turca sotto la presidenza di Erdoǧan è stato quello di una diplomazia pragmatica volta ad accrescere l’importanza e il prestigio della Turchia al fine di svolgere un ruolo centrale, non solo nel bacino mediterraneo orientale, ma estendendo tale ruolo a tutta l’area euroasiatica.

Il concetto di proiezione geostrategica della Turchia, che ha visto il Paese intervenire in tutti gli scenari di crisi dall’area, Libia, Siria, Ucraina, Caucaso, è stato permeato dal criterio dell’adozione di una visione  realista e sempre attenta a essere percepita, quando possibile, nel ruolo di mediatore o garante di un equilibrio volto ad evitare profondi sconvolgimenti.

Il caso più emblematico di questa linea diplomatico strategica è l’atteggiamento che Erdoǧan ha assunto nei confronti della crisi ucraina.

La Turchia ha sostenuto la sovranità ucraina, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, ha aspramente criticato le azioni russe ed è stato il primo Paese a supportare con aiuti militari l’Ucraina.

Tuttavia, ha controbilanciato queste sue attività ponendo la massima attenzione a mantenere stabili i legami di natura economica con la Russia, ha appoggiato in maniera tiepida le risoluzioni internazionali di condanna contro Mosca, si è opposto alle sanzioni e agli sforzi per isolare diplomaticamente Putin, incrementando gli scambi e le relazioni economiche con la Russia.

Inoltre, a più riprese, ha svolto il ruolo di mediatore sfruttando la posizione di grande potenza (regionale) in grado di riscuotere la fiducia di ambedue i contendenti, portando a termine accordi importanti come le condizioni di esportazione del grano e lo scambio di prigionieri.

Anche la posizione assunta nei confronti della annessione della Svezia alla NATO deve essere interpretata alla luce della volontà di ricercare un equilibrio dell’intero sistema favorevole agli interessi della Turchia e propedeutico al suo ruolo di Paese leader. Il veto è caduto quando sono stati conseguiti i due obiettivi di Erdoǧan: assunzione di una linea di condanna della Svezia dell’organizzazione del PKK e avvio del processo di acquisizione di un lotto di F16 da parte USA.

Il tutto ribilanciato dall’apertura diplomatica nei confronti della Russia concretizzata nel summit di questi giorni, che rappresenta l’occasione per riprendere il ruolo di mediatore, oltre a far coincidere l’evento con la prima visita di Putin in un Paese dell’Alleanza Atlantica dopo l’inizio della crisi e nonostante la richiesta di provvedimenti coercitivi emessa da organismi internazionali nei confronti di Putin stesso.

Ma è nell’area mediorientale dove questa posizione di equilibrio è stata completamente offuscata e messa in discussione a seguito della dura presa di posizione di Erdoǧan nei confronti di Israele e del suo leader Netanyahu.

Gli interessi turchi nell’area sono estesi e abbastanza articolati.

In primo luogo, vi è il rapporto stretto con il Qatar, che rappresenta il partner economico più importante per finanziare i progetti di crescita della Turchia.

In secondo luogo, ci sono le attività condotte nello scenario siriano volte sia a contrastare l’ISIS, sia a circoscrivere il fenomeno dell’autonomia curda. Qui l’intesa con la Russia e la possibilità di una sovrapposizione di interessi con l’Iran fanno da bilanciere alla posizione di membro della NATO che, se pur in alcuni casi tiepida e sfumata, rimane, comunque, un punto non in discussione.

In terzo luogo, deve essere considerato il rapporto con i restanti Paesi del Golfo che è contraddistinto da una alternanza di aperture e di parziali chiusure diplomatiche, ma che persegue l’obiettivo di affermare la Turchia come un Paese capace di assicurare la stabilità dell’area in alternativa a un predominio iraniano.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, vi è la questione religiosa, dove l’avvicinamento di Erdoǧan verso una visione meno laica del Paese e più orientata ad una maggiore ortodossia, conseguenza delle alleanze politiche interne che hanno reso possibile le ultime due elezioni del presidente, consente alla Turchia di aspirare al ruolo di guida del mondo islamico.

Tuttavia, nonostante le critiche dirette di Erdoǧan nei confronti di Israele e le dichiarazioni di supporto alla comunità palestinese, la Turchia è fuori dal contesto diplomatico che lavora per giungere a una soluzione mediata della crisi.

Malgrado, infatti, le buone relazioni con il Qatar la diplomazia turca è stata esclusa dal processo dove, invece, sia Egitto che Arabia Saudita svolgono un ruolo principale. Questo fattore ha sbilanciato la posizione di Ankara privandola della possibilità di influenzare gli eventi e relegandola ad un ruolo sussidiario che mette a serio rischio le sue aspirazioni di leadership.

Per poter comprendere tale situazione di impasse è utile fare le seguenti considerazioni.

Dopo una età dell’oro nelle relazioni turco – israeliane contraddistinte da iniziative diplomatiche quali il riconoscimento quasi immediato di Israele e la non partecipazione al ciclo delle guerre arabo – israeliane e proseguite anche da Erdoǧan nei suoi mandati iniziali, sia con un intenso scambio commerciale e con intese di carattere economico, sia con una proattiva azione diplomatica mirata a raggiungere una soluzione al problema palestinese sostenuta da una collaborazione attiva con le fazioni moderate di Hamas e dell’Autorità Palestinese, i rapporti hanno iniziato a intiepidirsi per sfociare in una serie di azioni politiche decise nei confronti di Israele che hanno creato profonde divergenze tra i due Paesi.

L’acuirsi delle relazioni diplomatiche è stato sottolineato da una serie di prese di posizioni intransigenti e dirette da parte di Erdoǧan che hanno interessato gli ultimi dieci anni e che sono determinate del crescente supporto alla causa palestinese espresso dal Presidente turco.

La decifrazione di questa linea politica del Presidente è particolarmente complessa se consideriamo i seguenti fattori critici.

Nonostante la maggioranza della popolazione sia a favore di una posizione di mediazione o di neutralità nei confronti della crisi tra Hamas e Israele, le azioni di Erdoǧan hanno indirizzato la sua politica in senso opposto, privando Ankara della libertà d’azione e della flessibilità necessarie a prendere parte al processo di mediazione in atto.

I rapporti tra Autorità Palestinese e Turchia, sebbene, non critici non hanno mai rappresentato il cardine della politica di Ankara e il sostegno dato alla causa palestinese non è mai stato determinante e incisivo, inoltre, anche i rapporti tra Hamas e la Turchia non sono stati caratterizzati da una visione coincidente, infatti, pur essendo di credo sunnita, Hamas ha legami molto più stretti con l’Iran che rappresenta l’antagonista principale della Turchia nell’area specifica.

Inoltre, all’inizio della crisi di Gaza Erdoǧan ha mantenuto una posizione di neutralità offrendosi come mediatore per raggiungere una possibile soluzione negoziale, per poi abbandonare repentinamente questa linea di condotta equilibrata e prediligere atteggiamenti di critica feroce nei confronti di Israele.

