GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 4

Siria, il report di EA

MEDIO ORIENTE di

La guerra interna, che si protrae dalla primavera del 2011, non è l’unico fattore che rende la Siria una delle peggiori crisi umanitarie dei nostri giorni. La pandemia, le dirette conseguenze che la guerra in Ucraina ha avuto sul mercato globale e i problemi dovuti al cambiamento climatico hanno contribuito a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita della popolazione siriana.

Per di più, la Siria continua ad essere il campo di battaglia dove potenze internazionali con aspirazioni regionali e/o globali si contendono il primato. Con la Russia sempre più impegnata in Ucraina e “indebolita” dalle sanzioni occidentali, gli spazi di manovra sul territorio siriano per forze come Iran, Israele e Turchia sono molto più ampi. In particolare, l’ex impero ottomano si mostra sempre più assertivo e minaccia un massiccio intervento nel nord della Siria, per gran parte in mano ai curdi.

Pace, stabilità e progresso sono tutti concetti che continuano a non trovare spazio tra il popolo siriano.

Di Carlo Costantino Porcu, analista Centro Studi Roma 3000

 

 

Una nuova NATO dopo Madrid?

Il vertice della NATO di Madrid, appena concluso, e la recentissima formalizzazione dell’ingresso di due nuovi membri nell’ambito dell’Alleanza sono stati presentati come un’altra risposta forte e decisa che il mondo occidentale ha voluto dare alla Russia. Il vertice ha inteso trasmettere l’immagine di una Alleanza compatta e determinata che si considera il baluardo della libertà e della democrazia contro il quale è destinata a infrangersi qualsiasi velleità di ricostituire un nuovo impero russo in Europa.

Un segnale importante che è stato, inoltre, esteso – peraltro in forma meno incisiva – anche nei confronti dell’altro autoritarismo che minaccia il mondo: la Cina, definita come l’avversario del prossimo futuro.

Se non ci limitiamo a un esame superficiale e spingiamo l’analisi oltre l’involucro mediatico delle dichiarazioni programmatiche e formali che contraddistinguono ogni vertice diplomatico politico ad alto livello, ci possono essere ulteriori chiavi di lettura che si prestano a valutare i risultati del vertice di Madrid.

In tale contesto possono essere fatte due osservazioni tra loro interdipendenti.

La prima riguarda il documento cardine che stabilisce la rotta che la NATO intende seguire. Si tratta del Concetto Strategico, cioè il documento programmatico che stabilisce e delinea le linee d’azione dell’Alleanza per i prossimi anni, approvato dal vertice di Madrid.

Leggendo il testo, se analizziamo i contenuti, questi ci riportano, senza dirlo esplicitamente, indietro di 30 anni, delineando lo scenario della Guerra Fredda. Una Guerra Fredda 2.0, invero, ma dove l’avversario è sempre lo stesso, anche se con un nome differente; dove le Nazioni europee (dell’EST!) si ritengono minacciate dall’essere fagocitate da un impero che non è più portatore di una ideologia politica, ma che è ugualmente visto come il nemico, l’unico e il solo, che incarna il pericolo per la democrazia e la libertà; dove, è bene sottolinearlo, la caratura degli esponenti politici che guidano l’Occidente non è certo paragonabile a quelli che hanno gestito la prima Guerra Fredda! Il resto del contesto geopolitico internazionale non è considerato quasi non esistesse.

Per arginare questa marea che è sul punto di dilagare in Europa il rimedio è sempre lo stesso: una rivisitazione della struttura della NATO, più uomini, più strutture, più tecnologia, più mezzi per rendere la NATO sempre più efficiente e dotarla di un nuovo credibile importante strumento di dissuasione. Il progetto di mettere in campo una NATO Response Force (NRF) di 300.000 unità, come prova della rinnovata volontà di dimostrare la coesione e la determinazione a reagire dell’Alleanza, ha il sapore di una boutade di altri tempi (Otto milioni di baionette!!!!). Se a malapena, e solo sulla carta, ogni anno si appronta una NRF di 40.000 unità, l’incremento sbandierato sembra apparire, esclusivamente un bluff propagandistico.

Il punto critico del Concetto Strategico risiede nella mancanza di una visione che sottintenda una prospettiva geopolitica ampia e coerente con lo sviluppo del contesto internazionale. Il nuovo ordine mondiale che si sta delineando, e che sembra che l’Occidente non voglia vedere, ha abbandonato il confronto Est vs Ovest; non esiste più una contrapposizione tra blocchi monolitici i cui interessi sono limitati al possesso fisico di una porzione di territorio (per quanto grande che essa possa apparire ai nostri occhi di occidentali); non ci sono più Triplici Intese o Entente Cordiale, gli Stati si accordano in base a esigenze specifiche fondate sul perseguimento di obiettivi politici che variano da regione a regione. Non esiste più un sistema di equilibrio di potenze che possa essere gestito dal di fuori con un attore geopolitico la cui azione, volta per volta, possa riportare l’ago della bilancia al centro.

Tutto questo l’Alleanza sembra non averlo percepito! Il nuovo Concetto rimanda a un tempo passato, dove possiamo cullarci in una situazione nota, chiara, ben definita e priva di incognite: il nemico è la Russia che vuole invadere l’Europa per ricostituire il suo impero (zarista o post-sovietico sono solo sfumature).

L’Alleanza con il vertice di Madrid ha perso un’occasione storica, quella di trasformare una organizzazione dalle potenzialità immense e unica nel suo genere da strumento vincolato a una geopolitica provinciale e fuori dal tempo, a mezzo strategico per proiettare il mondo occidentale e la sua visione culturale basata sui valori della democrazia e della libertà, quale protagonista nella costruzione di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali.

