GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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La Commissione si attiva per bandire dal mercato dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato

Nella giornata del 15 settembre la Commissione Europea ha proposto di vietare i prodotti ottenuti con il lavoro forzato sul mercato dell’UE.

Il lavoro forzato include tutte quelle situazioni in cui le persone sono costrette a lavorare attraverso l’uso di violenza o intimidazioni, o con mezzi più indiretti come il debito manipolato, il mantenimento di documenti di identità o le minacce di denuncia alle autorità di immigrazione.

Dunque la proposta della Commissione riguarda tutti i prodotti, siano essi prodotti fabbricati nell’UE destinati al consumo interno e alle esportazioni o beni importati, senza concentrarsi su società o industrie specifiche. Questo approccio globale è importante perché, secondo le stime, 27,6 milioni di persone sono vittime del lavoro forzato, in molte industrie e in tutti i continenti. La maggior parte del lavoro forzato avviene nel settore privato, mentre in alcuni casi è imputabile agli Stati. La proposta si basa su definizioni e norme concordate a livello internazionale e sottolinea l’importanza di una stretta cooperazione con i partner globali. A seguito di un’indagine, le autorità nazionali avranno la facoltà di ritirare dal mercato dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Le autorità doganali dell’UE individueranno e bloccheranno alle frontiere dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato.

Valdis Dombrovskis, Vicepresidente esecutivo e Commissario per il Commercio, ha dichiarato: “Questa proposta farà davvero la differenza nella lotta contro una schiavitù moderna che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Puntiamo a eliminare dal mercato dell’UE tutti i prodotti realizzati con il lavoro forzato, indipendentemente dal luogo di fabbricazione.”

Thierry Breton, Commissario per il Mercato interno, ha aggiunto: “Nell’attuale contesto geopolitico abbiamo bisogno di catene di approvvigionamento sicure e sostenibili. Non possiamo mantenere un modello di consumo di beni prodotti in modo non sostenibile. Il mercato unico è una risorsa formidabile per evitare che prodotti realizzati ricorrendo al lavoro forzato circolino nell’UE e uno strumento per promuovere una maggiore sostenibilità in tutto il mondo.”

Lo strumento relativo al lavoro forzato nella pratica

Le autorità nazionali degli Stati membri attueranno il divieto attraverso un approccio di applicazione solido e basato sul rischio. In una fase preliminare valuteranno i rischi di lavoro forzato sulla base di molteplici fonti di informazione, che  dovrebbero facilitare l’individuazione dei rischi. Tra le fonti di informazione possono rientrare i contributi della società civile, una banca dati dei rischi di lavoro forzato incentrata su specifici prodotti e aree geografiche e il dovere di diligenza esercitato dalle imprese.

Le autorità avvieranno indagini sui prodotti per i quali vi sono fondati sospetti che siano stati ottenuti con il lavoro forzato. Possono chiedere informazioni alle società ed effettuare controlli e ispezioni, anche in paesi al di fuori dell’UE. Se le autorità nazionali accerteranno la presenza di lavoro forzato, ordineranno il ritiro dei prodotti già immessi sul mercato e vieteranno l’immissione sul mercato dei prodotti interessati e la loro esportazione. Di conseguenza le società dovranno smaltire i prodotti e sostenere le spese conseguenti a tale operazione.

Se le autorità nazionali non sono in grado di raccogliere tutti gli elementi di prova necessari, ad esempio a causa della mancanza di collaborazione da parte di una società o dell’autorità di uno Stato terzo, possono prendere la decisione sulla base dei dati disponibili.

Durante l’intero processo le autorità competenti applicheranno i principi di valutazione basata sul rischio e di proporzionalità. Su tale base la proposta tiene conto in particolare della situazione delle piccole e medie imprese (PMI). Senza essere esentate, le PMI saranno agevolate dall’impostazione specifica della misura: le autorità competenti infatti, prima di avviare un’indagine formale, considereranno le dimensioni e le risorse degli operatori economici interessati e l’entità del rischio di lavoro forzato. Le PMI beneficeranno inoltre di strumenti di sostegno.

 

La Commissione elabora una strategia per promuovere il lavoro dignitoso in tutto il mondo 

La proposta fa seguito all’impegno dell’UE, la quale promuove il lavoro dignitoso in tutti i settori e ambiti strategici in linea con un approccio globale rivolto ai lavoratori nei mercati nazionali, nei paesi terzi e lungo le catene di approvvigionamento globali. Ciò comprende norme fondamentali del lavoro come l’eliminazione del lavoro forzato. La comunicazione sul lavoro dignitoso in tutto il mondo, presentata nel febbraio 2022, definisce le politiche interne ed esterne che l’UE mette in campo per realizzare l’obiettivo di un lavoro dignitoso in tutto il mondo.

ll lavoro dignitoso: l’UE come leader globale responsabile

L’UE ha già intrapreso azioni risolute per promuovere il lavoro dignitoso su scala mondiale, contribuendo al miglioramento della vita delle persone in tutto il mondo. Negli ultimi decenni il numero di minori vittime del lavoro minorile è diminuito significativamente a livello mondiale (passando da 245,5 milioni nel 2000 a 151,6 milioni nel 2016). Tuttavia il numero di minori costretti a lavorare è aumentato di oltre 8 milioni tra il 2016 e il 2020, invertendo la precedente tendenza positiva. Allo stesso tempo, la pandemia mondiale di COVID-19 e le trasformazioni nel mondo del lavoro, indotte anche dai progressi tecnologici, dalla crisi climatica, dai cambiamenti demografici e dalla globalizzazione, possono avere ripercussioni sulle norme del lavoro e sulla protezione dei lavoratori.

In tale contesto l’UE è determinata a portare avanti il suo attuale impegno e a consolidare ulteriormente il suo ruolo di leader responsabile nel mondo del lavoro, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione e sviluppandoli ulteriormente. I consumatori chiedono sempre più beni prodotti in modo sostenibile ed equo, che garantiscano un lavoro dignitoso a coloro che li producono.

L’UE rafforzerà le sue azioni basandosi sui quattro elementi del concetto universale del lavoro dignitoso sviluppato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e integrato negli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (ONU). Tali elementi sono: 1) la promozione dell’occupazione; 2) le norme e i diritti sul lavoro, tra cui l’eliminazione del lavoro forzato e del lavoro minorile; 3) la protezione sociale; 4) il dialogo sociale e il tripartitismo. La parità di genere e la non discriminazione sono questioni trasversali in questi obiettivi.

Prossime tappe

La proposta deve ora essere discussa e approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea prima di poter entrare in vigore e si applicherà a decorrere da 24 mesi dalla sua entrata in vigore.

Di Anna Tulimieri

Summit Unione europea – Cina tra commercio, Covid-19 e diritti umani

EUROPA di

L’Unione europea e la Cina hanno tenuto il loro 22° vertice bilaterale in videoconferenza il 22 giugno 2020. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accompagnati dall’alto rappresentante Josep Borrell, hanno incontrato telematicamente il primo ministro cinese Li Keqiang e il presidente cinese Xi Jinping. Al centro del vertice vi sono stati molteplici argomenti: commercio, azione climatica, sviluppo sostenibile, diritti umani – non negoziabili secondo la Von der Leyen – ed anche la risposta al coronavirus. “Il summit di oggi Ue-Cina è un’opportunità estremamente necessaria per andare avanti su tutti gli aspetti della nostra cooperazione”. Così su Twitter la presidente della Commissione Ue.

22° Summit

Il 22 giugno si è tenuto in videoconferenza il 22° summit tra l’Unione europea e la Repubblica Popolare Cinese, incontro di fondamentale importanza dal punto di vista geopolitico, soprattutto a seguito della strategia lanciata dall’UE nel marzo 2019. L’UE infatti ha ricordato gli importanti impegni assunti in occasione del vertice passato ed ha sottolineato la necessità di attuare tali impegni in modo dinamico e orientato ai risultati, in quanto ad oggi i progressi fatti sono limitati. L’agenda del summit in questione comprendeva le relazioni bilaterali tra i due attori, le questioni regionali e internazionali, la pandemia di Covid-19 e la ripresa economica. Importante tema è stato anche quello degli investimenti: l’UE ha fortemente sottolineato la necessità di portare avanti i negoziati per un ambizioso accordo di investimento globale UE-Cina che affronti le attuali asimmetrie nell’accesso al mercato e garantisca delle condizioni di parità. Per fare ciò sono necessari progressi urgenti, in particolare per quanto riguarda il comportamento delle imprese statali, la trasparenza dei sussidi e le norme che affrontano i trasferimenti di tecnologia. L’UE ha ribadito anche l’urgente necessità per la Cina di impegnarsi in futuri negoziati sui sussidi industriali in seno all’OMC e di affrontare l’eccesso di capacità in settori tradizionali come l’acciaio e le aree ad alta tecnologia. I leader hanno avuto una discussione anche sui cambiamenti climatici, in quanto la Cina è partner dell’UE ai sensi dell’accordo di Parigi, ma deve impegnarsi in un’azione nazionale risoluta e ambiziosa per ridurre le emissioni a breve termine e fissare un obiettivo di neutralità climatica al più presto possibile. Infine, il vertice è stato anche l’occasione per discutere dell’importanza del settore digitale per le economie e le società di tutto il mondo. L’UE ha sottolineato che lo sviluppo di nuove tecnologie digitali deve andare di pari passo con il rispetto dei diritti fondamentali e della protezione dei dati.

Le questioni più spinose: Covid-19, Hong Kong e diritti umani

In risposta alla pandemia di COVID-19, l’Unione Europea ha sottolineato la responsabilità condivisa di partecipare agli sforzi globali per fermare la diffusione del virus, potenziare la ricerca su trattamenti e vaccini e sostenere una ripresa globale verde e inclusiva. L’UE ha sottolineato la necessità di solidarietà nell’affrontare le conseguenze nei paesi in via di sviluppo, in particolare per quanto riguarda la riduzione del debito, ed ha invitato la Cina a cogliere appieno gli insegnamenti che derivano dalla gestione dell’epidemia e dalla risposta sanitaria internazionale al COVID-19, commissionata dalla risoluzione adottata nell’ultima Assemblea mondiale della sanità. Infine, l’UE ha inoltre invitato la Cina a facilitare il ritorno dei residenti dell’UE in Cina.

Quanto alla questione di Hong Kong, l’Unione europea ha ribadito le sue gravi preoccupazioni per le misure della Cina in merito alla legge sulla sicurezza nazionale adottata da Pechino e considera tali misure non conformi alla Legge fondamentale di Hong Kong e agli impegni internazionali della Cina, esercitando pressioni sui diritti e sulle libertà fondamentali della popolazione protetta dalla legge e dal sistema giudiziario indipendente. Infine, l’UE ha espresso una certa preoccupazione per il deterioramento della situazione dei diritti umani, compreso il trattamento delle minoranze nello Xinjiang e del Tibet e dei difensori dei diritti umani, nonché delle restrizioni alle libertà fondamentali. A tal proposito, i leader dell’UE hanno sollevato una serie di singoli casi, compresi i rapporti sui cittadini scomparsi dopo aver riferito/espresso le loro opinioni sulla gestione dell’epidemia di Coronavirus, nonché la detenzione arbitraria del cittadino svedese Gui Minhai e di due cittadini canadesi: Michael Kovrig e Michael Spavor. La Presidente Von der Leyen ha ribadito che i diritti umani e le libertà fondamentali non sono valori negoziabili per l’UE, mentre il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha affermato “[…] dobbiamo riconoscere che non condividiamo gli stessi valori, i sistemi politici o l’approccio al multilateralismo. Ci impegneremo in modo chiaro e sicuro, difendendo con fermezza gli interessi dell’UE e mantenendo fermi i nostri valori”.

