Il governo giapponese ha recentemente approvato un aumento da capogiro della spesa militare per il 2024, dando avvio alla seconda fase del rapido potenziamento quinquennale delle capacità di difesa del paese. L’iniziativa è stata annunciata nel dicembre 2022 dal governo Kishida attraverso la diffusione di tre nuovi documenti strategici che mirano a ridefinire l’interesse nazionale del Giappone alla luce delle crescenti tensioni politiche nella regione dell’Indo-Pacifico.
Che questa nuova postura strategica rappresenti una deviazione netta da quelle che furono storicamente le dottrine di difesa giapponesi è reso chiaro dal massiccio investimento politico e finanziario da parte del governo nel distanziarsi dal dogma anti-militarista caratteristico della politica giapponese nel dopoguerra. Il suo successo, però, è tutto fuorché garantito.
Tradizioni di “free-riding” strategico
La storia del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale è stata contrassegnata dalla fama internazionale di “paese anormale”, in termini strategici, a causa delle sue politiche estere e di difesa incentrate su un approccio passivo-pacifista e sulla complementare decisione di destinare alla spesa militare basse quote del suo PIL in galoppante crescita. Ciò, naturalmente, contribuì a condurre il Paese ad affidarsi sempre più alle forze militari statunitensi per la propria sicurezza e per il mantenimento della stabilità regionale.
La cornice strategica all’interno della quale si delineava questo scenario fu la Dottrina Yoshida, dal nome del primo governo giapponese del dopoguerra. Essa poneva l’enfasi sulla crescita economica e sullo sviluppo sociale, elevati ad assolute priorità a discapito della capacità militare, istruendo ad evitare qualsiasi coinvolgimento diretto del Giappone nelle questioni di sicurezza internazionale. Questa dottrina e le sue successive declinazioni, più proattive, hanno dominato le politiche strategiche del paese per decenni, stabilendo un tetto all’1% del PIL per i bilanci militari annuali che mai era stato contestato in contesti ufficiali prima del 2017, quando l’ex primo ministro Shinzo Abe annunciò l’intenzione di virare rotta per quanto riguarda questo vincolo.
In effetti, le Forze di Autodifesa (Self-Defense Forces, SDF), che sono gradualmente diventate un vero e proprio “esercito” giapponese de facto, sono state storicamente limitate dalla Costituzione a occuparsi esclusivamente di proteggere il Paese da minacce esterne sul territorio nazionale e a non possedere capacità offensive di alcun tipo. Quest’approccio è però rimasto sostenibile solo per via del significativo affidamento su contingenti e basi militari statunitensi strategicamente posizionate sul suolo giapponese in conformità con il Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza USA-Giappone del 1951 e con la sua versione aggiornata del 1960.
Nonostante i nuovi scenari degli ultimi 75 anni abbiano portato vari governi giapponesi a perseguire un ruolo più di rilievo nelle questioni di sicurezza internazionale e, conseguentemente, a proporre nuove interpretazioni dei vincoli costituzionali sul dispiegamento delle SDF all’estero e sulla spesa militare, avvenute sotto il peso della pressione estera americana, il Giappone ha mantenuto la sua reputazione di “potenza intermedia”, ossia di alleato su cui non poter fare affidamento per azioni militari congiunte.
Il sostegno giapponese in operazioni internazionali di peacekeeping, infatti, si è storicamente limitato a pratiche di supporto logistico, ”checkbook diplomacy” (aiuti finanziari) o, al massimo, di ricostruzione ed aiuto umanitario.
Il nuovo volto strategico del Giappone
Solo due anni e mezzo fa, nel dicembre 2022, il governo guidato da Fumio Kishida ha svelato tre nuovi documenti strategici che, per la loro rilevanza, hanno ricevuto copertura mediatica internazionale: la nuova National Security Strategy, la National Defense Strategy e il Defense Buildup Program.
Una precedente versione della NSS (National Security Strategy) era stata pubblicata dal Ministero della Difesa giapponese per la prima volta solamente nel 2013, durante uno dei governi a firma Shinzo Abe. All’epoca la notizia segnò il primo passo verso un “approccio completo e integrato alla sicurezza nazionale” e una simultanea rivalutazione dell’inadeguatezza giapponese nel mondo della sicurezza collettiva multilaterale. Tuttavia, il nuovo approccio introdotto dai tre nuovi documenti manifesta un maggiore impegno e un passo più deciso in questa direzione.