La seconda osservazione riguarda un concetto che gli esiti del vertice hanno sancito e cioè che il baricentro politico dell’Alleanza si è spostato ad Est!

Sono i Paesi ex sovietici che oramai dettano le linee guida dell’Alleanza. La nuova frontiera della NATO è costituita dal cordone di Paesi che dal Baltico si estendono sino al Mar Nero.

Sono loro che hanno riportato indietro le lancette del tempo, vincolando la vision atlantica allo scacchiere di Nord – Est, entusiasticamente sostenuti dal settore nordeuropeo dell’Alleanza poco desideroso di ampliare la sua prospettiva geopolitica oltre il giardino di casa.

L’appartenenza all’Alleanza è stata intesa da questi Paesi come il mezzo di ricevere assistenza e protezione contro l’avversario storico di sempre, nei confronti del quale i rancori, gli attriti le rivendicazioni e il sentimento di rivalsa non si sono mai sopiti e che adesso trovano motivo di essere rispolverati e usati come elemento di pressione.

Questo spostamento del baricentro è stato reso possibile da due fattori.

Il primo riguarda il rapporto privilegiato che è stato stabilito tra questi Paesi e gli Stati Uniti. Il deteriorarsi dei rapporti euroatlantici degli ultimi vent’anni ha creato una serie di tensioni che ha visto un’Europa occidentale sempre meno coesa e sempre più recalcitrante nell’aderire alla linea politica USA, cosa che ha determinato per l’alleato americano la necessità di gravitare sul settore orientale dell’Europa: sicurezza in cambio di adesione incondizionata alla linea politica americana.

Agli occhi degli Stati Uniti la costituzione di una cintura di sicurezza dal Baltico al Mar Nero costituita da Paesi non ribelli e senza pretese di politiche autonome, che possa imbrigliare la Russia in Europa, ha costituito l’elemento fondamentale per risparmiare risorse ed energie da indirizzare verso la gestione degli altri scacchieri mondiali. La necessità del Regno Unito di ritagliarsi un nuovo ruolo in Europa dopo la Brexit dall’Occidente ha offerto, poi, l’occasione di usufruire di un sicuro alleato quale demoltiplicatore per la gestione del concetto di sicurezza contro l’Orso Russo.

Il secondo fattore, intimamente connesso al primo è stata l’assoluta mancanza di coesione strategica che i Paesi occidentali hanno dimostrato, e che si è tradotta nella traslazione del baricentro verso Est.

Nulla di nuovo, il fenomeno è lo stesso che si è prodotto nell’Unione Europea dove, purtroppo, stiamo assistendo a una mutazione dell’asse portante del concetto culturale che ha dato vita all’Unione Europea. I nuovi Paesi che sono stati accolti e inseriti nell’Unione dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica si sono certamente impegnati per modificare e rendere compatibile il loro impianto economico finanziario ai requisiti di ingresso nella comunità europea e ne hanno tratto i benefici che a essa erano legati. Ma non hanno cambiato il loro impianto culturale, sociale e politico che sono rimasti dissimili da quelli occidentali. Libertà, democrazia, trasparenza, stato di diritto sono concetti che ad Est dell’allineamento Amburgo – Trieste ancora vengono declinati in modo differente da come invece, li intendiamo a Ovest di tale allineamento.

La miopia geopolitica dell’Alleanza unita a una certa pigrizia degli Alleati del fianco Sud nel prospettare un’alternativa ragionata alla nuova Guerra Fredda verso Est, stanno privando la NATO della possibilità di esprimere le sue capacità in scacchieri diversi da quello orientale ma che sono altrettanto importanti, pericolosi e critici per la posizione che l’Europa potrà avere nel futuro immediato.

Trascurare Africa e Medio Oriente è un errore di prospettiva colossale che limita e riduce le nostre chances occidentali di proporci come una valida alternativa culturale ed economica e come garanzia di stabilità e sicurezza nei confronti del polo rappresentato da Russia e Cina.

Non si tiene assolutamente conto che la Russia non esprime il suo disegno di grande potenza solo nei confronti dei suoi ex satelliti nell’Europa orientale, ma è presente sempre con maggior peso nel Mediterraneo, in Libia (grazie al “capolavoro” franco – inglese dell’eliminazione di Gheddafi), in tutto il Medio Oriente, dalla Siria sino all’Afghanistan. E a seguire, anche la Cina si sta consolidando in questi scacchieri, sia economicamente ma anche con le prime installazioni militari.

L’assenza di una prospettiva strategica a 360° e la cristallizzazione delle risorse e dell’impegno dell’Alleanza in senso unidirezionale verso Est rappresentano un fattore di debolezza intrinseco dell’Alleanza stessa che evidenzia come sia preminente l’interesse particolare di alcuni dei suoi membri ma non quello generale di tutti, avvalorando implicitamente una contrapposizione diretta verso la Russia stessa, che risulta essere oltre che pericolosa, anche, estremamente limitante.

Al di là del sottolineare una volontà condivisa nel non tollerare violazioni eclatanti del diritto internazionale come quelle commesse dalla Russia nel condurre il conflitto in Ucraina, il vertice dell’Alleanza non è stato in grado di generare una vision geostrategica all’altezza delle sue potenzialità e in linea con l’intrinseco valore geopolitico che il consesso dei Paesi occidentali è in grado di esprimere. Ci stiamo rituffando in una specie di Guerra Fredda per dare soddisfazione ai rancori mal sopiti del nostro Est europeo, perdendo di vista che la NATO costituisce l’unica organizzazione valida e utile per dare forma e consistenza al ruolo che l’Europa e l’Occidente che condivide i nostri valori, potranno svolgere nel nuovo sistema delle relazioni internazionali che sta prendendo forma adesso.