Alla luce di tali fattori la linea politica di Erdoǧan può essere perciò, motivata dalle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il supporto alla questione palestinese è dettato da considerazioni esclusivamente personali che ne influenzano la visione politico-diplomatica.

In secondo luogo, il supporto alla causa palestinese deriva anche dalla necessita di gestire la componente islamica della sua compagine di governo al fine di non essere schiacciato da pressioni interne che potrebbero compromettere la sua posizione di forza e la stabilità del governo stesso.

In terzo luogo, l’ostilità e il risentimento per essere stato messo ai margini del processo di distensione tra i Paesi del Golfo e Israele, avviato e sostenuto da USA e Arabia Saudita prima della crisi.

Da un ultimo, ma non meno importante, un errore di valutazione nell’aver voluto assumere un ruolo intransigente e decisamente ostile verso Tel Aviv nell’ottica di cogliere l’opportunità di rilanciarsi come leader della comunità islamica regionale che appoggia e sostiene Hamas.

Le conseguenze diplomatico-politiche di queste linee di azioni hanno posto la Turchia, e a maggior ragione il suo leader, in una situazione precaria rischiando di vanificare le aspirazioni di Ankara a poter ricoprire il ruolo dichiarato di potenza regionale

Indubbiamente la sensibilità politica di Erdoǧan gli ha consentito di comprendere che questa situazione ha compromesso l’equilibrio del suo baricentro politico e che il persistere in una tale direzione avrebbe comportato una serie di conseguenze negative e quindi ha immediatamente invertito la tendenza.

Se le dimostrazioni di supporto per la causa palestinese fanno riferimento a una retorica altisonante, l’approccio diplomatico sta mutando, nell’ottica di proporre una Turchia interessata alla collaborazione e alla ricerca di soluzioni negoziali.

In attesa di poter svolgere un ruolo più attivo nella crisi di Gaza, Erdoǧan ha puntato su un altro teatro, quello ucraino, dove proponendo una sua ipotesi di soluzione alla crisi ha rilanciato immediatamente l’immagine di una Turchia disponibile al dialogo e alla mediazione in grado di poter svolgere quella funzione di garante dell’equilibrio geopolitico adeguata a interpretare il ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geostrategico di Erdoǧan.

La situazione in Medio Oriente dopo il 7 Ottobre

L’attacco che Hamas ha condotto contro lo Stato di Israele, lo scorso 7 Ottobre, rappresenta un ulteriore episodio del conflitto che devasta il Medio Oriente da circa un secolo (anno più, anno meno).

Per poter comprendere tale nuova fase di questa guerra infinita, è necessario esaminare gli aspetti che ad essa sono connessi al fine di potere avere una visione complessiva del suo significato.

Come tutti i conflitti, anche questo si svolge su piani paralleli ineluttabilmente interconnessi e le cui conseguenze richiedono una comprensione d’insieme per identificare le eventuali ipotesi di soluzione. Leggi Tutto

Una nuova guerra in Medio Oriente?

 

Le modalità con le quali, nel settore della Striscia di Gaza, l’organizzazione di Hamas ha condotto l’attacco contro lo Stato di Israele hanno drammaticamente elevato il livello della tensione che contraddistingue l’area, accrescendo il pericolo che la situazione possa evolversi dando luogo a un vero e proprio conflitto.

Il successo che ha caratterizzato la fase iniziale delle operazioni di Hamas ha colto di sorpresa un’opinione pubblica generalmente poco attenta agli sviluppi della situazione mediorientale e geopoliticamente concentrata su se stessa, che si è meravigliata per l’assenza, apparente, di un qualsiasi segnale che potesse presagire una tale operazione.

Purtroppo, invece, questa ripresa violenta delle dinamiche che caratterizzano la regione era stata ipotizzata e considerata come un’eventualità possibile a breve termine.

Quello che può essere considerato come una sorpresa e che come tale ha colto parzialmente sbilanciato Israele è stato il settore in cui questo attacco si è sviluppato: la Striscia di Gaza.

Nei mesi passati lo sviluppo di una serie di eventi aveva concentrato l’attenzione degli analisti nei confronti del settore settentrionale di Israele dove le attività dell’organizzazione di Hezbollah lungo il confine con Libano avevano alzato il livello della tensione in maniera estremamente pericolosa provocando reazioni abbastanza dure da parte del Governo Israeliano.

Indubbiamente l’operazione lanciata da Hamas ha conseguito un iniziale successo sfruttando la sorpresa causata sia dalla portata delle operazioni sia delle modalità tattiche adottate per l’attacco, ma la controreazione israeliana è stata immediata.

Adesso, il vero elemento critico di questa crisi è rappresentato dal livello della risposta che Israele intenderà adottare, in quanto le conseguenze avranno effetti complessivi che condizioneranno pesantemente l’attuale quadrò geostrategico regionale.

La situazione di Israele in questo momento è particolarmente delicata sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Infatti, all’interno le difficoltà incontrate dal Governo del premier Netanyahu nel portare avanti una serie di riforme politiche hanno acceso il dibattito politico creando una situazione di tensione nella società israeliana; mentre lo scenario estero è condizionato dal processo di normalizzazione dei rapporti con i vicini che passa obbligatoriamente per l’Arabia Saudita e dalla necessitò di contrastare l’influenza iraniana.

Per quanto attiene, invece, alle motivazioni che hanno indotto Hamas a scatenare il suo attacco queste possono essere identificate nei fattori che condizionano l’operato dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) anch’esse originate da criteri di politica interna e di politica estera.

In sintesi, l’ANP ha da tempo perso il controllo della Striscia di Gaza che è governata dall’organizzazione di Hamas e ultimamente ha visto il suo potere erodersi anche in Cisgiordania a favore di Hamas. L’attacco di questi giorni potrebbe essere il tentativo di Hamas di proporsi come il difensore del popolo palestinese e rivendicare il ruolo politico che adesso è della ANP.

La possibilità da parte di Israele di includere l’Arabia Saudita nel processo di normalizzazione viene considerata come una inaccettabile perdita di influenza della causa palestinese nel mondo arabo e come tale osteggiata. La possibilità di spingere Israele a scatenare una reazione particolarmente incisiva nei confronti di Gaza avrebbe l’effetto di congelare l’adesione del regno saudita ad un accordo per il riconoscimento di Israele.

Infine, non può essere trascurato l’interesse dell’Iran che, quale finanziatore e ispiratore dei movimenti islamici come Hamas, potrebbe aver sollecitato l’attacco per poter trarre elementi di valutazione riguardo alle reazioni israeliane nell’ottica del perseguimento dei suoi obiettivi di distruzione dello Stato di Israele.

Di conseguenza la risposta di Israele dovrà tenere conto di numerose variabili e di situazioni i cui pro e contro sono particolarmente significativi.

