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Povertà urbana: quando è necessario mettere i Confini al Centro

CAPITALI/EUROPA di

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita verticale dell’insediamento urbano e alle intense mutazioni qualitative sia in termini morfologici che funzionali. Vi sono dei tratti negativi in questo processo in cui primeggia la dilatazione della povertà e che assume le fisionomie proprie di povertà urbana. Ad oggi più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, circa il 54% con rischio di arrivare al 60% entro il 2030, e accanto a questo si è registrato un aumento delle diseguaglianze a livello globale. Durante la crisi abbiamo sentito dire che tutti si impoveriscono ma non è vero che dentro la crisi tutti ne risentono allo stesso modo. Nell’indagine ISTATCondizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” pubblicata il 6 dicembre 2017, mentre tra il 2016 e l’anno precedente si è verificata una “significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie”, contemporaneamente si è registrato “un aumento della diseguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Ciò ha significato più ricchezza complessiva ma più distanze economiche tra ricchi e poveri. Inoltre, sono aumentati i poveri e le famiglie a rischio di povertà. Sostanzialmente ha significato una redistribuzione dal basso verso l’alto che porta ad un’ingiustizia sociale ed economica. Sono note le reali condizioni di lavoro e le basse remunerazioni di commesse, badanti, camerieri, addetti ai supermercati, lavoro ambulante, operai della logistica, dell’agricoltura e delle piattaforme digitali e di tanti lavoratori e lavoratrici autonome. Al di là delle retoriche populiste e razziste, le aree più a rischio e le categorie più esposte all’impoverimento sono le famiglie a basso reddito con stranieri, gli anziani soli e i giovani disoccupati. Questo quadro si aggrava inserendo le aree sociali meno presenti nei dati disponibili, come quelle composte da richiedenti asilo e migranti con protezione umanitaria, sussidiaria o internazionale fuoriusciti dal sistema di accoglienza, che si ritrovano per strada (10 mila ne stima il rapporto “Fuoricampo” pubblicato a febbraio 2018 da Medici senza frontiere) o nei ghetti delle aree agricole (le cosiddette “Ghetto economy” come quella di Gioia Tauro), a cui si aggiunge una parte di immigrati che negli ultimi anni sono andati a lavorare in campagna dopo essere stati licenziati dalle fabbriche del nord. A questo punto va detto che vi sono due caratteristiche preponderanti nella povertà italiana: la concentrazione nel Mezzogiorno d’Italia e la sua caratterizzazione familiare. Il Mezzogiorno è l’epicentro del “sisma povertà” in cui la Campania risulta il centro da cui si propagano le onde sismiche sul tutto il territorio nazionale e in cui vi sono i maggiori danni. Va aggiunto che si sono manifestate forme nuove di povertà che hanno interessato aree tradizionalmente meno svantaggiate e più industrializzate di Italia: la fame ha cominciato a mordere anche al Nord. La povertà in Italia è dovuta alla difficoltà dei soggetti in età di lavoro di guadagnare un reddito dotato di continuità e protezioni sociali tali da evitare il sovraccarico di aspettative e obblighi familiari insoddisfatti che rende la famiglia più esposta al rischio di diventare povera. Intervenire sulla famiglia è fondamentale poiché potrebbe accentuarsi la sua funzione di cinghia di trasmissione della povertà e potrebbe aumentare il rischio di spinte verso l’esclusione sociale e lavorativa, ciò indebolisce le forme di coesione sociale. Le politiche di contrasto alla povertà si sono rilevate ad oggi una coperta troppo corta, sia per il loro carattere frammentato e categoriale, sia per le dimensioni stesse del fenomeno e la sua concentrazione in un’area specifica del paese. Occorre intraprende un percorso che non potrà limitarsi ai soli interventi di contrasto alla povertà, ma deve allargarsi al piano delle politiche occupazionali e alle scelte di politica economica. Gli anni più recenti segnano una ripresa di un discorso nazionale di lotta alla povertà e l’attuazione per la prima volta di una misura non contingente di universalismo selettivo non differenziato territorialmente quale il Reddito di inclusione (REI). Evidenziato il fatto che è ancora prematura una valutazione del REI, è possibile evidenziare delle criticità. Il REI permetterà di raggiungere nel 2018 il 38% delle persone in povertà assoluta e risulta evidente che una maggioranza ne rimarrà priva. A ciò si aggiunge che il sostegno economico, anche se più elevato di quanto concesso in precedenza, rimane generalmente insufficiente per fare uscire dalla condizione di povertà assoluta; questo punto si aggrava con la natura temporale della misura (18 mesi + 12) che prescinde dal fatto che situazione della persona/famiglia sia migliorata o meno. Infine, scompare dal discorso pubblico il riferimento alla povertà relativa. Altra problematica è dovuta al fatto delle categorie. Inoltre, Il comune resta il livello istituzionale con la responsabilità principale del contrasto alla povertà, una centralità che continua ad alimentare l’elevata frammentazione delle politiche in questo ambito, assicurando diritti condizionati al luogo di residenza e alle possibilità e alle scelte dei Comuni sull’utilizzo delle proprie risorse; questa frammentazione rende inadeguate le politiche contro la povertà in Italia.

Su questo tema tra l’11 e il 13 maggio si è tenuta la tre giorni di “Confini Al Centro”, la convention nazionale sulla povertà urbana organizzata da Associazione 21 luglio Onlus, Università di Roma Tor Vergata e la rete Reyn Italia. L’obiettivo è stato quello di sviluppare un documento programmatico di proposte e riflessioni per elaborare strategie e politiche di contrasto alla povertà urbana, fenomeno sempre più diffuso in Italia. Per questo motivo tutti i partecipanti, dalle professionalità più svariate, sono stati chiamati a dare il proprio contributo attraverso un attivo scambio di conoscenze ed esperienze dirette per parlare di diritto ad abitare, educazione e infanzia, media e povertà estreme. A condurre i tavoli di lavoro e i dibattiti si sono alternati oltre 30 relatori, tra esperti, accademici, associazioni del terzo settore e giornalisti. Inoltre, vi è stata la presenza di deputati e consiglieri regionali. Gli organizzatori hanno scelto di ripartire dal quartiere di Tor Bella Monaca, da una periferia romana, per immaginare e ridisegnare insieme i contorni di una città più inclusiva e egualitaria. All’iniziativa è stata conferita, come premio di rappresentanza, una medaglia del Presidente della Repubblica. La sfida della convention è stata quella di dare una proposta concreta che risponda al crescente fenomeno di “urbanizzazione della povertà”, caratterizzata da un modello di segregazione del disagio sociale nelle aree più periferiche, sempre più distaccati dal centro e dai ceti benestanti. Parallelamente negli anni, dagli ’80 ad oggi, si è consolidata la “politica dei campi” ma anche la formazione dei ghetti per lavoratori stagionali, centri di accoglienza per migranti e richiedenti asilo. Un sistema di relegazione e iper-ghettizzazione che marca una distanza spaziale oltre che relazionale, delineando così un percorso di impoverimento ulteriore all’interno delle nostre città.

Alcune delle problematiche affrontate

Durante la Convention è stata rilevata una vulnerabilità abitativa diffusa di cui è importante cogliere le articolazioni in quanto le diverse figure e la diversa gravità dei problemi esigono soluzioni differenti. I problemi sono suggeriti dai profili sociali delle popolazioni escluse: immigrati irregolari e richiedenti asilo privi di sostegno, disoccupati di lunga durata, homeless cronici, rom residenti in campi nomadi o in insediamenti informali ecc. Le politiche potrebbero muovere dal riconoscimento delle capacità di organizzazione delle stesse persone in povertà. È un esempio chiaro quello di chi vive in occupazioni abitative. Invece di penalizzare questa parte della popolazione come fa, ad esempio, l’articolo 5 del decreto lupi, si potrebbe riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, le esperienze e le proposte avanzate da una parte della popolazione che ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’autorganizzazione di politiche per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzione concrete a parti della società che non possono aspettare. Queste esperienze mettono in discussione il concetto di fragilità utilizzato solitamente in maniera banale e banalizzante da parte delle istituzioni, incapace di comprendere i problemi strutturali e politici alla radice dei processi e delle condizioni di impoverimento. Tali esperienze hanno prodotto anche una ridefinizione dell’orizzonte culturale di riferimento, che si potrebbero consolidare se anche dal lato istituzionale si riconoscesse l’autonomia delle aree sociali e delle persone impoverite, liberandole dall’ineluttabilità della subalternità riprodotta dalle politiche. Alla cronaca è noto il tema degli sgomberi che spesso poco parla della sofferenza e dell’accanimento che ricevono le persone coinvolte. Negli occhi vi sono ancora i fatti di piazza indipendenza dell’anno scorso in cui circa 100 persone fuggite dalle guerre in Eritrea o dai problemi della Somalia sono stati cacciati con violenza dall’edificio che avevano occupato 4 anni prima. La maggior parte della problematica risiede nella metodologia dello sgombero e del mancato preavviso alle associazioni che lavorano nel quartiere. È stata la persecuzione di persone a cui è stata data la protezione internazionale o lo status di rifugiato per poi essere abbandonati senza l’assegnazione di una casa, di un lavoro o di un corso di lingua come in altri paesi. In questo caso vi è stato un accanimento verso persone che erano state capaci di auto-organizzarsi per allontanarsi dal mondo della criminalità e della droga. Con lo sgombero queste persone hanno perso quella che per loro era diventata casa. Il luogo da cui erano riusciti a ripartire, trovare lavoro e inserirsi nel tessuto sociale. Lo sgombero è solo uno dei casi dei tanti nel territorio romano e che avvengono nei posti più disparati. Spesso questi sono posti abbandonati, lontani dai centri abitati e in condizioni sanitarie terribili. Nota ancora più amara è dovuta al fatto che ogni sgombero costa circa 1256€ a persona con il risultato che in totale si spendono 10 milioni di euro per costringere le persone a spostarsi da una parte all’altra della città. Sono fondi che vengono spesi per disperdere il problema ma non risolverlo con il risultato di infierire su persone che cercano di attivarsi. Tutto ciò è funzionale alla politica perché la politica può sfruttare l’emergenza per far vedere un operato, in questo senso tutto ciò che è temporaneo diventa permanente. A ciò si aggiungono problemi che coinvolgono tutta la popolazione come il fenomeno dei residence per cui il comune spende circa 3000€ di affitto in cui spostare i poveri in veri e propri ghetti o la dinamica dei campi cosiddetti istituzionali o il fatto che molti dei fondi destinati alla questione abitativa non vengono utilizzati.

Nell’ambito dell’educazione “La strage dei poveri continua”, ovvero in Italia l’accesso alla conoscenza (alla cultura, al lavoro, al futuro) continua a rappresentare un grosso problema per tanti bambini e ragazzi che nascono nei quartieri “sbagliati”, ovvero con minori risorse (familiari, economiche, educative e ricreative) a cui attingere. Un dato su tutti: nelle scuole caratterizzate da un indice socioeconomico basso, più di uno studente su quattro finisce per ripetere l’anno, mentre nelle scuole “bene” viene bocciato “soltanto” un alunno su 25. Tra i vari fattori viene in rilievo la canalizzazione formativa strisciante, all’opera su diversi fronti: tra ordini di scuole (i tecnici e i professionali sono caratterizzati da indici socioeconomici significativamente più bassi rispetto ai licei), tra scuole del centro e scuole ai margini, ma anche tra scuole principali e scuole secondarie, e a volte perfino all’interno delle stesse scuole, con la creazione di classi ghetto. Ad oggi, in Italia, non abbiamo ancora una mappa affidabile e dettagliata delle aree “ad alta priorità educativa” sulle quali investire con fondi e programmi ad hoc, come si è cercato di fare con alterni successi in Francia e in altri Paesi europei. Non va dimenticato però lo sforzo e le numerose esperienze di scuole in tutta Italia che dimostrano come rimettere la scuola al centro dei quartieri, soprattutto nei tessuti marginali, senza dover necessariamente attendere rinforzi e grandi investimenti. La scuola diventa così un luogo di istruzione, ma anche un centro di aggregazione, cultura e intercultura, aperto al territorio anche oltre l’orario scolastico.

