GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 6

Gli Stati Arabi e la crisi ucraina

 

La risposta negativa da parte degli Stati Arabi del Golfo o meglio la mancata adesione alle richieste americane di condanna della Russia, per l’invasione dell’Ucraina, ha posto l’accento sulle relazioni tra gli USA e i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), evidenziando il crescente scetticismo che viene riservato al ruolo degli Stati Uniti quale tradizionale partner privilegiato nell’aerea.

La posizione di strategica neutralità assunta dal GCC deriva dalla mutata impostazione geopolitica dell’area, dove l’espansione della influenza economico-politica della Cina e della Russia ha creato una nuova realtà multipolare che da tempo ha messo in discussione la leadership americana.

Le difficoltà dei rapporti USA – GCC sono originate rispettivamente dalla declinante fiducia nell’impegno degli Stati Uniti a garantire la sicurezza dei Paesi Arabi alleati e da parte USA dal disappunto per politiche regionali che ostacolano e rendono complesso il conseguimento degli obiettivi geopolitici americani.

Nel particolare, infatti, le relazioni tra gli USA e i Paesi del GCC, improntate sul binomio energia e sicurezza, hanno subito nel tempo un deterioramento causato da una serie di fattori che hanno caratterizzato, nell’ultimi quindici anni, la visione strategica USA nell’area evidenziandone una limitata profondità geopolitica.

Sotto il punto di vista dell’approvvigionamento energetico, la ricerca e il conseguimento dell’autonomia nel settore dei combustibili fossili attuato dagli USA ha generato l’errata asserzione che la produzione di energia degli Stati del GCC non avesse più un valore strategico. Anzi l’espansione dell’attività USA nel settore specifico è stata percepita come una concorrenza volta ad alterare il conseguimento di una collaborazione per conferire equilibrio al mercato globale dei combustibili, in un momento di particolare e delicata transizione verso fonti alternative.

Da qui è derivata la crescita di importanza della Russia nell’ambito dell’OPEC+ quale elemento di stabilità e di affidabilità nella gestione delle risorse energetiche fossili.

Per quanto attiene al concetto di sicurezza, questo ha rappresentato, da sempre, la principale ragione d’essere della presenza USA nella regione e delle sue positive relazioni con i Paesi del GCC.

La fiducia riposta nell’impegno a garantire la protezione agli alleati contro le minacce alla loro sicurezza e nella capacità di assicurare un equilibrio politico nell’area mediorientale è stata messa in discussione e si è incrinata per una serie di scelte politico – diplomatiche che hanno messo in dubbio l’importanza strategica dell’area nella visione americana.

L’inconsistenza politica e la ingenuità dimostrata nella gestione della cosiddetta Primavera Araba, il ruolo ambiguo e marginale svolto nel conflitto siriano, la scarsa considerazione delle esigenze di Paesi del GCC nella stipulazione degli accordi sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA) con l’Iran, Paese che è percepito come la principale minaccia alla stabilità dell’area, le continue dichiarazioni di interesse prioritario verso lo scacchiere Indo Pacifico nel tentativo di contrastare la sfida della crescente influenza cinese, hanno determinato uno scetticismo sempre maggiore nei confronti della determinazione americana a svolgere quel ruolo di garante della sicurezza che assicurava la stabilità dell’area, ritenuta fondamentale dai Paesi del GCC.

Scetticismo che è stato ulteriormente, aumentato dall’atteggiamento estremante attivo assunto dagli USA nella crisi ucraina (e dalle pressioni esercitate su Paesi del GCC per condannare la Russia) e dalla considerazione inerente alle risorse militari offerte all’Ucraina, giudicate quantitativamente sproporzionate in relazione a quelle rese disponibili per supportare gli alleati mediorientali nella loro domanda di sicurezza.