Un primo elemento, che sicuramente potrebbe condizionare le scelte successive, è rappresentato dalle dichiarazioni di supporto che sono venute dal contesto internazionale unitamente a quelle di condanna dell’azione di Hamas, che rappresentano un fattore particolarmente positivo per la loro prontezza (ha stupito l’immediata dichiarazione dell’Unione Europea per tramite della Presidente della Commissione) e che dimostrano una predisposizione favorevole in quanto affermano il diritto alla difesa da parte di Israele.

Un secondo fattore è rappresentato dalla necessità di calibrare una risposta che sia abbastanza decisa da eliminare o ridurre la minaccia di Hamas senza stimolare una reazione da parte di Hezbollah lungo il confine con il Libano o innescare una ennesima intifada nella Cisgiordania.

Infine, il particolare momento offre una possibilità a Netanyahu di ottenere un consenso politico interno che a seguito di una bilanciata soluzione di questa crisi, gli consentirebbe, probabilmente di ottenere il supporto di fazioni politiche più moderate che renderebbero meno significativa l’attività che la componente oltranzista del suo Governo sta cercando di imporre, riequilibrando, così la situazione di tensione sociale in atto nel Paese.

Se la situazione sul campo si sta evolvendo rapidamente a favore delle forze Armate di Israele (IDF) per ristabilire accettabili condizioni di sicurezza, le azioni che il Governo di Israele deciderà di adottare sono condizionate da una molteplicità di fattori che richiederanno soluzioni calibrate ed equilibrate, dove la volontà di adottare misure cinetiche definitive nei confronti di Hamas dovrà essere condizionata dalla necessità di conseguire una vittoria, soprattutto, politica e non solo militare.

E’, infine, opportuno sottolineare come la popolazione della Striscia di Gaza e quella israeliana adiacente siano le vere vittime di questa ennesima dimostrazione di come le organizzazioni terroristiche come Hamas, supportate e finanziate da Stati totalitari (Repubblica Islamica dell’Iran in primis) possano arrogarsi il diritto di essere riconosciuti come i rappresentanti di uno Stato o di una Nazione, quando invece le loro azioni sono dettate, esclusivamente, dal soddisfacimento di interessi di potere che nulla hanno a che fare con i diritti e la difesa della popolazione palestinese.

Iran: nuova diplomazia, ma stesso obiettivo

La teocrazia iraniana ha da sempre perseguito un duplice obiettivo strategico: assumere una leadership regionale affermandosi come potenza dominante nel Medio Oriente; costringere gli USA ad abbandonare l’area e allo stesso tempo detronizzare Israele. Questa è stata e rimane la direttiva geostrategica che orienta la politica dell’Iran, ciò che invece ha subito una rimodulazione è stato l’approccio della diplomazia persiana nei confronti dei Paesi del Golfo e della Penisola Arabica.

Nei mesi scorsi, infatti, la diplomazia di Teheran ha adottato una differente e nuova modalità esecutiva che ha sensibilmente modificato la posizione del Paese nei confronti dei rapporti con gli altri Stati del Medio Oriente.

Se il risultato più sorprendente dal punto di vista della ricaduta mediatica può essere considerato il riavvicinamento tra Teheran e Riyad, avvenuto grazie alla intercessione di Pechino, non devono essere assolutamente sottovalutati gli altri passi che l’Iran ha mosso nel tentativo di riconfigurare la sua posizione nell’ambito regionale.

La ripresa di relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi, le ricerca di un dialogo con Abu Dhabi, l’inizio di negoziati con il Bahrain, rappresentano altrettante iniziative diplomatiche volte a presentare l’Iran non come un antagonista scomodo e un vicino ambizioso, ma come un possibile interlocutore di livello e come un partner per la condivisone di progetti che soddisfino interessi reciproci.

Oltre a questi passi l’Iran si è mosso in altre direzioni, dimostrando di voler normalizzare anche situazioni diplomatiche basate sulla adozione di prospettive differenti che in passato hanno opposto Teheran sia al Cairo sia all’Oman. Nel particolare, sono state intraprese significative iniziative per la normalizzazione dei rapporti con l’Egitto, che costituisce uno dei Paesi protagonisti dell’intero MENA e antagonista principale nel ruolo di Paese guida dell’area.

Ma l’azione diplomatica iraniana è stata caratterizzata da una visione a 360°, in quanto sono stati ripresi i colloqui con la Turchia e di conseguenza con la Russia e la Siria per cercare di arrivare a una soluzione che possa risolvere le problematiche che affliggono la regione siriano irachena salvaguardando gli specifici interessi di tutte le potenze coinvolte.

A coronamento di questa serie di iniziative diplomatiche di assoluta importanza, per dare rilievo al nuovo corso della geopolitica di Teheran nei confronti dei Paesi del Medio Oriente, l’Iran ha proposto l’istituzione di un forum regionale dal quale sono esclusi gli USA e Israele, ottenendo una reazione di principio, complessivamente positiva, che potrebbe aprire a nuove prospettive di sviluppo delle relazioni nell’area.

Ovviamente, questo nuovo orientamento strategico non ha risolto d’emblée i numerosi dossier che ancora caratterizzano i rapporti tra Teheran e le Capitali Arabe; infatti, rimane elevata la tensione con il Kuwait e anche con gli stessi Emirati e l’Arabia Saudita a causa di problematiche di particolare rilievo, come rivendicazioni territoriali o il supporto a fazioni contrapposte nell’ambito della crisi yemenita.

Il nuovo contesto diplomatico vede quindi l’Iran proporsi come partner disponibile al dialogo e non come minaccioso vicino pronto a “flettere i muscoli” per conseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, rimane insita la diffidenza degli altri attori e la circospezione con la quale le iniziative di Teheran sono accolte, in quanto, nonostante il cambiamento di atteggiamento, rimane immutato l’obiettivo strategico iraniano che punta all’ acquisizione della leadership regionale.

Ma il punto di volta che sorregge il conseguimento di un tale obiettivo rimane quello della eliminazione della presenza USA nell’area.

Solo eliminando la presenza di Washington l’Iran può sperare di assumere quel ruolo di leadership che rappresenta il centro di gravità della strategia perseguita dalla teocrazia di Teheran.

L’eclisse dell’America, inoltre, renderebbe possibile, agli occhi dell’Iran, l’eliminazione del nemico atavico del regime: Israele.

Di conseguenza, se nei confronti dei Paesi del Medio Oriente la diplomazia iraniana ha adottato un atteggiamento decisamente più conciliante e meno aggressivo che nel passato, è nei confronti degli USA e di Israele che si concentra l’azione ostile e provocatoria dell’Iran.

Azione che alterna fasi dinamiche sia dirette, contro gli interessi commerciali nell’area (flusso attraverso il Golfo), sia indirette, con il continuo e massiccio supporto alle organizzazioni terroristiche di matrice islamica che conducono una sorta di proxy war contro gli interessi USA e che agiscono ai confini di Israele mantenendo elevato lo stato di tensione.

Ma quanto risulta efficace questa nuova impostazione diplomatico – strategica da parte di Teheran e come viene percepita dai vari Paesi nell’area mediorientale?