Un po’ di attenzione va posta al tema del razzismo e della criminalizzazione della povertà. Questo è dovuta ad un’ossessione per la sicurezza che caratterizza la nostra epoca, questa ossessione genera paura e povertà, si sa da dove si incomincia a colpire (immigrati, neri, rom), ma non si sa dove si finisce. Prima o poi anche altre parti di popolazione diventeranno oggetto di quelle politiche di repressione, in cui a prevalere è una sola idea: pulire la città e sterilizzare lo spazio pubblico da tutte quelle presenze ed attività considerate indecorose, allontanando la “brutta gente”, gli appartenenti alle rinnovate classi pericolose. Persone senza tetto, ambulanti, parcheggiatori senza permesso, artisti di strada, persone che chiedono l’elemosina, occupanti di abitazioni, immigrati presenti nello spazio pubblico o ospiti del sistema di accoglienza sono stati costruiti come soggetti problematici per l’ordine pubblico, soggetti da controllare. Il grosso del problema trova ampio spazio quando l’intolleranza spontanea è avallata dalle istituzioni, anzi spesso si viene a incoraggiare un sistema razzismo direttamente o indirettamente incoraggiato dalle istituzioni o dai mezzi di comunicazione. Esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale, se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma anche di chiunque, sia pure individualmente, compia gesti di solidarietà verso profughi e migranti. Possiamo pensare ai messaggi di Grillo agli albori del Movimento 5 stelle in cui definiva “una bomba a tempo” i rom di nazionalità romena e proponeva d’interdire loro la libera circolazione nell’Ue, onde salvaguardare “i sacri confini della Patria”; oppure all’astensione sul moderato disegno di legge per il conferimento della cittadinanza italiana ai minori figli di cittadini stranieri secondo requisiti abbastanza rigidi (decisione che porta all’esclusione dei benefici della cittadinanza di decine di migliaia di bambini e adolescenti: nati e/o cresciuti in Italia, educati e socializzati nel nostro Paese, nondimeno finora destinati a ereditare la condizione dei loro genitori); infine alla già citata campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nell’opera di ricerca e soccorso nel mediterraneo con tanto di locuzione “Taxi del mare”. Occorre però precisare che tutto questo non riguarda tutto il movimento pentastellato ma una sua parte. Nel rapporto 2017-2018 di Amnesty international sulla situazione dei diritti umani in 159 stati del mondo il segretario della Lega Salvini primeggia per la percentuale di frasi xenofobe, basta pensare all’ultima campagna elettorale o comunque al collegamento con ex esponenti della lega e macerata. Tra questi nella storia anche il PD ha avuto un suo ruolo, in un manifesto del 2006 della campagna elettorale di Veltroni viene esibito il messaggio “Le nuove piccole bugie di Alemanno: mentre a Roma sono state spostate in  5 anni 8000 persone dagli insediamenti abusivi e chiusi decine di campi rom; il governo Berlusconi, di cui Alemanno è stato ministro, ha consentito arrivi indiscriminati senza regole e controlli alle frontiere”, con i dovuti aggiustamenti potrebbe essere utilizzato per la campagna elettorale della Meloni.

Il disagio economico e sociale e il senso di abbandonano alimentano il risentimento e la ricerca del capro espiatorio, in questo contesto è ingannevole la formula “guerra tra poveri”. Questa finisce per rappresentare aggressori e aggrediti quali vittime simmetriche; e per fare dei poveri “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista. Probabilmente è ingiusto mettere sullo stesso piano un aggressore che ha una casa, un lavoro e la famiglia vicino a sé con un immigrato che non ha una casa, deve mantenere la famiglia che sta in Africa e magari ha appena perso il lavoro. È altrettanto ingiusto dire che non ci sono altri attori al di fuori di vittima e carnefice visto che a deviare il rancore collettivo sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso il circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento, comunque la legittimazione, per quanto implicita o involontaria, della destra neofascista e neonazista. Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, contiguo a quello che s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado. Tali antitesi abbondano nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n.48 (“disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”): non fa che tradurre e legittimare la percezione comune per la quale migranti, rifugiati, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati “fuori norma”. In realtà questo è il prodotto di dinamiche tutte interne alla nostra società: sono cioè le discriminazioni nel mercato del lavoro e dell’alloggio, le politiche di esclusione e di confinamento, le retoriche del decoro urbano e della sicurezza, nonché il progressivo smantellamento di politiche sociali di inclusione, ad alimentare la povertà di questi segmenti del corpo sociale. Inoltre, a chi viene sgomberato o subisce il sequestro della merce o dell’attrezzatura per lavorare come ambulante quale possibilità diversa gli viene proposta? Nessuna. Ai processi di impoverimento si risponde da anni con polizia, vigili urbani e retoriche securitarie. Nei discorsi pubblici e dell’azione politica ed amministrativa sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia. È rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza, la quale costruisce una strada senza uscita, che, in un circolo vizioso, chiede sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, all’infinito. Con tutta questa retorica ci dimentichiamo che al di là dei dati ci sono le persone. In tutto questo discorso ci sono persone che vivono emarginate nei campi ma che riescono a trovare associazioni che riescono a inserirle nel tessuto sociale. Sono persone con sogni e desideri, che hanno voglia di vivere e conoscere o che semplicemente hanno voglia di viaggiare ma non possono farlo perché, pur avendo vissuto e lavorato tutta la vita in Italia, non hanno un passaporto. Vi sono altre persone che invece hanno attraversato un continente per scappare dall’inferno, per passare attraverso un inferno d’acqua e fondamentalmente trovare un inferno fatto di esclusione e abbandono. Vi sono anche le persone anziane che rimaste sole richiedono veri spazi per la socialità in modo da non essere dimenticate. Vi sono anche quelle persone che hanno perso il lavoro e non riescono a pagare un affitto, vi è anche chi per questo diviene un senza dimora. Infine, va ricordato che vi sono molte altre persone e tra tutte queste vi sono molti giovani. C’è da dire che questi sono solo alcuni dei temi e dei problemi da cui si è partito per parlare della povertà urbana ed elaborare il documento finale.

Danilo Garcia Di Meo “Tor bella monaca”

Tor bella monaca e il lavoro di Associazione 21 luglio

Nei nostri giornali, online o cartacei, spesso vediamo la diffusione di stereotipi o di storie gonfiate solamente per poter vendere i propri giornali. A pagare sono i nostri quartieri o quelli che possiamo chiamare working class district, quartieri (chi più e chi meno) come Garbatella, Tufello, Tor bella monaca, San Lorenzo, Tor sapienza, Centocelle, Casal Bertone, Portonaccio, Pigneto, Spinaceto e Primavalle. Spesso vediamo delle narrazioni che creano una paranoia isterica e una realtà falsata. Come se, una volta parcheggiato a Tor bella monaca, la mia macchina dovesse esplodere come in un film di Michael Bay: un’esplosione esagerata e senza senso. Oppure come se fosse vera la frase “giro col coltello quando giro per il Tufello”, come se superando una linea immaginaria ci sia li pronto qualcuno esclusivamente per noi. Oppure come quando abbiamo letto sui giornali di una Ostia in rivolta o messa a ferro e fuoco, ma poi basta sentire chi ci abita per sapere che non c’è nulla di quello che è stato scritto. Sono tutte narrazioni che creano una specie di stigma sulle persone che quotidianamente vivono il quartiere. Certo ogni quartiere ne viene colpito in maniera differente e sicuramente non vuol dire che ogni quartiere è privo di problemi. Occorre ricordare come però narrazioni del genere vanno a colpire in maniera più forte quei quartieri e quelle persone più in difficoltà. Per esempio, molti ragazzi, se vogliono trovare lavoro devono mentire sulla propria provenienza se vogliono trovare un lavoro fuori dal proprio quartiere. Inoltre, alcuni quartieri spesso vengono visitati solo per gettare la spazzatura, una dinamica innescata da un’informazione che ha narrato di luoghi franchi, privi di ogni regola. Occorre altrettanto ricordare che esistono esperienze che riqualificano il quartiere e riconnettono il tessuto sociale, che esistono intere comunità che aiuta la gente che soffre per strada e chi ha sogni senza troppe illusioni. Esistono racconti virtuosi che dovrebbero essere presi come spunti di riflessione e che dovrebbero essere il centro di “contro-narrazioni” che partono innanzitutto dal basso. Questo perché spesso siamo noi stessi ad attizzare il focolare della narrazione. Per esempio, Tor bella monaca sembra un luogo a sé stante in cui emerge una strategia della sopravvivenza in risposta alla latitanza istituzionale, che si percepisce alla vista e si ascolta nei racconti dei suoi abitanti: “Le persone possono vivere senza Stato, e Tor bella monaca ne è la dimostrazione”.

Nel contesto di Tor bella monaca opera ogni giorno Associazione 21 luglio, un’organizzazione non profit impegnata nel supportare gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo il benessere di bambine e bambini. Il lavoro vede un approccio basato sui diritti fondamentali di ogni essere umano riconosciuti dalla comunità internazionale per opporsi a tutte quelle politiche e azioni discriminatorie che promuovono nelle periferie il rifiuto verso la diversità, la povertà urbana e la segregazione abitativa. L’associazione svolge azione di advocacy per promuovere il cambiamento delle misure politiche che producono segregazione e discriminazione, presenta rapporti e ricerche ai decisori politici, stila raccomandazioni, diffonde lettere e appelli pubblici, redige rapporti per la Commissione Europea e per le nazioni unite, crea reti locali e radicate sul territorio, intraprende azioni legali pilota di fronte alla violazione dei diritti umani e dell’infanzia e monitora casi di incitamento all’odio e alla discriminazione ed episodi violenti a sfondo razziale ricorrendo anche all’autorità giudiziaria nei casi più gravi. Le attività dell’associazione passano anche per la sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani e di promozione di modelli ed esperienze positive in grado di decostruire pregiudizi e stereotipi diffusi su quanti vivono in uno stato di marginalità. Al centro di tutto vi è il benessere dei minori, l’associazione implementa progetti di sostegno all’infanzia operando una scelta privilegiata sui bambini e promuovendo interventi che partono dall’infanzia per estendersi alle famiglie e a tutta la comunità educante. L’associazione segue il metodo della “pedagogia della cittadinanza” in cui gli educatori di Associazione 21 luglio realizzano e animano spazi ludici e laboratori artistici che mirano alla crescita personale e sociale delle bambine e dei bambini. L’associazione ha molti progetti, tra cui: Amarò foro, Bambini al centro, Toy – togheter old and young, Tor bella infanzia, Casa Sar san, Corso di formazione per attivisti Rom e Sinti, Lab Rom e Danzare la vita.

Il mondo della politica e il futuro

Il comitato scientifico ha lavorato giorno e notte per stilare il documento strategico tenendo conto delle relazioni, dei dibatti e delle discussioni dei gruppi di lavoro intercorsi nei giorni della convention. Ogni gruppo (abitare, educazione, media, povertà estreme) ha lavorato e approfondito la propria tematica da inserire nel documento e proporre azioni concrete. Nel corso della convention si sono alternati diversi esponenti della politica.