Mercati, ospedali e mortai: Guerra in Yemen e rischi per i civili

MEDIO ORIENTE di

Negli ultimi giorni sale la paura per l’escalation nella città portuale yemenita di Hodeidah, città importantissima per la posizione strategica sul mar rosso e vitale per l’arrivo degli aiuti internazionali di farmaci e alimenti. Il rischio è quello di un imminente massacro di civili se le parti coinvolte nel conflitto non prenderanno misure volte a proteggere i civili. Gli ultimi giorni hanno visto i combattenti Huthi assaltare un ospedale e prendere posizione sul tetto mettendo in pericolo personale medico, degente e molti bambini all’interno della struttura. La struttura sanitaria era supportata da Save the Children e ha riportato gravi danni a una delle farmacie che fornisce medicinali salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che ci sono molti civili e che questi non hanno un altro posto dove recarsi per ricevere cure mediche che potrebbero risultare di vitale importanza. Chiunque attacchi una struttura medica, civile e in cui le persone lottano tra la vita e la morte, rischia di rendersi responsabile di crimini di guerra.

La presenza di combattenti Huthi sul tetto dell’ospedale viola il diritto internazionale umanitario, secondo il quale queste strutture non possono essere impiegati per scopi militari. Ma questo dato di fatto non deve rendere l’ospedale, i pazienti e il personale medico un obiettivo legittimo per gli attacchi aerei della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti come è accaduto molte volte nel corso della guerra. La militarizzazione degli ospedali è un ulteriore capitolo di una guerra in cui la coalizione a guida saudita ed emiratina compie regolarmente attacchi aerei devastanti contro aree civili. Da quando sono iniziati gli scontri nel dicembre 2017, la situazione nel governatorato di Hodeidah e nella città stessa si è fatta sempre più drammatica.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa la metà dei 600.000 abitanti di Hodeidah sono riusciti a lasciare la città prima che gli scontri in corso chiudessero in trappola l’altra metà. L’unica via d’uscita aperta resta quella verso nord, ma l’aumento del costo del carburante e il crollo della moneta locale, ulteriori conseguenze del conflitto, rendono impraticabile per molti anche questa soluzione. Resa, tra l’altro, ulteriormente più difficile dal fatto che la coalizione non ha istituito quei corridoi umanitari che si era impegnata a istituire il 24 settembre. Mentre proseguono al Consiglio di sicurezza le discussioni su un possibile cessate-il-fuoco, gli scontri si sono estesi alla periferia meridionale e orientale della città. Il sottosegretario delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari e coordinatore per gli aiuti di emergenza ha ammonito, a causa dell’offensiva contro il principale porto dello Yemen, il paese è alle soglie di una massiccia carestia: agli otto milioni di yemeniti che già si trovano in una situazione d’insicurezza alimentare, potrebbero presto aggiungersi altri tre milioni e mezzo di persone.

Amnesty International denuncia, inoltre, che dall’Italia continuano a partire carichi di bombe aeree per rifornire la Royal Saudi Air Force. L’ultimo carico, con migliaia di bombe, è partito in gran segreto da Cagliari. L’associazione ritiene che si tratti anche questa volta di bombe aeree del tipo MK80 prodotte dalla RWM Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas in Sardegna. La conferma dell’utilizzo delle bombe italiane nel conflitto in Yemen arriva anche dal “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen”, trasmesso il 27 gennaio 2017 al Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alcune organizzazioni specializzate, riportano la possibilità concreta di almeno sei invii di carichi di bombe dall’Italia verso l’Arabia Saudita. Nell’ottobre 2016 l’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per la prima volta ammetteva, in risposta ad una interrogazione parlamentare, che alla RWM Italia sono state rilasciate licenze di esportazione per l’Arabia Saudita. La responsabilità del rilascio delle licenze di esportazione ricade sull’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA), incardinata presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione e che fa riferimento direttamente al Ministro. Ma nel percorso di valutazione per tale rilascio incidono con ruoli stabiliti dalla legge i pareri di vari Ministeri, tra cui soprattutto il Ministero della Difesa. Va inoltre ricordata la presenza di un accordo di cooperazione militare sottoscritto dall’Italia con l’Arabia Saudita (firmato nel 2007 e ratificato con la Legge 97/09 del 10 luglio 2009) che prevede un rinnovo tacito ogni 5 anni, e grazie al quale si garantisce una via preferenziale di collaborazione tra i due Paesi in questo settore, comprese le forniture di armi. La legge italiana 185 del 1990 che regolamenta questa materia afferma infatti che le esportazioni di armamenti sono vietate non solo come è già automatico verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche ai Paesi in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. Il 22 giugno 2017, l’associazione ha presentato una proposta di Mozione parlamentare alla Camera insieme ad alcune organizzazioni e reti della società civile italiana. Il 19 settembre 2017, con 301 voti contrari e 120 a favore, la Camera dei deputati ha respinto la mozione che chiedeva al governo di bloccare la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come disposto dalla legge 185/1990, dalla Costituzione italiana e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

Amnesty International chiede al governo di intraprendere un percorso nuovo nella difesa dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale sospendendo l’invio di materiali militari all’Arabia Saudita, come fatto recentemente dalla Svezia.

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Il grande fratello sulle notizie, il caso Khashoggi

MEDIO ORIENTE di

Giornalisti e persone che lottano per i diritti umani sotto scorta, che subiscono minacce di morte o che subiscono violenze fisiche e verbali. Irruzioni dentro le case per rubare computer o documenti confidenziali. Persone che vengono schiaffeggiate o colpite da una testata davanti ad una telecamera mentre fanno domande. Persone che molti vorrebbero solo mettere a tacere facendogli mangiare fogli di carta. Criminalizzazione dei media e dei giornalisti che “non piacciono” a un determinato schieramento o pressioni politiche.  Questa è la situazione di attivisti o giornalisti in tutto il mondo e anche quando le maglie della giustizia si stringono addosso ai colpevoli, spesso, arrivano gli insulti, le fake news, le minacce o gli auguri di morte da parte di esponenti o simpatizzanti di una forza politica. In questi contesti non si sa dove sia lo stato, se ci sia e da che parte sia. Molti giornalisti scelgono l’autocensura per non finire in prigione o per salvare il proprio posto di lavoro ma c’è chi ancora, in un momento di “relazione complicata con le notizie”, combatte per un diritto che dice che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” (art. 19 DUDU).

 

     Nel pomeriggio del 2 ottobre un cittadino saudita si è recato al consolato saudita di Istanbul per chiedere i documenti necessari per il matrimonio. Per farlo ha preso la precauzione di lasciare i telefoni alla sua fidanzata dicendola di chiamare le autorità se non fosse tornato entro 2 ore. Non si sono più visti, lei lo ha aspettato 12 ore fuori dal consolato. Quel cittadino era Jamal Khashoggi, giornalista saudita che ha collaborato con diversi giornali in lingua araba e in lingua inglese in Arabia Saudita anche prestando servizio come redattore capo del quotidiano saudita al-Watam, di proprietà di un membro della famiglia reale. Nel settembre 2017 fuggì dall’Arabia Saudita, temendo l’arresto. Poco dopo la sua partenza, le autorità saudite hanno arrestato dozzine di importanti dissidenti, intellettuali, accademici e religiosi. Dalla fine del 2017 Khashoggi ha regolarmente partecipato a eventi pubblici a Washington e ha scritto colonne per The Washington Post in cui criticava la crescente repressione dei dissidenti in Arabia Saudita . Lo scorso 3 ottobre l’Arabia Saudita ha negato di averlo arrestato con una dichiarazione tramite l’agenzia governativa saudita, mentre nello stesso giorno il portavoce della Turchia ha dichiarato durante una conferenza stampa:  “Le informazioni che abbiamo sono che il cittadino saudita in questione è ancora nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul”.

L’Arabia saudita permette solo i media non indipendenti e tollera i partiti politici non indipendenti. Ad oggi, nel paese vi è un elevato livello di autocensura poiché vi sono gravissimi rischi, sia per i giornalisti che per i cittadini, per ogni commento critico di far partire l’ordine di arresto ai sensi della legge contro il terrorismo o ai sensi della legge per il cyber-crimine. Le accuse potrebbero essere quelle di blasfemia, insulti alla religione, incitamento al caos o di minaccia all’unità nazionale. Dal settembre 2017 più d 15 persone sono state arrestate e nella maggior parte dei casi gli arresti non sono stati confermati ufficialmente se non dopo la certezza della condanna. Questo è stato il caso di persone come Saleh El Shihi, Esam Al Zamel, Turad Al Amri o Fayez Ben Damakh e altre persone come le attiviste per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Persone che sono arbitrariamente detenute da mesi,  senza accusa, e che rischiano, insieme ad altri detenuti, lunghe pene detentive se non addirittura la pena di morte per aver esercitato in forma pacifica i loro diritti alla libertà di espressione, di associazione e di manifestazione. Per questo le autorità turche dovrebbero prendere provvedimenti per impedire agli agenti sauditi di rimpatriare con la forza Khashoggi in Arabia Saudita. Se rimpatriato forzatamente lì, Khashoggi si troverebbe di fronte al rischio reale di un processo iniquo e di una lunga detenzione.

     A questo proposito il Comitato per la protezione dei giornalisti, Human Rights Watch, Amnesty International e Reporter senza frontiere hanno sollecitato la Turchia a chiedere al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che sia svolta un’indagine Onu sulla possibile esecuzione extragiudiziale del noto giornalista saudita Jamal Khashoggi. Robert Mahoney, vicedirettore generale del Comitato per la protezione dei giornalisti ha dichiarato che “La Turchia dovrebbe chiedere alle Nazioni Unite di avviare un’indagine tempestiva, credibile e trasparente. Il coinvolgimento dell’Onu è la migliore garanzia contro ogni insabbiamento da parte saudita o i tentativi di altri governi di nascondere questo caso sotto il tappeto al fine di mantenere i lucrosi legami economici con Riad”. Le autorità turche hanno annunciato di aver avviato un’indagine il giorno stesso della sparizione di Khashoggi. In tale ambito, il 15 ottobre hanno perquisito il consolato saudita di Istanbul. Alcune informazioni sono filtrate o sono state condivise con i media turchi, tra cui quella riguardante l’esistenza di registrazioni audio e video che dimostrerebbero che Khashoggi è stato ucciso all’interno del consolato. Lo stesso 15 ottobre il re dell’Arabia Saudita ha ordinato al procuratore generale di aprire un’inchiesta sulla sparizione di Khashoggi. Dato il possibile coinvolgimento di autorità saudite nella vicenda e la mancanza d’indipendenza della magistratura del paese, vi sono forti dubbi sull’imparzialità di un’inchiesta del genere. Le autorità turche ritengono che Khashoggi sia stato ucciso, e il suo corpo sia stato smembrato, da agenti sauditi all’interno del consolato.

La Turchia, l’Arabia Saudita e tutti gli altri stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero cooperare in pieno con l’indagine Onu onde assicurare che questa abbia tutto il sostegno e l’accesso necessari per scoprire cosa è accaduto a Khashoggi. Per facilitare l’indagine, l’Arabia Saudita dovrebbe rinunciare alle protezioni diplomatiche – come l’inviolabilità dei luoghi ritenuti importanti nell’indagine e l’immunità dei suoi funzionari – previste dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963. È quanto del resto ha chiesto la stessa Alta commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Inoltre la Turchia dovrebbe fornire tutte le prove, comprese le registrazioni audio e video che funzionari turchi hanno ripetutamente detto ai giornalisti di avere e che confermerebbero l’avvenuta uccisione di Khashoggi all’interno del consolato.