Certamente la fiducia negli USA come garante della sicurezza e dell’equilibrio nella regione ha subito un ridimensionamento notevole a causa di una linea politica priva di visione strategica adottata dalle amministrazioni americane che si sono succedute da Obama in poi (nessuna esclusa), linea che ha dimostrato l’incapacità di Washington di adattare la propria diplomazia a uno scenario i cui parametri sono in continuo mutamento. Le azioni volte a cercare di invertire questa tendenza poste in atto dalla attuale amministrazione, anche se si sono dimostrate poco efficaci e abbastanza maldestre, hanno avuto, almeno, il pregio di cercare di recuperare il terreno perduto.

La sensazione di insicurezza creatasi ha spinto i Governi dell’area a individuare delle alternative che possano colmare il vuoto lasciato dagli USA, offrendo la possibilità alla Cina di entrare quale attore di rilievo nell’area e concedendo alla Russia un rientro da protagonista nello scenario. Contestualmente, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza nelle capacità intrinseche di alcuni Paesi (Arabia Saudita, Egitto, Turchia) nel poter ricoprire un ruolo sempre più incisivo, ha fatto nascere il concetto di Media Potenza che sta cambiando gli assetti geostrategici generando nuovi centri di equilibrio regionale.

Nonostante la nuova impostazione diplomatica di Teheran possa essere considerata, pur con un certo ottimismo, di successo, rimane la diffidenza di fondo degli altri Paesi che temono che una volta eclissatasi la potenza USA l’aggressività dell’Iran non sia più contrastabile. La presenza della Cina, partner critico dal punto di vista commerciale ed economico, e di una Russia in difficoltà non sono considerate alternative affidabili per garantire la sicurezza e l’equilibrio.

Questa situazione genera, da un parte, un atteggiamento ambiguo nei confronti degli USA, contraddistinto da aperture caute e ricerca del massimo risultato ai fini del conseguimento dei propri interessi, cercando di evitare una situazione di completa dipendenza/sudditanza diplomatico politica alla strategia di Washington.

Dall’altra, un’azione abbastanza spregiudicata nell’intraprendere soluzioni alternative, ricercando partnership e collaborazioni dirette sia verso il Sud Emergente (Global South) sia verso l’Unione Europea, identificando in essa quelle realtà politiche in grado di formulare visioni strategiche di ampia portata.

Il successo della strategia iraniana non è affatto scontato; in primo luogo, le preoccupazioni degli altri Stati non sono state di certo ridimensionate da questo nuovo corso della diplomazia, in quanto gli artigli di Teheran sono sempre più affilati.

In secondo luogo, anche se gli USA hanno visto decadere la loro influenza regionale, rimangono comunque l’unica potenza che l’Iran considera con rispetto e teme e di conseguenza sono ancora un elemento critico nell’equilibrio della Regione.

In terzo luogo, inoltre, anche ammettendo la scomparsa della presenza USA, l’Iran si troverebbe a confrontarsi con una Cina decisamente in ascesa e desiderosa di imporre la propria leadership in quella regione che rappresenta il trait d’union tra l’Asia e il Mediterraneo, dove è puntata la direttrice strategica della Road and Belt Initiative di Pechino.

Infine, anche se Israele è attraversato e scosso da una crisi costituzionale senza precedenti e sembra aver perso la lucidità diplomatico politica che ne ha caratterizzato la storia, le sue potenzialità non possono essere sottovalutate e l’esito di un eventuale conflitto, oltre a non essere affatto scontato per Teheran, altererebbe drammaticamente l’assetto dell’intera regione e potrebbe trasformarsi in un clamoroso insuccesso per la teocrazia iraniana.

Quindi, in sintesi, il nuovo corso della diplomazia dell’Iran rappresenta il tentativo di rendere meno ostili i Paesi dell’area mediorientale, mostrando una postura meno aggressiva e più incline a forme di collaborazione locale limitate, il cui fine ultimo è comunque quello di porre le condizioni per eliminare la presenza USA, che rappresenta l’ostacolo insormontabile per poter raggiungere quella leadership regionale che l’Iran insegue dalla rivoluzione del 1979.

La diplomazia persiana ha radici millenarie e l’Iran di oggi ha ereditato questa raffinatezza di pensiero, ma lo scenario non è solamente limitato allo scontro Iran vs. USA in quanto il palcoscenico adesso ospita nuovi protagonisti le cui aspirazioni geostrategiche sono altrettanto aggressive e di portata globale.

Ma questa complessa scenografia geopolitica è estremamente fluida e quindi c’è posto anche per altri protagonisti ed è qui che l’Europa potrebbe trovare le condizioni adatte a recitare un importante ruolo in questo Grande Gioco che è in atto per costruire il Nuovo Ordine Mondiale.

Medioriente – il Nuovo Mondo del terzo millennio

Recentemente, nell’ambito di una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella quale dovevano essere discussi i termini per l’invio di ulteriori aiuti umanitari a favore delle aree colpite dal terremoto, che ha devastato la zona di confine tra Turchia e Siria, la Russia ha esercitato il diritto di veto bloccando, di fatto, l’approvazione della risoluzione. La scelta, da parte del rappresentante russo, di opporsi all’adozione di una misura tendente ad alleviare lo stato di crisi che caratterizza la regione conferma il supporto di Mosca alla linea politica siriana, la quale ritiene che la distribuzione, imparziale e non soggetta a controlli degli aiuti, possa favorire le fazioni politiche che contrastano il regime di Assad nella regione settentrionale del Paese.

L’eccezionalità del fatto in argomento non risiede nell’esercizio del diritto di veto da parte russa, ma nella reiterazione, in sede ONU per la diciassettesima volta nell’arco di pochi anni, di un comportamento a favore e a sostegno del regime siriano effettuata dalla Russia.

La chiave di lettura per comprendere le azioni di Mosca risiede nella impostazione della visione geostrategica russa che prevede l’espansione e il consolidamento dell’influenza del paese secondo una visione globale non eurocentrica, mirata a proporre e supportare il ruolo della Russia di grande potenza.

Nell’area particolare del Medio Oriente la Russia segue ormai da tempo una linea strategica che propone Mosca come partner politico privilegiato in grado di offrire supporto e collaborazione nell’ambito di un sistema di scambi non vincolato a una condivisione pregiudiziale di vincoli culturali o etici. Inoltre, si è dimostrata pronta a inserirsi in tutte quelle aree dove la presenza USA è meno forte o dove l’interesse americano sembra essersi affievolito.

La scelta che Russia e Cina hanno fatto di investire politicamente nell’area mediorientale e, nella sua visione più ampia nei Paesi del MENA, valutando questo come il teatro critico nel quale svolgere un ruolo determinante a livello geopolitico per il consolidamento del ruolo di potenza globale, deriva dal profondo mutamento che è in corso nell’area.

Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Oman, Kuwait, Bahrain, Siria, Iran, Iraq, Turchia, Israele, Libano, Giordania, Yemen non c’è Stato che recentemente non sia impegnato in un processo di revisione delle strategie per il conseguimento dei propri interessi nazionali che ha sconvolto lo statu quo che aveva caratterizzato l’area per decenni.