Roma: conferenza “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” organizzata dall’Ambasciata statunitense

Energia/ESTERI/EUROPA/POLITICA di

Lunedì 27 giugno 2022 l’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia ha organizzato l’evento “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” in collaborazione con il Centro Studi Americani e la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Leggi Tutto

NATO – Back to the future!

La prossima settimana a Madrid si svolgerà il vertice dell’Alleanza Atlantica che dovrà definire il Concetto Strategico che guiderà la NATO verso il nuovo decennio.

Il contesto geopolitico nel quale questo particolare e fondamentale appuntamento si realizza è estremamente delicato e le decisioni che saranno assunte avranno un peso specifico enorme non solo per l’Alleanza stessa, ma per il posizionamento dell’Europa e del mondo Occidentale nell’ambito di un nuovo sistema di relazioni che si sta sviluppando a livello globale e che sembra essere assolutamente e deliberatamente ignorato dall’Alleanza

Senza dubbio la crisi ucraina condizionerà pesantemente le decisioni che saranno adottate, considerando, soprattutto, la narrativa che vede nella Russia l’unico e il solo pericolo che l’Alleanza deve fronteggiare.

L’ultima dichiarazione del Segretario Generale, una sorta di lascito spirituale in vista dell’approssimarsi del termine del suo mandato, ribadisce, infatti, la volontà di identificare nella Russia il nemico da combattere e da vincere!

Se il fine del Concetto Strategico, proposto da Stoltenberg e ampiamente sostenuto dai Paesi Membri del Fianco Orientale, dovesse essere questo, allora la NATO tornerebbe alle origini, annullando in un attimo gli ultimi trent’anni di storia europea.

Ma siamo davvero sicuri che questa sia la visione corretta e che l’interpretazione della realtà forgiata da una propaganda incessante e unidirezionale, che attribuisce a Putin la volontà di ricostituire un neo-impero post-sovietico in Europa Orientale, sia il criterio sul quale si debba basare la strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro?

Fermo restando, a priori, la condanna dell’azione russa in Ucraina, ritengo che la situazione richieda un esame più oggettivo e meno idealistico – utopistico di quello condotto al momento. Non si può ragionare solo ed esclusivamente in termini di buoni (la NATO) e cattivi (i Russi) identificando nella ricostruzione del conflitto Est vs Ovest la ragione di esistenza dell’Alleanza.

La fine della cosiddetta Guerra Fredda aveva, correttamente, posto il problema della gestione del vuoto di potere che si era generato nell’Europa dell’Est a seguito dello sconvolgimento geopolitico provocato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica; la soluzione individuata tra le differenti ipotesi è stata quella di ammettere nell’Alleanza, in rapida successione, tutti, o quasi, i Paesi ex satelliti di Mosca, nella convinzione di amalgamare e occidentalizzare velocemente il fronte orientale e allontanare la frontiera lontano dal cuore dell’Europa e spostarla sempre più vicino al confine della Russia.

Il passo successivo, che richiedeva una procedura burocratica un po’ più lunga e complessa, è stato quello di aprire le porte dell’Unione Europea a tutti, cercando di far coincidere i limites militari con quelli economico – finanziari.

Inizialmente tutto è andato bene e la soluzione adottata sembrava essere quella vincente: una Russia addomesticata e pronta a diventare una succursale per il mercato europeo, i Paesi ex satelliti finalmente liberi e democratici ammessi a godere dell’opulenza occidentale, sostenuti ampiamente da una UE prodiga di aiuti economici e fondi da spendere, dove la sicurezza era assicurata dalla loro acquisita membership alla NATO.

Poi piano piano c’è stato un mutamento della situazione. Prima le regole dell’UE sono diventate troppo strette e soffocanti per alcuni Paesi il cui sentimento nazionale si è sentito offeso e limitato dalle procedure intrusive di Bruxelles. Per carità, l’euroscetticismo è presente un po’ ovunque e la Brexit ne è la testimonianza lampante.

Ovviamente, la libertà di perseguire il proprio interesse geostrategico è sacrosanta e nessuno la mette in dubbio. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che la condivisione di visioni regionali comuni, preesistenti all’UE, ha consentito lo svilupparsi di accordi particolari tra Paesi membri, come i 4V (Gruppo di Visegràd) o l’iniziativa dei Tre Mari che vedono la partecipazione degli ex stati satelliti, le cui visioni generali sostengono delle linee di azione che alle volte sembrano esprimere posizioni alternative alla visione comune e generale della UE, se non addirittura contrarie.

Successivamente, è iniziato lo sviluppo di una lenta ma costante narrativa tendente a evidenziare un sentimento strisciante di insicurezza e di minaccia che dal Baltico si è esteso verso il Mar Nero, le cui origini sono state identificate in una presunta volontà da parte di Putin di ricostruire lo scomparso impero sovietico.

La Russia è un vicino scomodo, certamente, e le recenti vicende storiche hanno profondamente segnato la memoria delle popolazioni, ma è anche vero che i rapporti tra Mosca e l’Est Europa sono stati contraddistinti nei secoli da una rivalità accesa che ha comportato un continuo alternarsi dei rapporti di forza tra i vari contendenti, il cui profondo sentimento nazionale e un’orgogliosa visione di se stessi ha purtroppo lasciato delle cicatrici che facilmente si ripresentano come ferite aperte.

Questo insieme di condizionamenti si è riflesso sulla NATO e sulla sua visione geopolitica spostando progressivamente, ma decisamente, l’attenzione sul fronte orientale.

