GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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NATO – Back to the future!

La prossima settimana a Madrid si svolgerà il vertice dell’Alleanza Atlantica che dovrà definire il Concetto Strategico che guiderà la NATO verso il nuovo decennio.

Il contesto geopolitico nel quale questo particolare e fondamentale appuntamento si realizza è estremamente delicato e le decisioni che saranno assunte avranno un peso specifico enorme non solo per l’Alleanza stessa, ma per il posizionamento dell’Europa e del mondo Occidentale nell’ambito di un nuovo sistema di relazioni che si sta sviluppando a livello globale e che sembra essere assolutamente e deliberatamente ignorato dall’Alleanza

Senza dubbio la crisi ucraina condizionerà pesantemente le decisioni che saranno adottate, considerando, soprattutto, la narrativa che vede nella Russia l’unico e il solo pericolo che l’Alleanza deve fronteggiare.

L’ultima dichiarazione del Segretario Generale, una sorta di lascito spirituale in vista dell’approssimarsi del termine del suo mandato, ribadisce, infatti, la volontà di identificare nella Russia il nemico da combattere e da vincere!

Se il fine del Concetto Strategico, proposto da Stoltenberg e ampiamente sostenuto dai Paesi Membri del Fianco Orientale, dovesse essere questo, allora la NATO tornerebbe alle origini, annullando in un attimo gli ultimi trent’anni di storia europea.

Ma siamo davvero sicuri che questa sia la visione corretta e che l’interpretazione della realtà forgiata da una propaganda incessante e unidirezionale, che attribuisce a Putin la volontà di ricostituire un neo-impero post-sovietico in Europa Orientale, sia il criterio sul quale si debba basare la strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro?

Fermo restando, a priori, la condanna dell’azione russa in Ucraina, ritengo che la situazione richieda un esame più oggettivo e meno idealistico – utopistico di quello condotto al momento. Non si può ragionare solo ed esclusivamente in termini di buoni (la NATO) e cattivi (i Russi) identificando nella ricostruzione del conflitto Est vs Ovest la ragione di esistenza dell’Alleanza.

La fine della cosiddetta Guerra Fredda aveva, correttamente, posto il problema della gestione del vuoto di potere che si era generato nell’Europa dell’Est a seguito dello sconvolgimento geopolitico provocato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica; la soluzione individuata tra le differenti ipotesi è stata quella di ammettere nell’Alleanza, in rapida successione, tutti, o quasi, i Paesi ex satelliti di Mosca, nella convinzione di amalgamare e occidentalizzare velocemente il fronte orientale e allontanare la frontiera lontano dal cuore dell’Europa e spostarla sempre più vicino al confine della Russia.

Il passo successivo, che richiedeva una procedura burocratica un po’ più lunga e complessa, è stato quello di aprire le porte dell’Unione Europea a tutti, cercando di far coincidere i limites militari con quelli economico – finanziari.

Inizialmente tutto è andato bene e la soluzione adottata sembrava essere quella vincente: una Russia addomesticata e pronta a diventare una succursale per il mercato europeo, i Paesi ex satelliti finalmente liberi e democratici ammessi a godere dell’opulenza occidentale, sostenuti ampiamente da una UE prodiga di aiuti economici e fondi da spendere, dove la sicurezza era assicurata dalla loro acquisita membership alla NATO.

Poi piano piano c’è stato un mutamento della situazione. Prima le regole dell’UE sono diventate troppo strette e soffocanti per alcuni Paesi il cui sentimento nazionale si è sentito offeso e limitato dalle procedure intrusive di Bruxelles. Per carità, l’euroscetticismo è presente un po’ ovunque e la Brexit ne è la testimonianza lampante.

Ovviamente, la libertà di perseguire il proprio interesse geostrategico è sacrosanta e nessuno la mette in dubbio. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che la condivisione di visioni regionali comuni, preesistenti all’UE, ha consentito lo svilupparsi di accordi particolari tra Paesi membri, come i 4V (Gruppo di Visegràd) o l’iniziativa dei Tre Mari che vedono la partecipazione degli ex stati satelliti, le cui visioni generali sostengono delle linee di azione che alle volte sembrano esprimere posizioni alternative alla visione comune e generale della UE, se non addirittura contrarie.

Successivamente, è iniziato lo sviluppo di una lenta ma costante narrativa tendente a evidenziare un sentimento strisciante di insicurezza e di minaccia che dal Baltico si è esteso verso il Mar Nero, le cui origini sono state identificate in una presunta volontà da parte di Putin di ricostruire lo scomparso impero sovietico.

La Russia è un vicino scomodo, certamente, e le recenti vicende storiche hanno profondamente segnato la memoria delle popolazioni, ma è anche vero che i rapporti tra Mosca e l’Est Europa sono stati contraddistinti nei secoli da una rivalità accesa che ha comportato un continuo alternarsi dei rapporti di forza tra i vari contendenti, il cui profondo sentimento nazionale e un’orgogliosa visione di se stessi ha purtroppo lasciato delle cicatrici che facilmente si ripresentano come ferite aperte.

Questo insieme di condizionamenti si è riflesso sulla NATO e sulla sua visione geopolitica spostando progressivamente, ma decisamente, l’attenzione sul fronte orientale.

Nel tempo si sono susseguiti una serie di analisi, allarmi, studi, rivelazioni più o meno precisi e veritieri che hanno presentato una realtà sempre più cupa e a tinte fosche nella quale il gigante russo si stava affilando le unghie per scatenarsi contro i poveri ex satelliti bramando di riportare i propri confini a quelli della Cortina di Ferro. Tra minacce di cyberattacchi, proliferare di troll sul web, attribuzioni di atti ostili di hybrid warfare, presunti rapporti segreti sulle strategie di conquista di Putin, nel corso degli ultimi anni si è concretizzata una narrativa a sostegno di uno scenario premonitore di una terza guerra mondiale.

Contestualmente, sono aumentate le richieste di sicurezza e di presenza della NATO nello scacchiere nordorientale, con un maggior spiegamento di forze (più basi uguale più entrate!) e una maggiore richiesta di supporto tecnico militare. Anche il clima esercitativo della NATO, che è sempre stato politicamente corretto nel non identificare direttamente la Russia come l’avversario contro cui prepararsi, ha subito delle modifiche sostanziali abbandonando, soprattutto negli ultimi anni, quella formale asetticità nel costruire i suoi scenari operativi di esercitazione.

Tutto questo è stato ampiamente sostenuto in ambito NATO dai Paesi nordici a cui non pare vero aver ritrovato un nemico che gli consenta di crogiolarsi in una comfort zone, abbastanza vicina, dove le incognite sono ridotte al minimo, dove si conosce tutto di un avversario ben definito e identificato che non impone la necessità di sconvolgere il proprio assetto di pensiero per affrontare un ambiente culturalmente distante, difficile da capire e che non si vuole affrontare perché richiede uno stravolgimento del proprio paradigma mentale (il Mediterraneo come porta di accesso all’Africa, il Medio Oriente quale cerniera di due mondi ormai prossimi).

Ovviamente la Russia non è stata con le mani in mano e ha sfruttato questa politica di revival da guerra fredda alimentando la narrativa raccontando la sua verità.

Alla fine, quello che è in atto da almeno un decennio è una specie di proxy war tra la componente ex sovietica della NATO e la Russia, dove i primi, facendosi scudo del fatto di essere membri della NATO, cercano di provocare la Russia stessa (a questo proposito l’ultima iniziativa della Lituania con il blocco dei rifornimenti all’enclave di Kaliningrad non sembra essere una mossa diplomatica proprio brillante), mentre i secondi non perdono occasione di gridare al vento di essere accerchiati da un’Alleanza bellicosa e pericolosa.

Si potrebbe avere l’impressione di assistere a un tentativo di rivalsa storica, dove persistono vecchie ruggini e non sopiti rancori che spaziano dal Principato di Kiev alla Federazione Polacco Lituana, passando attraverso l’epoca delle Crociate del Nord, per arrivare a un andirivieni di spartizioni territoriali che hanno modificato i confini dell’Est europeo stratificandosi in un miscuglio di minoranze e maggioranze etnico linguistiche difficile da distinguere e da accertare.

Senza entrare nel merito di queste rivendicazioni, vere o presunte che esse siano, il problema principale è che tutto ciò è stato fatto utilizzando come ombrello di protezione l’appartenenza alla NATO e quindi una presunta sicura protezione da parte di una ritorsione dell’orso russo.

Vista in questi termini, e pur considerando che la Russia non è immune da colpe, la NATO ha buttato via trent’anni di storia ritornando all’anno zero: il 1949!