Le caratteristiche dello scenario strategico che stanno mutando non riguardano solamente la necessità di riconvertire, in un futuro più o meno imminente, economie basate sul petrolio, ma investono, soprattutto, la collocazione geopolitica che questi Paesi avranno nel contesto globale.

Il Medio Oriente, infatti, rappresenta la fascia avanzata di quel Global Sud che si vuole affacciare allo scenario internazionale da protagonista, ne ha le potenzialità, i mezzi e la volontà.

Gli eventi politici che hanno radicalmente mutato lo scenario sono stati caratterizzati da due fattori fondamentali.

Il primo riguarda l’ingresso della Cina e della Russia (per quest’ultima si può parlare di ritorno in alcuni casi) nel contesto geostrategico mediorientale come sostenitori di un nuovo ordine di rapporti, svincolato dalla ossessiva ricerca della condivisione/imposizione di concetti e di valori culturali ma basato sia sul conseguimento di benefici comuni e sul soddisfacimento di reciproci interessi locali, sia sulla ricerca di rapporti diretti bilaterali che escludono la creazione di coalizioni o alleanze limitative e con rapporto di subordinazione. L’azione di Pechino e Mosca è stata facilitata dalla generale perdita di fiducia nelle capacità degli USA di svolgere il ruolo di garante della sicurezza e di potenza equilibratrice dovuto alla ondivagante e ambigua politica estera che dall’amministrazione Obama in poi ha contraddistinto l’azione di Washington.

Il secondo fattore, invece, è rappresentato dalla progressiva transizione verso una multipolarità dello scenario internazionale, caratterizzata non solo dalla presenza di attori con prerogative globali (in essere o in divenire) che hanno affiancato protagonisti del vecchio ordine USA e Russia, come Cina, India, Brasile Sud Africa, Giappone, ma anche dalla nascita di una serie di medie potenze a carattere regionale in grado di svolgere un ruolo importante e decisivo per il mantenimento di un equilibrio non solo locale, ma complessivo.

In quest’ottica deve essere esaminato il processo di sviluppo geopolitico in atto nell’area in argomento. Gli esempi sono molteplici e riguardano tutta la regione. Come riferimento basti osservare casi emblematici di questa evoluzione geostrategica.

La Turchia, membro della NATO ma ostracizzata per l’ingresso nell’Unione Europea, persegue una politica in bilico tra Est e Ovest le cui attività vanno da una forte e consolidata presenza nel Mediterraneo alla più diretta azione nelle crisi siriana, libica e caucasica, al fine di conseguire lo status di potenza regionale.

L’Arabia Saudita, alleato storico degli USA sta riconsiderando i termini di questa partnership, mentre sta costruendo il futuro del post petrolio sconvolgendo il proprio sistema sociale e culturale.

Recentemente ha intessuto una serie di rapporti diplomatici con i nemici di sempre (Iran e Yemen) a vantaggio di interessi specifici e con l’intento di proporre il Paese come elemento di equilibrio geopolitico nell’area.

Israele che, nonostante le mutazioni del sistema sociale interno stiano scuotendo le fondamenta della sua democrazia, dimostra una proattività diplomatica volta al difficile processo del suo definito riconoscimento e alla costruzione di una cornice di sicurezza anti-iraniana adottando una politica di concessioni e accordi anche senza l’egida USA.

L’Iran, che nonostante abbia avviato un processo di normalizzazione diplomatica con l’Arabia Saudita, continua a supportare le organizzazioni estremistiche della regione (Libano, Yemen, Siria) e a estendere la sua influenza sull’Iraq. Se, internamente, la necessità di reprimere le proteste popolari ha favorito la scalata a posizioni di potere dell’ala militare del regime che sta perseguendo un processo di miglioramento ed espansione dello strumento militare, di cui il nucleare sembra essere il punto di arrivo, dal punto di vista delle relazioni estere il progressivo avvicinamento all’orbita russo-cinese evidenzia il distacco da una politica di equidistanza e la volontà di essere supportata nella sua crociata anti USA.

L’Oman che si è ritagliato un ruolo particolare dal punto di vista diplomatico identificandosi come la risorsa ideale per mediare situazioni apparentemente inconciliabili e pervenire alla stipulazione di accordi politici di fondamentale portata. Gli accordi tra gli USA e i Talebani e il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita sono solo due dei successi che la diplomazia omanita ha reso possibile.

Non solo, in tutti i Paesi del Medioriente sono in via di sviluppo politiche e strategie tendenti a cambiare l’assetto della regione e a conferire maggior peso specifico all’area. Anche la rivitalizzazione della Lega Araba che ha ultimamente posto le condizioni per riammettere la Siria nell’ambito dell’organizzazione dimostra la volontà di cambiare la situazione.

Un ultimo indicatore è rappresentato dalla volontà di trasformare la regione da un’area di sfruttamento delle risorse naturali a un polo di attrazione di investimenti e di capitali verso un settore terziario che ha conosciuto un’esplosione senza limiti nell’ultimo decennio: creazione delle premesse per il turismo di massa e organizzazione di eventi culturali e sportivi a livello mondiale costituiscono solo la punta di un iceberg che non rimane circoscritto all’area locale ma prevede l’espansione verso una sorta di conquista del monopolio occidentale in questi settori (su tutti si deve considerare la scalata al mondo del calcio e la conquista del circuito golfistico americano).

Cina e Russia (e India recentemente) sono visti come partner, magari non del tutto affidabili e anche pericolosi, ma necessari per conseguire gli obiettivi nazionali dai Paesi dell’area, in quanto non essendo il loro approccio basato sulla richiesta di adesione a valori sociali e morali, consentono lo stabilirsi di rapporti esclusivamente di interesse finanziario e commerciale, che non necessariamente sfociano in alleanze.

Ritornando al veto della Russia in sede di Consiglio di Sicurezza, appare, quindi, palese che Mosca sia pure in difficoltà per gli sviluppi della crisi ucraina ragiona e opera in termini di grande potenza. La proattività di Mosca, diretta o indiretta, in Asia e in Africa, continua a contraddistinguere la sua azione diplomatico politica aprendo nuove finestre di opportunità per la sua affermazione quale protagonista critico nella trasformazione in atto nello scenario mondiale.

Nonostante la nostra cieca e ipocrita narrative di una Russia impegnata nel resuscitare la Guerra Fredda la realtà e ben diversa. Mosca ha una visione globale che ha noi Occidente manca del tutto.

La volontà di rivalsa dei paesi dell’Europa dell’Est e del Baltico nei confronti della Russia sta legando l’Europa a un passato che ormai è remoto, impedendogli di dedicare le risorse e le capacità di cui è in possesso per affrontare con successo il cambiamento che è in atto nel sistema delle relazioni mondiali.

La sfida che dobbiamo affrontare viene dal Sud del mondo e non da un anacronistico conflitto EST -OVEST!