Il caso di Khashoggi ci dovrebbe ricordare l’importanza del diritto all’informazione e alla libertà di stampa. Ci dovrebbe ricordare come il “grande fratello” del controllo agisce ovunque e in diversi modi, sia a livello istituzionale che nella società. Per il caso Khasoggi Amnesty International ha lanciato un appello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siria: Raqqa un anno dopo

MEDIO ORIENTE di

Il presidente siriano Bashar al Assad e il presidente russo Vladimir Putin hanno dichiarato che la guerra in Siria è finita ma ad oggi la guerra non si ferma affatto e con essa I massacri nei confronti dei civili. Lo scenario vede la proposta di tregue per l’evacuazione dei civili che vengono sistematicamente violate, la comunità internazionale che accusa Assad di condurre degli attacchi utilizzando armi chimiche che hanno provocato stragi di bambini, colloqui di pace che si arrestano e si concludono con un nulla di fatto. Sullo sfondo vi è lo scambio di accuse tra le superpotenze, USA e Russia, e a livello regionale tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele, che finora ha giocato in difesa della propria sopravvivenza più che per estendere la propria influenza in una regione che le è ostile. È passato un anno da quando, dopo una feroce battaglia di quattro mesi, le forze democratiche siriane annunciarono la vittoria nei confronti dello Stato islamico, che aveva usato gli abitanti di Raqqa come scudi umani e commesso altri crimini di guerra. Nell’offensiva la coalizione USA e le forze democratiche siriane hanno utilizzato una potenza di fuoco devastante. La situazione a Raqqa, ancora oggi, è di distruzione e totale devastazione umanitaria. La città è svuotata con edifici bombardati, poca acqua corrente ed elettricità. L’odore di morte è nell’aria.  Gli attacchi hanno ucciso centinaia di civili e provocato migliaia di sfollati che ora stanno tornando in una città di rovine o rimangono nei campi. I civili sopravvissuti in altre città, dove le forze armate siriane e russe hanno distrutto ospedali, presidi medici, scuole, infrastrutture, vivono una realtà simili. Una realtà in cui sono privati delle loro case e dei diritti fondamentali. Recentemente Amnesty International ha chiesto alla Russia, alla Turchia e all’Iran, che hanno creato una zona demilitarizzata che protegge solamente una parte della popolazione della provincia, di assicurare la protezione dell’intera zona e di prevenire un’altra catastrofe. Amnesty International ha documentato molti attacchi illegali ai danni di civili e di beni civili da parte del governo siriano, con il sostegno della Russia e dell’Iran, e di gruppi di opposizione armata che hanno il sostegno della Turchia e di altri stati. Decine di migliaia di civili sono rimasti uccisi e mutilati in attacchi illegali del governo siriano, decine di migliaia sono vittime di sparizione forzata, arbitrariamente detenuti e torturati.

     In una lettera inviata ad Amnesty International il 10 settembre 2018, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, le cui forze lanciarono la maggior parte degli attacchi aerei e con l’artiglieria contro Raqqa, ha scritto che non accetta alcuna responsabilità per le vittime civili, che la Coalizione non intende risarcire i sopravvissuti e i parenti dei civili uccisi, e che rifiuta di fornire ulteriori informazioni sulle circostanze degli attacchi che hanno fatto morti e feriti nella popolazione civile. Ad oggi, la coalizione a guida statunitense continua a negare e a non fornire indagini adeguate sulla dimensione delle vittime civili e delle distruzioni provocate a Raqqa. Il pentagono neanche sembra intenzionato ad offrire le proprie scuse per le centinaia di vittime della sua guerra di “annichilimento” contro Raqqa. Ciò è una vessazione per le famiglie che hanno sofferto prima sotto il dominio dello stato islamico e dopo sotto gli attacchi catastrofici della coalizione USA. La coalizione rifiuta di riconoscere il ruolo avuto per la maggior parte delle perdite civili e laddove lo ha ammesso le proprie responsabilità, non ha accettato di avere obblighi nei confronti delle vittime. Siamo di fronte a un sistema inadeguato di registrazione delle vittime civili che non si chiede perchè sia successo e come evitare in futuro altre vittime civili. La coalizione, venendo meno all’impegno preso di compiere indagini circa l’impatto dei suoi attacchi aerei, ha un conteggio implausibilmente basso. Nel giugno 2018 la coalizione aveva ammesso di aver causato solo 23 vittime civili. Conteggio al ribasso che vede protagonista anche la gran bretagna che dichiara di non aver causato vittime con i propri attacchi aerei. Solo dopo una serie di dinieghi da parte dell’esercito e degli esponenti politici, a fine giugno, la coalizione ha dichiarato di aver causato altre 77 vittimi civili. Vi è l’ammissione ma la coalizione continua a negare informazioni sulle circostanze in cui questi civili sono stati uccisi, il pentagono dichiara di non sentirsi obbligato a rispondere ad ulteriori domande circa le circostanze sulle ragioni degli attacchi. La situazione vede il dipartimento della Difesa statunitense sostenere che I ricercatori, gli esperti militari e I legali di Amnesty International non conoscano il diritto internazionale umanitario e che l’organizzazione abbia parlato di violazioni solo quando ci sono state vittime civili. Presentando così le cose, il Pentagono ha ignorato le prove che, nei casi documentati da Amnesty International, nei luoghi colpiti dagli attacchi aerei che provocarono tanti morti e feriti tra i civili non vi era presenza di uomini dello Stato islamico. Questo elemento ha portato Amnesty International ha concludere che si sia trattato di violazioni del diritto internazionale umanitario.  Su questo punto il segretario generale di Amnesty International Kumi Naidoo ha dichiarato che “la questione centrale sollevata dalle nostre ricerche è questa: la Coalizione prese le precauzioni necessarie per ridurre al minimo ogni potenziale danno ai civili, come richiedono le leggi di guerra? Anche se la Coalizione rifiuta di rispondere, le prove ci dicono che non lo ha fatto. Per proteggere le popolazioni civili non bastano gli impegni e le belle parole. Occorrono indagini sulle vittime civili, trasparenza e disponibilità ad apprendere la lezione e a modificare quelle procedure che non hanno minimizzato i danni ai civili. Occorre infine riconoscere l’effettiva entità dei danni causati ai civili e fare in modo che le vittime sappiano chi sono stati i responsabili e ottengano giustizia e riparazione. Il segretario alla Difesa Usa James Mattis ha detto che le forze Usa sono ‘bravi ragazzi’. Ma sarebbero davvero tali se rispettassero le leggi di guerra e facessero tutto il necessario per assicurare ai civili innocenti che hanno sofferto a causa delle loro azioni la giustizia che meritano”.

Quella che oggi insanguina il territorio siriano è una guerra del “tutti contro tutti”. L’esercito siriano libero è ormai disintegrato in tante sigle diverse e oltre ai ribelli si devono fare I conti anche con I miliziani dell’Isis. Poi ci sono I curdi che combattono per uno stato indipendente, anche se le cose ultimamente sembrano andare nella direzione opposta e il vero nemico per loro è la Turchia. A ciò si aggiunge che nella guerra siriana le ingerenze straniere sono sempre state presenti: Usa, Qatar, Arabia Saudita e Turchia in chiave anti-Assad e con molte ambiguità anti-Isis; Iran, Russia e Cina a sostegno di Damasco. Le ragioni di questa guerra che va avanti da oltre sette anni e che ha mietuto un numero impressionante di vittime e generato un numero impressionante di profughi e sfollati vanno oltre le istanze di riforme e democrazia che hanno caratterizzato le prime proteste. In mezzo ai vari attori, a morire e a essere portati allo stremo, ci sono I civili. Il cessate il fuoco per il popolo siriano è ancora molto lontano.

Preoccupazione di Save the Children nella Repubblica democratica del Congo: nuovi casi di Ebola in un paese già segnato dalla guerra

AFRICA di

Diamanti, Coltan, Oro, Cobalto, Rame, Niobio, risorse minerarie preziose nel sottosuolo, legni pregiati, risorse naturali del suolo, la seconda foresta più estesa del mondo e tanta tantissima terra coltivabile. Questo è ciò che possiede la Repubblica Democratica del Congo, questo scatena gli appetiti internazionali e questo sta alla base delle lotte interne di potere. Nella regione del Kivu sono all’ordine del giorno i conflitti “tutti contro tutti” fra l’esercito e il centinaio di bande armate e gruppi ribelli, inoltre si è registrata un impennata dei rapimenti; nella regione di Kinshasa si ripetono gli scontri fra i soldati e i militanti della setta mistico-politica Bundu dia Kongo; nella Provincia di Tanganyika e nell’Alto Katanga sono riprese le tensioni e le violenze fra etnie; nel Kasai è esploso un ulteriore conflitto fra i militari governativi e le milizie del gruppo Kamwina Nsapu che ha provocato centinaia di vittime; nella regione di Beni i civili sono stati presi di mira e uccisi, il 7 ottobre degli uomini armati hanno ucciso 22 persone. Ai conflitti si aggiunge il traffico di risorse del paese e lo sfruttamento da parte delle altre nazioni. Emblematico, curioso e controverso è il sequestro nel 2017 da parte delle autorità dello Zambia di 499 camion di proprietà dell’esercito congolese. I camion contenevano il cosiddetto “legno rosso”, chiamato cosi perché una volta tagliato assume una colorazione rosso sangue, ed è così emerso lo scandalo del traffico illegale di questo legname pregiato che finisce perlopiù in Cina, dove viene impiegato per la fabbricazione di mobili di lusso. È un attività illegale poiché è una specie arborea protetta che si stima porta l’abbattimento di 150 alberi nella sola Repubblica democratica del Congo, ciò simboleggia lo sfruttamento delle risorse del paese e un disastro ambientale. A ciò si aggiunge che questo clima di totale e diffusa instabilità e conflitto ha contributo al verificarsi di violazioni dei diritti umani, di abusi e di enormi crisi umanitarie.

     La situazione a marzo 2018 contava 2,2 milioni di bambini gravemente malnutriti; 13,1 milioni di persone bisognose di aiuti per sopravvivere e oltre 4 milioni di civili sfollati a causa del conflitto. Recentemente Save the Children ha espresso forte preoccupazione per la conferma di cinque nuovi casi di Ebola identificati negli ultimi giorni nella Repubblica Democratica del Congo, due dei quali localizzati nella zona di Tchomia, nella provincia di Ituri, vicino al confine con l’Uganda. Tchomia, situata sul lago Alberto, si trova 62 km a sud del capoluogo di provincia di Bunia, a circa 200 chilometri da Beni, in Nord Kivu, l’area in cui si è sviluppato il decimo focolaio di Ebola in Repubblica Democratica del Congo. In queste zone nell’ultimo anno decine di gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a compiere omicidi, stupri, estorsioni e a saccheggiare illegalmente il territorio, allo scopo di sfruttarne le risorse naturali. Il conflitto in corso tra hutu e nande nel Nord Kivu ha causato morti, sfollati e distruzione d’infrastrutture, specialmente nelle aree di Rutshuru e Lubero. Save the Children sta lavorando in stretto coordinamento con il governo della Repubblica democratica del congo, le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie internazionali e i servizi sanitari locali per contenere la diffusione del virus Ebola. L’Organizzazione, inoltre, è impegnata nella sensibilizzazione della comunità locali per ridurre la paura della malattia, offrendo informazioni e tecniche su come le famiglie possono proteggersi dal virus. Nell’ambito della sua risposta al virus Ebola, Save the Children sta fornendo supporto anche alle comunità e alle autorità ugandesi, in modo da essere pronte nel caso in cui l’Ebola dovesse diffondersi oltre il confine, formando i team sanitari nei villaggi e predisponendo strutture per il lavaggio delle mani. Alla situazione si aggiunge che i forti timori della popolazione riguardo al virus Ebola hanno reso difficile l’accettazione da parte della comunità di organizzazioni umanitarie. Heather Kerr, direttore di Save the Children nella Repubblica Democratica del Congo, ha dichiarato “I nostri operatori sanitari stanno svolgendo un lavoro straordinario visitando le famiglie porta a porta e alleviando la paura riguardo all’Ebola. Se le persone arrivano in tempo in un centro di trattamento hanno buone possibilità di sopravvivere. Ma le famiglie hanno visto alcuni pazienti entrare nei centri e non uscirne e questo può scatenare la paura tra la comunità, causando anche la fuga di persone che presentano sintomi. Gli ultimi casi identificati rafforzano ancora di più la convinzione che in questo momento il nostro lavoro dentro e fuori Beni è particolarmente cruciale”.