Il nuovo Concetto Strategico probabilmente sancirà questo ritorno al futuro e non solo perché c’è l’influenza dell’onda emotiva della crisi ucraina, ma soprattutto perché manca una visione strategica ampia, equilibrata e profonda che sia in grado di spingere lo sguardo dei vari Paesi Membri al di là dei limitati interessi che ne pervadono la politica nazionale.

Il ritorno al futuro sottolinea che non esiste un interesse comune e condiviso dell’Alleanza Atlantica in se stessa ma, purtroppo, solo ed esclusivamente un insieme di interessi parziali, che sfruttano la NATO limitando le sue capacità di poter essere un attore di rilievo nel panorama geopolitico globale e relegandola al ruolo di deuteragonista in uno scenario europeo la cui importanza si sta dissolvendo in una evanescente rincorsa del passato.

Come la Russia vede la crisi ucraina

Russian President Vladimir Putin (foreground left) and Russian Prime Minister Dmitry Medvedev  EPA/MIKHAIL KLIMENTYEV / RIA NOVOSTI / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

 

 

 

Il clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua conclusione. Le sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta dell’aggressore. O almeno, così sembra.

Infatti, l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni. La NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la sua reale forza. La propaganda occidentale, travestita da informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il coraggio di concedere un diritto di replica.

La diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la giustizia. Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.

Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia, legalità e diritti individuali!

Questa è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni. Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse da quelle che noi assumiamo debbano essere?

Forse sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).

Nel condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione occidentale sugli sviluppi del conflitto.

Procediamo innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il punto di vista militare!

La mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare del conflitto.

Ma la conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin! Lo scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della leadership di Putin.

Infatti, le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo prestabilito: l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima russa delle aree orientali dell’Ucraina.

Se consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!

Secondo punto. L’Occidente deve scongiurare un’escalation del conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.

Quindi, per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass e in Crimea.

Ma questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto. Infatti, anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.

Quindi nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme. Putin è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e lo vive intimamente.

Una situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.

Altro elemento di analisi. La posizione di potere di Putin all’intero dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di stato.

Sicuramente l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia politica. Duma e Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente. Come pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura russa: un nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.

La dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione democratica che i media occidentali danno come imminente. Non ci sarà una Primavera Russa!!

Infine. Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno facendo perdere la guerra.

Voci e notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.

Che Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca. Errori di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna purga di carattere staliniano.

Quindi Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi collaboratori rimane intatta. Non esiste la possibilità che il sistema politico di Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.

Il quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.

La dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.

Sostenere militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della NATO) perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa di un Putin disperato e fuori controllo.

Per quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia, ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.

La soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori: il primo è il diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione russa della sua sicurezza; il secondo concerne la ridefinizione delle ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni geopolitiche.

Entrambi i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.

L’Occidente è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.

Mosca ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della Russia.

Questa visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e dall’altra.

Il punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale. Un ordine dove gli strumenti per la risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.

E l’Ucraina? L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le premesse per l’esplodere di questo conflitto.

Svezia e Finlandia nella NATO. Cui prodest?

La notizia che la Svezia e la Finlandia abbiano recentemente formalizzato la loro richiesta di entrare a far parte della NATO è stata presentata come un colpo definitivo assestato all’avventura russa in Ucraina e come un successo politico che consente all’Alleanza di annoverare tra le sue fila anche due giganti della scena internazionale capaci di imbaldanzire e ridare fiducia a un’organizzazione ormai in stato vegetale e incapace di opporsi, se non a parole, al malvagio Putin e alle sue mire zariste.

La decisione è maturata sulla scia degli avvenimenti che hanno direttamente interessato l’Europa orientale, sconvolgendo non solo tutto il sistema geopolitico occidentale ma anche l’equilibrio dei rapporti tra la Russia e la NATO stessa.

La sensazione di minaccia e di pericolo che le attività russe hanno generato in Occidente ha determinato la decisione da parte dei due Paesi Scandinavi di abbandonare la loro condizione di neutralità formale e di divenire parte integrante dell’Alleanza Atlantica e anche della NATO.

Fermo restando il diritto di ogni Paese di perseguire in piena autonomia i propri interessi nazionali e di basare su essi le proprie scelte politiche, la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia stimola una serie di considerazioni sulla natura della decisione e sulla tempistica con la quale è stata presentata, nonché sulla opportunità, in termini strategici, della condivisione di un tale passo.

In primo luogo, i due Paesi non condividono lo stesso retaggio storico e hanno maturato esperienze differenti nei confronti della Russia e quindi è difficile riconoscere le stesse motivazioni alla base della loro scelta.

La Svezia, da oltre due secoli, ha adottato una posizione di neutralità formale, che gli ha consentito di non essere coinvolta direttamente nei conflitti che hanno cambiato l’Europa, sfruttando, però, tale posizione per ottenere dei benefici economici senza nessuna remora morale. I suoi rapporti con la Russia non sono stati caratterizzati da particolari ostilità da quando Gustavo III e Caterina II siglarono la pace di Värälä alla fine del XVIII secolo, inoltre, non ha nessuna minoranza russofona nel suo territorio e non ha ricevuto, da parte di Putin, pressioni, dirette o velate, che potessero mettere in pericolo la sua sicurezza. Ha una fiorente industria militare e da molto tempo, partecipa alle attività della NATO, dato che il suo strumento militare è pienamente integrato nelle procedure dottrinali dell’Alleanza e che anche il suo personale ricopre incarichi di consulente presso alcuni dei comandi della NATO stessa, senza peraltro che ciò abbia suscitato particolari rimostranze da parte russa.

Il percorso storico della Finlandia è, invece, alquanto differente ed è legato a doppio filo al suo ingombrante vicino. L’indipendenza guadagnata dopo la dissoluzione dell’Impero zarista, la Guerra d’inverno e la partecipazione al Secondo Conflitto Mondiale dalla parte della Germania hanno condizionato nel dopoguerra i rapporti russo finlandesi, indirizzando le scelte politiche del Paese verso una posizione di neutralità, che ha consentito alla Finlandia di non essere sovietizzata, ma che ha lasciato una insoddisfazione di fondo per il ridimensionamento territoriale subito. Da tempo pure la sua neutralità è stata più formale che sostanziale, avendo operato delle scelte dirette mediante l’adesione all’Unione Europea e la partecipazione stabile alle attività addestrative della NATO, anche in questo caso, senza per questo destare particolari attriti con Mosca. Infatti, i rapporti con la Russia, pur non volendoli considerare pienamente amichevoli, non hanno mai registrato particolari problematiche e non ci sono state da parte russa minacce dirette alla sicurezza della regione.

Quindi si può ipotizzare che le motivazioni alla base della richiesta di entrare nel Club Euroatlantico siano state condizionate non solo dalla generale paura che il risveglio dell’orso russo ha diffuso nell’Occidente, ma anche e, soprattutto, da considerazioni opportunistiche di politica interna e da pressioni esterne volte a costruire l’impressione che un’sistema Euroatlantico, riportato in vita da un’agonia annunciata, sia in grado di presentare un fronte comune omogeneo e compatto, anche dal punto di vista militare, tale da opporsi con successo alle mire espansionistiche di Mosca.

Per quanto attiene al particolare momento scelto dai due Paesi per inoltrare la loro richiesta di adesione possono essere fatte alcune considerazioni di carattere generale.

Da un punto di vista strettamente propagandistico la decisione dei due Paesi di abbandonare una posizione di neutralità radicata nel tempo e di schierarsi, anche militarmente con l’Occidente antirusso, avrebbe avuto un impatto maggiore e ben più importante se essa fosse avvenuta dopo gli avvenimenti che hanno interessato la Crimea. Nel 2014 una scelta di tale portata avrebbe dimostrato una reale volontà del Club Euroatlantico di contrastare seriamente ulteriori avventure di Mosca nell’Est europeo. Invece il consesso euroatlantico ha svalutato il ruolo e l’importanza della NATO vagheggiando e delirando sulla costruzione di un concetto di difesa europea.

Ma questa scelta di far parte dell’Alleanza la Svezia e la Finlandia non l’hanno concretizzata, eppure già si potevano intravvedere quali potessero essere gli sviluppi futuri in termini di sicurezza e pericolosità dell’aera. E nessuno al tempo ha esercitato pressioni per suggerire o stimolare una così radicale scelta di campo.

Se, invece, consideriamo l’aspetto in termini geostrategici, la mossa di spingere Svezia e Finlandia a presentare la loro richiesta, non appare essere un capolavoro di diplomazia, in quanto comporta due conseguenze pericolose.