Dobbiamo renderci conto che la Guerra Fredda e l’esotismo delle gesta di Lawrence d’Arabia appartengono al passato, sono mondi che non possiamo resuscitare e che non ci appartengono più. Il futuro dell’Occidente non è assicurato dall’espansione globale della NATO (il cui Segretario Generale ha perso il senso della misura invocando interessi asiatici dell’Alleanza!) e neppure dalla crociate in difesa di concetti e valori di cui ci riempiano la bocca ma che spesso calpestiamo per gli interessi personali!

Il processo di sviluppo che sta avendo luogo nel Medioriente, (e di riflesso nell’Africa), rappresenta la chiave di volta del mondo che verrà. Questo la Russia lo ha capito bene e ha indirizzato le sue scelte geopolitiche coerentemente, l’Occidente invece si ostina a vivere nel passato prigioniero di vestigia imperiali oramai defunte e di rancori atavici nordeuropei verso l’Orso Russo.

Ben vengano, quindi le iniziative del nostro Paese verso questo Nuovo Mondo, che sembra aver ritrovato la via per perseguire interessi strategici nazionali orientando la nostra diplomazia al di là del Mediterraneo.

Global South e Nuovo Mondo Multipolare

Mentre in Europa abbiamo reinventato la Guerra Fredda nell’illusione di fermare la storia, cullandoci nel decadente mito della superiorità della cultura occidentale, sorretti dalla presunzione di avere il diritto di imporre sanzioni a chiunque non condivida la nostra narrative, il mondo si è trasformato sotto i nostri occhi.

Il processo di creazione di un nuovo ordine multipolare non è più una eventualità o una possibilità ma è diventata una realtà che sta ridimensionando il ruolo e l’importanza dell’Occidente nel contesto globale, rendendo obsoleto e inadatto il nostro sistema di aggregazioni e di alleanze (oramai roboanti a parole ma quasi prive di efficacia reale – più sono le ammissioni meno potente diventa il sistema!).

Un’Europa incerta e indecisa, profondamente divisa in quanto a scelte strategiche, che si nasconde dietro la bandiera dell’effimera chimera dell’Unione Europea, prigioniera di dinamiche culturali utopistiche, affannosamente alla ricerca di un grande fratello a cui affidare la propria sicurezza, che si culla nell’illusione che organizzazioni, ormai datate e fuori tempo, possano garantire il mantenimento di uno statu quo non più aderente alla realtà geostrategica, ha perso di vista l’evoluzione dello scenario internazionale.

Il nuovo ordine multipolare è caratterizzato dalla presenza di entità geopolitiche che rispondono a nuovi concetti organizzativi dove coesistono potenze di dimensioni globali e medie o piccole potenze che svolgono ruoli determinanti e critici quali attori regionali.

È un sistema dove l’aggregazione degli Stati non avviene in base al concetto di amico aut nemico che ha forgiato il nostro sistema di relazioni, ma si basa sempre più sulla condivisione di interessi che possono essere economici, finanziari, geopolitici, industriali, di sicurezza, di sviluppo e via dicendo che non hanno il crisma dell’unicità o delle unidirezionalità, non sono persistenti e non sono globali, ma soprattutto non impediscono la libertà di azione di ciascuno Stato che può aggregarsi a seconda dei propri interessi nazionali senza dover sottostare a scelte di campo astringenti e limitative.

L’altra caratteristica che caratterizza questi rapporti risiede nella assenza di condizionamenti ideologico culturali quale base per lo stabilirsi di accordi o partenariati.

Le grandi organizzazioni che si stanno affermando non mirano a garantire una sicurezza globale e non sono dirette alla diffusione o alla condivisione di concetti culturali a premessa della partecipazione a esse. Il BRICS, la New Development Bank (NDB) e lo Shanghai Cooperation Organization (SCO) che rappresentano la punta emergente della volontà di sistematizzare questo nuovo ordine multipolare sono in crescita e in espansione perché rappresentano un’attrattiva interessante per un Global South emergente e che non vuole essere costretto, obbligatoriamente, a dover assumere una posizione nei confronti dei protagonisti che si contendono l’egemonia mondiale.

Le iniziative e le attività in questo senso hanno assunto proporzioni vastissime espandendosi con enorme rapidità dal Medio Oriente all’Africa per coinvolgere l’intera area dell’Indo-Pacifico.

Per avere un’idea del complesso fenomeno della costruzione di questo nuovo sistema può essere indicativo esaminare l’evoluzione che ha contraddistinto il processo di perseguimento degli interessi geostrategici nazionali dell’Arabia Saudita negli ultimi anni.

Sotto la guida del Principe Mohammed bin Salman (MbS) l’Arabia Saudita ha intrapreso un enorme processo di trasformazione al fine di dotare il Paese degli strumenti necessari per affrontare, con successo, un futuro immediato in termini geopolitici, dove le riserve fossili non saranno più un fattore di potenza.

Pur rimendo un interlocutore privilegiato per gli USA l’Arabia Saudita ha diversificato e ampliato i propri orizzonti geopolitici stabilendo, da tempo, solide relazioni economico commerciali con la Cina, che hanno consentito la convergenza di specifiche visioni politiche.

Pur perseguendo una politica di leadership nel mondo arabo il Paese ha adottato un nuovo corso nelle relazioni che lo legano ai Paesi Mediorientali: il processo è culminato con il l’accordo per ristabilire le relazioni con l’Iran, ma è stato preceduto da una serie di rinnovate intese con gli altri attori dell’aerea, Turchia, Israele in primis. Non si tratta di alleanze o patti tutt’altro, queste azioni si basano sulla possibilità di poter condividere interessi e risorse comuni al fine di perseguire obiettivi pratici. Il criterio alla base è che le differenze di posizioni su temi geopolitici generali restano ma non sono considerate come un ostacolo al conseguimento di un accordo che offra benefici immediati e concreti di carattere economico – finanziario.

La recente richiesta dell’Arabia Saudita di entrare a far part e del BRICS, oltre ad essere favorita dalle importanti relazioni commerciali con la Cina, delinea la volontà del Paese e della sua leadership di poter legare lo sviluppo del progetto Vision 2030 alla Belt and Road Initiative cinese per contribuire, da protagonista, a definire i contorni di un nuovo ordine mondiale extra-occidente rappresentato dalle potenze emergenti (direi piuttosto già emerse) e dal Global South che si identificano e si raggruppano sotto l’egida dell’organizzazione del BRICS.

Il progetto è sostenuto ideologicamente dal conseguimento di una diversità globale, costruita nel mondo per il mondo dove i Paesi come l’Arabia Saudita svolgono il ruolo fondamentale degli elementi di equilibrio del sistema.

Inoltre, con la richiesta di ingresso nel BRICS e di partecipazione alla NDB, il Paese si è assicurato un forte sostegno per la candidatura di Ryad quale sede dell’Expo 2030, obiettivo che coronerebbe la Vision 2030 e che rafforzerebbe la narrative del BRICS di diversità globale e nuovo ordine mondiale.