Nel tempo si sono susseguiti una serie di analisi, allarmi, studi, rivelazioni più o meno precisi e veritieri che hanno presentato una realtà sempre più cupa e a tinte fosche nella quale il gigante russo si stava affilando le unghie per scatenarsi contro i poveri ex satelliti bramando di riportare i propri confini a quelli della Cortina di Ferro. Tra minacce di cyberattacchi, proliferare di troll sul web, attribuzioni di atti ostili di hybrid warfare, presunti rapporti segreti sulle strategie di conquista di Putin, nel corso degli ultimi anni si è concretizzata una narrativa a sostegno di uno scenario premonitore di una terza guerra mondiale.

Contestualmente, sono aumentate le richieste di sicurezza e di presenza della NATO nello scacchiere nordorientale, con un maggior spiegamento di forze (più basi uguale più entrate!) e una maggiore richiesta di supporto tecnico militare. Anche il clima esercitativo della NATO, che è sempre stato politicamente corretto nel non identificare direttamente la Russia come l’avversario contro cui prepararsi, ha subito delle modifiche sostanziali abbandonando, soprattutto negli ultimi anni, quella formale asetticità nel costruire i suoi scenari operativi di esercitazione.

Tutto questo è stato ampiamente sostenuto in ambito NATO dai Paesi nordici a cui non pare vero aver ritrovato un nemico che gli consenta di crogiolarsi in una comfort zone, abbastanza vicina, dove le incognite sono ridotte al minimo, dove si conosce tutto di un avversario ben definito e identificato che non impone la necessità di sconvolgere il proprio assetto di pensiero per affrontare un ambiente culturalmente distante, difficile da capire e che non si vuole affrontare perché richiede uno stravolgimento del proprio paradigma mentale (il Mediterraneo come porta di accesso all’Africa, il Medio Oriente quale cerniera di due mondi ormai prossimi).

Ovviamente la Russia non è stata con le mani in mano e ha sfruttato questa politica di revival da guerra fredda alimentando la narrativa raccontando la sua verità.

Alla fine, quello che è in atto da almeno un decennio è una specie di proxy war tra la componente ex sovietica della NATO e la Russia, dove i primi, facendosi scudo del fatto di essere membri della NATO, cercano di provocare la Russia stessa (a questo proposito l’ultima iniziativa della Lituania con il blocco dei rifornimenti all’enclave di Kaliningrad non sembra essere una mossa diplomatica proprio brillante), mentre i secondi non perdono occasione di gridare al vento di essere accerchiati da un’Alleanza bellicosa e pericolosa.

Si potrebbe avere l’impressione di assistere a un tentativo di rivalsa storica, dove persistono vecchie ruggini e non sopiti rancori che spaziano dal Principato di Kiev alla Federazione Polacco Lituana, passando attraverso l’epoca delle Crociate del Nord, per arrivare a un andirivieni di spartizioni territoriali che hanno modificato i confini dell’Est europeo stratificandosi in un miscuglio di minoranze e maggioranze etnico linguistiche difficile da distinguere e da accertare.

Senza entrare nel merito di queste rivendicazioni, vere o presunte che esse siano, il problema principale è che tutto ciò è stato fatto utilizzando come ombrello di protezione l’appartenenza alla NATO e quindi una presunta sicura protezione da parte di una ritorsione dell’orso russo.

Vista in questi termini, e pur considerando che la Russia non è immune da colpe, la NATO ha buttato via trent’anni di storia ritornando all’anno zero: il 1949!

Il nuovo Concetto Strategico probabilmente sancirà questo ritorno al futuro e non solo perché c’è l’influenza dell’onda emotiva della crisi ucraina, ma soprattutto perché manca una visione strategica ampia, equilibrata e profonda che sia in grado di spingere lo sguardo dei vari Paesi Membri al di là dei limitati interessi che ne pervadono la politica nazionale.

Il ritorno al futuro sottolinea che non esiste un interesse comune e condiviso dell’Alleanza Atlantica in se stessa ma, purtroppo, solo ed esclusivamente un insieme di interessi parziali, che sfruttano la NATO limitando le sue capacità di poter essere un attore di rilievo nel panorama geopolitico globale e relegandola al ruolo di deuteragonista in uno scenario europeo la cui importanza si sta dissolvendo in una evanescente rincorsa del passato.

La geopolitica tecnologica della Turchia

L’ascesa della importanza geopolitica della Turchia e l’aumento della sua proattività diplomatica delineano una parabola che proietta il Paese verso il conseguimento di una rilevanza strategica che, trascendendo i limiti geografici regionali, le sta facendo assumere il ruolo di potenza euroasiatica.

Il percorso tracciato da Erdogan non è stato lineare, ha affrontato parziali insuccessi ed è stato reso di difficile lettura per le sue apparenti contraddizioni, ma ha consentito alla Turchia di costruire un’immagine di un Paese con una precisa strategia nazionale, decisamente proteso a realizzare quelli che considera gli obiettivi primari per il conseguimento dei suoi interessi geopolitici.

Se, nella seconda metà del precedente anno la Turchia sembrava essere un paese isolato diplomaticamente, in bilico tra Est ed Ovest ma distante da entrambe e privo di una prospettiva geopolitica, adesso la situazione è completamente cambiata; l’accelerazione impressa dalla crisi ucraina all’evoluzione dello scenario internazionale ha permesso ad Erdogan di ritornare a svolgere un ruolo attivo nel contesto internazionale.

La propositività dimostrata dalla Turchia nell’offrirsi come mediatore o facilitatore nell’ambito delle ipotesi di risoluzione della crisi ucraina ha consentito ad Ankara di uscire dall’isolamento e di riappropriarsi dell’iniziativa diplomatica necessaria a perseguire gli interessi di potenza regionale.