La tardiva risposta del Giappone alle mutevoli dinamiche regionali è arrivata in un momento di crescente consenso pubblico per un potenziamento delle attuali capacità di difesa. Ciò perché negli ultimi anni si è potuta osservare un’intensificazione dell’attività missilistica nell’Indo-Pacifico, tale da rappresentare una tangibile minaccia per l’ordine basato sul diritto internazionale a cui il Giappone dedica il suo impegno in politica estera e in cui confida per la sicurezza della propria economia.
Inoltre, a seguito di una serie di lanci missilistici da parte della Corea del Nord, alcuni dei quali hanno addirittura causato evacuazioni cittadine di emergenza in intere aree del Giappone, la popolazione è diventata sempre più incline ad accogliere riforme sul bilancio militare. Pertanto, non dovrebbe suscitare scalpore che il responso negativo della popolazione sia arrivato quasi esclusivamente in forma di sollevamenti contro la proposta di finanziare le nuove spese militari con un aumento del prelievo fiscale. La nuova NSS stabilisce anche esplicitamente la necessità di fare investimenti sostanziali nel rinnovamento dell’apparato di sicurezza giapponese. Il piano prevede di aumentare vertiginosamente la spesa per la difesa, raggiungendo un picco storico senza precedenti (nel Giappone del dopoguerra) del 2% del PIL prima della fine del 2027.
Ciò si traduce in un totale di quasi 43 migliaia di miliardi di yen (circa 267 miliardi di USD nel giugno 2024) spesi per il “rafforzamento fondamentale delle capacità difensive e delle iniziative complementari”.
Le ragioni del grande clamore attorno a questo cambiamento di rotta, tuttavia, non sono da ridurre solo all’ingente investimento fiscale, dato che la vera notizia è in realtà quella dell’introduzione di capacità missilistiche di contrattacco, utili “nei casi in cui avvenga un attacco armato contro il Giappone, e come parte di quell’attacco siano stati utilizzati missili balistici […], (permetteranno) al Giappone di sferrare efficaci contrattacchi contro il territorio nemico”, citando il testo della NSS. Tener presente il controverso rapporto giapponese con le capacità militari di carattere offensivo è un aspetto cruciale per valutare simili dichiarazioni ufficiali dal governo del Sol Levante.
L’acquisizione di capacità di contrattacco a lungo raggio da parte del Giappone mira principalmente a dissuadere i Paesi vicini dallo sferrare attacchi missilistici, sfruttando la minaccia di colpire e neutralizzare aeroporti e strutture portuali militari situate su suolo nemico. Nell’evenienza, sempre più palpabile, di un teatro bellico taiwanese, la Cina potrebbe esercitare pressione sul Giappone forzando la sua neutralità sulla questione tramite minacce di attacchi missilistici contro basi militari (giapponesi o statunitensi) su suolo nipponico. Di fronte a questa prospettiva, il Giappone, dotandosi di capacità di contrattacco a lungo raggio, minerebbe la credibilità della Cina, riducendo i vantaggi tratti da un first-strike, in linea con la “strategia del rifiuto attivo” (Active Denial Strategy) proposta dai ricercatori americani Heginbotham e Samuels del Massachusetts Institute of Technology.
Siccome la convenzionale strategia del rifiuto richiede grande mobilità militare per resistere agli attacchi e, nel contempo, indebolire l’avanzata avversaria, la decisione del Giappone di espandere il numero di mezzi da sbarco ed elicotteri da trasporto è un’iniziativa sicuramente degna di lode (da un punto di vista puramente strategico-militare), mirando a facilitare il rapido dispiegamento di truppe e rifornimenti delle SDF nelle isole sud-occidentali del Paese, contese con la Cina. Tuttavia, questo potenziamento non implica una ricerca di indipendenza strategica dagli Stati Uniti. Piuttosto, contribuisce ad un allineamento strategico necessario per migliorare l’efficienza della difesa collettiva tra i due Paesi poiché, secondo il Prof. Satoru Mori della Keio University, il rafforzamento dell’autodifesa giapponese punta ad una più efficace “divisione del lavoro” tra teatri difensivi, consentendo agli Stati Uniti di concentrare le forze schierate nel Pacifico sulla protezione di Taiwan.
Tornando ancora al contenuto dei nuovi documenti strategici, il governo ambisce a dotare il Giappone di un arsenale difensivo caratterizzato da una “sinergia di capacità organicamente integrate nei domini spaziale, cibernetico ed elettromagnetico, nonché terrestre, marittimo ed aereo”. Questa visione favorisce un aggiornamento sostanziale delle capacità delle SDF per allinearsi con le emergenti tendenze militari globali.