Contemporaneamente, però, MsB ha effettuato una lunga visita in Francia dove sono stati raggiunti importanti accordi di carattere tecnico, scientifico, energetico e commerciale attraverso il French – Saudi Investiment Forum che porteranno a un incremento sostanziale dell’interscambio commerciale tra i due Paesi consentendo all’Arabia Saudita di evitare una dipendenza esclusiva da Pechino.

Da ultimo, ma non di minore importanza in quanto evidenzia la capacità di considerare e valutare le potenzialità offerte dai nuovi orizzonti, va sottolineata l’intraprendenza dimostrata nel settore dell’organizzazione di grandi eventi sportivi, iniziata con l’acquisizione di club calcistici, proseguita con l’ingresso come sponsor nel mondo della F1 e la disponibilità a essere sede di meeting e manifestazioni di alto livello, che si è concretizzata con il successo dell’accordo di fusione del più prestigioso ed esclusivo circuito golfistico, quello del PGA Tour, con il Liv Golf il tutto basato su una disponibilità di risorse economiche inimmaginabile per qualsiasi altro sistema di investimento di fondi.

In sintesi, l’Arabia Saudita rappresenta l’archetipo del Paese sul quale si basa la nuova multipolarità globale.

Ha stretti rapporti con le principali potenze, ma non si riconosce nel ruolo di alleato di nessuna di loro, in questo modo si estrapola dalla classificazione di filo-occidentalismo o filo-orientalismo, sviluppa un approccio multipolare che gli consente di scegliere e valutare le opportunità che meglio soddisfano i propri interessi nazionali.

È preoccupato della propria sicurezza a livello regionale e per questo cerca di sviluppare un sistema di relazioni internazionali che consentano di eliminare o mitigare i possibili attriti geopolitici con i vicini, ma nello stesso tempo sviluppa una sua politica di difesa appoggiandosi a una grande potenza ma condividendone solo le linee strategiche che la riguardano.

Ricerca rapporti di cooperazione ma non di sudditanza, è disponibile ad alleanze specifiche su un piano di parità, senza sentirsi vincolata da queste, a colloquiare con qualunque altro attore possa rappresentare una risorsa per il conseguimento di opportunità o di interessi nazionali.

Diversifica le fonti di approvvigionamento dei beni e delle risorse essenziali al suo sviluppo in modo da ridurre o eliminare la dipendenza da un singolo Paese, ricercando un equilibrio nei rapporti e negli scambi commerciali che gli garantisca l’indipendenza diplomatico – politica.

Ha, soprattutto, una chiara visione di quelli che sono gli obiettivi che rappresentano i suoi interessi nazionali e ha sviluppato e implementato una strategia per poterli perseguire.

Questo processo che ha trasformato in senso radicale il sistema delle relazioni internazionali è solo all’inizio e gli sviluppi successivi, sicuramente, comporteranno una ulteriore definizione di un mondo multipolare con regole e criteri differenti da quelli ai quali siamo abituati e che consideriamo immutabili.

L’Europa vive in una realtà ovattata che si basa sulle regole di un mondo uscito dalla tragedia del Secondo Conflitto Mondiale che non è più reale nonostante si cerchi di mantenerlo in vita artificiosamente. L’ONU e le organizzazioni a essa collegate hanno visto il loro prestigio e il loro valore intrinseco diminuire e devono essere riformate dal profondo per riacquisire la centralità alla quale erano deputate.

L’Unione Europea è un consesso che si sta distaccando sempre più dalla realtà delle necessità dei Paesi Membri e che viene usato come paravento per interessi particolari di nazioni alla ricerca dell’impero perduto. Giochiamo ancora con definizioni da barzelletta (Paesi Virtuosi, Paesi Frugali), mentre abbiamo abiurato ai concetti culturali e politici fondamentali che erano stati posti alla base del progetto, nella smania di accogliere tutti senza limiti e in osservanza a utopistici deliri di universalità, senza considerare le conseguenze di accollarsi oneri difficilmente sostenibili.

Abbiamo attaccato lancia in resta l’Orso Russo perché ci serviva un nemico sul quale far ricadere le nostre insicurezze e soprattutto ricreare quella situazione di pericolo che serve al Nord dell’Europa per non volgere lo sguardo a Sud ed evitare di affrontare una realtà che sconvolgerebbe la loro comfort zone.

Mentre ci guardiamo il nostro ombelico credendo che sia quello del mondo, ci stiamo perdendo la trasformazione che sta cambiando il contesto geopolitico globale. È opportuno cambiare rotta, smettere di inseguire realtà virtuali e dissanguarci in un conflitto dove in pericolo non sono la sopravvivenza del mondo libero la democrazia, ma solo gli interessi particolari degli USA e il desiderio di rivalsa dell’Europa orientale nei confronti della Russia.

Le possibilità ci sono e l’Europa ha risorse intellettuali, morali, culturali, scientifiche economiche e finanziari sufficienti per emergere in questo nuovo ordine come protagonista. E se questo non bastasse, anche il nostro Paese possiede le capacità necessarie per svolgere un ruolo determinante in un contesto regionale e sembra che le recenti iniziative in politica estera siano dirette a costruire e rafforzare l’immagine di una Italia più intraprendente e più sicura delle proprie possibilità.

Il manifesto di politica estera di Pechino

 

Mentre in Occidente ci auto illudiamo con una narrativa di “regime” unidirezionale e ingannevole che il conflitto ucraino rappresenti l’atto estremo dell’eterna lotta tra il Bene (noi Occidentali) e il Male (il resto del mondo che non la pensa come noi), non ci accorgiamo che la Cina sta ponendo le basi ideologiche del suo concetto di Ordine Mondiale in chiave dichiaratamente antioccidentale.

A un anno esatto di distanza dalla dichiarazione congiunta russo-cinese dove veniva affermato un nuovo paradigma del concetto di democrazia – uno Stato è democratico se si sente democratico – e una differente declinazione dell’idea dei diritti dell’individuo – finiscono dove inizia l’interesse dello Stato – la Cina ha emanato un nuovo documento particolarmente interessante.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica Cinese ha infatti emesso un documento intitolato “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”.

Se il titolo non fosse abbastanza esplicito da chiarire il contenuto, basta dare un’occhiata all’indice: dopo una breve, ma significativa, introduzione dove gli Stati Uniti sono presentati come il peggiore dei mali, seguono cinque capitoli dedicati a tutti quei settori dove gli USA impongono la loro egemonia politica, militare, economica, tecnologica, culturale.

Il fine che il documento si propone di conseguire è rappresentato dalle ultime due righe dell’introduzione dove si cita testualmente:

This report, by presenting the relevant facts seeks to expose the U.S. abuse of hegemony in the political, military, economic, finance, technological and cultural fields, and to draw greater international attention to the perils of the U.S. practises to world peace and stability and the well-being of all people.

Un incipit che farebbe sembrare dei principianti l’Imperatore Palpatine o il Signore dei Sith, i super cattivi galattici che impersonano il male assoluto nella saga di Star Wars.

Nel corso dei vari capitoli il documento spiega come gli USA impongano la loro egemonia nei differenti settori a detrimento del bene universale e della pace dei popoli.