Nel particolare sono le relazioni dirette con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno maggiormente sofferto questo calo di fiducia nell’impegno USA nella regione ed è proprio verso questi due Paesi che si sono rivolte con più attenzione le iniziative politico economiche della Cina.

Pechino ha iniziato da lungo tempo una politica di penetrazione commerciale volta ad inserirsi nell’area mediorientale occupando tutti gli spazi lasciati vacanti dalla poco attenta visione USA.

Se, sino ad ora, le attività cinesi sono state condotte con circospezione evitando di poter essere considerate come attacco diretto volto a distruggere le relazioni di alleanza tra GCC e USA, le conseguenze della crisi ucraina hanno aperto nuove possibilità all’azione diplomatico economica della Cina.

Recenti incontri di vertice della Cina con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno reso chiara l’intenzione di Pechino di adottare una linea politica più decisa e più aperta nel sostegno degli interessi nazionali finalizzati all’acquisizione di una posizione dominante nell’area.

La posizione di strategica neutralità dei Paesi GCC assunta nei confronti della Russia, finalizzata a non danneggiare gli ottimi rapporti stabiliti con Mosca (stabilizzazione della crisi siriana e gestione congiunta delle quote di greggio) sono stati recepiti da Pechino come un segnale positivo nell’ambito di eventuali azioni intese a risolvere la questione di Taiwan. Inoltre, la rinnovata disponibilità alla partecipazione attiva al grande progetto della Belt and Road Initiative (B&RI) ha comportato la stesura di una serie sempre maggiore di accordi e partneship commerciali che hanno portato alla realizzazione di enormi investimenti da parte di Pechino.

Il risultato di questi accordi ha avuto due importanti conseguenze che hanno ulteriormente indebolito la posizione USA.

La prima è quella dell’inclusione della regione mediorientale in uno scacchiere geopolitico che oramai ha spazzato via tutti i precedenti riferimenti, estendendosi senza soluzione di continuità dall’Europa all’Asia globalizzando e trasformando il concetto di relazioni internazionali.

La seconda, strettamente connessa alla prima è quella della condivisone con Pechino di una visione strategica dove non esistono più vincoli all’ingresso nell’area di potenze esterne come l’India in aggiunta, ovviamente, alla presenza della Cina e della Russia, sulla base della ricerca di un sempre maggior volume di investimenti e di attività di cooperazione non solo limitate alla sfera economico commerciale.

L’aspetto fondamentale per i Paesi del GCC è la partecipazione a un mercato più ampio, dove gli investimenti e le partnership economiche offrono l’accesso a tecnologie e risorse indispensabili per affrontare la trasformazione da una società basata sullo sfruttamento delle energie fossili a un mondo con accesso a fonti alternative. Ed è questa la chiave di volta su cui si basa la strategia di Pechino!

Offrire un fondamentale supporto per l’accesso alle nuove tecnologie, proporsi come partner privilegiato nella transizione verso fonti rinnovabili e nell’attesa costituire il maggior partner per l’acquisto del greggio, senza pretendere come condizione pregiudiziale il rispetto di regole e di comportamenti sociali ritenuti intrusivi e moralmente inadeguati.

Attraverso il conseguimento di questi obiettivi Pechino vede la possibilità di creare un cuneo politico tra i Paesi del GCC e il loro principale attuale alleato, dando luogo a una revisione degli equilibri geopolitici.

Il fine ultimo non sembra essere quello di ricoprire un ruolo egemonico sostituendosi agli Stati Uniti ma, invece, di creare una specie di direttorato con Russia e India, escludendo progressivamente gli Stati Uniti da un’area che è la cerniera tra lo scacchiere Indo Pacifico e quello Euroasiatico.

Controllando tale area economicamente, finanziariamente e politicamente (ma non solo, in quanto si sta sviluppando anche una certa presenza militare cinese negli Emirati), la Cina creerebbe le condizioni migliori per la sicurezza degli assi di penetrazione marittimo e terrestre sui quali si articolala sua B&RI e che sono diretti al cuore economico del Vecchio Continente!!!!!