La prima, fermo restando la condanna assoluta dell’uso della forza da parte di Mosca, se le motivazioni adottate da Putin sono basate sulla necessità di dimostrare la volontà russa di non sottostare a un accerchiamento da parte della NATO, percepito a torto o a ragione come una minaccia diretta al territorio della Russia, la decisone di Svezia e Finlandia e le pressioni sulla Georgia per fare altrettanto, non sembrano essere la scelta migliore per riuscire a disinnescare una situazione diplomatica che sta diventando ogni giorno più tesa e difficile da risolvere. Il termine di questo conflitto richiede una soluzione di compromesso, che ci piaccia o meno, che dia la possibilità ad entrambe i contendenti di potersi ritirare con un qualche cosa da esibire come risultato positivo, quindi, la proposta dei due Paesi nordici non è né tempestiva, né strategicamente coerente, in quanto non fa che incrementare e giustificare, in un certo senso, la schizofrenia russa.

La seconda riguarda, invece, l’obiettivo strategico alla base della posizione assunta dagli Stati Uniti e condivisa, obtorto collo, anche dal resto dell’Occidente: la caduta di Putin.

Il sostegno all’Ucraina e la conclusione vittoriosa del conflitto con la Russia hanno come scopo fondamentale quello di dimostrare da una parte la ritrovata capacità degli Stati Uniti ad impegnarsi sia come difensore del concetto di democrazia e del rispetto della legalità internazionale, sia come garante dell’ordine mondiale, dall’altra la volontà di decretare e realizzare la caduta politica di un avversario pericoloso e scomodo come Putin.

Quello che tale visione strategica non considera e che il problema non è rappresentato da Putin in quanto tale e dal suo modo di intendere le relazioni internazionali, ma dalla particolare percezione che la Russia stessa ha del mondo e del ruolo che ritiene gli spetti nel contesto globale.

La considerazione che la Russia ha di sé stessa può non essere condivisa e, quindi, può anche essere contrastata, ma deve essere riconosciuta e considerata alla stessa stregua di quanto avviene per tutti gli altri Paesi che, a torto o a ragione, ritengono di avere una missione affidata loro dalla storia alla quale uniformano il perseguimento della loro politica internazionale, come la Cina, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e gli stessi Stati Uniti.

L’aver scoperto di essere impreparati a gestire una crisi come quella ucraina e di essere impotenti contro un avversario che si riteneva addomesticato per mancanza di una visione strategica, porta ad accettare, come valide, scelte politiche azzardate come quella di stimolare un allargamento della NATO, sperando in tale modo di ottenere un risultato politico che si rifletta sulla tenuta del regime di Putin.

Il punto non è Putin ma la sensazione di insicurezza nella mentalità russa che una cattiva gestione della comunicazione sulla percezione della NATO ha generato negli anni.

A questo proposito uno studio commissionato alla Rand Corporation da parte dell’Aeronautica degli Stati Uniti nel 2017, avente come oggetto Hybrid Warfare in the Baltics Threats and Potential Responses, effettuato da Andrew Radin, aveva generato delle raccomandazioni sulle scelte strategiche da porre in atto per contrastare una possibile escalation della situazione nell’Europa orientale di cui la più importante era costituita dal seguente passo:

“The United States and NATO should take action to mitigate the risks that a NATO deployment in the Baltics will increase the potential for low-level Russian aggression. To this end, the United States and NATO should avoid basing forces in Russian-dominated areas, should consider measures to increase transparency or avoid the perception that deployed forces may be used to pursue regime change, and should develop a sound public relations campaign to convince local Russian speakers that NATO is not deploying forces against them.”

Le premesse per poter adottare un atteggiamento più attento e più lungimirante ci sono state ma, probabilmente, la necessità di dimostrare una nuova vitalità nel campo delle relazioni internazionali da parte di una Amministrazione USA condizionata da una visione morale e non pragmatico – strategica della sua politica estera, ha portato alla situazione che abbiamo oggi.

Per ovviare alla impossibilità di contrastare un avversario politicamente deciso e che persegue gli interessi nazionali secondo una strategia diretta, agli Usa e all’Europa non basta aumentare il numero dei Paesi membri, accogliendo Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica, ma serve la definizione di una politica reale, con obiettivi condivisi e comunemente accettati e, soprattutto, la volontà di impegnarsi in prima persona nel conseguimento di tali obiettivi, senza delegare e senza nascondersi dietro la foglia di fico della partecipazione al Club Euroatlantico sperando che le proprie responsabilità siano assunte asetticamente dall’organismo di cui facciamo parte.

In conclusione, Svezia e Finlandia, e anche Georgia, hanno tutto il diritto di seguire una loro politica che concretizzi i loro interessi nazionali e quindi chiedere di poter aderire ad un organismo nel quale la loro percezione di sicurezza possa essere aumentata, ma la NATO e i suoi Paesi membri, hanno lo stesso diritto, e anche il dovere, di valutare con attenzione l’opportunità della richiesta in relazione al contesto geopolitico in atto e la valenza delle conseguenze che le loro scelte possono determinare.

Putin ha sbagliato e la modalità scelta per far valere quelle che ritiene essere le sue ragioni sono da condannare senza riserve, ma l’Occidente non può sperare di ripristinare la legalità internazionale e la pace in Europa, semplicemente ingrandendo la NATO e riducendo alla figura di una sola persona la caratterizzazione di un rapporto politico con un Paese che, invece, esprime una percezione politica di sé stesso e del contesto internazionale precisa e definita, ancorché differente dalla nostra. Alla fine, Putin potrà essere anche detronizzato e l’Ucraina sarà ammessa nell’ l’Unione Europea e forse anche nel Club Euroatlantico, ma il problema della NATO, percepita come un organismo di pressione e pericoloso per la stabilità mondiale, rimarrà e non solo agli occhi della Russia, ma anche a quelli della Cina!

Macron 2.0 :più Francia e meno Europa

Domenica prossima la Francia andrà al voto di ballottaggio per eleggere il Presidente della Repubblica.

Il copione non presenta nessuna novità di rilievo, è lo stesso ormai da circa 20 anni. Due candidati che rappresentano le due anime di una nazione, da una parte il difensore dello stato di diritto e delle libertà individuali (Macron) e dall’altra il bieco nazionalista, nemico della repubblica, paladino delle forze conservatrici più oscure e convinto liberticida (la famiglia Le Pen).

Il risultato è scontato, come sempre; fronte comune contro la destra ed elezione del candidato opposto, anche se magari non sia proprio il modello ideale di leader che si vorrebbe avere.

Tutto a posto quindi, la Francia è un paese sovrano, democratico e libero che sceglie il proprio Presidente come desidera e su questo non si discute!

Quello che, invece, merita maggiore attenzione è il sensibile cambio di indirizzo che il programma politico annunciato da Macron, in caso (scontato) di rielezione, prevede di attuare.

La visione europeista che aveva caratterizzato il mandato dell’attuale Presidente volta a costruire sotto l’egida di Parigi un’Europa più unita, più forte, dotata degli strumenti necessari a sostenere una politica comunitaria più incisiva sulla scena mondiale, come un sistema di difesa comune (staccando la spina a una NATO in fase terminale), un’Europa green e inclusiva con a capo una Francia in grado di guidarla verso il conseguimento di questi obiettivi, è scomparsa lasciando il posto a un’altra visione più nazionalistica e più “francocentrica” si potrebbe dire.

Infatti, leggendo il programma politico per il nuovo mandato, si possono scorgere importanti cambiamenti di indirizzo volti a ripensare una Francia più attenta alle esigenze interne, con un approccio più nazionalista in termini di politica estera, meno disponibile ad affidare il proprio destino a organismi sovranazionali, meno convinta che un esercito europeo (ancorché guidato da Parigi) possa garantire la sicurezza dei propri interessi e soprattutto una Francia meno green e molto meno accogliente e inclusiva di quanto lo fosse stata prima.

L’intenzione di rafforzare il proprio strumento militare, non solo con l’incremento di risorse finanziarie, ma aumentando anche la percentuale di riservisti, sottolinea la volontà di Parigi di poter contare su uno dispositivo di ampliate capacità per poter effettuare scelte politiche più autonome bypassando i limiti imposti da alleanze scomode (NATO ad esempio) e quelli che nuove organizzazione potrebbero costituire (esercito europeo). Il tutto in linea con un rinnovato proposito di poter ricoprire quel ruolo da protagonista sulla scena mondiale che la Francia ritiene le spetti di diritto, ma che non viene condiviso né riconosciuto a livello internazionale. Prova di questo la mancanza di qualsiasi risultato che gli interventi del Presidente Macron hanno avuto su Putin all’inizio e nello svolgimento della crisi ucraina, a conferma che il ruolo riconosciuto alla Francia nell’arena geopolitica internazionale è di irrilevante valore.