Matteo Orfini, deputato e presidente del Partito Democratico, ha dichiarato che stiamo assistendo alla proletarizzazione di fasce della città. Secondo Orfini possiamo vedere l’esistenza di due città: una dentro il raccordo e una fuori al raccordo. Il presidente del PD ha voluto sottolineare come questo sia l’effetto delle scelte di chi ha gestito la città e di come si è voluto sviluppare la città nel corso delle varie amministrazioni. Orfini ha messo in evidenza come, nel nostro paese, sia sparito il tema della città da almeno 20 anni. “Occorre pensare la città non solo come Urbs ma anche come Civitas; noi come politica ci siamo occupati solo della prima ma ora occorre pensare la città come un fattore inclusivo e non di esclusione” sono state le parole di Orfini. Ha poi aggiunto che occorre dare luoghi e strumenti che facciano da primo argine alla disgregazione cittadina, che occorre aiutare la cintura periferica dato che spesso sono i luoghi da cui provengono le maggiori innovazioni.

Marta Bonafoni, consigliere regionale eletta con Lista civica per Zingaretti, ha portato i saluti del presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti dicendo che la convention è l’occasione per “entrare nelle questioni del 4 marzo e del pre 4 marzo per un dopo 4 marzo”. La Bonafoni sottolinea come sia l’occasione per entrare in una crisi poco indagata: “la crisi della città”. Roma non è più la città dell’accoglienza e serve pensare una nuova accoglienza, inoltre ci si ammala di più e si muore di più nelle periferie. Infine, la Bonafoni, allerta che occorre riflettere anche sulla scuola poiché, sempre di più, la scuola non è più un “ascensore sociale”.

Paolo Ciani, consigliere regionale eletto con Centro solidale per Zingaretti, è intervenuto dicendo che è una scelta mettere i confini al centro. Il consigliere ha notato che la pacificazione degli ultimi decenni ha portato al superamento di molti dei confini geografici ma oggi un altro tipo di confine è tornato al centro del dibattito. Spesso si parla di periferia ma non la si conosce e ciò non aiuta a ragionare sulla giustizia urbana, questa è la sfida dei nostri tempi. Ad oggi la popolazione urbana nel mondo ha superato la popolazione rurale e possiamo vedere come si stia sviluppando il fenomeno delle megalopoli. Il tema della vita al confine e nei confini è la sfida del nostro tempo, è la sfida del “vivere insieme tra diversi” in un’epoca che parla di separazione e di frontiera. Deleterio a questo proposito è stata la propaganda del “noi” e del “voi” di cui spesso ha fatto uso la lega (ex nord) che prima diceva “noi il nord” e “voi il sud” (con tanto di “Roma ladrona”) che poi si è trasformato in “noi italiani” e “voi immigrati”; una retorica che ha deteriorato le periferie.

La convention si è conclusa con la presentazione del documento strategico per il contrasto alla povertà urbana in Italia a Lorenzo Fioramonti, deputato del Movimento 5 stelle e possibile ministro del prossimo governo. Fioramonti, cresciuto a Tor bella monaca e di ritorno dopo anni all’estero, dice di essere fautore di un approccio alla povertà che si renda conto dei diversi tipi di povertà. Il deputato sottolinea l’importanza delle forme associative in un contesto che è peggiorato rispetto ad anni fa. La situazione è critica e servono misure strutturali ma le strutture hanno bisogno di tempo per cambiare e il tempo della politica è breve. Soprattutto perché occorre tenere conto della pressione pubblica. Per Fioramonti quindi occorre fare politiche strutturali ma con elementi che rispondano nel breve per poter migliorare un pezzo per volta e istituire fiducia in un progetto che ha bisogno di tempo. Il deputato ha sottolineato che troppo spesso si ha un problema centro-periferia, di quartieri in cui c’è tutto e quartieri che sono solo residenziali. Occorre fare delle periferie un centro, ogni periferia deve essere il centro di una nuova economia. Evidenzia che di certo la povertà non è una colpa ma è una realtà. Per questo Fioramonti dichiara che attende la pubblicazione documento e che spera di utilizzarlo al governo in quanto il documento strategico è in linea con le proprie intenzioni.

Da questa convention parte una campagna da parte dell’Associazione 21 luglio che entrerà nel vivo con la pubblicazione del documento. In un clima in cui molte associazioni hanno espresso molte perplessità e incertezze rispetto ai risultati del 4 marzo, basti pensare comunque ai toni dell’ultima campagna elettorale, Associazione 21 luglio si è aperta al dialogo e alla propositività. Al di là delle varie dichiarazioni politiche è importante notare e incoraggiare ulteriormente eventi come questo che hanno visto il mondo dell’università, il mondo delle istituzioni (in tutti suoi modi e livelli), il mondo delle associazioni di volontariato attive sul territorio ma soprattutto persone e cittadini incontrarsi, discutere e collaborare per un’azione concreta volta a riportare la giustizia sociale. È la rinascita di un fare politica che supera odio e stereotipi e di un voler essere comunità. Questa è la rinascita di una comunità che vuole vedere l’altro uomo in quanto uomo, di vedere l’altro non come un cuore marziano ma come appartenente allo stesso universo.

 

I dannati della terra: il report sullo scandalo Italiano che coinvolge lavoratori e migranti

CRONACA/EUROPA di

Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato dal 2014 il progetto Terragiusta, una campagna contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura, realizzato con il sostegno di Fondazione con il Sud, Fondazione Charlemagne, Open Society Foundations e OIS (Osservatorio Internazionale per la Salute Onlus). L’associazione recentemente ha presentato il rapporto intitolato “I Dannati della terra, rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella piana di Gioia Tauro”. Dalla Calabria proviene un quarto della produzione nazionale di agrumi e tutta la provincia di Reggio Calabria è un territorio a vocazione agricola: l’agricoltura è il settore principale dell’economia locale e consiste in 25.000 ettari di frutteto della piana. A partire dagli anni ’90 sono arrivate le comunità di braccianti stranieri: per primi sono arrivati migranti magrebini, poi migranti dall’Europa dell’est e per ultimi i migranti dell’africa sub-sahariana. Il contesto vede un atteggiamento di razzismo e di indifferenza verso i lavoratori africani che lavorano in nero e sono vittime di un’illegalità diffusa. I caratteri dominanti sono: condizioni lavorative di sfruttamento o pratiche illecite e situazioni abitative di degrado e marginalizzazione. MEDU per cinque anni consecutivi ha operato nella Piana di Gioia Tauro prestando assistenza sociosanitaria ai lavoratori migranti, almeno 3500 persone distribuite tra i vari insediamenti informali sparsi nella piana, che forniscono manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi. In questo contesto si vedono gli effetti negativi dell’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti della questione meridionale.

La situazione attuale e l’intervento MEDU

In 5 anni di intervento MEDU ha offerto la prima assistenza medica, orientamento sociosanitario e sui diritti del lavoro e compiuto il monitoraggio delle condizioni sociosanitarie dei pazienti (come la rivelazione dei dati epidemiologici, relazione tra le condizioni lavorative e di salute, status giuridico, condizioni abitative e accesso alle cure). Con il supporto di CGIL Gioia Tauro ha offerto orientamento legale, mediazione legale e potenziamento sui diritti del lavoro. La popolazione è prevalentemente giovane e di sesso maschile, l’età media è di 29 anni. Le precarie condizioni di vita pregiudicano la salute fisica e mentale dei lavoratori stagionali; inoltre, molti non sanno a cosa serva la tessera sanitaria né dell’esistenza di un medico di base di riferimento. Sono state riscontrate patologie prevalentemente riconducibili alle gravi condizioni di vita e di lavoro quali malattie all’apparato digerente, all’apparato respiratorio e malattie osteomuscolari e al tessuto connettivo. Tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati vivono queste persone. La gran parte dei braccianti continua a concentrarsi nella zona industriale di San Ferdinando, a pochi passi da Rosarno, in particolare nella vecchia tendopoli (che accoglie almeno il 60% dei lavoratori migranti stagionali della zona), in un capannone adiacente e nella vecchia fabbrica a poche centinaia di metri di distanza. La situazione vede preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, mancanza di acqua potabile e frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche ed i pochi averi e documenti degli abitanti. Tutto ciò rende la vita in questi luoghi precaria e a rischio. Secondo l’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’UomoOgni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”; è evidente che questo diritto non viene garantito. Manca una pianificazione sia per l’accoglienza dei lavoratori stagionali che per quelli che passano qui gran parte dell’anno, manca un progetto complessivo di mediazione abitativa e inclusione sociale. Nell’agosto 2017 è stata aperta l’ennesima tendopoli “ufficiale” in grado di ospitare circa 500 persone. La struttura, circondata da un alto reticolato e da telecamere di videosorveglianza, è gestita da associazioni della protezione civile che sorvegliano ingressi ed uscite attraverso un sistema di badge e riconoscimento delle impronte digitali e provvedono alla manutenzione del posto. Ci sono 7 container adibiti a servizi igienici, acqua calda ed elettricità. L’acqua erogata non è adatta al consumo umano e non è attivo alcun servizio di distribuzione di acqua potabile. Non è previsto alcun tipo di assistenza socio-legale né medica e psicologica, e gli operatori si affidano a due ospiti per il servizio di pulizia e mediazione. La tendopoli rappresenta una soluzione emergenziale, non risolutiva e costosa. La prima tendopoli realizzata nel 2012 si è trasformata rapidamente in una baraccopoli e venne sgomberata nel 2013 in seguito ad una relazione dall’Azienda sanitaria locale sulle preoccupanti condizioni igienico-sanitarie rilevate. Al suo posto venne allestito un nuovo capo di accoglienza sul sito dell’attuale baraccopoli. Le tende blu ormai lacere ed i container adibiti a bagni, che versano da anni in condizioni deprecabili, ben chiariscono la sua denominazione di “vecchia tendopoli”. Priva di luce e acqua corrente (l’acqua – non potabile – si prende dai bagni o da una fontana vicina), ospita baracche (casette improvvisate di cartone, plastica e lamiera) e vecchie tende con letti e materassi che accolgono almeno 2000 persone nel pieno della stagione agrumicola. Le bombole a gas permettono alle persone di cucinare e di riscaldare l’acqua per la doccia, mentre alcuni generatori a benzina riescono ad illuminare o diffondere un po’ di musica. Nell’insediamento è sorta un’economia informale fatta di attività e commerci per rispondere ai bisogni delle migliaia di abitanti delle due tendopoli. I rifiuti, per i quali non è previsto alcun servizio di raccolta, si accumulano nel perimetro dell’insediamento o in buche create a questo scopo. Bruciarli è l’unico metodo di smaltimento adottato, rendendo l’aria irrespirabile e contribuendo a peggiorare le già critiche condizioni igienico-sanitarie. Quella descritta è una situazione di Isolamento e marginalizzazione fisica e sociale dei lavoratori migranti che peggiorerà con la crescita della popolazione della baraccopoli. È da segnalare l’aumento del numero di donne presumibilmente vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale che necessitano di assistenza.