Nello stesso tempo la possibilità di coinvolgere in questa nuova realtà geopolitica sia la Russia (rivitalizzata nel ruolo di grande potenza) sia l’India (gigante che ancora si deve alzare in piedi) mediante la condivisone di una visione strategica comune, senza l‘Occidente, che focalizzerebbe questi due partner geopolitici in un’area di intervento lontana dalle coste cinesi dell’Asia e dal Pacifico lasciando alla Cina il ruolo di arbitro di questo nuovo ordine mondiale.

Questo è lo scenario che si può preconizzare in base all’analisi delle mosse che un Occidente, sempre più cieco, sempre più rinchiuso in sé stesso, privo di una visione politica a lungo raggio, prigioniero dei suoi ideali e delle sue idiosincrasie concettuali, ha messo in atto per contrastare una crisi, quella ucraina, che se pure frutto di un comportamento moralmente inaccettabile da parte russa, in qualche modo ha contribuito a stimolare e che non è in grado di affrontare con provabilità di successo.

Ma questo scenario non è stato ancora concretizzato, c’è ancora tempo e c’è ancora spazio per una ripresa da parte dell’Occidente che, con le risorse immense umane, morali ed economiche che possiede ha le capacità per proporre un’alternativa geopolitica a Cina e Russia in grado di sostenere lo sviluppo, la cooperazione e la partnership economica dei Paesi del GCC pur non abiurando al pieno rispetto dei principi universali di libertà e democrazia su cui si basa l’Occidente.

Ovviamente non solo solo gli Stati Uniti che devono riprendere alla mano una vera linea di politica mondiale, ma anche l’Europa è chiamata a liberarsi dal torpore egoistico dei sui Stati membri che ne tiene frenate le energie e a darsi degli obiettivi concreti e unitari da conseguire.

Macron 2.0 :più Francia e meno Europa

Domenica prossima la Francia andrà al voto di ballottaggio per eleggere il Presidente della Repubblica.

Il copione non presenta nessuna novità di rilievo, è lo stesso ormai da circa 20 anni. Due candidati che rappresentano le due anime di una nazione, da una parte il difensore dello stato di diritto e delle libertà individuali (Macron) e dall’altra il bieco nazionalista, nemico della repubblica, paladino delle forze conservatrici più oscure e convinto liberticida (la famiglia Le Pen).

Il risultato è scontato, come sempre; fronte comune contro la destra ed elezione del candidato opposto, anche se magari non sia proprio il modello ideale di leader che si vorrebbe avere.

Tutto a posto quindi, la Francia è un paese sovrano, democratico e libero che sceglie il proprio Presidente come desidera e su questo non si discute!

Quello che, invece, merita maggiore attenzione è il sensibile cambio di indirizzo che il programma politico annunciato da Macron, in caso (scontato) di rielezione, prevede di attuare.

La visione europeista che aveva caratterizzato il mandato dell’attuale Presidente volta a costruire sotto l’egida di Parigi un’Europa più unita, più forte, dotata degli strumenti necessari a sostenere una politica comunitaria più incisiva sulla scena mondiale, come un sistema di difesa comune (staccando la spina a una NATO in fase terminale), un’Europa green e inclusiva con a capo una Francia in grado di guidarla verso il conseguimento di questi obiettivi, è scomparsa lasciando il posto a un’altra visione più nazionalistica e più “francocentrica” si potrebbe dire.

Infatti, leggendo il programma politico per il nuovo mandato, si possono scorgere importanti cambiamenti di indirizzo volti a ripensare una Francia più attenta alle esigenze interne, con un approccio più nazionalista in termini di politica estera, meno disponibile ad affidare il proprio destino a organismi sovranazionali, meno convinta che un esercito europeo (ancorché guidato da Parigi) possa garantire la sicurezza dei propri interessi e soprattutto una Francia meno green e molto meno accogliente e inclusiva di quanto lo fosse stata prima.