È prevista, anche, una revisione in chiave restrittiva delle politiche di accettazione nei confronti del flusso di migranti che vede nell’Europa e nella Francia il luogo dove poter ricevere accoglienza, sicurezza e garanzia di diritti. Una considerazione più attenta delle necessità nazionali richiede la messa in atto, secondo il programma politico, di una maggiore severità nelle norme che regolano l’immigrazione consentendo “procedure di espulsione più rapide”, con il rifiuto della domanda d’asilo che “varrà come obbligo di abbandonare il territorio” francese, e di condizionare la concessione di permessi di soggiorno di lunga durata “a un vero processo di integrazione professionale di 4 anni o più”.

Quindi il tramonto di una società multiculturale aperta, inclusiva e progressista e la rinascita di una identità nazionale forte, precisa e caratterizzata da una necessaria integrazione come premessa fondamentale per poterne essere accettati.

Anche il settore dell’autonomia energetica è destinato ad essere stravolto dal nuovo programma, che prevede sì l’indipendenza dal gas e dal petrolio come obiettivo nell’immediato futuro (prima nazione ad attuarlo!!!!!), ma non con risorse green o rinnovabili ma con la costruzione di nuove centrali nucleari.

Altro calcio dato al concetto di un’Europa unita e comune viene dalle politiche agricole dove l’interesse è quello di rivedere il concetto di produzione in netto contrasto con la visione europea del Farm to Fork (F2F – è il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente) dove la autonomia alimentare viene messa al primo posto rispetto ad altri parametri, perché sono prevedibili delle “crisi alimentari profonde soprattutto fuori dal nostro continente e l’Europa non può permettersi di diminuire la produzione”.

Ovviamente il programma prevede anche aumenti alla ricerca indirizzata verso l’innovazione tecnologica puntando ai settori “del futuro”: aerospazio, semiconduttori, biomedicina, cloud sempre in un’ottica di rendere la Francia sempre meno dipendente da fattori esterni.

Il programma considera poi la necessità di adottare delle riforme interne di carattere sociale che ribaltano le scelte proposte nel precedente mandato affondate dalla rivolta dei gilet gialli.

Essendo una Paese sovrano, come detto, tutto questo è sacrosanto e rappresenta la visione politica di una élite che sta ai cittadini, attraverso l’espressione del loro diritto di voto, approvare o rigettare.

Tuttavia, questo programma offre una chiave di lettura abbastanza significativa sulle conseguenze che il conflitto russo ucraino ha scatenato e sul cambiamento di paradigma che tali conseguenze hanno imposto all’attenzione di un’Europa che, bruscamente, è stata risvegliata dal suo torpore fatto di eccessiva sicurezza e permeato da una visione intrisa di buone intenzioni e di pie illusioni.

La crisi conseguente allo svilupparsi del conflitto ucraino ha investito l’Europa facendo traballare le certezze che si consideravano acquisite e immutabili, conseguenza di un nuovo ordine mondiale che la fine della guerra fredda credevamo avesse creato.

Lo sviluppo di un’Unione Europea, effimera politicamente ma rilevante nel campo economico finanziario, alla quale devolvere sia la nostra sicurezza sia il nostro benessere sociale, la convinzione che un sistema basato sulla condivisione di un diritto internazionale e sul rispetto assoluto dei diritti della persona a scapito di quelli dello Stato, la capacità di poter offrire asilo e ospitalità a chiunque lo chiedesse senza porre alcun vincolo o nessuna regola, la spinta verso una società multiculturale dove rinunciare alle caratteristiche proprie della nostra cultura per non offendere le altre era ritenuto un dovere irrinunciabile, sono tutti concetti che la crisi ucraina ha spazzato via in un momento, riportandoci ad una realtà dura e difficile da comprendere che ha stimolato i fantasmi peggiori di un passato che consideravamo ormai dimenticato.

La risposta a questo è il programma politico che la Francia si appresta a validare e approvare, dove unità europea, condivisione, futuro green e inclusione sono concetti che cedono il passo a una visione più nazionale, dove l’interesse dei cittadini francesi e delle aspirazioni nazionali francesi hanno la preminenza su tutto il resto.

Nella nostra Unione Europea una visione politica di questo tipo, dove l’interesse nazionale viene anteposto a chiare lettere agli aspetti comunitari, non è una novità di adesso, basti pensare ai recenti contrasti politici che hanno animato i rapporti con Paesi come l’Ungheria e la Polonia.

Tuttavia, vedere che la Francia sta ripensando il suo futuro con una svolta di questo tipo (e la Germania sta tentennando verso l’adozione di simili strategie politiche) deve fare pensare se davvero siamo alla fine di un’ideale, quello dell’Unione Europea come entità politico economica in grado di avere un ruolo fondamentale nel contesto internazionale, oppure se questo passo non sia solamente la risposta ad una sensazione di paura e di disorientamento che il manifestarsi della crisi ucraina ha indotto nella nostra aspirazione di universalità, prodotto dalla nostra cultura e dalla nostra storia, dove l’Europa unita possa svolgere un ruolo determinate verso la costruzione di un mondo libero, democratico e aperto.

 

Difesa Europea? No grazie!

Defence/Difesa/EUROPA/Europe/SICUREZZA di

L’attuale crisi ucraina, in virtù dello sconvolgimento geopolitico che ha provocato, ha dato l’avvio a una molteplicità di riflessioni, di idee e di propositi da parte del mondo occidentale, e dell’Europa in particolare, volte a individuare nuove soluzioni per evitare il ripetersi di eventi simili e per continuare a garantire un futuro di sicurezza e stabilità all’Occidente stesso e al mondo intero.

Tra i tanti argomenti, oggetto di analisi e di discussione, è tornata alla ribalta l’idea di una Difesa Comune Europea (che indicheremo per comodità con la sigla DCE) sostenuta da più parti come una necessità ormai impellente e una soluzione taumaturgica per i nostri problemi di dipendenza dagli USA non più derogabile.

Il Presidente del Comitato Militare dell’Unione Europea all’inizio del conflitto si è infatti espresso in tal senso, supportando la causa della creazione di un definitivo strumento di difesa comunitario, cioè delle Forze Armate della Unione Europea.

Sin qui nulla di strano in quanto il Presidente di tale organismo – sul cui valore concettuale si potrebbero esprimere seri dubbi – è logico che si faccia portavoce di una svolta in questo senso, affermando che sia necessaria e ineluttabile.

Quest’idea di uno strumento militare europeo non è certo una novità; sino dagli albori del concetto di Europa si è accarezzato il sogno di una difesa comune (immediatamente affossato dall’orgoglio francese) e nel tempo si sono fatti timidi tentativi di pervenire a questo risultato, per la verità coronati da scarso successo.

L’istituzione dell’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Difesa quale preludio per la costruzione di un modello di difesa, allo stato dei fatti non può essere considerato un successo in quanto le varie personalità che hanno ricoperto tale incarico (tralasciando ogni commento sulla Mogherini per amor di patria!) non hanno certamente avuto un ruolo preminente nel contesto geopolitico internazionale, venendo by-passate regolarmente o nella migliore delle ipotesi ignorate come se fossero trasparenti. Prova ne è l’assoluta inconsistenza che Josep Barroso, attuale Alto Rappresentante, ha svolto nel contesto della crisi ucraina.

Il progetto di DCE rimane, comunque, un argomento che ogni tanto viene rispolverato e che serve a qualche politico nostrano o europeo per proporsi sulla scena, ovviamente supportato dal vertice militare di turno che mai e poi mai si azzarderebbe a suggerire che l’idea, così come la propongono, è irrealizzabile. Infatti, il progetto concettualmente è valido, ma è la sua realizzazione che presenta una serie di problematiche da risolvere che impongono delle scelte politiche allo stato attuale assolutamente utopistiche.

Analizzando il concetto di DCE ci si trova di fronte immediatamente a un dilemma di importanza critica: un sistema di difesa comune che garantisce l’Europa già esiste ed è la NATO, quindi se vogliamo crearne un altro come si rapporterebbero i due sistemi tra loro?

Esaminando il rapporto che si verrebbe a creare tra i due sistemi si possono individuare le seguenti principali ipotesi di soluzione.

Prima ipotesi: la DCE deve prendere il posto della NATO.

Seconda ipotesi: la NATO e la DCE sono entrambe necessarie e quindi devono coesistere.

Terza ipotesi: la DCE diviene l’unica organizzazione militare di appartenenza per tutti i Paesi dell’Unione Europea, trasformandosi in una istituzione comunitaria a tutti gli effetti.

Indubbiamente non si tratta di quesiti di facile soluzione anche perché le tre ipotesi indicano concettualmente strade diverse per pervenire a strutture diverse.