Il ruolo proposto di trait d’union diplomatico tra gli opposti schieramenti è frutto sia della approfondita conoscenza del pensiero geopolitico russo, conseguenza di secoli di contrapposizione regionale, sia dei legami politico economici stabiliti da più anni con l’Ucraina e rinforzati dalla fornitura costante di materiale tecnologico militare di altissimo livello, rivelatosi di critica importanza nel conflitto in atto.

In questo modo la Turchia rilancia la sua posizione aprendo un nuovo orizzonte alla sua politica e proiettando, anche lontano dal bacino del Mediterraneo, la sua attività internazionale.

Allo stato attuale, quindi, Ankara siede a più tavoli essendo uno dei protagonisti attivi nel Mediterraneo (crisi libica e crisi siriana) e nell’Asia (crisi Armenia Azerbaigian); inoltre è un membro della NATO, la cui posizione rimane critica per la coesione del fianco Sud del dispositivo atlantico.

Il perseguimento di questa politica rivolta a 360° è stato supportato da una diplomazia aggressiva e poliedrica che ha proposto la posizione di Ankara in differenti ruoli: partner commerciale, alleato, pivot per il conseguimento di una stabilità in aree di crisi. Diplomazia supportata spesso dal ricorso a strumenti di pressione esercitati sia compiendo scelte politiche destabilizzanti (acquisto dai Russi del sistema missilistico S-400), sia ricorrendo ad operazioni cinetiche dirette (Siria e Libia) o indirette (Azerbaigian).

Nell’analizzare l’evoluzione della linea strategica di Ankara si deve considerare che uno dei fattori di potenza critici per il raggiungimento di questa situazione, ancorché spesso sottovalutato e poco conosciuto, è stato quello dello sviluppo tecnologico raggiunto dal Paese nel settore della robotica applicata alle operazioni militari.

In questo campo i progressi conseguiti dalla Turchia sono di altissimo livello e pongono il Paese in una posizione di assoluto rilievo nel panorama mondiale.

L’applicazione della robotica investe l’intero spettro delle operazioni militari comprendendo i domini terrestre, navale ed aereo con l’introduzione di un concetto di operazione innovativo che si avvale di un arsenale di smart weaponry in continua evoluzione.

La punta di diamante di questa rivoluzione tecnologica, che ha interessato le Forze Armate turche, è rappresentata dai sistemi automatici con controllo remoto.

Sono, infatti, presenti allo stato attuale numerose piattaforme operative sia aeronautiche sia navali mentre la concezione e lo sviluppo di sistemi terrestri autonomi con controllo remoto è in avanzato corso di realizzazione.

Deve essere sottolineato che la tecnologia utilizzata per la produzione dei differenti sistemi è di provenienza quasi esclusivamente nazionale, fattore che presenta due enormi vantaggi strategici.

Il primo è quello che colloca il settore della ricerca e dello sviluppo turco, nell’ambito del controllo remoto di piattaforme, in una posizione assolutamente emergente consentendogli, in ambito NATO, di essere secondo esclusivamente agli USA.

Il secondo, ancora più importante dal punto di vista delle implicazioni geopolitiche future, consiste nel rendere la Turchia indipendente ed autonoma dal punto di vista delle risorse tecnologiche di elevato livello e quindi poco sensibile a qualsiasi azione esterna.

Se le potenzialità dei sistemi navali e terrestri sono ancora in via di valutazione ai fini di identificarne le capacità operative intrinseche, il settore delle piattaforme aeree ha ormai raggiunto un livello di sviluppo notevole e un elevato grado di sofisticazione.

I doni realizzati dall’industria turca, oltre a essere diventati una componente essenziale dell’arsenale delle Forze Armate di Ankara sono ampiamente esportati non solo in Africa e nel Medio Oriente ma anche in Europa. Infatti, oltre all’Ucraina anche Polonia, l’Ungheria e alcuni Paesi Baltici hanno acquistato materiale UAV (Unmaned Aerial Vehicle) dalla Turchia.

Le potenzialità di mercato sono in continuo aumento e hanno collocato la Turchia tra i maggiori produttori del settore scalzando addirittura le industrie israeliane in alcune commesse in Europa.

Dal punto di vista operativo il successo turco risiede nell’aver inserito gli UAS (Unmanned Aerial Systems) nell’ambito più esteso della loro battle network (una sistematica combinazione di sensori componenti di comando e controllo, piattaforme operative e armamenti interconnessi ad una una rete di comunicazioni elettroniche).

Nell’ambito di questo sistema operativo i droni sono utilizzati in compiti e funzioni specifici.

Innanzitutto, come piattaforme ISTAR (Intelligence, Sorveglianza, Acquisizione Obiettivi e Ricognizione) per il raggiungimento di una superiorità nel campo informativo; una seconda funzione riguarda la SEAD (Suppression of Enemy Air Defence) dove la presenza innovativa dei droni ha caratterizzato una nuova modalità operativa.

In aggiunta alle precedenti due funzioni operative la dottrina turca prevede anche l’utilizzo dei droni come piattaforme di lancio, avendo l’industria sviluppato un range di munizionamento che consente di ottenere risultati cinetici sfruttando le ottime doti balistiche dei vettori e la loro tecnologia estremamente efficace.

Tutte e tre queste funzioni sono state ampiamente sperimentate con successo nei teatri dove la presenza turca ha fatto registrare azioni cinetiche e rappresentano la conferma delle capacità operative e tecnologiche delle Forze Armate turche.

La cultura strategica turca, si basa sull’esercizio attivo del potere militare, qualora ritenuto necessario; Per questo motivo la politica di sicurezza nazionale ha definito due concetti chiave su cui sviluppare la propria dottrina. Si tratta della Deterrenza Attiva (che risponde al Concetto Strategico di Difesa Militare) e delle Due Guerre e mezzo (che corrispondono al paradigma geostrategico militare di essere preparati a due conflitti convenzionale e supportare un conflitto a bassa intensità).