L’intenzione di rafforzare il proprio strumento militare, non solo con l’incremento di risorse finanziarie, ma aumentando anche la percentuale di riservisti, sottolinea la volontà di Parigi di poter contare su uno dispositivo di ampliate capacità per poter effettuare scelte politiche più autonome bypassando i limiti imposti da alleanze scomode (NATO ad esempio) e quelli che nuove organizzazione potrebbero costituire (esercito europeo). Il tutto in linea con un rinnovato proposito di poter ricoprire quel ruolo da protagonista sulla scena mondiale che la Francia ritiene le spetti di diritto, ma che non viene condiviso né riconosciuto a livello internazionale. Prova di questo la mancanza di qualsiasi risultato che gli interventi del Presidente Macron hanno avuto su Putin all’inizio e nello svolgimento della crisi ucraina, a conferma che il ruolo riconosciuto alla Francia nell’arena geopolitica internazionale è di irrilevante valore.

È prevista, anche, una revisione in chiave restrittiva delle politiche di accettazione nei confronti del flusso di migranti che vede nell’Europa e nella Francia il luogo dove poter ricevere accoglienza, sicurezza e garanzia di diritti. Una considerazione più attenta delle necessità nazionali richiede la messa in atto, secondo il programma politico, di una maggiore severità nelle norme che regolano l’immigrazione consentendo “procedure di espulsione più rapide”, con il rifiuto della domanda d’asilo che “varrà come obbligo di abbandonare il territorio” francese, e di condizionare la concessione di permessi di soggiorno di lunga durata “a un vero processo di integrazione professionale di 4 anni o più”.

Quindi il tramonto di una società multiculturale aperta, inclusiva e progressista e la rinascita di una identità nazionale forte, precisa e caratterizzata da una necessaria integrazione come premessa fondamentale per poterne essere accettati.

Anche il settore dell’autonomia energetica è destinato ad essere stravolto dal nuovo programma, che prevede sì l’indipendenza dal gas e dal petrolio come obiettivo nell’immediato futuro (prima nazione ad attuarlo!!!!!), ma non con risorse green o rinnovabili ma con la costruzione di nuove centrali nucleari.

Altro calcio dato al concetto di un’Europa unita e comune viene dalle politiche agricole dove l’interesse è quello di rivedere il concetto di produzione in netto contrasto con la visione europea del Farm to Fork (F2F – è il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente) dove la autonomia alimentare viene messa al primo posto rispetto ad altri parametri, perché sono prevedibili delle “crisi alimentari profonde soprattutto fuori dal nostro continente e l’Europa non può permettersi di diminuire la produzione”.

Ovviamente il programma prevede anche aumenti alla ricerca indirizzata verso l’innovazione tecnologica puntando ai settori “del futuro”: aerospazio, semiconduttori, biomedicina, cloud sempre in un’ottica di rendere la Francia sempre meno dipendente da fattori esterni.

Il programma considera poi la necessità di adottare delle riforme interne di carattere sociale che ribaltano le scelte proposte nel precedente mandato affondate dalla rivolta dei gilet gialli.

Essendo una Paese sovrano, come detto, tutto questo è sacrosanto e rappresenta la visione politica di una élite che sta ai cittadini, attraverso l’espressione del loro diritto di voto, approvare o rigettare.

Tuttavia, questo programma offre una chiave di lettura abbastanza significativa sulle conseguenze che il conflitto russo ucraino ha scatenato e sul cambiamento di paradigma che tali conseguenze hanno imposto all’attenzione di un’Europa che, bruscamente, è stata risvegliata dal suo torpore fatto di eccessiva sicurezza e permeato da una visione intrisa di buone intenzioni e di pie illusioni.