Nel primo caso, la DCE deve essere considerata come l’organizzazione che l’Europa adotta per sostituire la NATO. Benissimo, giusto, ottima soluzione, siamo di nuovo padroni del nostro destino! Ma in questo caso dovremmo dare soluzione ad alcuni aspetti: la NATO si scioglie e la DCE viene costituita. In questo caso i Paesi europei membri della NATO ma non dell’Unione Europea che fine fanno? Li arruoliamo oppure no? Ma, se la DCE deve diventare una alleanza come la NATO, che vantaggio ne traiamo come Europa a sostituire uno strumento organizzato, rodato e ben strutturato come la NATO con qualche cosa da costruire ex novo? Inoltre, chi dei Paesi EU prenderà il posto degli USA, non solo come leadership politica (dove Francia e Germania già ipotizzano di fare la parte del leone) ma, soprattutto, come grande finanziatore? Infine, la struttura di Comando e Controllo che la NATO ha costruito e che, nel nostro piccolo, abbiamo contribuito a finanziare, dove finisce?

Quindi se si deve avere una copia carbone sbiadita e sgualcita della NATO, addirittura in forma ridotta, allora tanto vale che l’Europa si tenga la NATO e abbandoni l’utopia DCE.

Nel secondo caso, dove DCE e NATO sono entrambe necessarie si aprono una serie di problematiche.

Primo, la DCE sarà una struttura basata su quali forze e quali risorse? Rifuggirei dalla soluzione piuttosto naïve di usare le stesse forze e risorse per ogni occasione facendogli cambiare cappello e scudetto. La sua organizzazione di Comando, Controllo, Comunicazioni Computer e Intelligence (C4I) sarà un duplicato di quella NATO? La DCE sarà un’alleanza o un’istituzione autonoma? Quali saranno i compiti dell’una e quelli dell’altra?

A fattore comune con la precedente ipotesi rimane la questione della leadership finanziaria e politica, al momento senza soluzioni plausibili e credibili.

Tuttavia, nonostante questa ipotesi, alla luce olistica e assolutamente Politically Correct del rispetto dei concetti di pluralità e di inclusività, appaia senza dubbio affascinante, da un punto di vista meramente pratico si concretizza come una soluzione con aree di sovrapposizione e di possibile contrasto, tra l’altro considerato che molti Paesi appartengono sia all’una sia all’altra delle organizzazioni, ma alcuni solo ad una o solo all’altra e che tutti hanno interessi e obiettivi nazionali differenti, e spesso in contrasto, tra loro.

Infine come contribuente sarei costretto a pagare per tre volte le spese militari (Difesa nazionale, NATO e DCE!) per far sì che tre organismi teoricamente differenti, ma che a turno impiegano le stesse risorse, si occupino della mia sicurezza!

L’ultima ipotesi è quella più affascinante ma anche la più utopistica, al momento almeno.

La realizzazione del progetto di DCE quale istituzione permanente dell’UE, infatti, dovrebbe risolvere alcuni fondamentali problemi.

Innanzitutto l’UE è, solamente, un’unione economica tra più stati, priva quindi di quelle caratteristiche che invece sono necessarie per essere riconosciuti a livello internazionale come Stato o come Federazione di Stati.

Di conseguenza manca di quegli organi che sono fondamentali per identificare una qualsiasi forma di governo, non esistono, infatti, il potere legislativo, quello esecutivo e quello giuridico; non esistono un Presidente o un Primo Ministro che siano responsabili della formulazione di programma politico; non ci sono né un Ministro degli Esteri né uno della Difesa e, quindi, non esistono una politica estera comune né tantomeno una politica di difesa comune.

E in questo contesto, piuttosto lacunoso, vorremmo costituire una Difesa Comune Europea?

Se si parla di DCE non significa solamente assemblare delle unità militari e pretendere che il gioco sia fatto. Se si vuole parlare di Difesa in termini realistici e seri e non come boutade politica si deve considerare tutto ciò che significa costruire un sistema di Difesa.

Innanzitutto, come detto, ci vuole una struttura statuale, che provveda a dare gli indirizzi strategico – politici, poi ci vuole un dicastero, quindi una struttura militare vera e propria con gli Stati Maggiori affiancata da una struttura tecnico logistico amministrativa. Alla fine, ma proprio alla fine si può pensare allo strumento militare vero e proprio!

Ora di tutto questo non esiste nulla, e tantomeno esiste un progetto anche lontano o visionario per creare tali condizioni.

Supponendo, comunque, di trovare risorse e mezzi e di voler creare la struttura di questa DCE, nella presente situazione di un’Unione Europea così come adesso è strutturata, quali soluzioni dovrebbero essere adottate in merito ai seguenti punti (tanto per citare quelli più evidenti):

  • da chi dipenderebbe la DCE? Dal Presidente della Commissione Europea o all’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Difesa, oppure da un Ministro della Difesa a turno semestrale tra i Paesi membri?
  • chi avrebbe il compito di sancire l’impiego delle risorse della DCE? Il Parlamento Europeo?
  • potrebbero le risorse della DCE essere usate contro un Paese Membro? E, se sì, sulla base di quale autorità?
  • da quali entrate sarebbe garantito il bilancio destinato alla Difesa?
  • chi comanderebbe la struttura militare?

E andando un po’ più nel tecnico ci sarebbero da considerare problematiche quali la dottrina, la logistica, il contesto giuridico normativo di riferimento (a chi si presta il giuramento di fedeltà?), i regolamenti, la composizione della struttura organica, la struttura di comando, le acquisizioni logistiche ecc. ecc. ecc..

Per concludere, il progetto di una DCE è sicuramente un’idea affascinante dai risvolti potenzialmente validi, ma non è applicabile a quest’Europa che attualmente non è altro se non una grande unione di carattere puramente economico commerciale.

Lo sviluppo di progetti comuni che intensifichino e incrementino la collaborazione e la cooperazione tra i Paesi membri dell’Unione nel settore della Difesa è corretto e giusto e rappresenta una modalità per evitare duplicazioni e sprechi, per creare economie e sinergie, ma allo stato attuale rimane la sola opzione reale e credibile di difesa europea.

Pretendere di dover costituire adesso una vera DCE significa, nella migliore delle ipotesi, essere realmente dei radical-chic privi di qualsiasi considerazione della realtà.

Una DCE costituita come una alleanza priva di una leadership forte e riconosciuta al livello internazionale (ruolo che né la Francia e neppure la Germania posso sperare di avere) senza un importante paese finanziatore, sarebbe nient’altro che una copia scialba e sbiadita della NATO e non avrebbe alcun senso.

Affiancare alla NATO una DCE traballante e fatta con le stesse risorse (cambio di cappello e di distintivo) è una soluzione semplicemente ridicola e fatta in cattiva fede!

Costituire una struttura indipendente ex novo abbandonando la NATO nella situazione attuale è politicamente ed economicamente non possibile.

Alla fine, la soluzione che i Paesi dell’UE possono realisticamente adottare è quella di investire, seriamente, le proprie risorse e le proprie energie nel mantenere e alimentare la NATO, ovvero l’organizzazione che nel bene e nel male ci ha garantito settant’anni di pace e di stabilità.

 

“Operare Embedded e comunicare in operazioni Dual Use dell’Esercito”. Giunge alla 6^ edizione il corso per giornalisti ed operatori civili in contesti instabili.

BreakingNews/Defence/Difesa di

 

Giornalisti alle prese con l’addestramento NBCR

In molte occasioni, su varie riviste – e ovviamente anche su questa – si è parlato varie volte delle attività che il Centro Studi Roma3000 e la sua European Safaety Academy, entrambi diretti dal giornalista Alessandro Conte, svolgono ed hanno svolto in favore dei cronisti impegnati in aree di crisi.

Negli anni, inoltre, la formazione si è estesa anche ad altre figure che, per vari motivi, sono chiamate ad operare in contesti instabili e dove una formazione tecnica, culturale e pratica sono indispensabili.

Il noto corso “Operare Embedded in aree di crisi“, giunto ormai alla sua 6a edizione, quest’anno farà infatti il focus proprio sulle attività degli operatori umanitari e, ovviamente, dei reporter. Quest’anno, però ‒ stante l’ampliamento delle competenze delle Forze Armate e dell’Esercito in particolare – anche il corso si è perfezionato, e si è in parte modificato, con le opportune integrazioni, sul nuovo modello “Dual Use”.

Ecco allora che il titolo dell’attività formativa è diventato, per l’esattezza, “Operare Embedded e comunicare in operazioni Dual Use dell’Esercito”. Scopo dell’iter formativo è dotare i partecipanti della consapevolezza e degli strumenti per prevenire le situazioni di rischio e per conoscere le modalità per operare in maniera coordinata con l’Esercito nelle operazioni Dual Use, sia in territorio nazionale che nei teatri internazionali.