Foto di Rocco Rorandelli per “Medici per i diritti umani”

I braccianti vengono retribuiti a giornata, a cottimo o a ore. Oltre un terzo dei lavoratori deve rivolgersi al “caporale” sia per la ricerca di lavoro che per il trasporto (a cui versa 3 euro al giorno) per raggiungere il posto di lavoro, inoltre a questo viene versata una quota fissa o una percentuale sulla raccolta. Il bracciante ha un impiego per 3-4 giorni alla settimana per 8-9 ore di lavoro al giorno. La retribuzione media percepita e di 25 euro a giornata ma la quasi totalità dei pazienti non conosce la busta paga e non sa se verranno versati i contributi. Inoltre, il pagamento spesso avviene in ritardo. L’articolo 23 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo recita1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”; anche qui sorgono delle criticità. Lo sfruttamento lavorativo continua ad essere un fenomeno (economico, sociale ed umano) ampiamente diffuso che si caratterizza per le patologiche relazioni di lavoro e che viene agevolato dalla condizione di disagio e vulnerabilità del lavoratore migrante. La condizione è di grave sfruttamento e sistematica violazione dei diritti dei lavoratori in un ambiente in cui vi è la difficoltà di denuncia da parte dei lavoratori per il timore di rimanere senza lavoro. Il problema consiste maggiormente nella debole capacità di controllo e monitoraggio da parte delle istituzioni sulle aziende, dall’assenza di incentivi per le imprese agricole e dalla presenza un settore agrumicolo fragile e frammentato e da una filiera iniqua dominata dalla grande distribuzione. Per fare fronte a ciò la Regione Calabria è stata una delle prime ad adottare nel dicembre del 2016 la “Convenzione di cooperazione per il contrasto al caporalato e al lavoro sommerso e irregolare in agricoltura”, sottoscritta nell’ambito del Protocollo interministeriale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura siglato a livello nazionale il 27 maggio dello stesso anno. L’accordo si poneva l’obiettivo di realizzare una “rete” che rendesse più efficaci gli interventi di contrasto al caporalato e al lavoro nero attribuendo compiti e responsabilità precise agli Enti sottoscrittori tra cui attività di informazione e orientamento al lavoro nel settore agricolo, tavoli di lavoro con dei rappresentanti dell’INAIL e dell’INPS con la collaborazione di mediatori culturali e l’impegno della regione Calabria a promuovere politiche abitative a favore dei lavoratori agricoli stagionali. La Convenzione assegnava poi alle Organizzazioni datoriali il compito di svolgere attività di sensibilizzazione dei propri iscritti per l’assunzione di lavoratori agricoli stagionali dalle liste di prenotazione istituite presso i Centri per l’impiego, di realizzare sistemi di trasporto per le lavoratrici e i lavoratori del settore agricolo che coprano l’itinerario casa/luogo di lavoro e di segnalare agli Organismi preposti ogni situazione di irregolarità di cui venissero a conoscenza. La denuncia di MEDU è che poco o nulla di tutto questo pare aver trovato attuazione al momento se non per l’attività di informazione ai lavoratori da parte delle organizzazioni sindacali in materia contrattuale, previdenziale e assistenziale, di sicurezza sul lavoro, su problematiche di carattere lavorativo o legate allo status di lavoratore extracomunitario. La situazione di irregolarità diffusa nel lavoro agricolo risulta un problema per i migranti, in quanto si fonda sulla sistematica violazione di diritti, che per il sistema paese. Questa irregolarità determina un enorme costo in termini di evasione fiscale e altera significativamente la concorrenza pregiudicando i diritti delle imprese che rispettano le regole. Per il prossimo futuro si vede un ulteriore aumento del numero di persone in condizione di irregolarità e costrette a vivere negli insediamenti informali sparsi sul territorio nazionale, ciò comporterà un aggravamento progressivo ed una cronicizzazione delle condizioni di marginalità sociale. Nel rapporto si dice che “Il precario status giuridico della maggior parte dei lavoratori migranti, insieme ad una scarsa conoscenza dei propri diritti, aumenta la vulnerabilità e l’accettazione pressoché incondizionata di condizioni di lavoro inique e fondate sulla necessità ed il bisogno”. Lo status giuridico diventa sinonimo di precarietà per la difficoltà di accesso per la difficoltà di accesso alla procedura per la domanda d’asilo e per i lunghi tempi di attesa per il suo completamento, per la lentezza nel disbrigo delle pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, per scarsità di risorse e personale degli uffici territoriali preposti al rilascio e al rinnovo dei titoli di soggiorno e per la precarietà giuridica dovuta al carattere temporaneo di molti permessi di soggiorno.

Foto di Rocco Rorandelli per “Medici per i diritti umani”

Non sono mancate, nel corso degli ultimi anni, le dichiarazioni da parte delle istituzioni per un maggiore impegno in direzione di un miglioramento delle condizioni complessive di vita e lavoro dei braccianti stagionali. Le dichiarazioni erano volte ad assicurare l’individuazione e la realizzazione di politiche attive di accoglienza ed integrazione nel tessuto sociale locale oltre che a prevedere lo sviluppo di iniziative progettuali di integrazione sociale e di inserimento lavorativo degli stranieri specie in agricoltura. La stessa convenzione firmata nel 2016 era volta a favorire il libero mercato del lavoro nel settore agricolo e a prevenire forme illegali di intermediazione di manodopera e il lavoro irregolare, inoltre prevedeva anche di promuovere “politiche abitative in favore dei lavoratori agricoli stagionali” e l’istituzione di attività in favore dei lavoratori stagionali. Nella stessa direzione andavano la nomina governativa del commissario straordinario per l’area di San Ferdinando, dell’agosto dello scorso anno, con il compito di adottare un piano di interventi per il risanamento e l’integrazione dei cittadini stranieri nell’area. MEDU però sottolinea che è stato un impegno sulla carta e a parole. Ad oggi tutte le dichiarazioni non si sono tradotte in azioni concrete in grado di porre limiti al degrado e allo sfruttamento in nome di un processo di inclusione reale e tangibile capace di generare ricadute positive a beneficio del territorio.

Il fenomeno migratorio

Il fenomeno migratorio, è un fenomeno globale. In tutto il mondo la popolazione in movimento è pari a 65.6 milioni (quanto la popolazione dell’intera Francia) e ci si muove per vari motivi: guerra, povertà, cambiamenti climatici, studio o lavoro. Per esempio, tra i migranti provenienti dal Corno d’Africa, e in particolare dall’Eritrea, il motivo principale della fuga è il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato, un sistema paragonabile ai lavori forzati. In generale i migranti dell’Africa subsahariana si muovono per la persecuzione politica o per motivazioni economiche. Prima di arrivare al Mediterraneo i migranti devono affrontare un lungo viaggio e in molti casi non è detto che arrivino al mare. Per esempio, molti migranti devono attraversare un tratto di rotta nel deserto chiamato “la strada verso l’inferno”, altri devono invece attraversare il deserto verso la Libia con i pick-up. Un primo pick-up lascia i migranti al confine con la Libia, per poi tornare indietro, vengono quindi fatti salire su un altro pick-up gestito dai trafficanti libici. Il costo del viaggio verso la Libia può variare da mille a 1.500 dollari e a seconda della rotta varia la durata. Per la cosiddetta rotta occidentale-est la durata media del viaggio dal paese di origine è di venti mesi, mentre il tempo medio di permanenza in Libia è di 14 mesi. Mentre per la cosiddetta rotta orientale-centro la durata media del viaggio dal paese di origine è di 15 mesi, mentre il tempo medio di permanenza in Libia per i migranti del Corno d’Africa è di tre mesi. Le tratte sono gestite da intermediari e trafficanti, questo aumenta ulteriormente i problemi e i rischi per i migranti. La durata del viaggio spesso è dovuta alla permanenza nei campi profughi trovati per strada, o per la persecuzione da parte dei governi o per lavorare per poter ripagare i trafficanti. Spesso i migranti si indebitano. In questo senso è allarmante l’aumento di vittime adolescenti che non hanno coscienza di essere vittime di tratta e delle violenze che sono destinate a subire. Molte vittime non sanno in cosa consista la “prostituzione” che dovranno svolgere per saldare il debito contratto con i trafficanti. Ulteriore problema consiste nel fatto che Il controllo delle vittime di tratta da parte dei trafficanti durante la loro permanenza nei paesi di transito è reso difficoltoso dalla situazione di instabilità in cui questi Stati versano. I traumi estremi come la tortura e le violenze sono un’esperienza comune durante il viaggio. La privazione di cibo e acqua, le pessime condizioni igieniche sanitarie, le frequenti percosse e altri tipi di traumi sono le forme più comuni e generalizzate di maltrattamenti. Ci sono altre forme di tortura più specifiche sia fisiche sia psicologiche a cui sono sottoposti i migranti. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato. Spesso vengono riscontrati in molti migranti disturbi da stress post traumatico (ptsd) e altri disturbi legati a eventi traumatici, ma anche disturbi depressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno. 21.00 vittime sono quelle sulle rotte migratorie dal 2014 ad oggi per raggiungere la Grecia, l’Italia o la spagna. Questo numero è destinato ad aumentare poiché se ne stanno andando via le ONG, la cui vita è resa difficile dal governo libico. Basta pensare che quest’anno è aumentato il tasso dei morti rispetto ai migranti arrivati vivi. Prendendo i dati del solo 2018 Il mediterraneo centrale è la rotta migratoria più mortale e pericolosa del mondo. Questo rappresenta solo una breve sintesi dell’inizio dell’avventura dei migranti che riescono ad arrivare al nostro paese e possono finire in contesti come quelli della piana di Gioia Tauro. Un ulteriore elemento su cui riflettere è che spesso si parla di migrazioni solo durante le campagne elettorali e che ci sono politici che parlano di “invasione”. Di invasione non si tratta (anche perché tra i paesi che ospitano il maggior numero di immigrati abbiamo Turchia, Pakistan e Libano) e dobbiamo ricordarci che parliamo sempre di persone: dietro le statistiche ci sono persone, storie e bambini. Inoltre, spesso ci troviamo davanti a fenomeni che persistono nel tempo

Tra passato e presente

Otto anni fa, tra il 7 e il 9 gennaio 2010, vi furono violenti scontri a sfondo razziale iniziati dopo il ferimento di due immigrati da parte di sconosciuti con una carabina ad aria compressa. In seguito, vi fu una rivolta urbana (la cosiddetta “Rivolta di Rosarno”) che vide contrapporsi forze dell’ordine, cittadini e immigrati. Nel pomeriggio del 7 gennaio alcuni sconosciuti spararono diversi colpi con un’arma ad aria compressa su tre immigrati di ritorno dai campi. La sera stessa del ferimento, un primo consistente gruppo protestò violentemente per l’accaduto scontrandosi con le autorità dell’ordine. Il giorno seguente la reazione si fece più feroce e più di 2000 immigrati marciarono su Rosarno e ci furono diversi scontri con la polizia. Dopo che le tensioni salirono a causa di attacchi a negozi e automobili, la protesta degli immigrati scatenò una risposta altrettanto accesa da parte dei rosarnesi, i quali armati di mazze e bastoni formarono ronde autonome ferendo gravemente diversi africani. Due giorni dopo gli scontri, il numero dei feriti era di 53 persone, divisi tra: 18 poliziotti, 14 rosarnesi e 21 immigrati, otto dei quali ricoverati in ospedale. I giorni successivi videro diversi agguati tra i due schieramenti e il culmine si raggiunse con l’appiccamento di un fuoco in un capannone di ritrovo per i migranti. Alla fine, le forze dell’ordine riuscirono a riportare la calma tra ambedue le parti. Molti migranti furono trasferiti nei centri di accoglienza, mentre altri se ne andarono via. Sarebbe più preciso dire che sono fuggiti dato che hanno lasciato vestiti, scarpe e valigie nelle loro baracche. Il “New York Times” riportò che venne arrestato il figlio di un boss affiliato alla ‘ndrangheta accusato di aver ferito un poliziotto. Successivamente la magistratura aprì un’indagine sul ruolo della ‘‘ndrangheta e ci si chiese perché dopo anni di convivenza ci si volle liberare di questi migranti senza diritti. Sostanzialmente si iniziò a indagare circa la possibilità che alcune cosche mafiose calabresi potessero aver avuto interessi a far scoppiare gli scontri oppure che li avessero sostenuti per ottenere consenso popolare. Tra i fatti sospetti rientrava l’utilizzo del fucile ad aria compressa, segno che l’intenzione non era uccidere ma ferire, in un contesto dove le armi non mancavano. All’epoca si fece notare lo sfruttamento di questi lavoratori in una delle zone più povere d’Italia, dove gli abitanti guadagnavano poco di più ma non avrebbero mai raccolto la frutta. Si sottolineo il fatto dell’esistenza di una economia debole in cui la popolazione locale si faceva concorrenza con gli immigrati. Molte delle problematiche derivavano dal fatto che diminuirono le generose sovvenzioni dell’Unione Europea: nel 2007 vi fu un cambio di regole, le sovvenzioni furono legate agli ettari coltivati e non alle tonnellate prodotte (spesso venivano dichiarati grandi raccolti su pochi ettari). Per alcune autorità sarebbe stato più redditizio abbandonare i raccolti e incassare le sovvenzioni, invece di pagare i braccianti. Braccianti sfruttati che vivevano in edifici abbandonati o in tende senza acqua, luce e bagni.