     Nella Repubblica democratica del Congo i bambini sono i più colpiti e l’Unicef ha denunciato che solo nel corso del 2017 vi sono stati 800 casi di abuso sessuale e il reclutamento di circa 3 mila bambini soldato da parte delle milizie. A causa del conflitto armato migliaia di bambini hanno preso i loro genitori, sono stati reclutati nell’esercito e nelle milizie e sono in generale vittime di violenza. Inoltre, Devono affrontare stress e traumi del passato. La situazione generale ha portato 60 mila congolesi nei soli primi tre mesi del 2018 a passare il confine con l’Uganda per fuggire. Al 10 novembre 2017, l’Uganda ospitava circa 1.379.768 tra rifugiati e richiedenti asilo di varie nazionalità e circa il 61% era costituito da minori, prevalentemente non accompagnati o separati dai loro genitori. I richiedenti asilo provenienti Repubblica democratica del Congo hanno ottenuto il riconoscimento automatico dello status di rifugiati (prima facie) e quelli di altre nazionalità sono stati esaminati secondo il processo di determinazione individuale dello status di rifugiati, condotto dal comitato di eleggibilità dei rifugiati. Ai sensi della legge sui rifugiati del 2006 e del regolamento sui rifugiati del 2010, i rifugiati godevano di una relativa libertà di movimento, degli stessi diritti dei cittadini ugandesi di accedere ad alcuni servizi essenziali, come istruzione primaria e assistenza medica, e del diritto di lavorare e di avviare un’impresa. Il sistema è entrato però in crisi nel maggio 2017 poiché è stato costretto a dimezzare le razioni di cereali a oltre 800 mila rifugiati. A ciò sono seguiti appelli di richiesta di fondi ai donatori internazionali per affrontare la crisi regionale dei rifugiati ma non hanno ottenuto risultati sufficienti.

 

Egitto, una prigione a cielo aperto

AFRICA di

In Egitto le autorità fanno ricorso a torture, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e ogni tipo di maltrattamento. Vengono colpite persone critiche verso il governo, manifestanti pacifici, giornalisti, difensori dei diritti umani e personale delle ONG con interrogatori, divieti di viaggio, congelamento dei beni, detenzioni arbitrarie e processi gravemente iniqui. Recentemente Amnesty International ha chiesto l’immediata e incondizionata scarcerazione di tutte le persone imprigionate in Egitto per aver espresso pacificamente le loro opinioni poiché al crescente malcontento per la situazione economica e politica, il governo sta rispondendo con un giro di vite di una gravità senza precedenti. Dal dicembre 2017 Amnesty International ha documentato i casi di almeno 111 persone arrestate dai servizi di sicurezza solo per aver criticato il presidente al-Sisi e la situazione dei diritti umani nel paese mentre almeno 35 persone sono state arrestate per accuse quali “manifestazione non autorizzata” e “adesione a un gruppo terroristico” per aver preso parte a una piccola protesta pacifica contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. Tra le persone perseguitate vi sono anche autori comici e di satira che sono  stati arrestati dopo aver pubblicato online commenti spiritosi e che dovranno rispondere delle accuse di “violazione della pubblica decenza” o di altre imputazioni definite in modo vago. Tra aprile e settembre 2017, le forze di sicurezza hanno arrestato almeno 240 attivisti politici e manifestanti per accuse legate ad alcuni post pubblicati online, che le autorità avevano ritenuto “ingiuriosi” nei confronti del presidente o per avere partecipato a eventi di protesta non autorizzati. Inoltre le autorità hanno bloccato almeno 434 siti web, compresi quelli di alcuni notiziari indipendenti come Mada Masr e di alcune organizzazioni per i diritti umani come la Rete araba per l’informazione sui diritti umani mentre molti giornalisti sono stati condannati a pene detentive per accuse riconducibili esclusivamente al loro lavoro come “diffamazione” o per quelle che le autorità consideravano “informazioni false”. Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord si Amnesty International, ha dichiarato che “in Egitto al giorno d’oggi criticare il governo è più pericoloso che in ogni altro momento della recente storia del paese. Sotto la presidenza di al-Sisi chiunque esprima pacificamente le sue opinioni è trattato come un criminale. I servizi di sicurezza stanno chiudendo senza pietà qualsiasi spazio indipendente politico, sociale, culturale rimasto in attività. Queste misure, più estreme persino di quelle adottate nel repressivo trentennio della presidenza di Hosni Mubarak, hanno trasformato l’Egitto in una prigione a cielo aperto per chi critica le autorità”.

     Il parlamento ha recentemente adottato, senza consultare la società civile o le organizzazioni di giornalisti e con la scusa delle “misure anti-terrorismo”, una nuova legge che autorizza la censura di massa nei confronti di portali informativi indipendenti e delle pagine Internet di gruppi per i diritti umani. Bounaim ha continuato dicendo che “l’amministrazione del presidente al-Sisi sta punendo l’opposizione pacifica e l’attivismo politico con pretestuose leggi contro il terrorismo e altre norme vaghe che qualificano come crimine qualsiasi forma di dissenso. L’ultima legge sui crimini a mezzo stampa e informativi ha reso pressoché assoluto il controllo delle autorità egiziane sulla stampa offline e online e sui mezzi radio-televisivi. Nonostante l’attacco senza precedenti alla libertà d’espressione e il fatto che ormai la paura sia diventata una sensazione quotidiana, molti egiziani continuano a sfidare la repressione rischiando di perdere la libertà. Ecco perché Amnesty International mobiliterà i suoi sostenitori nel mondo affinché esprimano la loro solidarietà a tutti gli egiziani in carcere solo per aver espresso le loro opinioni: devono sapere che non sono soli!”.

Amnesty International chiede alle autorità egiziane di rilasciare tutte le persone che si trovano in carcere solo per aver espresso pacificamente le loro opinioni, di porre fine alla repressiva campagna di censura nei confronti dei media e di abolire le leggi che rafforzano la presa dello stato sulla libertà d’espressione. Le continue e ingiustificate misure adottate dalle autorità egiziane per ridurre al silenzio le voci pacifiche hanno spinto centinaia di attivisti e di esponenti dell’opposizione a lasciare il paese, onde evitare di finire arbitrariamente in carcere. Ma tante altre persone continuano coraggiosamente a prendere la parola contro l’ingiustizia all’interno del paese.

Patricia Gualinga Montalvo incontra il municipio VIII di Roma: Serayaku contro lo sfruttamento petrolifero nei territori indigeni

AMERICHE/CRONACA di

Il 4 luglio Patricia Gualinga Montalvo ha incontrato Roma, organizzazioni sociali italiane e il presidente del Municipio di Garbatella Amedeo Ciaccheri, che ha aperto le porte all’esperienza e alla storia del popolo Quechua di Sarayaku per un gemellaggio tra le due comunità all’insegna delle forme di iniziativa dal basso.

     Patricia Gualinga Montalvo parla la lingua Quechua ed è la rappresentante del popolo di Serayaku che consiste in una minoranza rispetto al territorio. La comunità conta di 1350 abitanti e occupa solo il 5% di un territorio che conta 135 mila ettari. Il villaggio è raggiungibile solo con due metodi: per via Fluviale, impossibile se in secca, o con 25 minuti per via aerea, in questo caso sono frequenti gli incidenti aerei. La comunità di Serayaku è la dimostrazione che anche un piccolo e disperso popolo può lottare e vincere se ha delle convinzioni forti nella tutela dei diritti umani e dei diritti ambientali. La comunità non ha ristoranti o alberghi e vive di pesca, caccia, coltivazioni di iuca e platano verde, hanno case con tetti di foglie e pavimenti in terra per mantenere il fresco. I Serayaku sono conosciuti come un popolo ribelle che agli inizi del 2000 ha iniziato il combattimento contro l’entrata arbitraria di un’azienda argentina e che ha portato avanti una causa di giustizia internazionale. La causa è durata 10 anni passati tra l’opinione pubblica e le fatiche nel sostenere e portare le prove ma alla fine ha visto la vittoria del popolo di Serayaku. Questa vittoria è importante e di ispirazione per tutte le altre comunità del continente è consiste nella sentenza della Corte interamericana dei diritti umani. In quell’occasione, armonia, libertà e pace vennero messe a rischio dal governo, che non aveva consultato la comunità prima di autorizzare la compagnia petrolifera argentina CGC a fare prospezioni sul territorio per valutare l’ampiezza dei giacimenti sotterranei. La compagnia petrolifera offrì 15 dollari a persona per togliere il disturbo. Secondo gli standard internazionali, i progetti di sviluppo, le leggi e le politiche che hanno un impatto sullo stile di vita delle comunità native devono ottenere il consenso preventivo, libero e informato degli interessati. Questo avviene attraverso la messa a disposizione di informazioni oggettive, in una modalità loro accessibile e un coinvolgimento, sin dall’inizio, nella fase decisionale. L’obiettivo di questa lunga lotta era chiamare le autorità ecuadoriane a rispondere della mancata consultazione e ottenere garanzie di non ripetizione di una decisione presa senza il loro consenso. Coi loro legali i Sarayaku hanno portato il caso fino a San José, Costa Rica, sede della Corte interamericana dei diritti umani. La sentenza gli ha dato ragione.

     Il governo dell’Ecuador ha spostato tutta la sua attenzione economica nel petrolio e chiama tutti gli investitori esteri per lo sfruttamento e la comunità Serayaku ha chiesto il rispetto della sentenza della corte interamericana dei diritti umani e di rimanere nei propri territori. Il tema dell’incontro è stata la crescente tensione in Ecuador tra le comunità indigene ed ENI. Nel 2010 il governo ha rinegoziato il contratto con ENI – Agip per lo sfruttamento petrolifero del Blocco 10 nella foresta amazzonica, senza applicare il diritto di consultazione previa, libera e informata dei popoli, delle comunità e delle nazionalità indigene. Tale diritto è espressamente riconosciuto e tutelato dalla Costituzione ecuadoriana (art.57) – oltre che dalla Convenzione n.169 dell’ILO – e riguarda tutti i processi decisionali relativi all’implementazione di piani e programmi di prospezione, sfruttamento e commercializzazione di risorse non rinnovabili presenti nei territori indigeni e che possano avere impatto dal punto di vista ambientale o culturale sulle comunità. La situazione vede però altri importanti blocchi come il 75 e l’85 ad altra presenza Cinese, il blocco 28 sfruttato dall’Ecuador, dalla Bielorussia e dalla Thailandia e anche la presenza del Cile che sfrutta le zone petrolifere e le risorse minerarie. La denuncia da parte di Patricia Gualinga Montalvo consiste nel fatto che ENI ha perseguito lo sfruttamento della zona per 20 anni in silenzio ed estromettendo la comunità dai processi di informazione e contrattazione, cercando di ampliarsi man mano che si esaurivano le riserve di petrolio e coinvolgendo delle zone che includevano ben 5 popolazioni indigene e pozzi di petrolio molto grandi. Dopo le minacce del 5 gennaio da parte di sconosciuti, le donne di Serayaku si sono messe in marcia con le “Mujeres Amazonas” e hanno denunciato le azioni degli ultimi 20 anni. Il risultato è consistito in un’udienza dal presidente dell’Ecuador. Ciò ha segnato un forte impatto mediatico, delle forti tensioni tra le donne e l’ENI ma anche all’interno della stessa comunità. Quest’ultimo accade perché alla consegna di ogni blocco lo stato non fornisce i servizi di base ma di questi se ne occupano le aziende private tramite la contrattazione. In questo momento le donne possono essere considerate le colpevoli per una possibile sospensione dell’erogazione dei servizi base da parte di ENI. Al momento, in generale, le varie comunità si stanno esprimendo per uno stop totale allo sfruttamento della zona e queste problematiche investono molte comunità di tutto il continente dell’America Latina. La stessa comunità però si è fatta promotrice di proposte poiché, a detta di Patricia Gualinga, vengono trattati come se fossero i responsabili del consumo di petrolio. Come comunità, i Serayaku hanno visto i fallimenti dei progetti di conservazione naturale e, tramite una risoluzione, propongono la “KAWSAK SACHA-SELVA VIVIENTE”. Questa è una categoria di conservazione dal punto di vista indigeno e gestito dal punto di vista indigeno, estromettendo tutto ciò che è esterno. Porta avanti la Cosmovisione indigena che vede da difesa degli spazi ambientali in quanto casa degli esseri viventi che reggono e abitano lo stesso ambiente contro i processi delle problematiche ambientali. Questi sono gli esseri della natura che detengono il ruolo di mantenitori dell’equilibrio. Questa è l’essenza della lotta indigena che vede la sua particolarità in quanto può essere compresa solo da chi ha vissuto e vive a stretto contatto con la natura. Tutto ciò serve per ripensare il rapporto con la natura.