La crisi conseguente allo svilupparsi del conflitto ucraino ha investito l’Europa facendo traballare le certezze che si consideravano acquisite e immutabili, conseguenza di un nuovo ordine mondiale che la fine della guerra fredda credevamo avesse creato.

Lo sviluppo di un’Unione Europea, effimera politicamente ma rilevante nel campo economico finanziario, alla quale devolvere sia la nostra sicurezza sia il nostro benessere sociale, la convinzione che un sistema basato sulla condivisione di un diritto internazionale e sul rispetto assoluto dei diritti della persona a scapito di quelli dello Stato, la capacità di poter offrire asilo e ospitalità a chiunque lo chiedesse senza porre alcun vincolo o nessuna regola, la spinta verso una società multiculturale dove rinunciare alle caratteristiche proprie della nostra cultura per non offendere le altre era ritenuto un dovere irrinunciabile, sono tutti concetti che la crisi ucraina ha spazzato via in un momento, riportandoci ad una realtà dura e difficile da comprendere che ha stimolato i fantasmi peggiori di un passato che consideravamo ormai dimenticato.

La risposta a questo è il programma politico che la Francia si appresta a validare e approvare, dove unità europea, condivisione, futuro green e inclusione sono concetti che cedono il passo a una visione più nazionale, dove l’interesse dei cittadini francesi e delle aspirazioni nazionali francesi hanno la preminenza su tutto il resto.

Nella nostra Unione Europea una visione politica di questo tipo, dove l’interesse nazionale viene anteposto a chiare lettere agli aspetti comunitari, non è una novità di adesso, basti pensare ai recenti contrasti politici che hanno animato i rapporti con Paesi come l’Ungheria e la Polonia.

Tuttavia, vedere che la Francia sta ripensando il suo futuro con una svolta di questo tipo (e la Germania sta tentennando verso l’adozione di simili strategie politiche) deve fare pensare se davvero siamo alla fine di un’ideale, quello dell’Unione Europea come entità politico economica in grado di avere un ruolo fondamentale nel contesto internazionale, oppure se questo passo non sia solamente la risposta ad una sensazione di paura e di disorientamento che il manifestarsi della crisi ucraina ha indotto nella nostra aspirazione di universalità, prodotto dalla nostra cultura e dalla nostra storia, dove l’Europa unita possa svolgere un ruolo determinate verso la costruzione di un mondo libero, democratico e aperto.

 

Crisi ucraina: le ultime dal fronte

Guerra in Ucraina di

 

Il Donbass sarà la parte di territorio ucraino dove si svolgeranno, presumibilmente, le ultime e più importanti battaglie del conflitto. Ancora una volta, come nel 2014, la presa o la resistenza di Mariupol sarà decisiva. Intanto gli ucraini ne smentiscono la presunta conquista del porto da parte dell’esercito russo. Tuttavia, questa volta la città sembra molto vicina alla capitolazione e i civili fuggono.

Oltre a Mariupol sono sotto attacco anche Kharkiv, Izium e Dnipro.

Stando all’Institute for the Study of War una battaglia importantissima per il futuro prossimo della guerra avrà luogo a Slovyansk. Sempre secondo il centro di ricerca: “Se le truppe che avanzano da Izium sono in grado di prendere la città, potrebbero scegliere di avanzare a est verso Severodonetsk per circondare un gruppo relativamente piccolo di forze ucraine, o dirigersi più a sud per circondare un contingente ucraino più grande”. Poi gli studiosi di affari militari aggiungono che questo nuovo fronte potrebbe anche non essere così favorevole ai russi in quanto sembra che le forze ucraine siano ben attrezzate per fronteggiare la “nuova invasione”. Di fatti, è dal 2014 che da Kiev stanno pianificando la difesa del territorio fortificando le città. Secondo i filorussi, ad esempio, la resistenza ucraina starebbe facendo saltare dighe per allagare le zone occupate dall’esercito di Mosca.