Il giornale francese “Le Monde” commentò la situazione in vari modi. Il giornale notò come Berlusconi non ritenne necessario esprimere la propria opinione sugli scontri e sulle violenze subite dagli immigrati, come Maroni cercò di declassare il fatto come “solo una questione di ordine pubblico” (dichiarò anche che la rivolta fosse il risultato di una politica di forte tolleranza verso l’immigrazione clandestina) e come la Lega nord, moltiplicasse le provocazioni verso i nuovi arrivati in Italia senza che nessuno, o quasi, dicesse nulla. Le Monde mise in rilievo la “parte razzista” del nostro paese in cui la stampa di destra chiama i neri “negri” o “Bingo-Bongo”. Dava l’immagine di un razzismo tranquillo, accettato e privo di una condanna da parte del potere. Era l’immagine di un’Italia incapace di fare una riflessione su una società multietnica e multiculturale, incapace di riflettere sui problemi che l’Italia condivideva (e condivide ancora) con gli altri paesi europei. Inoltre, sottolineava il fatto che il nostro paese è passato dall’essere un paese di emigrazione a un paese di immigrazione il cui unico obiettivo era quello di scoraggiare il viaggio verso l’Italia. A questo proposito sottolineò la firma dell’accordo con la Libia nel 2008, un accordo volto a rimandare indietro i migranti prima che arrivassero alle coste italiane prima di far valere il diritto di asilo.

Esiste però anche la “parte non razzista” che subito dopo gli scontri si organizzò in un corteo e scrisse sullo striscione “Abbandonati dallo Stato, criminalizzati dai mass media, 20 anni di convivenza non sono razzismo”. Gli abitanti vollero respingere le accuse di razzismo rivolte da più parti agli abitanti del paese per la cacciata degli immigrati. I titolari dei negozi chiusero i propri esercizi per esprimere la propria solidarietà. Tra coloro che hanno partecipato al corteo ci sono stati anche numerosi immigrati e hanno sfilato insieme una donna di Rosarno ferita nel corso degli scontri e una donna immigrata. L’allora parroco di Rosarno, Don Carmelo Ascone, disse “la gente del paese non è razzista, è una guerra tra poveri, perché qui non c’è lo stato, qui comanda la ‘ndrangheta”.

Foto di Marco di Lauro

Sono passati Otto anni da quei fatti ma i grandi ghetti di lavoratori migranti rappresentano ancora uno scandalo italiano di fatto rimosso dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, che sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro. È un problema che deve essere pensato prima di tutto come un problema nel mondo del lavoro e come spunto di riflessione per poter parlare di integrazione. Molti dei braccianti hanno una scarsa conoscenza della lingua italiana e questo testimonia la grave carenza del sistema di accoglienza di cui queste persone hanno usufruito. Il 90% dei lavoratori incontrati durante le interviste è regolarmente soggiornante, la maggior parte per motivi umanitari, per richiesta di asilo o per protezione internazionale. Meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto. Infine, la maggior parte lavorano con un mancato rispetto dei diritti e delle tutele fondamentali dei lavoratori agricoli. Il tema delle nuove schiavitù è un tema di attualità in tutto il mondo (qui l’articolo che parla del Rana Plaza), non coinvolge solo l’Italia o il mondo agricolo. È un fenomeno che merita attenzione, dibattito e politiche internazionali. Per quanto riguarda nel modo più specifico il nostro paese, occorre, poi, fare una riflessione sugli errori e sulle politiche inefficaci riproposte ciclicamente per poter lavorare su nuove proposte realmente efficaci e inclusive.

RANA PLAZA, 5 ANNI DOPO: la catastrofe che ci invita a riflettere sul fatto che viviamo in una società globale

Asia di

Era la mattina del 24 aprile del 2013 quando a Dhaka, la capitale del Bangladesh, un edificio commerciale di 8 piani crollò alle 8:45 lasciando solo il piano terra intatto. Chi era presente lo descrisse come un terremoto ma la notizia più tragica fu la conferma che 3.650 operai erano presenti al momento del crollo. Il bilancio finale fu di 1.135 morti e 2.515 feriti. Il Rana Plaza, il nome dell’edificio commerciale, conteneva fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Fu uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna ed è diventato il simbolo dello sfruttamento della manodopera asiatica da parte degli appaltatori delle multinazionali dell’abbigliamento che fanno finta di non sapere cosa succede all’altra estremità della catena. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. I dipendenti delle fabbriche di abbigliamento lavoravano in condizioni indegne e senza misure di sicurezza, fu ordinato loro di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina. Tra i dipendenti più della metà erano donne accompagnate dai figli che erano stati lasciati negli asili nido aziendali all’interno dell’edificio. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per marchi quali: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee. Le scene seguenti vedono i parenti delle vittime in fila per il riconoscimento all’obitorio, li con una sensazione di malessere che aumentava e i passi che diventavano sempre più pesanti, li sospesi in un limbo ad aspettare di conoscere la sorte di familiari o amici. Si vedono, inoltre, anche operai sopravvissuti partecipare alle operazioni di soccorso e fotografi che fanno di tutto per documentare il disastro e diffondere in tutto il mondo la sofferenza di migliaia di lavoratori. È grazie a questi che possiamo vedere gli ultimi momenti strazianti di due persone che non si sono volute separare fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo abbraccio.

April 25, 2013 – “A Final embrace” di Taslima Akther

Questo è solo uno dei numerosi incidenti accaduti in Bangladesh negli ultimi 10 anni e la stessa Dhaka ha visto un terribile incendio nel 2012 che uccise almeno 112 lavoratori. I responsabili si sono rifiutati di lasciare che i lavoratori fuggissero anche dopo che gli allarmi antincendio si sono attivati e nessuna delle fabbriche coinvolte avevano un sindacato per rappresentare i lavoratori e per aiutarli a combattere contro le richieste mortali dei gestori. Ali Ahmed Khan, capo del servizio antincendio e della protezione civile, disse che i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’architetto dell’edificio, Massoud Reza, affermò che l’edificio era stato progettato per ospitare solo negozi e uffici, non fabbriche. L’edificio non era progettato con una struttura abbastanza forte da sopportare il peso e le vibrazioni dei macchinari pesanti. Le operazioni di salvataggio e recupero proseguirono nei 17 giorni successivi al crollo, il 10 maggio fu salvata, quasi illesa, dalle macerie una donna di nome Reshma.

Sohel Rana, proprietario del palazzo, venne arrestato qualche giorno dopo il crollo, mentre cercava di fuggire in India. È una delle 42 persone che le autorità del Bangladesh hanno incriminato per omicidio, con l’accusa di avere ignorato gli avvertimenti sulla fragilità e l’insicurezza dell’edificio e le raccomandazioni, ricevute il giorno prima del crollo, di non consentire l’ingresso ai lavoratori. Rana è accusato insieme ad altre diciassette persone anche di avere violato il regolamento edilizio, per avere trasformato illegalmente il palazzo in un complesso industriale di nove piani. Due giorni dopo il crollo dell’edificio, i lavoratori tessili delle zone industriali di Dhaka, Chittagong e Gazipur hanno dato luogo ad insurrezioni, prendendo di mira veicoli, edifici commerciali e fabbriche di abbigliamento. Successivamente i partiti politici di sinistra e il Partito Nazionalista del Bangladesh hanno chiesto l’arresto e il processo dei sospettati e l’istituzione di una commissione indipendente per identificare le fabbriche pericolose. Il 1º maggio i lavoratori protestarono e sfilarono a migliaia attraverso il centro di Dhaka per chiedere condizioni di lavoro più sicure e la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza. I funzionari governativi locali riferirono di essere in trattative con l’Associazione dei produttori ed esportatori del Bangladesh per pagare gli stipendi in sospeso, più altri tre mesi. Dopo che i funzionari hanno promesso ai lavoratori sopravvissuti che sarebbero presto pagati, questi hanno concluso la loro protesta. L’associazione ha quindi compilato un elenco dei dipendenti sopravvissuti. Il giorno dopo, 18 industrie di abbigliamento, di cui 16 a Dacca e 2 a Chittagong, sono state chiuse. Il Ministro per l’industria tessile, Abdul Latif Siddique, ha detto ai giornalisti che sarebbero state chiuse ancora più fabbriche nell’ambito di rigorose nuove misure per garantire la sicurezza. A giugno dello stesso anno però la polizia ha aperto il fuoco su centinaia di ex lavoratori e di parenti delle vittime del crollo, che protestavano per chiedere gli arretrati e i risarcimenti promessi dal governo e dall’associazione dei produttori. La stessa scena si è avuta a settembre quanto almeno 50 persone sono rimaste ferite quando la polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro una folla di manifestanti che bloccavano le strade di Dhaka.

Il caso Rana Plaza ha suscitato numerose proteste in giro per il mondo che hanno coinvolto anche le aziende non coinvolte direttamente nell’incidente ma che utilizzano fabbriche in Bangladesh. L’International Labour Organization (ILO) nei giorni successivi al disastrò avverti di non boicottare i prodotti Made in Bangladesh poiché avrebbe causato un numero elevato di disoccupati ma occorreva porsi l’obiettivo da porsi di migliorare e cambiare le condizioni di lavoro. Lo scopo, ancora oggi, è di cambiare il modo in cui i paesi cercano di attrarre investimenti stranieri. È il modello di business che deve essere cambiato poiché i costi bassi non devono essere perseguiti a scapito della vita delle persone e della loro sicurezza. Nel 2015 Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto Whoever Raises their Head Suffers the Most” che si basa su interviste con più di 160 lavoratori di 44 fabbriche, la maggior parte delle quali sono imprese commerciali al dettaglio in Nord America, Europa e Australia. Nelle interviste sono state segnalate violazioni come aggressioni fisiche, abusi verbali (anche di natura sessuale), lavoro straordinario forzato, negazione del congedo di maternità retribuito e il vizio di non pagare gli stipendi e i bonus in tempo o in pieno. Nonostante le riforme del diritto del lavoro, i lavoratori che cercano di formare i sindacati devono affrontare minacce, intimidazioni, il licenziamento e aggressioni fisiche per mano dei datori di lavoro o per opera di picchiatori assunti. Ad esempio, in una fabbrica di Dhaka, alcune leader sindacali femminili hanno dovuto affrontare minacce, abusi, ed hanno dovuto subire un aumento drammatico dei carichi di lavoro, dopo aver presentato i moduli di registrazione del sindacato. Nelle interviste con Human Rights Watch, sei donne che hanno contribuito all’istituzione del sindacato hanno detto che sono state perseguitate per questa sola ragione, ricevendo persino minacce a casa di alcune di loro. Non appena sono stati presentati i moduli di registrazione, i gangster locali sono andati a casa delle donne e le hanno minacciate dicendo “Se ti avvicini alla fabbrica ti spezziamo le mani e le gambe”.

“Collapse of Rana Plaza” di Rahul Talukder

I “Rana Plaza” europei

Il fenomeno interessa strettamente anche l’Europa, un rapporto di Clean Clothes Campaign rivela condizioni di grave sfruttamento nella produzione di abbigliamento “Made in Europe”. Il rapporto documenta bassi salari endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Per molti marchi questi paesi rappresentano paradisi per i bassi salari e molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo che questo concetto sia sinonimo di “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. Inoltre, i salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili e vedono soprattutto lavoratrici raccontare che a volte non hanno nulla da mangiare o che a mala pena riescono a pagare le bollette. Le interviste a lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo. Tra le condizioni di lavoro pericolose vi è l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento. Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato o perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è: “Quella è la porta”. A essere coinvolte sono tre milioni di persone: in Turchia, Georgia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bosnia, Croazia, Slovacchia. Queste vengono sottopagate da marchi come Zara, H&M, Hugo Boss, Nike, Levi’s, Max Mara, Benetton, Versace, Dolce e Gabbana e Prada. Queste persone vengono pagate con salari che si aggirano intorno al 30% della media nazionale. Inoltre, vengono messe in atto strategie retributive per nascondere il non raggiungimento dei minimi salariali. Si va dalla “sottrazione di congedi retribuiti e dello straordinario” alle irregolarità dei congedi stessi. Poi in tutta l’aria geografica presa in considerazione dalla ricerca, sembra sia prassi non dare ai lavoratori stipendi arretrati e liquidazioni dopo la chiusura degli stabilimenti.