     Secondo il rapporto di Amnesty international, in Ecuador, leader di comunità native, difensori dei diritti umani e personale delle ONG hanno subìto procedimenti giudiziari e vessazioni, in un contesto di continue restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione e d’associazione. Alle popolazioni native non è stato garantito il diritto a esprime un consenso libero, anticipato e informato. Il progetto di legge per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne è rimasto in attesa della revisione dell’assemblea nazionale. A maggio, la situazione dei diritti umani dell’Ecuador è stata analizzata secondo l’Upr delle Nazioni Unite. L’Ecuador ha accettato le raccomandazioni riguardanti l’adozione di un piano d’azione nazionale su attività produttive e diritti umani, la creazione di un meccanismo efficace di consultazione per le popolazioni native, l’allineamento della legislazione nazionale con gli standard internazionali in materia di libertà d’espressione e d’associazione, la garanzia di misure di protezione per i giornalisti e i difensori dei diritti umani e provvedimenti che avrebbero garantito la tutela dalla discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. L’Ecuador si è impegnato a farsi carico della creazione di uno strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale sul tema dei diritti umani e delle società multinazionali. Delle 182 raccomandazioni espresse durante l’Upr, l’Ecuador ne ha accettate 159, ha preso atto di altre 19 e si è riservato di riesaminarne quattro. A luglio, si sono svolte davanti alla Commissione interamericana dei diritti umani (Inter-American Commis­sion on Human Rights – Iachr) le audizioni riguardanti la violenza e le vessazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani e relative alle industrie estrattive e al diritto all’identità culturale delle popolazioni native dell’Ecuador. La Iachr ha espresso preoccupazione per l’assenza di rappresentanti dello stato a entrambe le audizioni.

Coordinate per l’estate: il Caso Aquarius

EUROPA/POLITICA di

Era una notte buia in cui, da una parte, era difficile distinguere dove fosse il mare e dove iniziasse il cielo notturno, e, dall’altra, il sole si stava preparando ad albeggiare. In questi frangenti un rimorchiatore si adopera per il soccorso di due gommoni ma la situazione si fa critica non appena una delle due imbarcazioni si distrugge, facendo cadere 40 persone in acqua. Alla fine, sono 229 le persone recuperate, delle luci rosse illuminano le facce dei sopravvissuti: c’è chi festeggia, chi sa o pensa che non è ancora finita, c’è chi bacia i bambini e cerca di dargli il proprio affetto. Queste sono state le persone che l’Aquarius ha salvato il 10 giugno e a queste si aggiungono le 400 persone soccorse dalla Marina Militare Italiana, dalla Guardia Costiera e da navi mercantili. È una notte intensa, in totale vengono raccolte 629 persone: tra loro 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte, soccorse attraverso 6 diverse operazioni. Il ministro degli interni, con l’aumento delle partenze nei giorni precedenti, aveva dichiarato che avrebbe impedito alle Organizzazioni Non Governative (ong) che operano nel mediterraneo di continuare a svolgere il loro “ruolo di taxi del mare”. A questa dichiarazione segue una lettera urgente al governo di Malta, con cui si dichiarano chiusi i porti italiani e si dice che il porto di “Valletta” (capitale maltese) è il più sicuro. Malta risponde che però non è sua competenza in quanto il soccorso è avvenuto nella Search and Rescue area (la SAR) libica con il coordinamento del centro di Roma. Per Malta devono sbarcare in Libia, in Tunisia o in Italia per una questione di principio: la necessità che vengano rispettate le regole. Il ministro degli Interni italiano dichiara che questa è “un Italia che comincia a dire no, al traffico di esseri umani, al business dell’immigrazione clandestina e che l’obiettivo è quella di garantire una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia”. Aggiunge che nel mediterraneo ci sono navi con bandiera olandese, spagnola, britannica o di Gibilterra, che ci sono Ong tedesche e spagnole, che c’è Malta che non accoglie, che c’è la Francia che respinge alla frontiera e una Spagna che difende i confini con le armi. Intanto si procede verso Nord in attesa dell’assegnazione di un porto sicuro. Cala la sera e arrivano le istruzioni dal coordinamento della Guardia Costiera italiana di rimanere in Standby a 35 miglia Nautiche dall’Italia e 27 da Malta.

     Questa è un primo riassunto di ciò che è successo il primo giorno del “Caso Aquarius”, il seguente vede le persone a bordo unite nella preghiera mattutina ancora ignari dello stallo diplomatico, donne incinte, persone con gravi ustioni chimiche, medici che lavorano a pieno regime per garantire le cure a tutti, diversi pazienti con sindrome di annegamento e ipotermia, nonché paura per le scorte che scarseggiano. Passa il tempo e, tra le dichiarazioni del primo ministro Spagnolo acquisite dai media all’interno della nave e per mancanza di ufficialità da parte del MRCC italiano, arriva il momento di avvisare le persone a bordo. Gli operatori mostrano sulla cartina dove sono fermi e riportano della chiusura dei porti. Crescono ansia e disperazione a bordo, c’è chi minaccia di buttarsi in mare per paura del rimpatrio in Libia. Nel frattempo, in Italia, Il ministro degli Interni tiene una conferenza stampa dove dichiara di voler creare un fronte di discussione in cui ci deve essere il primo segnale per non sostenere il peso, si esprime la disponibilità di trasbordare donne e bambini che si trovano a bordo e che si vuole gestire la situazione, in futuro, salvando le persone prima delle partenze. Durante la conferenza stampa sottolinea di voler operare sui costi dei “finti profughi” dichiarando che solo 6 su 100 sono rifugiati politici e che altri 4 su 100 sono possibili titolari di protezione sussidiaria. Il discorso continua dicendo che il costo è di 35€ cada uno e che deve scendere alla media europea, dichiarando, anche, che vuole “vedere se con meno soldi queste associazioni saranno ancora così generose”. Il ministro degli interni vuole lavorare anche sui tempi poiché dallo sbarco fino al termine della procedura di accertamento della domanda passano 3 anni e di voler lavorare su tutte quelle forme che definisce tutte italiane per garantire “ai rifugiati veri assistenza e che sono vittime degli sprechi di denaro”.

Commentando la situazione, Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia, ha dichiarato: “I bambini e gli adolescenti e le persone più vulnerabili che sono a bordo della nave Aquarius di SOS Mediterranée non possono rimanere vittime di una disputa tra stati. Le condizioni di sofferenza, privazioni e paura che hanno certamente vissuto in Libia e durante nel viaggio non possono essere ingiustamente prolungate. È necessario e urgente garantire loro un approdo sicuro senza ulteriori indugi. Le dispute tra stati vanno risolte in sede diplomatica senza prendere in ostaggio donne e bambini”.

Elisa De Pieri, ricercatrice di Amnesty International sull’Italia, ha così commentato la situazione: “Chiudendo i loro porti, Italia e Malta non solo stanno voltando le spalle a oltre 600 persone disperate e in condizioni vulnerabili, ma stanno anche violando i loro obblighi di diritto internazionale. Gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell’Aquarius hanno rischiato la vita in viaggi pericolosi per fuggire dalle terribili violenze in suolo libico solo per finire in mezzo a un’inconcepibile disputa tra due stati europei. Tenere le navi delle organizzazioni non governative ferme in mare in attesa di un porto dove approdare significa solo che meno navi di soccorso sono operative per aiutare chi può trovarsi in difficoltà proprio in questo momento. Italia e Malta devono aprire i loro porti e gli altri stati dell’Unione europea devono condividere la responsabilità di offrire protezione, soccorso e procedure d’asilo”.

     Si avvicina di nuovo la sera, la situazione è statica e, nel frattempo, la nave Diciotti della marina militare italiana con 937 migranti si dirige verso Catania. Solo nella giornata successiva, dopo i rifornimenti ad opera delle autorità italiane, si ha una decisione e si procede per spostare alcune persone sulle navi italiane per formare una carovana verso la spagna. Il viaggio, come sappiamo, ha visto delle difficoltà legate alle condizioni del mare e si è concluso domenica a Valencia. La storia ha visto inoltre delle tensioni tra Francia e Italia (con Macron che ha definito “vomitevole” la decisione dell’Italia) e, come sembra, la volontà della Francia di prendere parte dei migranti attraccati in spagna. Qui, in ogni caso, si può leggere il resoconto presentato da Salvini al senato.

Il flusso migratorio

     Le decisioni di Italia e Malta, ma anche quella Spagnola, di certo non modificano le basi geopolitiche dei flussi migratori. Occorre, innanzitutto, riconoscere che non si tratta di “un’emergenza” poiché è una “realtà strutturale”, di cui gli sbarchi rappresentano solo la parte più visibile, e che si tratta di un flusso alimentato dalle condizioni avverse nei paesi di origine e non dalle ong. Gli esempi non parlano solo di guerra ma anche di profonde crisi umanitarie o di violazioni di diritti umani. Per esempio, in Eritrea è in vigore l’obbligo di prestare servizio militare a tempo indeterminato. Questo fenomeno continua nonostante i richiami da parte della comunità internazionale a limitare il periodo a 18 mesi e a non sottoporre i minori all’addestramento militare, che spesso avviene in campi militari in condizioni gravi e dove le donne subiscono forme di trattamento come la riduzione in schiavitù sessuale o la tortura. Altro caso può essere la Somalia che, oltre alle problematiche politiche, vede un flusso migratorio dovuto al cambiamento climatico, questo dovuto ad alluvioni e siccità che causano carestie ed epidemie. Ma anche fenomeni di terrorismo come quelli in Nigeria ad opera del gruppo armato di Boko Haram, o fenomeni che vedono esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e tortura dei detenuti. Va sottolineato, poi, che per sostenere i paesi di origine attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

     Per il momento, quindi, l’azione si è concentrata prevalentemente sugli accordi bilaterali o comunitari con stati o attori politici extraeuropei (come quello con la Turchia) che possono solo contenere le partenze o facilitare i rimpatri ma sono, inoltre, sempre a rischio rinegoziazione. Rischio che sembra concretizzarsi nel momento in cui, in coincidenza dell’entrata del nuovo governo Italiano, vi è un picco delle partenze dalla Libia, dove sembrerebbe siano ridotti i controlli e dove dovrebbe dirigersi il ministro degli interni italiano a fine giugno, come da lui stesso annunciato. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea, tra cui l’Italia, hanno attuato una serie di misure per sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e il mar Mediterraneo rafforzando la capacità della Guardia costiera libica di intercettare migranti e rifugiati e riportarli in Libia. L’Italia e altri stati dell’Unione europea hanno fornito alla Guardia costiera libica vario supporto, tra cui almeno quattro motovedette e la formazione del personale. All’inizio del 2018 la Guardia costiera italiana ha iniziato a trasferire a quella libica il coordinamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali vicine alla Libia: ciò è stato reso possibile solo dalla collaborazione delle navi e del personale in Libia della Marina italiana. Solo nell’aprile 2018, la Guardia costiera libica ha intercettato e riportato in Libia 1485 migranti e rifugiati, portando a 5000 (secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) il totale delle persone intercettate nei primi quattro mesi dell’anno. I migranti e i rifugiati intercettati vengono trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale. Questi centri sono tristemente noti per il carattere arbitrario e indeterminato della detenzione e, anche qui, per le violazioni dei diritti umani. I migranti e i rifugiati intervistati dai ricercatori di Amnesty International hanno denunciato terribili violenze tra cui torture, lavori forzati, estorsioni e uccisioni illegali da parte di funzionari libici, trafficanti e gruppi armati. Amnesty International ha denunciato queste pratiche e ha accusato i governi europei di essere complici fornendo attivo sostegno alle autorità libiche negli intercettamenti e nei trasferimenti nei centri di detenzione.