Senza andare nel particolare di quelle che sono, in realtà, dichiarazioni di una propaganda che affonda le sue radici in una retorica derivante da una visione social-comunista da Libretto Rosso, è opportuno notare come alcuni argomenti, quasi accennanti casualmente, definiscano, invece, la visione cinese che propaganda un nuovo ordine mondiale.

Il primo di questi concetti riguarda l’accusa di aver fabbricato una falsa narrativa della “democrazia verso l’autoritarismo” per incitare all’allontanamento, alla divisione, alla rivalità e al confronto tra le varie nazioni. Anche l’idea USA della creazione di un “Summit per la democrazia” è un’iniziativa che viene aspramente criticata e accusata di causare la divisione nel mondo.

Il secondo concetto riguarda la sfera economico finanziaria, dove viene messo in discussione il sistema che regola la struttura globale ritenuto esclusivamente vantaggioso per il binomio USA – Occidente (probabilmente ci si dimentica due terzi del debito USA sono finanziati dalla Cina).

Il terzo elemento evidenzia un certo fastidio per il sistema di alleanze che gli USA hanno impostato nella gestione della loro visione diplomatico – strategica, percepito da Pechino come elemento coercitivo e destabilizzante perché escludente la sua partecipazione.

Il paragrafo finale delle conclusioni contiene una affermazione programmatica che invita le grandi nazioni a prendere l’iniziativa nel perseguire un Nuovo Modello di relazioni tra stato e stato basato sul dialogo e la partnership, e non il confronto e le alleanze; rimarca, inoltre, la posizione contraria della Cina verso qualsiasi forma di egemonia e di potere politico e sottolinea il rigetto di qualsiasi interferenza negli affari interni di altri paesi (concetti cari a Pechino per la risoluzione dei vari problemi come il Tibet, la minoranza uigura, Taiwan).

Non poteva mancare, a conclusione del tutto, l’invito agli USA a fare autocritica conducendo una seria introspezione al fine di esaminare con visione critica le loro malefatte, rifuggire dal loro comportamento arrogante e pregiudizievole e smettere di adottare comportamenti egemonici, prepotenti e bullizzanti!!!!!!  (“The United States must conduct serious soul-searching. It must critically examine what it has done, let go of its arrogance and prejudice, and quit its hegemonic, domineering and bullying practises”).

L’importanza del documento non risiede nelle affermazioni che vengono fatte o nella demonizzazione del comportamento degli Stati Uniti, ma nell’aspetto concettuale che esso si propone di realizzare.

Gli USA e i loro valori culturali (che in definitiva sono ampiamente condivisi dall’Occidente per intero) sono un pericolo per il mondo e contro questa visione la Cina si erge a baluardo proponendo un Nuovo Ordine.

Questo Nuovo Ordine non si basa sulla condivisione di quei concetti culturali e sociali che hanno ispirato l’Occidente come la democrazia, la libertà individuale, la libertà di espressione, la libertà di commercio e di movimento, ma un sistema dove tutti questi valori si fermano quando un superiore interesse da parte di un concetto di Stato astratto e imposto si inserisce e prevarica su tutto.

E la Cina, con estrema scaltrezza non propone sé stessa come elemento guida di questo nuovo sistema di relazioni internazionali, ma elenca i mali che il sistema occidentale, tiranneggiato dagli USA, comporta e produce, proponendolo all’attenzione del resto del mondo come il pericolo da cui è necessario e fondamentale difendersi.

Il problema da affrontare non è costituito dalla retorica da Libretto Rosso che la propaganda cinese usa o la veridicità o meno delle sue affermazioni, ma risiede nei concetti politici che la Cina intende veicolare per impostare una nuova concezione di valori culturali.

Il sistema proposto è un chiaro e mirato attacco contro gli USA che sono individuati come l’ostacolo principale verso un’egemonia cinese, mentre considera l’Europa come un sistema in completo decadimento, disunito e privo di peso politico, la cui insignificante importanza globale non costituisce alcun problema per l’affermazione del sistema cinese.

La forza di questa linea strategica che la Cina persegue da tempo, deriva, non tanto dall’efficacia della critica dei valori occidentali e dalla proposta di valori culturali alternativi, ma dalla nostra mancanza di visione globale del contesto internazionale, persi come siamo nella nostra piccola gabbia dorata dalla quale non vogliamo uscire.

Purtroppo, l’Europa non ha una visione strategica globale ma si dibatte tra vecchi rancori (il deuteragonismo franco-tedesco nel voler dominare l’Unione Europea), l’incapacità di uscire dal passato (la crisi ucraina ne è un esempio), la tendenza a rimanere ancorati a un orizzonte limitato (assenza della percezione del lato Sud dell’Europa e del mondo) e questo la porta a essere vulnerabile nei confronti dell’evoluzione che caratterizza lo scenario internazionale.

L’Occidente europeo si è fatto trascinare in un conflitto provocato da interessi che non gli appartengono e alimentato da vecchi rancori, dove una retorica ormai appartenente al passato vagheggia vittorie impossibili e imposizione di trattati di Versailles irrealistici (l’Ucraina sta vincendo su Facebook ma perde sul terreno!!!!!!). La nostra società annaspa in una crisi sempre più profonda e l’unica reazione è quella di chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un mondo in evoluzione e illuderci che la Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la rete 5G a basso costo, i finanziamenti ai progetti universitari, l’acquisto di proprietà ed esercizi commerciali da parte cinese, siano esclusivamente l’espressione di una benevola e innocua aspirazione a fare parte del nostro sistema e di interesse a condividere i nostri valori.

Non è così, e il documento del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese lo conferma senza ombra di dubbio.

Se non vogliamo essere schiacciati nel confronto per il Nuovo Ordine ed essere ridimensionati allo stato di colonie, dobbiamo aver il coraggio di guardare al di là del nostro piccolo orizzonte, utilizzare le capacità che l’Unione Europea ci consente di avere, se agiamo come un unico, solido, coeso organismo (lasciando perdere idiozie concettuali come i Paesi Frugali, quelli Virtuosi, i Quattro di Visegard e via dicendo) e quelle intrinseche che un istituzione di difesa collettiva e di integrazione come la NATO rende possibili, se trasforma la sua accezione di club in funzione anti Russia e si trasforma in un elemento di sviluppo dei valori e dei concetti condivisi da un Occidente unito e in grado di svolgere un ruolo da protagonista nel contesto internazionale.

I valori culturali che hanno disegnano e formato la nostra società sono senz’altro validi e meritano di essere proposti come un modello da seguire e da adottare e non dobbiamo vergognarci di sostenerli e di veicolarli, ma dobbiamo farlo senza l’arroganza che siano gli unici e che possano essere imposti come merce di scambio. Il modo migliore è dimostrare che la nostra società Occidentale non è decadente, immorale e pericolosa come la Cina la descrive ma, invece, rappresenta un modello i cui valori sono degni di essere accettati e condivisi anche dagli altri.

L’alternativa è di iniziare a imparare a usare le bacchette per mangiare!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

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Maurizio Iacono
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