Da un punto di vista concettuale l’introduzione di tecnologie robotiche di alto livello, come quelle che hanno reso possibile lo sviluppo dei sistemi a controllo remoto, ha ampliato ed amplificato le capacità turche di dare una risposta positiva e di successo al concetto strategico nazionale.

La nuova frontiera che i droni hanno aperto consente, infatti, di implementare il valore strategico delle operazioni militari delle Forze Armate turche rendendole meno soggette all’impatto delle perdite di risorse umane, più efficaci e con margini di successo amplificati nell’eseguire operazioni di precisione, meno gravose sull’economia generale del bilancio della Difesa e, soprattutto, meno dipendenti dall’assistenza di Paesi stranieri.

La Turchia ha dimostrato, ancora una volta, di avere enormi risorse e potenzialità poco considerate e poco riconosciute, ma soprattutto ha dimostrato la sua volontà di seguire quegli obiettivi geopolitici che corrispondono al suo interesse strategico facendo leva sull’orgoglio e sulle capacità nazionali.

Ankara, nonostante i progressi raggiunti, è ancora nella fase iniziale di sviluppo di questa trasformazione tecnologica, ma si trova due passi avanti a tutti i Paesi della NATO e questo è un fattore che dovrebbe essere attentamente valutato.

La possibilità di includere la Turchia nell’Unione Europea e usufruire del dinamismo e della potenzialità della società turca è sfumata da tempo per la becera e cieca mancanza di visione di alcuni Paesi membri (che probabilmente considerano solo Europa ciò che guarda a Nord del continente).

La Turchia fa parte della NATO da sempre e continua a rappresentare il baluardo dell’Alleanza nel settore meridionale, ma da tempo si agita perché il suo ruolo non è giustamente valutato e riconosciuto. La percezione di una NATO concentrata su stessa e rivolta solo a Nord convincerebbe la Turchia a rivalutare le sue scelte geostrategiche.

Non possiamo privarci dell’apporto e delle enormi risorse che la Turchia può rendere disponibili all’Alleanza perché un suo allontanamento dalla NATO segnerebbe la fine dell’Alleanza stessa e aprirebbe una serie di scenari geopolitici che probabilmente stravolgerebbero l’Europa come adesso la conosciamo, relegandola da attore primario a comparsa di secondo piano, ostaggio del confronto che oramai è in atto tra gli USA, la Russia, la Cina e l’India.

Come la Russia vede la crisi ucraina

Russian President Vladimir Putin (foreground left) and Russian Prime Minister Dmitry Medvedev  EPA/MIKHAIL KLIMENTYEV / RIA NOVOSTI / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

 

 

 

Il clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua conclusione. Le sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta dell’aggressore. O almeno, così sembra.

Infatti, l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni. La NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la sua reale forza. La propaganda occidentale, travestita da informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il coraggio di concedere un diritto di replica.

La diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la giustizia. Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.

Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia, legalità e diritti individuali!

Questa è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni. Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse da quelle che noi assumiamo debbano essere?

Forse sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).

Nel condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione occidentale sugli sviluppi del conflitto.

Procediamo innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il punto di vista militare!

La mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare del conflitto.

Ma la conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin! Lo scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della leadership di Putin.

Infatti, le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo prestabilito: l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima russa delle aree orientali dell’Ucraina.

Se consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!

Secondo punto. L’Occidente deve scongiurare un’escalation del conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.

Quindi, per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass e in Crimea.

Ma questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto. Infatti, anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.

Quindi nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme. Putin è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e lo vive intimamente.

Una situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.

Altro elemento di analisi. La posizione di potere di Putin all’intero dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di stato.

Sicuramente l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia politica. Duma e Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente. Come pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura russa: un nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.

La dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione democratica che i media occidentali danno come imminente. Non ci sarà una Primavera Russa!!

Infine. Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno facendo perdere la guerra.

Voci e notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.

Che Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca. Errori di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna purga di carattere staliniano.

Quindi Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi collaboratori rimane intatta. Non esiste la possibilità che il sistema politico di Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.

Il quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.

La dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.

Sostenere militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della NATO) perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa di un Putin disperato e fuori controllo.

Per quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia, ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.

La soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori: il primo è il diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione russa della sua sicurezza; il secondo concerne la ridefinizione delle ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni geopolitiche.

Entrambi i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.

L’Occidente è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.

Mosca ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della Russia.

Questa visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e dall’altra.

Il punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale. Un ordine dove gli strumenti per la risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.

E l’Ucraina? L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le premesse per l’esplodere di questo conflitto.

A chi interessa la pace?

EUROPA di

A quasi 100 giorni dall’inizio di quella che a Mosca chiamano “operazione speciale” (la versione postsovietica dell’understatement britannico ha quasi sempre risvolti ironici), l’ipotesi di un cessate il fuoco in Ucraina e dell’avvio di negoziati “seri” appare ancora remota, per varie ragioni.

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Svezia e Finlandia nella NATO. Cui prodest?

La notizia che la Svezia e la Finlandia abbiano recentemente formalizzato la loro richiesta di entrare a far parte della NATO è stata presentata come un colpo definitivo assestato all’avventura russa in Ucraina e come un successo politico che consente all’Alleanza di annoverare tra le sue fila anche due giganti della scena internazionale capaci di imbaldanzire e ridare fiducia a un’organizzazione ormai in stato vegetale e incapace di opporsi, se non a parole, al malvagio Putin e alle sue mire zariste.

La decisione è maturata sulla scia degli avvenimenti che hanno direttamente interessato l’Europa orientale, sconvolgendo non solo tutto il sistema geopolitico occidentale ma anche l’equilibrio dei rapporti tra la Russia e la NATO stessa.