L’iniziativa verrà organizzata a L’Aquila, presso il 9° Reggimento Alpini, in collaborazione con lo Stato Maggiore della Difesa e lo Stato Maggiore dell’Esercito.

Nata dall’esperienza del Centro Studi Roma 3000 e dei suoi collaboratori, la European Safety Academy è nata proprio con l’obiettivo di promuovere la sicurezza sul lavoro di chi opera in aree di crisi o instabili, come i reporter, gli operatori della comunicazione, i volontari delle ONG, i tecnici specializzati che operano su impianti in zone pericolose.

L’obiettivo dell’Academy è quello di  promuovere la cultura della sicurezza degli operatori civili che devono operare in aree instabili, sensibilizzare queste

Un esempio di Reporter embedded, all’opera in area di crisi

categorie di personale a valutare con maggiore attenzione i possibili pericoli. L’attività formativa proposta dall’European Safaety Academy si completa di norma anche con lo studio di dossier informativi sulle aree interessate, attraverso valutazioni di rischio delle attività in corso in quei luoghi, ed assicurando una formazione specifica del personale.

Il corso di cui parliamo stavoltariservato a giornalisti e operatori civili delle organizzazioni di volontariato e soccorso ‒ si sostanzia di tre giorni di esercitazioni ed erogazione di contenuti, volti ad aumentare la percezione del pericolo ed a prevenire situazioni di potenziale criticità, riconoscendole, ed acquisendo la capacità di muoversi al fianco dell’Esercito, anche nelle nuove operazioni “Dual Use”.

Caratteristica del corso, inoltre, è proprio la prevalenza degli insegnamenti pratici rispetto a quelli teorici, nella convinzione che soltanto sperimentando si possa comprendere e valutare concretamente le opportunità ed i limiti dell’operare embedded a seguito della Forza Armata.

Nel corso delle giornate di formazione, i corsisti potranno confrontarsi con l’esperienza maturata da professionisti con una rilevante esperienza operativa: gli addetti alla pubblica informazione della Difesa e gli alpini della Taurinense, già impegnati attivamente in Afghanistan e in molti altri teatri operativi nazionali e internazionali

Il cronista , in missione, deve imparare a muoversi con le Forze Armate che operano sul territorio

L’opportunità di operare al fianco delle Forze Armate impegnate nelle aree di crisi rende necessaria la conoscenza di regole e modi operativi specifici. Il corso si prefigge l’obiettivo di indicare le modalità migliori per realizzare servizi giornalistici in aree di crisi, interagire nel modo più corretto con le Forze Armate impiegate nel teatro di riferimento, confrontandosi concretamente con le difficoltà logistico-operative connaturate alle operazioni in corso: sono previsti anche insegnamenti in materia di NBCR, sul movimento dei mezzi operativi, sugli esplosivi.

Tra i docenti, oltre ad Alessandro Conte ed ai docenti militari, saranno presenti Gian Micalessin (reporter de “Il Giornale” in zone di guerra giornalista e scrittore, esperto di geopolitica e di attività in zone di crisi), Pierpaolo Cito (fotoreporter di fama internazionale da anni presente sui fronti internazionali più caldi), e Monia Savioli (giornalista professionista e ufficiale della Riserva Selezionata dell’Esercito).

Al termine del corso i partecipanti potranno aderire ad un tirocinio curriculare di 3 mesi nell’ambito di una attività di supporto umanitario internazionale, organizzata dal Centro Studi Roma 3000, che si concluderà con la consegna di beni materiali nel Libano del Sud.

Il corso è a numero chiuso e per partecipare si deve inviare la propria candidatura entro il 15 giugno 2019 all’indirizzo email formazione@roma3000.it

Maggiori informazioni su costi e modalità sono reperibili sul sito http://www.europeansafetyacademy.it/corso-operare-embedded-in-aree-di-crisi/

Generale Mini al master in Intelligence: nel mondo (e anche In Italia) il potere militare partecipa sempre di più al “deep state” e condiziona la politica. Attenti alla criminalità che saccheggerà sempre più i beni comuni

Il polo di Rende (Cosenza) dell’Università della Calabria, sede del master e del corso di laurea in intelligence

Fabio Mini, generale, docente e saggista, ha tenuto, nello scorso weekend,  una lezione al ​m​aster in Intelligence dell’Università della Calabria, introdotto dal ​direttore Mario Caligiuri. Mini ha esordito dicendo che più sono le incertezze e maggiori risorse e deroghe alle procedure si richiedono per farvi fronte. Ha quindi evidenziato che le capacità previsionali della politica democratica si orientano nell’immediato​. ​

La politica autoritaria, infatti, pianifica per 10 anni e la politica militare si sviluppa per 20 anni. L’intelligence strategica deve invece proiettarsi in un arco temporale di 30-50 anni, il tempo necessario ai grandi cambiamenti geopolitici.
Mini ha ​poi ​affrontato il tema delle minacce globali: dopo a​v​ere esaminato il fenomeno dello Stato Islamico,per il generale, invece, un altro tema di preoccupazione universale è  rappresentato dagli squilibri demografici, che vedono quasi tutti i paesi europei in capitolazione, come Italia, Germania e Gran Bretagna ma anche Russia e Cina, mentre alter nazioni registrano un boom demografico come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iraq, l’India e la Nigeria. 
Lo studioso ha quindi affrontato il tema della guerra, concentrandosi su quelle relative all’appropriazione dei beni comuni definiti “global commons”, come gli oceani, i fondi sottomarini, l’Antartide, l’atmosfera, lo spazio esterno e il cyberspazio. 
E’ poi entrato nel merito del potere militare, evidenziando una profonda trasformazione che vede il potere militare aumentare la propria capacità d’influenzare le scelte del potere politico.

Sotto tale aspetto, nelle grandi potenze, ma anche nei paesi meno orientati alla militarizzazione come l’Italia, l’apparato militare-industriale insieme all’intelligence e ad altri apparati istituzionali partecipano alla formazione del Deep State che mantiene obiettivi chiari e costanti prescindendo dalle temporanee maggioranze parlamentari, ma talvolta anche dalle obiettive mutazioni geopolitiche. A tale proposito, ha messo in rilievo la fornitura dei 130 aerei F35, che costano adesso 130 milioni di euro l’uno, che partono da progetti avviati negli anni ’90 e che ora non ci possiamo permettere e difficilmente potremo utilizzare nel quadro di una politica di difesa quanto meno erratica.

A sinistra, il generale Mini. A destra, il prof. Caligiuri.

​Il generale ha poi affrontato il tema della guerra del futuro, spiegando che più che una guerra cibernetica o attraverso droni e robot, la più probabile e drammaticamente pericolosa rimane quella nucleare. 
L’Ufficiale si è poi soffermato sulla minaccia della criminalità, evidenziando come l’illecito si sviluppi parallelamente agli scambi legali, creando strette relazioni che si materializzano nelle piazze finanziarie e nei paradisi fiscali. Il generale si è quindi soffermato sull’interesse che la criminalità internazionale rivolgerà anche per lo sfruttamento dei Global Commons.
Infatti, il controllo delle risorse sottomarine, dello spazio e del cyberspazio saranno molto presto motivo di conflitto non solo tra Stati ma anche tra poteri legali e poteri criminali. Il generale ha rilevato come le triadi cinesi stiano già pensando al mercato illegale dello spazio, mentre altre organizzazioni criminali sono interessate a fornire a privati supporto allo sfruttamento delle risorse energetiche del sottosuolo, così come il cyberspazio, sia nella dimensione visibile che sopratutto quella invisibile, è già da anni un ambito costantemente utilizzato dalla criminalità.Infine Mini ha rilevato che attualmente viviamo in una fase in cui i vecchi sistemi non sono scomparsi ma non funzionano e quelli nuovi non sono ancora nati. In questo spazio si colloca la prospettiva dei “futuri multipli” in base alla quale gli scenari dipendono dalle scelte che persone e Nazioni compiono giorno per giorno.
“Un esempio per tutti – ha concluso il generale – se oggi continuiamo a costruire missili il futuro più probabile è quello che ne contemplerà l’uso”

L’UE sempre più “operativa” nelle aree di crisi: nuova missione in Iraq, confermata missione in Bosnia, adottata nuova strategia per l’Afghanistan

Il 16 ottobre è stata una giornata impegnativa per la politica di sicurezza dell’UE, per vari motivi.