     A ciò si aggiunge che già nel 2012 l’Italia ha avuto la condanna definitiva dalla corte europea dei diritti dell’Uomo per la doppia violazione dell’articolo 3 della CEDU, per la violazione dell’articolo 4 del protocollo 4 della CEDU e per la violazione dell’articolo 13 della CEDU. Le violazioni riguardavano il fatto di aver esposto i ricorrenti al rischio di trattamenti inumani e degradanti in Libia, di averli esposti al rinvio nei paesi di origine per cui è stato ricordato il principio Refoulement indiretto (in caso di espulsione lo stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo stato verso cui rinvia offra garanzie sul fatto che non persegua trattamenti proibiti), perr aver impedito l’esame delle condizioni particolari dei ricorrenti e per non aver garantito l’acceso a un rimedio interno per fare ricorso al respingimento.  Si trattava del Caso Hirsi jamaa e altri c. Italia: era il maggio 2009 quando circa 200 persone su 3 barche dirette in Italia sono state intercettate dalle motovedette italiane nella zona SAR Maltese. Queste sono state trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia in conformità degli accordi Bilaterali con la Libia dell’allora Governo Berlusconi.

     In relazione alle azioni dell’ex ministro degli Interni Minniti, molte associazioni hanno sottolineato che queste mosse hanno portato alla contrazione dei flussi migratori a fronte dell’aumento della percentuale di morti o dispersi in mare. A maggio Save the Children ha reso noto che nel primo trimestre del 2018 vi è stato un ulteriore contrazione del flusso migratorio a partire da luglio 2017. I dati ufficiali del ministero dell’interno in questo periodo contavano 6296 sbarchi con una variazione negativa del -55% rispetto al trimestre precedente. L’organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) a maggio ha dichiarato che erano stati 383 i migranti morti nella rotta del Mediterraneo Centrale nei primi 4 mesi del 2018. Alla mattina del 7 maggio, il numero totale di migranti arrivati in Italia dall’inizio dell’anno è stato di 9567, un calo di circa il 76 % rispetto agli arrivi dello stesso periodo dell’anno scorso, quando i migranti soccorsi e arrivati in Italia furono 41165. Nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Inoltre, l’OIM nota come nel periodo di riferimento vi siano state anche le operazioni di soccorso realizzate dalla guardia Costiera libica: 4964 a fine aprile 2018. Ossia su ogni tre migranti che partono dalla Libia, uno è soccorso dalla guardia costiera libica e riportato indietro.

Il problema della SAR

     Secondo la conferenza dell’international Maritime Organization (IMO) del 1997 il mediterraneo è stato suddiviso in aree di responsabilità in cui l’area Italiana prevede 1/5 del mediterraneo, a cui si aggiunge la Convenzione di Amburgo del 1971 che prevede l’obbligo di istituire il servizio SAR (Search and Rescue) nelle aree di responsabilità. Oggi i salvataggi vengono spesso effettuati a ridosso delle acque territoriali libiche, dunque nella zona SAR della Libia. Essendo evidente che la Libia non possa essere considerata “luogo sicuro”, e con Malta che si tira indietro giustificandosi con l’impossibilità di accogliere nuovi migranti viste le dimensioni dell’isola (su cui abitano poco più di 430.000 persone), la responsabilità ricade sulle autorità italiane. Occorre ricordare che il nuovo attivismo della guardia libica è dovuto al memorandum di intesa di Minniti e che la Libia ha dichiarato la propria SAR ma non è ancora ufficialmente riconosciuta, anche se ha ratificato la convenzione. Quindi, ancora secondo la Convenzione di Amburgo, lo stato che Coordina le operazioni di soccorso deve stabilire il cosiddetto “Porto sicuro”. Il Place of safety è da intendersi come il luogo dove vengono fornite le garanzie fondamentali quali l’assistenza sanitaria e la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale. L’UNHCR ha spinto per una definizione di luogo sicuro anche come “geograficamente più vicino”, ma non sempre il luogo sicuro è lo Stato costiero più vicino al luogo ove avvengono le operazioni di soccorso. Non sono infatti considerati “sicuri” porti di paesi dove si possa essere perseguitati per ragioni politiche, etniche o di religione, o essere esposti a minacce alla propria vita e libertà. Al momento, però, l’assenza di una chiara definizione vincolante di luogo sicuro, e di un accordo su quali stati lo siano, crea incertezza anche rispetto alla recente posizione assunta dall’Italia.

In ogni caso, l’MRCC di Roma non può lasciare morire le persone in mare, salvare la vita in mare è un obbligo sia per il diritto del mare, per esempio con la Convenzione di Montego Bay, che per la costituzione Italiana. Nell’Articolo 2 della costituzione italiana si sancisce la solidarietà come dovere inderogabile in quanto “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Mentre all’articolo 98 della convenzione di Montego Bay si sancisce il dovere di ogni stato di esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e a procedere quanto più velocemente è possibile al soccorso. Inoltre, l’omissione di soccorso è un reato ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione. Ciò obbligherebbe in ogni caso le navi a prestare soccorso. Il contenzioso tra Italia e Malta ha visto l’Italia dire che lo sbarco non deve necessariamente avvenire nel paese che si è preso in carico del coordinamento e che si può stabilire anche un porto di diversa nazionalità, mentre la posizione di Malta è che lo sbarco è di totale competenza di chi si è preso in carico del coordinamento. In generale, Il singolo stato ha la facoltà di esercitare la propria sovranità chiudendo i porti, però tale facoltà non vale in caso di trasferimento di persone in pericolo o che hanno bisogno di cure urgenti. In caso di pericolo, giuridicamente, si andrebbe incontro alla violazione delle convenzioni sui diritti umani, la convenzione di Ginevra e la CEDU. Quindi la chiusura dei porti comporterebbe la violazione di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati, a partire dal principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Il rifiuto di accesso ai porti di imbarcazioni che abbiano effettuato il soccorso in mare può comportare la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) (proteggere la vita e garantire l’integrità fisica e morale), qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, nonché di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali), e tali bisogni non possano essere soddisfatti per effetto del concreto modo di operare del rifiuto stesso. Mentre il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’articolo 4 del Protocollo 4 alla CEDU. Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica.

Protezione internazionale, protezione umanitaria e migranti economici

     Il ministro degli interni, in conferenza stampa, ha dichiarato che quelli che hanno diritto allo status di rifugiato sono solo una minima parte. Secondo i Dati del ministero dell’interno che riguardano le decisioni dei richiedenti asilo nell’anno di riferimento del 2017 vedono l’8% meritevoli dello status di rifugiato, l’8% dello status di Protezione sussidiaria, il 25% del permesso per protezione umanitaria e il diniego nel 58% dei casi totali esaminati (81527 domande esaminate, indipendentemente dalla data di richiesta di Asilo). Occorre qui specificare che solamente per quanto riguarda i meritevoli di protezione internazionale (Rifugiato e Protezione sussidiaria) la quota sarebbe già del 16%, mentre aggiungendo anche la protezione umanitaria (quella che Salvini definisce come forma “tutta italiana”) si sale a un consistente 41%. Occorre tenere in conto che questi dati sono relativi solo alle domande esaminate durante l’anno e che per lungaggini burocratiche possono essere presentanti molto tempo addietro. Occorre poi specificare che per la determinazione dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria o di protezione umanitaria esiste un’unica procedura e che lo status viene determinato solo alla fine. Inoltre, per quanto riguarda la dinamica dello sbarco e dei respingimenti, è impossibile distinguere a priori tra chi è un possibile detentore di queste forme di protezione dai migranti economici: resta pur sempre, a livello di normativa internazionale, il diritto all’esame della propria domanda e il diritto al ricorso in caso di diniego. All’articolo 1 della convenzione di Ginevra per “Rifugiato” si intende il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato (per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica) si trova fuori dal territorio dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale paese, oppure si intende un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o non vuole farvi ritorno. Occorre specificare che lo status di rifugiato non è strettamente correlato alla guerra, bensì alla persecuzione (anche se un’evoluzione recente della giurisprudenza tende a specificare che in contesti di violenza generalizzata i casi di persecuzione possono aumentare) riguardo individui o gruppi. Simile è la “Persona ammissibile alla protezione sussidiaria” per cui si intende il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel paese di origine o, nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva la precedente dimora abituale, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno. Tipologia prevista dal nostro ordinamento è la “protezione umanitaria” quando ricorrono “gravi motivi umanitari”. Questa subentra quando Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non possono essere adottati se ricorrono “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionale dello stato italiano”.  Per casi umanitari si intendono le condizioni di salute, familiari o di età, le pene sproporzionate per la retinenza alla leva e la diserzione o la punizione per la fuga del paese, ma anche carestie o epidemie. Occorre specificare che questo non è uno status ma un’autorizzazione al permesso di soggiorno valida due anni (a differenza dei cinque anni previsti dagli status di protezione internazionale) e che prevede molti meno diritti rispetto alla protezione internazionale. Quindi la protezione umanitaria non è una tutela prevista per i migranti economici, i quali vengono diniegati. Occorre poi dire che la determinazione dello status ha delle problematiche intrinseche alla natura delle persone esaminate. Per esempio, le persone esaminate possono essere state vittime di tortura o possono essere dei minori, per cui, soprattutto per quanto riguarda a persone con disturbi da stress post traumatico, è possibile che si venga diniegati ingiustamente (in quanto il racconto potrebbe essere soggetto a incoerenze o a buchi di memoria) e che si riceva una delle tre forme dopo il ricorso e un esame più attento.

     Ad oggi il resto dell’Unione europea non sta offrendo una azione di aiuto concreta e una soluzione al fenomeno in quanto non vi è una chiara e condivisa idea di come superare il regolamento di Dublino III. Elemento forte nella decisione di chiudere i porti consisterebbe il problema legato al criterio di primo ingresso. Il regolamento Dublino nasce per introdurre i criteri e i meccanismi di determinazione dello stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Per cui la paura secondo cui, per alcune retoriche, in Italia rimarrebbero comunque tutti gli immigrati economici è falsa dato che lo status viene deciso solo al termine della procedura e dato che il sistema Dublino decide lo stato che si prende in carico della procedura.  Ma come funziona in pratica il regolamento Dublino? Per prima cosa lo stato membro delega ad un ufficio specifico l’applicazione del regolamento e la trattazione dei casi; poi gli uffici si scambiano informazioni per applicare i criteri base per stabilire lo stato competente; infine si individua lo stato che “prende in carico” il richiedente e, in caso, si procede al trasferimento. Per procedere al trasferimento in un altro stato devono sussistere i cosiddetti motivi umanitari legati al “Ricongiungimento familiare” oppure vi può essere l’esercizio della clausola di sovranità, per cui lo stato decide autonomamente la presa in carico. Altrimenti il paese responsabile è il paese di prima accoglienza. Date le logiche geografiche i paesi sotto pressione sono i paesi del mediterraneo, dopo i picchi migratori del 2015-2016 ci si è mossi per ripensare il sistema Dublino e nel frattempo si è cercato di inserire un meccanismo di ricollocamento. L’impegno preso nel 2015 dall’Ue con l’Italia era quello di ricollocare circa 35.000 richiedenti asilo verso altri Stati membri entro settembre 2017. Al 27 giugno 2017, dunque a pochi mesi dalla fine del programma di ricollocamento, dall’Italia erano stati tuttavia ricollocati solo 7.277 richiedenti asilo (soprattutto verso Germania, Norvegia e Finlandia). Ma anche se l’Unione europea avesse mantenuto totalmente l’impegno sui ricollocamenti, avrebbe alleggerito l’Italia solo per il 10% del totale delle richieste d’asilo dal 2013 a oggi (circa 345.000). Il meccanismo è nato per poter rimediare alle storture prodotte dal regolamento Dublino ma da una parte l’Europa ha lasciato molto in mano all’Italia (con i paesi del gruppo di Visegràd che neanche si sono interessati), dall’altra non ha funzionato anche per colpa dell’Italia. Il nostro paese non è stato in grado di garantire tempistiche e logistica e non è stato in grado di controllare coloro che vengono respinti dalla richiesta di protezione.