La sensazione di minaccia e di pericolo che le attività russe hanno generato in Occidente ha determinato la decisione da parte dei due Paesi Scandinavi di abbandonare la loro condizione di neutralità formale e di divenire parte integrante dell’Alleanza Atlantica e anche della NATO.

Fermo restando il diritto di ogni Paese di perseguire in piena autonomia i propri interessi nazionali e di basare su essi le proprie scelte politiche, la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia stimola una serie di considerazioni sulla natura della decisione e sulla tempistica con la quale è stata presentata, nonché sulla opportunità, in termini strategici, della condivisione di un tale passo.

In primo luogo, i due Paesi non condividono lo stesso retaggio storico e hanno maturato esperienze differenti nei confronti della Russia e quindi è difficile riconoscere le stesse motivazioni alla base della loro scelta.

La Svezia, da oltre due secoli, ha adottato una posizione di neutralità formale, che gli ha consentito di non essere coinvolta direttamente nei conflitti che hanno cambiato l’Europa, sfruttando, però, tale posizione per ottenere dei benefici economici senza nessuna remora morale. I suoi rapporti con la Russia non sono stati caratterizzati da particolari ostilità da quando Gustavo III e Caterina II siglarono la pace di Värälä alla fine del XVIII secolo, inoltre, non ha nessuna minoranza russofona nel suo territorio e non ha ricevuto, da parte di Putin, pressioni, dirette o velate, che potessero mettere in pericolo la sua sicurezza. Ha una fiorente industria militare e da molto tempo, partecipa alle attività della NATO, dato che il suo strumento militare è pienamente integrato nelle procedure dottrinali dell’Alleanza e che anche il suo personale ricopre incarichi di consulente presso alcuni dei comandi della NATO stessa, senza peraltro che ciò abbia suscitato particolari rimostranze da parte russa.

Il percorso storico della Finlandia è, invece, alquanto differente ed è legato a doppio filo al suo ingombrante vicino. L’indipendenza guadagnata dopo la dissoluzione dell’Impero zarista, la Guerra d’inverno e la partecipazione al Secondo Conflitto Mondiale dalla parte della Germania hanno condizionato nel dopoguerra i rapporti russo finlandesi, indirizzando le scelte politiche del Paese verso una posizione di neutralità, che ha consentito alla Finlandia di non essere sovietizzata, ma che ha lasciato una insoddisfazione di fondo per il ridimensionamento territoriale subito. Da tempo pure la sua neutralità è stata più formale che sostanziale, avendo operato delle scelte dirette mediante l’adesione all’Unione Europea e la partecipazione stabile alle attività addestrative della NATO, anche in questo caso, senza per questo destare particolari attriti con Mosca. Infatti, i rapporti con la Russia, pur non volendoli considerare pienamente amichevoli, non hanno mai registrato particolari problematiche e non ci sono state da parte russa minacce dirette alla sicurezza della regione.

Quindi si può ipotizzare che le motivazioni alla base della richiesta di entrare nel Club Euroatlantico siano state condizionate non solo dalla generale paura che il risveglio dell’orso russo ha diffuso nell’Occidente, ma anche e, soprattutto, da considerazioni opportunistiche di politica interna e da pressioni esterne volte a costruire l’impressione che un’sistema Euroatlantico, riportato in vita da un’agonia annunciata, sia in grado di presentare un fronte comune omogeneo e compatto, anche dal punto di vista militare, tale da opporsi con successo alle mire espansionistiche di Mosca.

Per quanto attiene al particolare momento scelto dai due Paesi per inoltrare la loro richiesta di adesione possono essere fatte alcune considerazioni di carattere generale.

Da un punto di vista strettamente propagandistico la decisione dei due Paesi di abbandonare una posizione di neutralità radicata nel tempo e di schierarsi, anche militarmente con l’Occidente antirusso, avrebbe avuto un impatto maggiore e ben più importante se essa fosse avvenuta dopo gli avvenimenti che hanno interessato la Crimea. Nel 2014 una scelta di tale portata avrebbe dimostrato una reale volontà del Club Euroatlantico di contrastare seriamente ulteriori avventure di Mosca nell’Est europeo. Invece il consesso euroatlantico ha svalutato il ruolo e l’importanza della NATO vagheggiando e delirando sulla costruzione di un concetto di difesa europea.

Ma questa scelta di far parte dell’Alleanza la Svezia e la Finlandia non l’hanno concretizzata, eppure già si potevano intravvedere quali potessero essere gli sviluppi futuri in termini di sicurezza e pericolosità dell’aera. E nessuno al tempo ha esercitato pressioni per suggerire o stimolare una così radicale scelta di campo.

Se, invece, consideriamo l’aspetto in termini geostrategici, la mossa di spingere Svezia e Finlandia a presentare la loro richiesta, non appare essere un capolavoro di diplomazia, in quanto comporta due conseguenze pericolose.

La prima, fermo restando la condanna assoluta dell’uso della forza da parte di Mosca, se le motivazioni adottate da Putin sono basate sulla necessità di dimostrare la volontà russa di non sottostare a un accerchiamento da parte della NATO, percepito a torto o a ragione come una minaccia diretta al territorio della Russia, la decisone di Svezia e Finlandia e le pressioni sulla Georgia per fare altrettanto, non sembrano essere la scelta migliore per riuscire a disinnescare una situazione diplomatica che sta diventando ogni giorno più tesa e difficile da risolvere. Il termine di questo conflitto richiede una soluzione di compromesso, che ci piaccia o meno, che dia la possibilità ad entrambe i contendenti di potersi ritirare con un qualche cosa da esibire come risultato positivo, quindi, la proposta dei due Paesi nordici non è né tempestiva, né strategicamente coerente, in quanto non fa che incrementare e giustificare, in un certo senso, la schizofrenia russa.