In primis, il Consiglio ha lanciato una nuova missione civile nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) in Iraq. La missione sarà incentrata sul sostegno alle autorità irachene nell’attuazione degli aspetti civili della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq, e sarà guidata dal tedesco Markus Ritter. Saranno 35 gli esperti dell’UE che forniranno consulenza e assistenza in diversi settori fondamentali identificati come “critici” (nel senso anglosassone del termine) dalle autorità irachene.  La missione dovrebbe essere dispiegata a Baghdad entro la fine dell’anno, e dovrebbe avere un costo (inziale) di 14 milioni di euro. La missione, sotto egida PSDC si inquadra nelle missioni così dette “civili” dell’UE: ossia quelle missioni che hanno il principale obiettivo di ricostruire le istituzioni nei paesi martoriate dalla guerra, che ne siano usciti o ne stiano uscendo. Normalmente l’UE invia degli esperti (per l’appunto) civili, affinché affianchino le autorità locali e tentino di riformare e rifondare i settori della pubblica amministrazione: polizia, apparato giudiziario, sanità. Ma gli esperti possono fornire consulenza anche in settori come l’uguaglianza di genere ed i diritti umani; insomma: tentano in ogni modo di ripristinare o di stabilire lo stato di diritto. Le missioni dell’UE vengono dirette dal Comitato Politico di Sicurezza, che risponde all’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE (ora Federica Mogherini). L’Alto Rappresentante è a capo del SEAE, il Servizio di Azione esterna dell’UE, e presiede anche il Consiglio dell’UE nella sua versione “Affari Esteri” (cosa anomala per il Consiglio, la cui presidenza nei diversi settori

La sede del Servizio Europeo di Azione Esterna a Bruxelles

di legiferazione, normalmente, è a rotazione).  L’Alto Rappresentante è anche uno dei Vice Presidenti della Commissione europea: è l’unica figura, quindi, a cavallo sia del Consiglio che della Commissione. Il Comitato Politico di Sicurezza ha due ulteriori entità alle sue dipendenze: il Comitato Militare dell’UE, che guida le missioni di taglio più “robusto” o militare, ed il così detto CIVCOM o comitato per la gestione civile delle crisi. A occhio e croce questa nuova missione in Iraq dovrebbe inquadrarsi sotto l’egida del CIVCOM. L’obiettivo della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq è creare istituzioni statali capaci di consolidare la sicurezza e la pace e di prevenire i conflitti, rispettando nel contempo lo Stato di diritto e le norme in materia di diritti umani. La strategia individua una serie di minacce urgenti alla sicurezza nazionale – tra cui terrorismo, corruzione, instabilità politica e polarizzazione etnica e settaria – che la missione PSDC contribuirà ad affrontare.

La missione opererà in stretto coordinamento con la delegazione dell’UE in Iraq e con i partner internazionali presenti nel paese, compresi il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), la NATO e la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Il che significa che le questioni squisitamente militare

Soldati dell’EUFOR e forze di polizia della Bosnia Erzegovina (fonte www.euforbih.org)

resteranno un affaire della NATO.

In secundis, il Consiglio ha ribadito e confermato il suo impegno a favore della prospettiva europea della Bosnia-Erzegovina come paese unico, unito e sovrano ed ha ufficialmente stigmatizzato il fatto che, negli ultimi mesi, le riforme siano state rallentate a causa di politiche legate al (triste) passato e di polemiche sorte in occasione delle elezioni anticipate.

Per tale motivo, l’Istituzione europea ha dichiarato, con una nota, che approva ed accetta di buon grado il fatto che l’operazione ALTHEA continui ad esistere in BiH. Le forze militari impegnate nell’operazione contribuiscono ormai da tempo alla capacità di deterrenza delle legittime autorità bosniache nelle situazioni di crisi. Inoltre, non si può non dire che la forza multinazionale europea, con sede presso la base di Butmir e “succursali” in tutto il paese,  ha effettivamente contribuito anche a formare ed incrementare le capacità delle forze armate e di polizia bosniache e, più in generale, a sostenere tutti i settori della pubblica amministrazione che andavano riformati.

Infine, sempre il Consiglio ha adottato delle conclusioni su una strategia dell’UE relativa all’Afghanistan. Nel documento è stato ribadito l’impegno a lungo termine dell’UE e degli Stati membri in Afghanistan per promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo sostenibile. La strategia si concentra su quattro settori prioritari, così come elencati nel documento: la promozione della pace, della stabilità e della sicurezza nella regione; il rafforzamento della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani e la promozione della buona governance e dell’emancipazione delle donne; il sostegno allo sviluppo economico e umano; la gestione delle sfide legate alla migrazione. L’UE vanta ormai una lunga storia di cooperazione con l’Afghanistan ed in Afghanistan volta a contrastare la corruzione e la povertà ed a favorire la crescita economica ed il rafforzamento delle istituzioni democratiche.

In un solo giorno tre segnali da parte di un UE sempre più impegnata ben oltre i suoi confini, e – come nell’ultimo caso esaminato – ben oltre le così dette politiche di vicinato. In futuro, aspettiamoci un’Europa sempre più solida e più compatta nel campo della risoluzione (militare o civile) delle crisi internazionali, magari anche al fianco della NATO e, sicuramente, su mandato dell’ONU.

 

(fonte www.consilium.europa.eu)

12 e 13 ottobre: i Ministri della Giustizia e dell’Interno europei si incontrano a Bruxelles.

Il Palazzo Justus Lipsius, sed eprincipale del Consiglio dell’UE.

Varie volte su queste colonne abbiamo avuto modo di parlare delle istituzioni europee deputate alla sicurezza interna, ossia all’interno delle frontiere dell’Unione. Una di queste è di sicuro il Consiglio Giustizia  Affari Interni, che riunisce a Bruxelles, con cadenza mensile, tutti i ministri dell’Interno e della Giustizia degli Stati membri. Ovviamente gli argomenti oggetto di discussione si soffermano sulle proposte legislative in itinere tra le viari istituzioni europee coinvolte. Di volta in volta, vuoi su input della Commissione europea, vuoi sulla base del lavoro dei  sottogruppi strategici e tecnici che sempre in seno al Consiglio si riuniscono, il Consiglio GAI affronta gli argomenti più disparati: dalla gestione delle frontiere esterne, all’ordinamento delle agenzie europee che operano nel settore, dal terrorismo all’eguaglianza di genere, dal cybercrime all’immigrazione ed all’asilo, dalla cooperazione giudiziaria alla procura europea. A distanza di qualche mese dall’avvio delle primissime attività della Presidenza estone, non possiamo non lodare le numerosissime iniziative intraprese nel settore dallo Stato membro baltico, di cui abbiamo esaltato parecchie peculiarità diverse volte qui su Europeanaffairs.it (qui, qui e qui ): un particolare impulso è stato dato proprio alle banche dati, allo scambio delle informazioni tra forze di polizia, alla cooperazione con le agenzie GAI specializzate; il tutto nell’ottica di una visione sempre più analitica e statisticamente intellegibile dei fenomeni securitari dell’Unione, volta a cercare rimedi e soluzioni altrettanto analiticamente misurabili e subito operativi sul campo.

Non a caso, la velocità con cui il Consiglio GAI promuove l’iter legislativo, la rapidità con cui discute di quanto portato alla sua attenzione in sede strategica e tecnica e l’efficacia delle azioni intraprese, molto dipendono dalla Presidenza di turno. Repetita iuvant, chi assume la Presidenza del Consiglio dell’Unione, guida tutti i tavoli  anche a livello ministeriale, quando il Consiglio si riunisce in diverse “versioni” per legiferare rispettivamente in “diverse” materie.

Ma veniamo a noi: il 12 ed il 13 ottobre a Bruxelles si è riunito un’altra volta il Consiglio GAI. Sono stati affrontati vari argomenti. Ci soffermeremo su quelli più inerenti gli home affairs, facendo un volo in planata sulle questioni attinenti alla giustizia.

Dopo un breve scambio di vedute sulla proposta di modifica del Codice Frontiere Schengen, già da tempo all’ordine del giorno del Consiglio, i Ministri hanno subito rinviato a quanto verrà loro suggerito a livello tecnico: la riforma del Codice Schengen prevede dei cambiamente nelle regole che disciplinano la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne agli Stati membri. Inutile nascondere che l’argomento è un topic sensibile e non è facile, almeno a livello politico, raggiungere immediati accordi: pertanto è necessario che i tecnici, i così detti “eurocrati” (termine che noi non consideriamo dispregiativo, anzi) trovino prima delle possibili soluzioni compromissorie, sul campo.