5 anni dopo il Rana Plaza

Il 17 aprile, a una settimana dal quinto anniversario del crollo, la “Campagna Abiti Puliti” (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) e i suoi alleati hanno iniziano una sette giorni di pressione sui marchi internazionali affinché si assumano le loro responsabilità nel garantire fabbriche sicure in Bangladesh firmando l’Accordo di Transizione 2018. L’Accordo porta avanti il lavoro svolto con l’attuale Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh sottoscritto nel 2013, a partire dalla scadenza di maggio. L’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh ha contribuito in maniera significativa a migliorare la sicurezza delle fabbriche in quel Paese. Un’estensione dell’inziale programma quinquennale è stata già firmata da oltre 140 marchi, coprendo più di 1.300 fabbriche e circa due milioni di lavoratori. L’obiettivo è di aumentare il numero di operai salvaguardati rispetto al precedente accordo. Il nuovo accordo offre la possibilità di includere anche fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento. È ad esempio il caso di marchi come IKEA, chiamati ad assumersi anche loro la responsabilità di garantire la sicurezza per i propri lavoratori. L’Accordo 2018 include disposizioni migliorate per il risarcimento per i lavoratori infortunati e riconosce l’importanza della libertà di associazione sindacale nell’assicurare che i lavoratori abbiano voce in capitolo nella protezione della propria sicurezza. I tecnici dell’Accordo hanno ispezionato più di 1.900 fabbriche di abbigliamento bengalesi fornitrici dei marchi che lo hanno sottoscritto. Grazie a questo accordo i tecnici sono stati in grado di correggere 97.000 rischi per incendi, problemi elettrici e strutturali; inoltre, l’accordo è stato in grado di risolvere 183 reclami formulati dai lavoratori. Nel gennaio 2018 IndustriALL e UNI hanno raggiunto un accordo, nell’ambito del meccanismo legalmente vincolante dell’Accordo, che prevede un impegno a pagare 2,3 milioni di dollari da parte dei marchi internazionali da destinare alla messa in sicurezza di più di 150 fabbriche sue fornitrici.  Questo, dopo un altro accordo di successo con un marchio globale inadempiente, presso il tribunale arbitrale dell’Aia nel dicembre 2017.

La catastrofe del Rana Plaza ha avuto degli effetti positivi come quello di risvegliare l’opinione pubblica dei paesi sviluppati e quello di stimolare le organizzazioni internazionali che proteggono i diritti degli operai tessili in Asia. Il Bangladesh, secondo esportatore di abiti al mondo (dopo la Cina), ha beneficiato di questa mobilitazione, culminata con la firma di un accordo sulla sicurezza patrocinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro di cui abbiamo appena visto gli effetti. Rimane però ancora molto da fare. Migliaia di strutture in Bangladesh non hanno ancora sottoscritto l’accordo per cui varie associazioni stanno lottando per l’estensione fino al 2021. Il lavoro minorile resta un problema enorme, come le condizioni salariali dei lavoratori tessili, e gli scioperi proclamati in Bangladesh per sostenere rivendicazioni in questo senso sono stati duramente repressi. A questo punto abbiamo tutti il dovere di riflettere dato che il fenomeno investe anche l’Europa e le fabbriche in Europa. Le grandi aziende dovrebbero riflettere sul loro modello economico basato sull’abbassamento dei prezzi e i consumatori dovrebbero chiedersi qual è il costo umano dietro ai vestiti. Ed è quello che ci invita a fare il documentario “True Cost” del 2015. Siamo sempre più disconnessi dalle persone che confezionano i nostri vestiti e ci sono circa 40 milioni di lavoratori nel settore tessile, molti dei quali non condividono gli stessi diritti o protezioni di molte persone in Occidente. Costantemente abbiamo avuto modo di vedere lo sfruttamento del lavoro a basso costo e la violazione dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei diritti umani in molti paesi in via di sviluppo in tutto il mondo. L’industria della moda rappresenta uno dei più grandi punti di connessione per milioni di persone. La moda è un mondo che parte dall’agricoltura, passa per la produzione e finisce nella vendita al dettaglio e, ad oggi, abbiamo alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza e distruzione ambientale che il mondo abbia mai visto. Questi sono i risultati della cosiddetta “Moda veloce”, l’industria della moda oggi si può riassumere con il motto “vai veloce o vai a casa”. Un capo di abbigliamento dura in media cinque settimane e per produrlo ci vogliono tra le sei e le otto settimane. Al posto delle tradizionali collezioni “autunno-inverno” e “primavera-estate”, un marchio fast fashion può produrre due ministagioni a settimana con enormi costi umani e ambientali, dovuti alla produzione di cotone e alla tinteggiatura dei tessuti. Ovviamente con elevati guadagni da parte di queste multinazionali. Il problema è che un boicottaggio non avrebbe senso perché danneggia chi si vorrebbe aiutare, un punto di partenza è chiedersi “chi ha fatto i miei vestiti?” per riflettere sui meccanismi di produzione e fare pressione sui grandi marchi. Dobbiamo trovare un modo per continuare a operare in un mondo globalizzato che valuti le persone e il pianeta come essenziali. Come clienti in un mondo sempre più disconnesso, è importante sentirsi in contatto con i lavoratori che confezionano i nostri vestiti e informare i marchi che ci prendiamo cura di queste persone e della loro voce. Perché, come ci ricorda la rivista “Internazionale” con il suo mini-documentario in 6 parti, “ci sono vite dietro le etichette.

Internazionale Festival a Ferrara

EUROPA di
Nella mattinata di giovedì 14 settembre, presso la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, si è tenuta la conferenza stampa di presentazione del festival di Internazionale a Ferrara 2017.

Alla sua XI edizione, Interazionale, organizza nuovamente presso il Comune di Ferrara quella che si configura a tutti gli effetti “una redazione a cielo aperto”. Tre giorni, dal 29 settembre al 1 di ottobre, con oltre 130 incontri e 250 ospiti, 40 paesi, 4 continenti, la presenza di 40 testate giornalistiche e 270 ore di programmazione.

Il festival

Internazionale, in collaborazione con il Comune di Ferrara, si propone di offrire uno sguardo sugli eventi politici e sociali del panorama internazionale di quest’ultimo anno, all’interno di una prospettiva futura. Lo stesso logo dell’evento, il “mondino”, con il cannocchiale stretto nella mano, vuole simboleggiare quella prospettiva intesa come lungimiranza e capacità di osservazione della realtà da diversi punti di vista.

L’incontro si è aperto con le parole del capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, Beatrice Covassi, la quale ha sottolineato come la presenza della Rappresentanza al Festival di Ferrara, abbia l’obbiettivo di portare l’attenzione dei partecipanti sui temi maggiori di attualità: migranti, patrimonio culturale europeo, sicurezza e difesa. In correlazione con l’ambiente giornalistico, verrà affrontato ciò che riguarda le fake news, sia in termini di “bufale”, sia nell’ottica della trasmissione di notizie che reinterpretate da più voci possono apparire distorte di fronte all’opinione pubblica. La Rappresentanza, inoltre, proporrà anche “speak dating”, in collaborazione con l’Università di Ferrara: iniziativa che prevedere tre minuti di lezione per apprendere qualche parola o frase nelle diverse lingue europee.

Chiara Nielsen, vicedirettrice e una delle fondatrici di Internazionale, ha offerto una panoramica generale sui temi principali che verranno affrontati e discussi durante l’evento.

Primi fra tutti l’Europa, la cui integrazione sembrerebbe minata dai nazionalismi. Gli eventi faranno capo ad incontri e momenti di scambio con rappresentati politici, scrittori, giornalisti, attivisti, organizzazioni e personalità del panorama nazionale ed internazionale. Verrà affrontata la discussione sulla Brexit e sulla situazione lavorativa e di sfiducia, da parte dei giovani, nei confronti della politica in Italia ed Europa.

Forte la presenza dell’attualità internazionale, analizzata in tutte le sue sfaccettature e che porta all’attenzione dei partecipanti le diverse situazioni internazionali attraverso le analisi delle crisi in cui vertono diversi paesi, tra i quali la Corea, il Venezuela, la Colombia e la Siria. Particolare attenzione verrà posta nei confronti del Corno d’Africa e dell’Eritrea, ex colonia italiana e luogo da cui provengono molti migranti. Quello sulla migrazione sarà un argomento centrale dell’attualità, affrontato con un focus ampio che include il Mediterraneo, l’Africa, nonché i confini tra Messico e USA. Materia che viene affrontata anche grazie al contributo e al lavoro di Medici Senza Frontiera (MSF), charity partner del Festival.

Altra tematica cardine del Festival è quella sui diritti umani, civici e di cittadinanza. Verranno affrontate discussioni sulle libertà individuali, sui diritti dei transgender e, sempre all’interno dell’ottica giornalistica, la libertà di espressione.

Argomento ricorrente quello sull’ambiente, che verrà affrontato anche attraverso il libro “La grande cecità” di Amitav Ghosh, scrittore indiano che denuncia l’incapacità della letteratura di denunciare le conseguenze del cambiamento climatico.

Internazionale a Ferrara si propone anche pioniere di iniziative culturali e artistiche, che vedono il coinvolgimento di fumettisti, che raccontano il mondo di oggi attraverso i propri disegni. Ma anche fotografi e musicisti, tra i quali il DJ Jace Clayton che incontrerà Populous, alias Andrea Mangia, per valutare se l’era della world music sia finita. Farà parte del Festival anche la rassegna che prevede il ritorno dei documentari inediti di Mondovisioni e di audio documentari Mondoascolti.

Inoltre, tra gli eventi speciali previsti in questa edizione, World Press Photo, il più importante premio fotogiornalistico del mondo e, infine, la Piccola Orchestra Lumiere si esibirà nella piazza Municipale, in collaborazione con Montura.

Quest’anno, inoltre, viene offerto uno spazio dedicato interamente ai più piccoli, attraverso l’offerta di 12 laboratori che si configurano come un “festival parallelo” per i bambini.

Partnership e collaborazioni

Internazionale a Ferrara è promosso da Internazionale, Comune di Ferrara, Regione Emilia Romagna, Università degli studi di Ferrara, Città Teatro, Ferrara Terra e Acqua, Comune di Portomaggiore, Arci Ferrara, Assessorato alla cultura nell’ambito del Progetto Polimero promosso da Arci Emilia-Romagna, Associazione IF e Anci.

Tutte le informazioni sugli eventi, gli ospiti presenti e la programmazione del Festival sono reperibili sul sito di Internazionale.

I curdi all’Europa: riabilitate Ocalan e il Pkk

Medio oriente – Africa di

Un duplice richiamo alla Turchia, affinchè modifichi l’atteggiamento assunto sino ad ora e all’Europa, per invitarla a considerare la questione curda come politica e non terroristica. Il rapporto fra Turchia ed etnia curda è tornato alla ribalta nelle due giornate organizzate a Bruxelles nell’ambito della 12a conferenza internazionale dal titolo “Vecchia crisi-nuove soluzioni. L’Europa, la Turchia, il Medio Oriente e i Curdi” organizzata dalla Turkey Civic Commission in collaborazione con il Kurdish Institute of Brussels nella sede del Parlamento Europeo, a Bruxelles, il 26 e 27 gennaio scorso.