Anche il Presidente Volodymyr Zelensky ha ribadito la centralità strategica di Mariupol affermando che qualora cadesse il Cremlino avrebbe altre truppe da aggiungere all’offensiva nel Dobass. Ma per quanto concerne il presente il vicesindaco della città ha dichiarato: “I russi hanno occupato temporaneamente parte della città. I soldati ucraini continuano a difendere le parti centrali e meridionali della città, così come le aree industriali”. La situazione, quindi, non sembra delle migliori.

Dunque, all’interno di una situazione dove si continua a parlare di battaglie decisive, risulta evidente come la possibilità di un compromesso tra le parti sia ancora molto lontana. L’impressione, infatti, è che Putin non si siederà ad alcun tavolo prima di aver conquistato il Donbass e averlo collegato con la Crimea. Anche se qualora lo Zar del XXI secolo raggiungesse questo suo obiettivo e accettasse un compromesso col nemico si tratterebbe, molto probabilmente, non della fine del conflitto ma di un congelamento temporaneo della guerra. Magari in attesa di attendere tempi migliori per cercare di collegare i territori della Transnistria ai nuovi possedimenti ottenuti.

Zelenky, invece, forte degli aiuti militari europei e statunitensi sa che potrebbe non solo difendersi ma addirittura sconfiggere i russi sul campo. E se Kiev dovesse cacciare i russi dal Donbass Putin si potrebbe trovare costretto a dover rinunciare anche alla Crimea.

Ad ogni modo, dati gli sviluppi attuali una trattativa sembra un’ipotesi ancora molto remota. A confermare questa idea sono state anche le parole di ieri del Cancelliere austriaco, Karl Nehammer, in visita a Mosca che ha detto: “Non è stato un incontro amichevole” e che ha poi aggiunto che momentaneamente il Cremlino non vuol sentire parlare di compromessi.

Seminario della Regione Siciliana: “La condizione di insularità tra Europa ed Italia”

EUROPA/Europe di

Domani mattina, 8 aprile, dalle 9 alle 10:30, presso la sede di Roma della Regione Siciliana si terrà il Seminario “La condizione di insularità tra Europa ed Italia”. Organizzato dal Vicepresidente ed Assessore all’economia, Gaetano Armao, l’incontro vedrà ospite l’eurodeputato francese, Younous Omarjee, Presidente della Commissione per lo sviluppo regionale (REGI) del Parlamento UE e relatore per la risoluzione sull’insularità di cui discuterà al Parlamento di Strasburgo tra alcune settimane.

La Regione Siciliana, con il patrocinio della Conferenza delle Regioni e Province Autonome, ha organizzato questo confronto del Presidente Omarjee con parlamentari regionali, nazionali ed europei dì Sicilia e Sardegna presso la Sede di Roma. L’incontro prevede interventi programmati di parlamentari, esponenti dei governi regionali ed esperti e studiosi della condizione d’insularità di Sicilia e Sardegna anche alla luce della recente approvazione del DDL Costituzionale “Modifiche dell’Art.119 della Costituzione, concernente il riconoscimento delle peculiarità delle isole ed il superamento degli svantaggi derivanti dall’insularità”, approvato in prima lettura dai due rami del Parlamento italiano.

La condizione di insularità è entrata nellagenda politica nazionale, ma anche in quella europea, e si va avanti. Dopo il voto allunanimità della Camera sul ddl costituzionale puntiamo adesso alla risoluzione al Parlamento europeo sulle Isole europee, predisposta dal Presidente della Commissione parlamentare per lo sviluppo regionale (REGI), Younous Omarjee che verrà ad illustrarla a Roma, alla sede della Regione Siciliana, in un confronto con le delegazioni parlamentari regionali, nazionali ed europee di Sicilia e Sardegna, che interverranno al dibattito sia in presenza che in collegamento video”. Così il Vicepresidente ed Assessore all’Economia della Regione Siciliana, Gaetano Armao.

Redazione
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