A sinistra il commissario europeo per la Migrazione,Avramopoulos e a destra, il Ministro dell’Interno Estone, presidente del Consiglio GAI, Andreas Anvelt (foto www.consilium.europa.eu)

Alto argomento dibattuto è stato il terrorismo: è già il secondo mese che la Presidenza propone scambi di vedute sullo scambio di informazioni in chiave anti-terrorismo tra le Forze Armate e le Forze di Polizia. Anche questo argomento è però di difficile evoluzione: come abbiamo già detto su questo giornale (qui) non intravediamo nel breve periodo la nascita di una intelligence europea. Nessuno la intravede. E questo gli Stati membri, tutti gelosi della loro intelligence – dove non esistono alleanze – lo sanno bene. Si sta tentando allora di diffondere chiaramente l’idea che le Forze Armate, ormai da parecchi anni impegnate in medio-oriente ed in altre aree di crisi, godono dell’immenso privilegio di raccogliere intelligence durante le operazioni da loro condotte in queste aree e sono, sull’argomento, molto ferrate. Le loro informazioni, che sono quindi processate ed analizzate con rigore scientifico e , per l’appunto, militare, sono una risorsa preziosa. Queste informazioni sarebbero utilissime se condivise tra gli Stati e, ancora di più, tra le loro forze di polizia. Di sicuro i Paesi di origine “latina”, che annoverano tra le loro forze di polizia delle componenti di gendarmeria (ossia di forze di polizia a statuto militare, con competenza anche sulle questioni civili e di ordine pubblico) saranno avvantaggiati in questo ambito, proprio perché le gendarmerie possono dialogare indistintamente ed efficacemente sia con le forze militari sia con le forze di polizia ad ordinamento civile. Ma a parole sono bravi tutti: come abbiamo cercato di dimostrare in passato, un conto è scambiare informazioni di polizia, di taglio investigativo, ed un conto è scambiare ed utilizzare in ambito giudiziario informazioni coperte dal segreto perché raccolte dall’intelligence militare. Ogni ordinamento giuridico, e giudiziario,  di ogni Stato membro, è diverso dall’altro:  in qualche caso, molti Stati sono favorevoli ad una raccolta ed una condivisione dell’intelligence senza limitazioni ed a tutta birra; in alcuni Stati – sembrerà assurdo – l’azione penale non è obbligatoria da parte degli inquirenti (il che significa che un magistrato od un poliziotto potrebbero anche tenere per sé un’informazione relativa ad un reato, utilizzandola in un secondo momento… cosa impossibile in Italia!); in altri Stati la privacy, la corretta utilizzazione delle informazioni in sede giudiziaria, la più precisa separazione tra “poteri”, rappresentano capisaldi del diritto, che non possono essere intaccati se non in casi eclatanti, per necessità ampiamente comprovate. Ma va da sé che se l’intelligence si chiama così proprio perché è molto difficile parlare di dati “comprovati”. Insomma, l’Europa è in realtà ancora lontana, secondo chi scrive, dal raggiungere un accordo in materia. Altro argomento spinoso, di cui i Ministri hanno discusso, è quello dell’immigrazione: avanza l’iter legislativo per l’istituzione di un Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS – Common European Asylum System), e per il miglioramento del sistema EURODAC (che consente di identificare in maniera chiara ed incontrovertibile l’identità dei richiedenti asilo, principalmente per evitare che una persona possa richiederlo in più paesi contemporaneamente o in caso di diniego da parte di uno degli Stati membri). È una novità invece il tentativo della Presidenza di ricevere mandato dal Consiglio per avviare i negoziati con il Parlamento europeo su una normativa che disciplini e regoli la ricollocazione dei migranti e le prescrizioni in capo agli Stati membri nel settore della loro accoglienza. Una norma che, se approvata come piace a noi, metterebbe in mora gli Stati che fanno finta di non sentirci, quando si tratta di accoglienza dei migranti e, in più, metterebbe in ridicolo tutti quei movimenti di destra più o meno estrema che, cavalcando la tigre dell’intolleranza e della disoccupazione dei connazionali, rendono impossibile il processo di integrazione europea ed espongono i propri governi alle ire della Commissione, sempre pronta – con draconiana e giusta severità – ad avviare procedure di infrazione contro gli inadempienti.

Il Ministro italiano Orlando, il 12 ottobre, alla riunione dei Ministri della Giustizia (foto www.consilium.europa.it)

In ogni caso, non si può negare che ciascuno – a modo suo – sta cercando di far confluire in uno sforzo congiunto il tentativo di risolvere i problemi e le paure dei cittadini in questi settori.

Il giorno 12 ottobre, invece, i ministri della Giustizia hanno portato avanti l’iter legislativo per la creazione di una procura europea (EPPO – Europeana Public Prosecutor’s Office), che avrà tra i primi incarichi quello di indagare e punire chi si macchierà di offese agli interessi finanziari dell’Unione. Altro tassello  che si sta felicemente incasellando è quello della creazione del sistema ECRIS: European Criminal Records Information System, una banca dati centralizzata dei casellari giudiziali degli Stati membri, che dovrebbe facilitare il contrasto a vari fenomeni criminali, specialmente ste transfrontalieri e transazionali.

Attentato a San Pietroburgo: la Russia di Putin ancora sotto attacco

BreakingNews/Defence di

Fumo, fuoco, una carrozza della metropolitana di San Pietroburgo sventrata da una bomba. Uno scenario drammatico: almeno 11 vittime, 45 feriti di cui 14 in condizioni molto gravi. Il terrorismo colpisce ancora. La Russia è di nuovo ferita da un attentato. L’esplosione avviene circa alle 14.45 ora locale del 3 aprile 2017, quando un’esplosione coinvolge il terzo vagone di una metro della linea blu in direzione dell’Istituto di Tecnologia, ma il macchinista decide di proseguire la sua corsa fino alla fermata successiva, permettendo così il soccorso immediato di molti dei feriti. Le autorità locali decidono per l’immediata chiusura dell’intera rete di trasporto sotterraneo della città. La decisione si rivela quanto più sensata, considerato che durante l’ispezione effettuata in tutte le stazioni, in un’altra viene rinvenuto un secondo ordigno esplosivo.

Questo drammatico evento si colloca in un quadro molto complesso: secondo i quotidiani russi, i servizi segreti erano a conoscenza di un piano d’azione da parte dell’ISIS proprio con obiettivo San Pietroburgo. Le notizie erano state riportate da un uomo che era rientrato sin Russia dalla Siria dove operava come foreign fighter per lo Stato Islamico ed arrestato immediatamente, ma purtroppo non era in un grado della gerarchia molto alto, tale da essere a conoscenza dei dettagli di questo folle piano omicida. Purtroppo tutti gli sforzi messi in campo dai Servizi Segreti sono stati vani. A causa dell’impossibilità di risalire all’identità reale di alcuni soggetti che avevano acquistato delle schede telefoniche non c’è stata la possibilità di rintracciarli. Le ricerche stavano proseguendo con urgenza, ma i terroristi non hanno dato il tempo necessario, colpendo in tempi molto più brevi di quelli che ci si potessero aspettare.

L’attentato è avvenuto in un giorno particolare: la visita di  Vladimir Putin nella grande città baltica. L’obiettivo  – secondo le fonti estremiste cecene – sarebbe stato proprio lo stesso Putin, visto come grande nemico, sia dalle milizie dell’ISIS, sia dai Ceceni che spesso diventano braccio armato di Daesh come forza esterna estremamente specializzata. L’attentatore infatti – come comunicato dalle fonti di intelligence sovietica – sarebbe stato identificato: si tratta di un ragazzo di 22 anni, originario del Kirghizistan e residente da 6 anni a San Pietroburgo. Secondo le fonti, sarebbe stato da sempre in contatto con i combattenti ceceni in Siria.

L’attentato a San Pietroburgo di matrice fondamentalista islamica si inserisce in un quadro già drammatico che aveva visto una lunga scia di sangue a partire dal 1999 quando l’allora Primo Ministro Vladimir Putin aveva lanciato una campagna contro il governo separatista della regione della Russia Meridionale: la Cecenia.  Da quel momento iniziano gli attacchi armati: nel 2002 la polizia fece irruzione in un teatro di Mosca per porre fine a una presa di ostaggi e il bilancio finale fu di 120 ostaggi uccisi. Nel 2004 ricordiamo il massacro di Beslan in cui persero la vita oltre 330 persone di cui la metà erano bambini. Seguendo questo triste filo rosso arriviamo al 2010 quando due donne kamikaze di origine cecena si fecero esplodere nella metropolitana di Mosca mietendo 38 vittime e numerosi feriti.

La Duma ha annunciato di non voler  – almeno per il momento – apportare modifiche all’attuale legge antiterrorismo, ma ONG , associazioni che operano sul territorio, molti membri della stampa internazionale sono convinti che qualcosa all’atto pratico succederà. Non si sa se in termini legislativi o di operazioni militari, ma quasi tutti gli attori in gioco credono che Putin inizierà a valutare l’idea di utilizzare drastiche contro misure.

Laura Laportella
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