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Il documento di sintesi proposto al termine della due giorni in cui si sono confrontati i vari protagonisti, dal Premio Nobel iraniano Shirin Ebadi, al leader dell’Hdp curdo e membro del parlamento turco Selahattin Demirtas, ha posto l’accento su responsabilità vecchie e future. E, soprattutto, sulla questione curda, ancora drammaticamente aperta unitamente a quella degli orrori causati dalle orde del Califfato.

Il dopo elezioni di giugno in Turchia, si legge nel documento, ha riproposto gli stessi abusi inferti ai diritti umani dei curdi negli anni ’90. Un ritorno al passato sottolineato dall’introduzione di coprifuoco illegali, privazione di acqua, cibo, elettricità e medicine e dall’uccisione di civili scomodi. “Queste misure – si sottolinea nel documento – mostrano un completo disprezzo della volontà democratica del popolo”. L’appello lanciato a “movimenti sociali, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni non governative, alleate di governo e governative, istituzioni” riguarda la chiusura delle ostilità fra curdi e turchi, riaccesasi nell’estate scorsa, attraverso la fine di assedi e coprifuoco, l’esclusione di civili e aree residenziali dagli scontri fra forze turche e membri del partito dei lavoratori di Ocalan, il PKK, il rientro di quanti sono stati costretti a fuggire e la condanna dei colpevoli delle violazioni perpetrate a danno dei diritti umani.

La fine del conflitto fra turchi e curdi può tradursi, secondo la risoluzione individuata dalla conferenza, in “un impatto positivo sulla lotta nella regione contro i gruppi jihadisti, come ISIS”. “La Turchia – si legge nel documento – deve smettere di appoggiare i gruppi jihadisti in Siria e deve impegnarsi ad essere un efficace membro della coalizione internazionale contro ISIS. Deve abbandonare le politiche anticurde e lavorare al fianco dei curdi e dell’opposizione democratica siriana per arrivare ad una soluzione politica”. L’Europa viene chiamata in causa e spronata a considerare la questione curda da un punto di vista che escluda la matrice terrorista con cui l’opera del PKK e del suo leader Ocalan è stata bollata.

“L’Unione europea – viene sottolineato – non deve limitarsi a semplici richieste di un cessate il fuoco, ma deve anche essere proattiva nel definire il percorso verso una soluzione pacifica. A questo fine, il PKK, quale parte attiva della soluzione, non deve più considerato come organizzazione terroristica”. Fra le altre richieste individuate anche il rinnovo della Costituzione turca votata nel 1980 a seguito del colpo di Stato militare, la garanzia dei diritti legati alla libertà di pensiero e di espressione, la liberazione dei civili imprigionati e la realizzazione di un corridoio umanitario al confine tra Turchia e Siria.

 

Monia Savioli

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(Français) Lesbos, l’autre porte de l’Europe pour des réfugiés en perdition – OrientXXI

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À seulement 10 kilomètres des côtes turques, les 89 000 habitants de Lesbos ont vu leur île devenir la plus importante porte d’entrée dans l’Union européenne pour les réfugiés, juste après l’Italie. Dans les six premiers mois de 2015, 63 000 migrants ont rejoint les côtes grecques.

La traversée depuis la Turquie est nettement moins risquée que celle depuis l’Égypte ou la Libye. Une fois débarqués sur l’île, les réfugiés restent le moins longtemps possible sur place afin de se mettre en route vers l’ouest ou le nord de l’Europe en passant par la Macédoine. S’ils parviennent à échapper aux bandes criminelles organisées ainsi qu’à la police, ils prendront le chemin de la Serbie puis de la Hongrie pour enfin rejoindre l’Allemagne qui semble être la destination privilégiée pour la majorité des réfugiés.

Réfugiés à Lesbos – YouTube
© Giulia Bertoluzzi, Costanza Spocci, Nawart Press

«  L’hiver passé nous avons observé beaucoup d’arrivées mais rien de comparable à maintenant  », explique Eleni Velivasaki, avocate au sein de l’ONG Pro-Asyl qui apporte une assistance juridique aux réfugiés. «  Chaque mois nous atteignons un nouveau record. Cinq mille nouvelles arrivées pour le seul mois de mai et maintenant que l’été est là, on les compte par centaines chaque jour  ».

Parmi la foule de réfugiés de différentes nationalités qui s’agglutinent devant le portail du bureau portuaire des gardes côtes de Mytilène, la capitale de Lesbos, Vahab, un jeune Afghan qui parle anglais couramment, émerge et se fait porte-parole de son groupe. «  Quand nous avons débarqué, nous avons dû marcher plus de 50 kilomètres pour atteindre cette ville. Nous dormons maintenant dans la rue depuis 5 jours, sans eau, sans nourriture ni toilettes  ».

DES CENTAINES DE PERSONNES TOUS LES JOURS

Dans un ballet quasiment ininterrompu de petits Zodiac, chacun chargé de 30 à 40 personnes, les côtes septentrionales de l’île, près du village de Molyvos, voient défiler des centaines de personnes débarquant chaque jour. Au milieu des ruelles bondées de touristes de Molyvos, des nombreux restaurants de poisson et des excursions de plongée sous-marine, les réfugiés posent pour la première fois le pied sur le sol européen.

«  Lorsque tout a commencé, beaucoup de locaux les harcelaient et les insultaient, affirmant que leurs maladies allaient faire fuir tous les touristes  », se souvient Kimon Kosmetos qui travaille au restaurant Captain’s Table de Molyvos. À l’arrière de son restaurant, la propriétaire a monté un petit kiosque pour que les réfugiés puissent se reposer en attendant, parfois jusqu’à deux ou trois jours, que le bus des gardes-côtes les emmènent au bureau de Mytilène afin de se faire enregistrer. «  Quand la situation a commencé à dégénérer, un réseau civil s’est créé pour faire face à cette catastrophe  », raconte Kosmetos  ; «  il y a ceux qui apportent à manger, ceux qui récupèrent des vêtements ou encore des couvertures  ».

Néanmoins, la majorité d’entre eux débarquent sur les plages situées entre Skala Sykaminias et Molyvos sans la possibilité de rejoindre cette dernière. Quelques maisons de bergers et une simple route non goudronnée serpentant le long de la côte, c’est tout ce qu’il y a ici. Ce spectacle effrayant des Zodiac se déroule en pleine journée sous le regard ahuri des quelques habitants qui leur donnent les indications sommaires pour rejoindre la route principale. Avant de finir par démonter les Zodiac échoués et de s’emparer des moteurs qu’ils revendront plus tard.

UNE SITUATION HORS DE CONTRÔLE

Nombreux sont ceux qui demandent leur route pour Athènes sans se douter qu’ils se trouvent sur une île. Tous connaissent cependant parfaitement la procédure à suivre : d’abord se faire arrêter par les gardes-côtes, puis par la police. «  C’est une procédure très stricte  », insiste Eleni Velivasaki. «  Les gardes-côtes doivent être les premiers à enregistrer les réfugiés. S’ils ne sont pas interceptés en mer, ils doivent tout de même se rendre auprès des gardes côtes pour être enregistrés et ensuite être arrêtés par les policiers qui les ramènent enfin au seul centre de détention de l’île, dans le village de Moria  ».

«  La situation est totalement hors de contrôle  », explique Zoe Levaditou, de la Hellenic Rescue Team  ; «  sur l’île il n’y a pas assez de moyens, les gardes-côtes ne disposent que d’un seul bus pour récupérer les personnes à Molyvos  ».

Les habitants craignent de transporter les réfugiés dans leur voiture car selon la législation locale ils pourraient être accusés de trafic d’êtres humains et condamnés jusqu’à 10 ans de prison. La route entre Molyvos et Mytilène n’est plus qu’un flux interrompu d’enfants, de jeunes, de femmes, de personnes âgées et de familles entières ayant tout abandonné et en marche vers un futur incertain. «  J’étais photographe à Kaboul  », raconte Nassim dans le port de Mytilène, «  j’étais en train de travailler sur les zones rurales d’Afghanistan mais j’ai dû tout arrêter et m’enfuir car j’étais en danger  », conclut-il, le regard vide d’espoir.

«  99 % des personnes qui débarquent à Lesbos sont des réfugiés  », explique Zoe Levaditou, «  par ordre de grandeur : des Afghans, puis des Syriens, des Pakistanais, des Africains — Somaliens et Erythréens notamment — et enfin des Bangladeshis  ». Mais la réalité sur place est que personne ne souhaite rester sur l’île ni même en Grèce. «  Le problème est que la Grèce ne donne l’asile qu’à seulement 1 ou 2 % des demandeurs  », témoigne Eleana Ianodou du Conseil d’intégration des immigrés de Thessalonique. Les réfugiés attendent, au contraire, un document d’expulsion délivré par la police au centre de détention de Moria.

Avec une capacité d’accueil de 1 000 personnes seulement, le centre de Moria déborde de tous côtés. Plus de 1 000 personnes attendent à l’extérieur du centre, dormant sous des tentes de fortune ou parfois même en plein air, sans eau, sans nourriture ni toilettes. Vahab et Nassim, qui ont été transférés au centre depuis le port, font la queue pour recevoir le verre de thé qui constituera leur seule ration pour la journée.

VIVRE EN SÉCURITÉ

La bouche sèche, ils racontent à quel point ils n’auraient jamais imaginé tomber si bas. Tous répètent en boucle que les gouvernements en Europe ne comprennent pas qu’ils ne veulent pas d’argent. Ils en ont. Ils ont payé une fortune pour arriver jusqu’ici. «  Si seulement il y avait une procédure légale, tout cet argent qu’on a donné aux trafiquants, on aurait pu le payer à vos gouvernements. Ce qu’on recherche, ce n’est pas l’argent, mais de vivre en sécurité  ».

«  À Kaboul, chaque fois que je sortais de la maison je ne savais pas si j’allais rentrer vivant. Ce que je voudrais c’est vivre dans un endroit où je ne craindrais pas de mourir à chaque fois que je sors de chez moi  », insiste Vahab sous le regard approbateur des autres réfugiés l’entourant.

Au milieu de la foule, une jeune Syrienne d’Alep d’une vingtaine d’années s’approche. Elle a vécu un an et demi en Turquie avant de s’embarquer. «  En Turquie, nous les Syriens, nous sommes maltraités. Nous sommes payés trois fois moins que les autres et devons payer trois fois plus cher les loyers et la nourriture. Si j’avais su le cauchemar qu’on vivrait ici, jamais je ne serais partie  », confesse-t-elle avec amertume.

Ahmed, un jeune informaticien d’Alep, l’air totalement abasourdi, regarde autour de lui. «  Mon frère est en Allemagne, ma maison en Syrie a été détruite, j’ai perdu mes amis, ma vie, tout. Je veux seulement rejoindre mon frère et retrouver un peu de paix, c’est tout  ».

RÉFUGIÉS DE PAYS EN GUERRE MAIS INDÉSIRABLES

L’attente dure parfois jusqu’à une semaine avant de recevoir l’ordre d’expulsion par la police. «  C’est une véritable contradiction  », précise Velivasaki car «  ils ne peuvent pas être expulsés : en premier lieu parce qu’ils viennent de pays en guerre et que selon le droit international ils doivent être protégés. Deuxièmement, parce que la Grèce n’a tout simplement pas les moyens de les expulser. Ce papier leur permet seulement de circuler en Grèce pour une durée maximale de 30 jours — de 6 mois pour les Syriens — avec pour obligation ensuite de quitter le sol grec mais par leurs propres moyens  ». Cependant, dans le même temps, «  ils sont interdits de circuler le long de toutes les zones frontalières de la Grèce ainsi que de se rendre à Athènes, et ce dans le seul but de les empêcher de rejoindre d’autres pays européens  ».