La seconda riguarda, invece, l’obiettivo strategico alla base della posizione assunta dagli Stati Uniti e condivisa, obtorto collo, anche dal resto dell’Occidente: la caduta di Putin.

Il sostegno all’Ucraina e la conclusione vittoriosa del conflitto con la Russia hanno come scopo fondamentale quello di dimostrare da una parte la ritrovata capacità degli Stati Uniti ad impegnarsi sia come difensore del concetto di democrazia e del rispetto della legalità internazionale, sia come garante dell’ordine mondiale, dall’altra la volontà di decretare e realizzare la caduta politica di un avversario pericoloso e scomodo come Putin.

Quello che tale visione strategica non considera e che il problema non è rappresentato da Putin in quanto tale e dal suo modo di intendere le relazioni internazionali, ma dalla particolare percezione che la Russia stessa ha del mondo e del ruolo che ritiene gli spetti nel contesto globale.

La considerazione che la Russia ha di sé stessa può non essere condivisa e, quindi, può anche essere contrastata, ma deve essere riconosciuta e considerata alla stessa stregua di quanto avviene per tutti gli altri Paesi che, a torto o a ragione, ritengono di avere una missione affidata loro dalla storia alla quale uniformano il perseguimento della loro politica internazionale, come la Cina, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e gli stessi Stati Uniti.

L’aver scoperto di essere impreparati a gestire una crisi come quella ucraina e di essere impotenti contro un avversario che si riteneva addomesticato per mancanza di una visione strategica, porta ad accettare, come valide, scelte politiche azzardate come quella di stimolare un allargamento della NATO, sperando in tale modo di ottenere un risultato politico che si rifletta sulla tenuta del regime di Putin.

Il punto non è Putin ma la sensazione di insicurezza nella mentalità russa che una cattiva gestione della comunicazione sulla percezione della NATO ha generato negli anni.

A questo proposito uno studio commissionato alla Rand Corporation da parte dell’Aeronautica degli Stati Uniti nel 2017, avente come oggetto Hybrid Warfare in the Baltics Threats and Potential Responses, effettuato da Andrew Radin, aveva generato delle raccomandazioni sulle scelte strategiche da porre in atto per contrastare una possibile escalation della situazione nell’Europa orientale di cui la più importante era costituita dal seguente passo:

“The United States and NATO should take action to mitigate the risks that a NATO deployment in the Baltics will increase the potential for low-level Russian aggression. To this end, the United States and NATO should avoid basing forces in Russian-dominated areas, should consider measures to increase transparency or avoid the perception that deployed forces may be used to pursue regime change, and should develop a sound public relations campaign to convince local Russian speakers that NATO is not deploying forces against them.”

Le premesse per poter adottare un atteggiamento più attento e più lungimirante ci sono state ma, probabilmente, la necessità di dimostrare una nuova vitalità nel campo delle relazioni internazionali da parte di una Amministrazione USA condizionata da una visione morale e non pragmatico – strategica della sua politica estera, ha portato alla situazione che abbiamo oggi.

Per ovviare alla impossibilità di contrastare un avversario politicamente deciso e che persegue gli interessi nazionali secondo una strategia diretta, agli Usa e all’Europa non basta aumentare il numero dei Paesi membri, accogliendo Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica, ma serve la definizione di una politica reale, con obiettivi condivisi e comunemente accettati e, soprattutto, la volontà di impegnarsi in prima persona nel conseguimento di tali obiettivi, senza delegare e senza nascondersi dietro la foglia di fico della partecipazione al Club Euroatlantico sperando che le proprie responsabilità siano assunte asetticamente dall’organismo di cui facciamo parte.

In conclusione, Svezia e Finlandia, e anche Georgia, hanno tutto il diritto di seguire una loro politica che concretizzi i loro interessi nazionali e quindi chiedere di poter aderire ad un organismo nel quale la loro percezione di sicurezza possa essere aumentata, ma la NATO e i suoi Paesi membri, hanno lo stesso diritto, e anche il dovere, di valutare con attenzione l’opportunità della richiesta in relazione al contesto geopolitico in atto e la valenza delle conseguenze che le loro scelte possono determinare.

Putin ha sbagliato e la modalità scelta per far valere quelle che ritiene essere le sue ragioni sono da condannare senza riserve, ma l’Occidente non può sperare di ripristinare la legalità internazionale e la pace in Europa, semplicemente ingrandendo la NATO e riducendo alla figura di una sola persona la caratterizzazione di un rapporto politico con un Paese che, invece, esprime una percezione politica di sé stesso e del contesto internazionale precisa e definita, ancorché differente dalla nostra. Alla fine, Putin potrà essere anche detronizzato e l’Ucraina sarà ammessa nell’ l’Unione Europea e forse anche nel Club Euroatlantico, ma il problema della NATO, percepita come un organismo di pressione e pericoloso per la stabilità mondiale, rimarrà e non solo agli occhi della Russia, ma anche a quelli della Cina!

La guerra Russo-Ucraina spinge la Finlandia verso la NATO

EUROPA di

La storia è l’archivio degli avvenimenti accaduti nel passato, che spesso ci riporta alla mente gli errori già visti durante i conflitti bellici. L’esempio può essere tratto dalla vicenda finlandese, dove il territorio della Finlandia fu oggetto dell’invasione e dell’occupazione ostile da parte dell’Unione Sovietica, a causa del rifiuto del governo di Helsinki di cedere parte dell’istmo di Carelia e di accettare basi navali sovietiche sul proprio territorio, tanto che fece irritare Stalin per l’intransigenza di quel piccolo Paese che osò sfidare il potente vicino.

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