In data 4 maggio 2016, la Commissione europea ha presentato la propria proposta per il nuovo Regolamento Dublino, che conteneva alcune novità ma al tempo stesso presentava numerose criticità.  La proposta della commissione prevedeva un miglioramento della definizione di famigliare, l’insistenza sul criterio di primo ingresso (anche irregolare), il filtro pre-dublino che il primo stato d’ingresso deve svolgere, l’inasprimento delle sanzioni per i movimenti irregolari ma soprattutto l’idea per elaborare un sistema di quote e la raccolta centralizzata delle domande di asilo a cui affiancare un meccanismo correttivo che scatta dopo che il paese ha superato il 150% della propria quota. Il lavoro del parlamento europeo integra la proposta con numerosi emendamenti, fino all’approvazione della relazione definitiva da parte della Commissione LIBE del Parlamento europeo in data 6 novembre 2017. Successivamente, la Plenaria del Parlamento ha autorizzato a larghissima maggioranza (390 voti a favore, 175 contrari, 44 astenuti) l’apertura del negoziato con il Consiglio e la Commissione nell’ambito del c.d. trilogo. Il progetto del Parlamento europeo vede: eliminare l’irrazionale e iniquo criterio dello Stato di primo ingresso; adottare un sistema di quote permanenti ispirato al principio di equa condivisione delle responsabilità (art. 80 TFUE) sulla base del rapporto PIL e popolazione; valorizzare in misura molto ampia i legami significativi (quali i legami familiari) tra un richiedente e uno Stato, al fine di velocizzare la procedura, risparmiare sui costi, ridurre gli incentivi a realizzare movimenti secondari, favorire il percorso di integrazione ove la domanda venga accolta; incoraggiare gli Stati a valorizzare i canali di ingresso legale da paesi terzi; configurare incentivi e disincentivi ragionevoli ed efficaci, sia per gli Stati membri che per i richiedenti asilo.

     Come previsto dal meccanismo decisionale, ora tocca al Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i ministri degli Stati membri, dove non è stata ancora raggiunta una posizione comune. Al consiglio dell’Unione Europea si è incominciato a discutere e il nodo centrale della riforma, che rappresenta il nodo della discordia, è proprio relativo all’introduzione delle quote di ripartizione dei richiedenti asilo all’interno dello spazio europeo e il superamento del principio di primo ingresso. Le quote di ripartizione sono sempre state osteggiate in particolare dai paesi dell’Europa orientale, il cosiddetto gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Nell’ultima incontro di giugno hanno detto no alla proposta Italia, Spagna, Germania, Austria, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Non si è espresso il Regno Unito, mentre gli altri paesi dell’Unione europea, non soddisfatti dalla proposta bulgara, hanno tuttavia lasciato la porta aperta al negoziato. Tra questi Grecia, Malta e Cipro che hanno sempre condiviso le stesse posizioni del governo italiano sulla necessità di introdurre le quote. Il problema odierno consiste nel fatto che ora l’Italia sembra cercare un alleato nell’Ungheria. I paesi guidati da governi nazionalisti come Ungheria e Polonia hanno sempre osteggiato la riforma del sistema d’asilo europeo, sostenuta invece dai paesi mediterranei come Italia e Grecia. Le ultime mosse dell’Italia sembrano spaccare il fronte del mediterraneo e cercare un alleato in Orbàn. Ad aprile Amnesty International ha lanciato l’allarme avvertendo che il Governo ungherese sta cercando di approvare leggi che renderanno impossibile alle Ong di proseguire con il loro lavoro di assistenza e protezione di chi ha bisogno. Secondo l’associazione l’obiettivo sarebbe quello di mettere a tacere le Ong indipendenti e apertamente critiche. Il 13 febbraio scorso sono state presentate al Parlamento una serie di leggi chiamate “Stop Soros”, che impongono un nulla osta di sicurezza nazionale e un permesso governativo per quelle Ong che il governo considera “a sostegno della migrazione”. In particolare, queste proposte colpiscono le organizzazioni che promuovono campagne, condividono materiale informativo, organizzano reti e reclutano volontari per sostenere l’ingresso e la permanenza in Ungheria di persone che cercano protezione internazionale. Queste leggi richiederebbero inoltre alle Ong di pagare una tassa pari al 25% di qualsiasi finanziamento estero volto a “sostenere la migrazione“. Il mancato rispetto di questi requisiti potrebbe portare a sanzioni esorbitanti, alla bancarotta e infine alla chiusura delle Ong prese di mira. Le proposte del governo ungherese rientrano in una più ampia campagna anti-immigrazione. Tutto ciò comporterebbe una delle direttrici più ambigue e oscure sulle politiche italiane che riguardano la migrazione, in quanto da una parte si vuole una maggiore ripartizione delle responsabilità mentre dall’altra sembra cercare alleati nelle schiere di paesi che non vogliono le quote o paesi che hanno alzato i muri come unica soluzione alla propria questione riguardante le migrazioni. Nel frattempo, a livello europeo si è parlato dei fondi per la sicurezza dei confini esterni e dei rimpatri.

Le Ong e prospettive per il futuro

     Il ministro degli Interni Salvini aveva già annunciato una stretta alle attività delle ONG e le dichiarazioni durante i giorni della questione Aquarius hanno confermato questa linea. Altro caso curioso è il fatto che Salvini in aula ha citato nella faccenda “Soros”, ritenendolo coinvolto nella faccenda delle migrazioni tramite gli investimenti e mettendo in dubbio, solo per questo, l’operato delle Ong. Il primo passo verso i controlli dell’operato delle Ong, però, è stato fatto a luglio del 2017 con l’adozione da parte di Minniti di un codice di condotta, la cui mancata sottoscrizione o inosservanza degli impegni comporta contromisure e sanzioni. Da quel momento le operazioni delle SAR di fronte a Tripoli passano alla Guardia costiera libica. Tra le misure previste dal Codice di condotta vi è l’impegno delle Ong a non entrare nelle acque territoriali libiche “salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata”, di non ostacolare l’attività di SAR della Guardia costiera libica, non devono fare comunicazioni finalizzate ad agevolare la partenza delle barche che trasportano migranti, devono informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita, non possono trasferire le persone soccorse su altre navi, “eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc) e sotto il suo coordinamento anche sulla base delle informazioni fornite dal comandante della nave”, si impegnano “a una cooperazione leale con l’autorità di pubblica sicurezza del previsto luogo di sbarco dei migranti”. Infine, si invita alla trasparenza delle fonti di finanziamento. Un punto di rottura sul codice di condotta era rappresentato dalla richiesta di uomini armati a bordo, motivo per cui delle associazioni non firmarono. A causa della stretta e del rapporto non facile con la Guardia costiera libica alcune Ong hanno deciso di interrompere le attività nel Mediterraneo. Nei periodi di massima crisi risalenti al 2015 e al 2016 le navi delle Ong che prestavano aiuto erano arrivate sino a 13 mentre oggi sono appena 3, a questo occorre tenere conto che sono diminuiti dei possibili testimoni di traffici, di respingimenti illegali in Libia o di naufragi. È logico attendersi che la maggiore incidenza di salvataggi in mare da parte di imbarcazioni delle Ong (passata dal 1% del 2014 al 41% nel 2017), assieme alla tendenza di queste ultime a operare nei pressi delle acque territoriali libiche (come rilevato dall’agenzia europea Frontex), possano aver spinto un maggior numero di migranti a partire, aumentando di conseguenza il numero di sbarchi. Ma i dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane. A determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori, tra cui per esempio le attività dei trafficanti sulla costa e la “domanda” di servizi di trasporto da parte dei migranti nelle diverse località libiche.

    In questi giorni, come detto da altri, abbiamo visto un festival della propaganda politica e diventa difficile distinguere tra propaganda e realtà. Oltre alle dichiarazioni nella politica, fatte spesso per slogan in cerca di voti, si sta instaurando una narrazione fatta di “Taxi del mare”, o “Vice-Scafisti”, che operano dal limite delle acque libiche all’Italia. Una narrazione che vede immigrati attirati verso il nostro paese da politiche miopi, dalla malavita in cerca di schiavi per l’attività di agricoltura, per la prostituzione o per lo spaccio di droga. Probabilmente non si tiene in conto che tutte queste dinamiche che vedono come protagonisti i migranti sono il risultato di un sistema di accoglienza debole, di una burocrazia per certi versi schizofrenica e di una mancata legalità nel nostro paese. Occorre ricordare che è il nostro paese che tramite la mancanza di legalità e la presenza di leggi ingiuste che fa scivolare nell’irregolarità. Possiamo pensare al fenomeno del “Lavoro in nero”, dove in molti lavorano senza contratto” o quello del “Lavoro in grigio”, caratterizzato da sotto-salario e irregolarità contributive. È un paese in cui la presenza di un contratto non rappresenta, soprattutto per il migrante, la garanzia di un equo rapporto di lavoro e dove spesso i contributi dichiarati sono risultati nettamente inferiori al numero di giornate lavorative effettivamente svolte. È un paese in cui vi è il problema della cosiddetta “Agromafia” ovvero le attività della criminalità organizzata nel settore agro-alimentare: un contesto che vede gli agricoltori onesti che abbandonano i campi e imprenditori di ogni tipo che lucrano nell’ombra e che cercano di impossessarsi dei fondi dell’Unione Europea prendendo il controllo delle Organizzazione dei produttori (OP) o dei mercati ortofrutticoli. È un paese in cui certe classi di persone vengono ghettizzate e l’unica alternativa che trovano sono le attività di manovalanza che le varie mafie offrono come la prostituzione, lo spaccio o anche lo stesso caporalato o che vede i migranti lavorare nei campi. Questo succede anche perché sono fortemente vincolati da uno stato di necessità, non solo per il denaro, ma per leggi che vincolano al contratto di lavoro o a un certificato di residenza. È il risultato di una burocrazia che chiede la residenza a chi vive per strada o subordina un documento a un contratto di lavoro nel paese del lavoro in nero. Per cui i diniegati dalle commissioni hanno solo 3 speranze: il ricorso in tribunale, la residenza e il contratto di lavoro. Da qui nasce un mercato nero tutto italiano dove vengono venduti contratti di affitto o contratti di lavoro a tempo determinato (per poi andare a lavorare in nero da un’altra parte).

Occorre poi notare che si viene a creare il mito del “Business dell’Immigrazione” ovvero un calderone fatto di trafficanti africani e libici, mal gestione emergenziale di alcuni centri di accoglienza per criminalizzare tutto il mondo italiano della solidarietà. È, poi, una narrazione che vede accettare i migranti trasportati sulla nave della Marina Militare ma non quelli imbarcati dalla guardia costiera sull’Aquarius. Molti di questi discorsi si basano su un pensiero che vede le Ong agire indipendentemente nelle operazioni di salvataggio. La realtà vede però la richiesta di azione alle “navi private” e viene coordinata dalla centrale operativa di Roma della guardia costiera alla quale perviene la segnalazione e autorizza agli sconfinamenti nelle acque territoriali libiche nei casi di emergenza. Questi sconfinamenti vengono visti da molti come la prova della complicità coi trafficanti ma, anche attraverso l’azione dei tribunali, non è mai emerso un legame di tale genere. Per esempio, recentemente il Tribunale del riesame di Ragusa ha dissequestrato le navi della spagnola Open arms “fermata” a marzo.