Une semaine passée sur l’île, à dormir sur les trottoirs, sur le gazon du centre de détention ou encore dans le port. Les réfugiés attendent le ferry qui les ramènera sur la terre ferme pour ensuite reprendre leur route à travers les Balkans. Le voyage qui les mènera vers le nord de l’Europe est encore long et leur coûtera des milliers d’euros supplémentaires, sans aucune certitude d’arriver.

La proposition initiale de la Commission européenne est de réinstaller 40 000 réfugiés arrivés en Italie et en Grèce, mais «  si on considère qu’en six mois 62 000 sont arrivés en Italie et 63 000 en Grèce  », commente Velivasaki, «  il est clair que c’est un chiffre purement symbolique qui ne va rien changer à la situation de crise qu’on vit ici  ».

http://orientxxi.info/magazine/lesbos-l-autre-porte-de-l-europe-pour-des-refugies-en-perdition,0981

Alle Porte d’Europa – Reportage su La Regione Ticino

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L’isola greca di Lesvos è il terminal dei migranti che partono dalle vicine coste turche e tentano poi la traversata via terra verso l’Europa centrosettentrionale. Questo primo lembo di terra europea, povero a sua volta, vive tutte le difficoltà e le contraddizioni generate dall’afflusso di persone in fuga da guerre e miseria. Popolazione e autorità locali impotenti, governo centrale assente.

Nawart Press su La Regione Ticino

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I volti dell’attivismo

Medio oriente – Africa di

“Buongiorno” o “buonanotte dalla Palestina occupata dal mostro nazista israeliano”. E’ con questo saluto che Samantha Comizzoli, attivista volontaria per i diritti umani originaria di Ravenna, ama introdurre i messaggi lanciati tramite la sua pagina Facebook. Il suo impegno è senza tregua. Quarantacinque anni, originaria di Ravenna dove si è candidata a sindaco alle ultime amministrative con la lista “Ravenna Punto a Capo”, da un anno e quattro mesi si trova in Palestina. Il suo obiettivo è di documentare tramite post, foto, video e filmati (fra cui il film dal titolo “Israele, il cancro” realizzato con immagini di scontri reali avvenuti in Palestina e interviste ai loro protagonisti) diffusi tramite il blog e la pagina FB che gestisce, le azioni condotte dai militari israeliani negli insediamenti palestinesi. Tramite le sue testimonianze si entra in una dimensione che non da tregua. Rapimenti, incursioni notturne, violenze di vario tipo. Samantha è stata fermata sabato a Nablus in Cisgiordania, durante una manifestazione, dalla polizia israeliana. La sua carta di identità era contraffatta ed ora, dopo aver iniziato lo sciopero della fame ed essersi dichiarata prigioniera politica, sarà probabilmente espulsa. L’8 giugno scorso ha affidato alla sua pagina Facebook il compito di divulgare il suo appello, affinchè tutti possano conoscere la sua verità. A spronarla, ciò che era successo tre giorni prima, il rinvenimento a casa propria di “qualcosa che non deve assolutamente esserci” e di cui fortunatamente è riuscita a sbarazzarsi prima che potesse arrivare la Polizia e con essa, un arresto sicuro. “Mi chiamo Samantha Comizzoli e sono entrata in Palestina, tramite volo a Tel Aviv, l’11 febbraio 2014 – scrive. “Ho avuto un “visto turistico” dal terrorista Israele per 3 mesi. Dopo mi è scaduto e sono diventata “illegale” o “clandestina”. Sono qui con la mia faccia e il mio nome e ho sempre reso tutto pubblico.
Avevo la possibilità, forse, di regolarizzare la mia presenza qui, ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perchè non vado dai nazisti a chiedergli “un permesso” e non vado nemmeno dai loro amici (l’autorità palestinese) a chiedere il permesso di esistere dove cazzo mi pare. E’ una forma di Resistenza, personale certo – aggiunge – ma sono qui dopo un anno e 4 mesi alla faccia del mostro. Questo ha portato molte conseguenze: i primi tempi salivo sul service per fare anche solo 10 km con le chiappe strette perchè avevo paura che mi beccassero, dopo ho iniziato a non dare più il passaporto ai checkpoint volanti e a rispondergli sui denti, ogni volta che vado in mezzo agli scontri il timore non è che mi sparino, ma che mi prendano. Mi è andata sempre bene? No, non credo, Israele non è stupido. E’ una mente più complessa di quanto uno possa immaginare”. Perchè sia riuscita sempre a cavarsela, almeno fino a quando non è stata fermata, l’attivista ravennate se lo spiega in questo modo. “Inizio a pensare che la motivazione è più agghiacciante: Israele ha dimostrato e mi ha dimostrato che anche se uno sacrifica la propria vita, sta qui con il suo nome e la sua faccia e pubblica tutta (ma veramente tutta) la merda che accade; non cambia nulla. Ha dimostrato che è tutto inutile e che il mondo se ne fotte e non ferma Israele. Ho deciso di scriverlo adesso tutto questo perchè 3 giorni fa purtroppo è accaduta una cosa…. Qualcuno mi ha messo in casa qualcosa che non deve assolutamente esserci. Me ne sono liberata quando ho capito, subito, il giorno dopo e sono stata, sì, fortunata che i soldati non sono venuti quella notte. Questo però mi ha portato a pensare che abbiano deciso di venire qui, ma soprattutto che prima di venire a prendermi vogliono screditarmi e distruggere il mio lavoro. Così anche il Governo italiano sarà fuori dall’imbarazzo. Io sono pronta – aggiunge – non ho paura; prima però ho voluto scrivere tutto questo affinchè rimanga scritto e voglio aggiungere che mentre lo scrivo sto bevendo una birra e anche che ho fumato in strada varie volte e che ho anche avuto storie d’amore. In quest’anno di prigionia non mi sono mai privata della vita e della mia libertà mentale. Ho amato, sorriso, vissuto, scritto sempre la verità. Ho resistito più di un anno, e di notte ho iniziato a dormire perchè non ho paura”. Qualche giorno prima, la Comizzoli è stata ferita durante una manifestazione organizzata per celebrare i 67 anni della Nakba, la “Catastrofe”, data che segna l’espropriazione della patria palestinese del 1948, mentre stava procedendo con le braccia aperte verso il checkpoint israeliano di Howara. A colpirla due rubber bullet, proiettili di gomma utilizzati nelle armi antisommossa. L’11 giugno, una paio di giorni prima di essere fermata e imprigionata nel carcere israeliano dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la Comizzoli aveva avuto modo di raccontare nelle pagine del suo blog un’altro episodio. “Questa è una storia orrenda che ho vissuto oggi – scrive. “Ne sono testimone e in parte partecipe. Vi prego di leggerla, farla leggere e divulgarla perchè non ci sono giornalisti che la conoscono, ma va assolutamente fatta conoscere. Avevo appuntamento con una mia amica a casa sua, nel villaggio di Assira Al Qabilia, Nablus. Volevamo parlare di un piccolo progetto per i bambini che forse inizierò presto, il tutto bevendo un caffè. Con me è venuto un ragazzo italiano che è qui in vacanza. Siccome questo ragazzo non parla né inglese né arabo, ha colto l’occasione per farsi una passeggiata nel villaggio mentre noi parlavamo. Ha iniziato a camminare su, verso la collina, in mezzo alle case del villaggio, e un paio di bambini che l’hanno visto hanno iniziato ad avvicinarsi per fargli compagnia. Nessun dialogo ovviamente, se non a gesti. Si è fermato quando finiva il villaggio di Assira e ha scattato 3 foto alla cima della collina (dal quale era ancora molto distante), dove c’è l’insediamento illegale di Yhitzar. E’ tornato, io avevo finito, abbiamo preso il service e siamo tornati a Nablus. Quando siamo arrivati al checkpoint di Howwara abbiamo visto molti soldati con le jeep, pronti ad entrare in azione (e ho mandato un tweet). Scesi dal service ricevo una telefonata della mia amica, agitata, che mi dice di tornare subito indietro perchè ci sono lì i soldati israeliani e vogliono il ragazzo italiano che ha scattato le foto. Prendiamo un taxi per far prima e torniamo indietro al villaggio di Assira Al Qabilja. Nel frattempo davanti alla casa erano arrivate molte donne del villaggio. La mia amica ci ha fatti tornare di corsa perchè: i soldati israeliani erano piombati nel villaggio con 10 jeeps e avevano preso uno dei due bambini che aveva tentato un dialogo con il ragazzo italiano e volevano anche l’altro bambino se il ragazzo italiano non si fosse consegnato ai soldati.Il bambino che avevano preso ha 15 anni”. Dopo ore farcite di sigarette e caffè e tentativi di sbloccare la situazione, finalmente il bambino viene rilasciato. “Il problema non sono quelle 3 foto del cazzo che ha fatto l’italiano – conclude la Comizzoli. “Il problema è che qui un bambino di 15 anni non è nemmeno libero di camminare su una strada perchè deve sempre temere di essere rapito dai soldati israeliani. Il ragazzo italiano è capitato, secondo logica, in mezzo a qualcosa che volevano già fare oggi (le jeeps e i soldati erano pronti ad Howwara). Così, per buttare anche un po’ di merda sulla presenza degli internazionali e su chi stringe contatti con loro, hanno pensato bene di inscenare questa storia. Se non fosse così, pensateci bene, non sarebbero almeno venuti a prendersi la macchina fotografica o a chiedere di cancellare le foto? Anche questa storia, raccontatela ai vostri figli e ditegli che i mostri esistono”.

 

2014, la devastazione dei diritti umani.

Medio oriente – Africa di

Un anno da dimenticare, il 2014. Almeno per quanto riguarda Amnesty International che ha divulgato il rapporto annuale in occasione dell’anniversario della scomparsa del suo fondatore, Peter Benenson, avvenuta il 25 febbraio di dieci anni fa. Un anno “devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra”. A sottolinearlo, Salil Shetty, segretario generale dell’associazione.

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Le 415 pagine che riassumono il racconto delle violenze consumate in 160 paesi del mondo non fa sconti sul giudizio espresso a proposito dell’atteggiamento adottato dai vari Governi. “Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani – evidenzia Shetty – sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani”. I dati sono allarmanti.

Negli ultimi quattro anni in Siria – continua – sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano”. Poi l’Iraq dove l’Isis impazza. “Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno”.

Il rapporto prosegue citando le 2000 vittime palestinesi causate dall’assalto condotto nel luglio scorso dagli Israeliani a Gaza, i crimini di guerra compiuti da Hamas “sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti”, i risultati del conflitto fra forze governative ed il gruppo armato Boko Haram in Nigeria esplicitati nel rapimento di 276 studentesse nella città di Chibok e gli orrori commessi dalle forze di sicurezza nigeriane che hanno ucciso e sepolto corpi in fosse comuni. Infine la Repubblica Centrafricana dove 5.000 sono le vittime della violenza settaria ed il Sud Sudan dove “decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

Amnesty rileva l’immobilità del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di fronte alle crisi siriana, iraquena, palestinese, israeliana e ucraina “neanche quando sono stati commessi crimini orrendi contro la popolazione civile da parte degli stati o dei gruppi armati, per proprio tornaconto o interessi politici”. Pertanto per riuscire a smuovere le acque “ora chiede ai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa”. Dalle Nazioni Unite intanto arrivano i numeri del nuovo rapporto dedicato anch’esso alle violazioni dei diritti umani commessi da Isis in Iraq fra settembre e dicembre 2014. Il rapporto, realizzato dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, parla di almeno 165 esecuzioni che hanno interessato i membri di varie “comunità etniche e religiose dell’Iraq, tra cui turkmeni, Shabak, cristiani, yezidi, Sabei, Kaka’e, Faili curdi, sciiti arabi, e altri”. Negli scontri fra i tagliagole e forze di sicurezza tante anche le vittime fra la popolazione civile nella quale si contano almeno 11.602 uccisioni e 21.766 ferimenti.

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Monia Savioli

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