L’efficacia del piano e il dilemma elettorale
Nonostante questi recenti sviluppi possano sembrare stravolgenti, la loro fattibilità e la relativa efficacia dovrebbero tuttavia essere valutate con attenzione attraverso un accurato esame degli obiettivi prefissati e delle lacune da colmare, al fine di quantificare il divario che si frappone tra fallimento e successo.
Come sostiene il Prof. Jeffrey Hornung, “quando gli avversari dispongono di sistemi di difesa missilistica piuttosto robusti e centinaia di basi in cui disperdersi”, l’espansione pianificata dal Giappone in termini sia di quantità che di modelli di missili potrebbe non costituire una strategia efficace, poiché uno scenario simile richiederebbe di dare priorità a una delle due dimensioni soltanto.
Inoltre, il governo Kishida è probabilmente eccessivamente ottimista riguardo alle tempistiche richieste e alla praticabilità generale dell’introduzione di tecnologie all’avanguardia nell’arsenale delle SDF. Infatti, sia i documenti strategici del 2022 che il budget 2024 per la difesa pongono come obiettivi un drastico aumento delle piattaforme senza pilota per tutti i domini, l’acquisizione di capacità utili a dispiegare un’intera costellazione satellitare per la rilevazione e il monitoraggio degli HGV, l’istituzione di misure di cybersicurezza unificate basate su un sistema integrato di cloud computing e l’utilizzo dell’IA per le funzioni di information warfare e di analisi, insieme al suo impiego negli aeromobili senza pilota per ruoli di supporto. Citando il Prof. Hornung: “oltre al tempo necessario per svilupparli (/acquistarli) e schierarli, la creazione dei concetti e delle dottrine necessarie per integrare questi asset nelle forze esistenti richiederà plausibilmente molteplici anni”.
Nel valutare gli ambiziosi obiettivi del Ministero della Difesa, sorgono preoccupazioni riguardo all’adeguatezza della base industriale attuale per i suddetti compiti. Infatti, tra le voci di bilancio figurano alcune per le quali si può ragionevolmente dubitare che l’industria giapponese possieda le necessarie competenze. Di conseguenza, a fronte delle incertezze sulle proprie capacità industriali, il governo giapponese potrebbe trovarsi costretto a ricorrere al mercato d’armamenti estero. Tuttavia, la svalutazione dello yen pone il problema dei più alti costi d’importazione, potenzialmente minando alla base l’agognata efficacia del programma.
Infine, è proprio la sfida finanziaria ad essere diventata l’elemento più critico. La decisione sull’aumento delle tasse per sostenere il più alto budget di difesa è stata rinviata fino a dopo le elezioni di ottobre 2025. Il Partito Liberale Democratico (il partito leader nella coalizione di governo, guidato dal primo ministro Kishida) si ritrova attualmente ad affrontare quella che viene considerata la sua più significativa crisi di popolarità da decenni. Ciò sta accadendo in seguito a consecutivi scandali riguardanti le élites del partito, come quelli legati a presunte influenze del movimento conservatore della Chiesa dell’Unificazione e ad accuse di essersi sistematicamente intascati denaro non dichiarato proveniente da eventi elettorali di raccolta fondi.
Con un tasso di gradimento di solo 26% a gennaio 2024, formare un nuovo governo stabile guidato da Kishida appare arduo. Questo scenario segna una grave minaccia di discontinuità per l’impegno verso l’aumento della spesa in difesa, soprattutto nel momento in cui il nuovo parlamento eletto dovrà stabilire nuove aliquote fiscali, con relativi incentivi a deviare dal tracciato per non scontentare gli elettori.
Navigando in acque sconosciute
La forte decisione del Giappone sottolinea come sia cruciale per i policymaker il giostrarsi attorno al delicato equilibrio tra necessità di sicurezza nazionale, sostenibilità finanziaria, implicazioni strategiche e ricezione del pubblico. La corretta messa in atto della nuova strategia di difesa dipende strettamente dalla capacità del Giappone di affrontare efficacemente le sfide regionali e, nel contempo, di favorire la stabilità nell’Indo-Pacifico e di supportare un ordine internazionale fondato sul rispetto delle norme pattuite.
Resta ancora da vedere se il Giappone sarà in grado di emergere con successo come attore più forte e più resiliente sulla scena globale, o se dovrà affrontare retromarce contro i suoi ambiziosi obiettivi.
Di Giulio Cesare Graziani
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