     Rimane il fatto che per controllare il fenomeno migratorio “illegale” (per evitare che ci siano ancora morti in mare) o per evitare tutti quei fenomeni legati alla tratta, occorre trovare soluzioni alternative. In questo senso possiamo pensare al progetto-pilota dei “Corridoi Umanitari” realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, completamente autofinanziato. Il principale obiettivo è quello di evitare tutte le problematiche avanzate fino a qui e di fornire un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo. È un modo sicuro per tutti perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane. All’arrivo in Italia, i profughi sono accolti a spese delle associazioni in strutture o case, gli viene insegnato l’italiano e iscrivono i bambini a scuola per aiutare l’integrazione nel paese e ad aiutarli a cercare lavoro. Questi corridoi sono il frutto di un Protocollo d’intesa con il governo italiano: le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi possono presentare domanda di asilo. Altre soluzioni potrebbero essere quelle di coinvolgere le varie associazioni (invece di criminalizzarle) che lavorano nel campo dell’assistenza per evitare un’azione frammentata e per poter garantire una soluzione più efficiente.

In ogni caso, il rischio è che il caso Aquarius rappresenti un precedente mortale. Nel momento in cui la nave “Aquarius” dell’organizzazione non governativa Sos Mediterranee ha fatto rotta verso il porto spagnolo di Valencia, la ricercatrice di Amnesty International sull’Italia Elisa De Pieri ha rilasciato questa dichiarazione: “Chiudendo i loro porti, i governi italiano e maltese hanno aggirato il principio del soccorso in mare e pregiudicato l’intero sistema di ricerca e soccorso. Se le cose proseguiranno in questo modo, l’azione di vitale importanza delle Ong verrà scoraggiata e compromessa e migliaia di migranti e rifugiati saranno lasciati alla deriva nel Mediterraneo. L’offerta del governo spagnolo di accogliere la nave ‘Aquarius’, se da un lato è un commovente esempio di solidarietà, dall’altro mette in evidenza la calcolata insensibilità delle autorità italiane e maltesi. Siamo di fronte a un precedente che inevitabilmente costerà vite umane”.

     Per concludere, in molti hanno parlato di vittoria ma la situazione, a livello italiano ed europeo, è la stessa. Si è dichiarato lo stop al business dell’Immigrazione ma il sistema di accoglienza è lo stesso. È una storia che ha visto una semplice presa di forza contro un Organizzazione non governative (quindi non contro un governo) e contro centinaia di persone che hanno sofferto, soffrono e soffriranno senza una vera accoglienza e con il clima discriminatorio delle parole. È una situazione che vede la messa in discussione del diritto al non respingimento, in cui viene messo in dubbio la stessa solidarietà e in cui viene messo in dubbio il principio di sussidiarietà dei privati (per cui noi possiamo fare qualcosa in mancanza dello stato). Viene messa in discussione la stessa nostra costituzione al cui articolo 10 dice: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Nei prossimi tempi occorrerà riflettere su cosa può succedere senza la protezione umanitaria: più rimpatri? Diminuiranno i costi? Ridurre forme di assistenza come il pocket money e qui famosi 35€ cosa comporterà realmente? Forse occorrerebbe, al di là di tutto, riflettere che trattare le persone in base ai costi comporta meno affiancamento dell’umano. Occorrerebbe riflettere che per queste persone sentirsi dire che sono un peso o che sono mantenute comporta una frustrazione e degradazione dell’animo. Occorre ricordare che il viaggio di ogni persona non finisce all’arrivo in un posto se l’anima rimane a casa ma finisce quando trova un posto tranquillo in cui si sente a casa. Occorre accogliere animi e non solo corpi per permettere anni di vita a persone che ne hanno bisogno e per permettere vita negli anni. Forse non possiamo svincolarci da riflessione sui costi ma iniziare un approccio di questo tipo, pensato sulle persone, può essere un passo importante. Il Consiglio europeo di fine giugno potrà offrire all’Italia l’occasione per contestare le normative vigenti in Europa in materia d’asilo per poter offrire una soluzione concreta. Comunque sia, le direttrici che si seguiranno sembrano essere già decise con il caso Aquarius.

La tutela dei Diritti umani in aree di Crisi: il convegno di Roma 3000

CRONACA di

Il 18 giugno il Centro studi Roma 3000 terrà il convegno dal titolo “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi”. Il convegno sarà l’occasione per riflettere, dibattere e scambiare esperienze sul tema dei diritti umani che in tutto il mondo sono in costante rischio. Le continue escalation nelle aree di crisi però rappresentano i luoghi in cui è maggiormente difficile la protezione di tali diritti. All’incontro saranno presenti esponenti di importanti associazioni che ci daranno la possibilità di analizzare la questione da diverse prospettive: la protezione dei civili e degli operatori, i diritti dell’infanzia, la protezione dei più vulnerabili e la tutela nel rapporto di lavoro. Saranno presenti Croce Rossa, Save the Children, l’Agenzia Habeisha e Vivere Impresa. Il convegno sarà aperto da Alessandro Forlani, esperto di diritti umani e di relazioni internazionali che introdurrà i relatori ospiti del Centro Studi Roma 3000.

Croce Rossa è presente ovunque, dall’intervento a sostegno delle popolazioni nelle zone di guerra, alle emergenze dovute ai disastri naturali, fino all’aiuto nelle tante vulnerabilità quotidiane che non fanno notizia. È il simbolo di un’Italia che aiuta, che ascolta le richieste di aiuto, piccole o grandi, che sono ovunque. Nelle aree di crisi, chi va ad apportare il proprio aiuto o è lì a documentare, è costantemente a rischio. Negli ultimi 15 anni i giornalisti uccisi nell’esercizio del loro mestiere sono stati 1035, specialmente nei teatri di guerra. Allo stesso modo sono tanti gli operatori umanitari che diventano un “target” delle parti in conflitto. Ciò nonostante questi operatori sono sempre in prima linea per tamponare le gravi crisi umanitarie. Allo stesso modo l’intervento nei luoghi in cui avvengono le calamità naturali risulta un rischio per operatori e civili. Per la Croce Rossa interverrà Rosario Valastro con l’intervento dal titolo “La protezione dei civili e degli operatori sanitari nelle zone a rischio: l’esperienza della Croce Rossa“.

Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini. Questi subiscono l’impatto del trauma e della violenza, subiscono minacce alla loro salute e alla loro felicità. Inoltre, non hanno la possibilità di sperimentare l’infanzia. Nelle aree di conflitto intere generazioni di bambini potrebbero avere conseguenze permanenti devastanti. In recenti ricerche nelle aree di crisi, nei bambini si sono riscontrate depressione, iperattività, predilezione per la solitudine e aggressività. A ciò si aggiunge la minaccia della guerra, la paura delle bombe, la costante insicurezza causata dall’instabilità e fenomeni come incubi e la difficoltà a dormire. Tutto ciò mette a dura prova la salute mentale dei bambini e costituisce una grave minaccia per i loro fragili meccanismi di difesa. Questo li espone a un alto rischio di stress tossico, la più pericolosa forma di risposta allo stress, provocata da una forte o prolungata esposizione alle avversità. L’esposizione agli eventi traumatici può portare a un aumento dei disturbi a lungo termine della salute mentale come il disturbo depressivo maggiore (MDD), il disturbo d’ansia da separazione (SAD), il disturbo overanxious (OAD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo la fine del conflitto. In particolare, l’attivazione prolungata degli ormoni dello stress nella prima infanzia può effettivamente ridurre le connessioni neurali in aree del cervello dedicate all’apprendimento e al ragionamento, influenzando le abilità dei bambini a svolgere attività accademiche e successive nella loro vita. Le avversità estreme nella prima infanzia possono ostacolare lo sviluppo sano dei bambini e la loro capacità di funzionare pienamente, anche quando la violenza è cessata. I bambini, non solo vedono negati il diritto al gioco, alla salute e allo studio ma vedono precludersi il futuro da guerra in cui non hanno nessuna responsabilità. Per Save The Children Interverrà Daniela Fatarella con l’intervento dal titolo “Le gravi violazioni dei diritti dei minori in conflitto”.

Padre Mussie è un attivista impegnato in azioni per salvare i migranti nel Mediterraneo, è il fondatore e il presidente dell’agenzia Habeshia e nel 2015 è stato nominato per il Nobel per la pace. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. Si è guadagnato l’appellativo “L’angelo dei profughi” in anni di attività in difesa dei diritti e della vita stessa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga dal Corno d’Africa e dai paesi dell’Africa sub sahariana verso l’Europa o verso Israele. Dopo aver preso i voti, in concomitanza con l’aggravarsi della vicenda dei profughi a causa di tutta una serie di situazioni di crisi esplose in Africa, è stato tra i primi, in quegli anni, a partire dalla tarda estate del 2010, a segnalare la tratta degli schiavi nel Sinai. Piaga tutt’ora aperta che vede centinaia di giovani catturati nel deserto, verso il confine di israele, da bande di predoni beduini collegate a organizzazioni criminali internazionali, che pretendono per ogni prigioniero pesanti riscatti, minacciano di consegnare chi non riesce a pagare al mercato degli organi per i trapianti clandestini. Le sue denunce, fatte attraverso l’agenzia di assistenza Habeshia, da lui stesso fondata, insieme a quelle di altre organizzazioni umanitarie, hanno destato sensazione in tutto il mondo, ma l’eco si è spenta in poche settimane, senza che la comunità internazionale si sia mai fatta davvero carico di quella che appare un’autentica emergenza umanitaria. Da allora è stata una escalation di orrore. Il traffico di schiavi nel Sinai non è mai cessato. Anzi la mafia dei trafficanti ha esteso e radicato il proprio operato lungo le vie di fuga dei migranti, sia nei paesi di transito verso l’Europa che in quelli di prima accoglienza: Etiopia, Sudan, Egitto, Libia. Mentre le crisi, le rivolte, le guerre, la carestia continuano a produrre fuggiaschi e richiedenti asilo e, dunque, “materiale umano” da sfruttare per i trafficanti. Padre Mussie è diventato un punto di riferimento per le vittime di tutto questo: prima a Roma, dove ha esercitato la prima fase del suo sacerdozio, ed ora in Svizzera, dove si è trasferito come responsabile nazionale per la pastorale degli Eritrei e degli Etiopi residenti nella Repubblica Elvetica. Il titolo del suo intervento sarà “il diritto dei deboli non è un diritto debole“.

L’avvocato Cristina Nasini è membro del direttivo dell’associazione “Vivere Impresa No-Profit” con delega agli Aspetti giuridici. Avvocato civilista, svolge la libera professione sia per attività giudiziale nell’ambito del diritto di famiglia, del lavoro, societario, fallimentare e contrattualistica, sia per attività di consulenza. Si è occupata di amministrazioni di sostegno e segue Fondazioni e Onlus che operano nel Terzo settore. Il titolo del suo intervento sarà “La tutela dei diritti umani nel rapporto di lavoro internazionale. L’impegno delle aziende”.

Il dibattito sarà moderato da Alessandro Conte, giornalista e presidente del Centro Studi Roma 3000

 

L’evento si terra presso la Camera dei Deputati, Palazzo San Macuto, Sala del refettorio il 18 giugno 2018 alle ore 17.00 in via del seminario 76 a Roma. Per partecipare e per motivi legati alle norme di sicurezza della Camera Dei Deputati è necessario confermare la presenza inviando una mail a registrazione@roma3000.it entro il 15 giugno 2018, ricordiamo che il regolamento della Camera dei Deputati prevede l’obbligo di giacca e cravatta per l’accesso alla sala del convegno.

Rainer Maria Baratti
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