GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Referendum in Kurdistan: l’Iraq chiede l’annullamento dei risultati elettorali

MEDIO ORIENTE di

Il 25 settembre scorso, i cittadini curdi sono stati chiamati alle urne per esprimersi sulla questione relativa all’indipendenza dei propri territori.
Il referendum, conclusosi con il 92% della popolazione favorevole all’ottenimento dell’indipendenza, ha scatenato l’immediata reazione di Baghdad che, contraria al voto, lo ha dichiarato illegale. Tempestiva anche la reazione di Iran e Turchia schieratesi, insieme alla capitale irachena, sul fronte dell’opposizione.
Più dura è stata invece la reazione del governo centrale iracheno, il quale ha chiesto l’immediato annullamento dei risultati ottenuti al referendum al fine di poter negoziare con i curdi, ristabilendo con essi rapporti pacifici. Una proposta rimasta però in sospeso, a causa della mancata risposta da parte del governo curdo, che ancora non si sarebbe espresso in merito.

La tregua richiesta dal governo di Irbil e la questione di Kiruk
Ad un mese esatto dalle votazioni, il 24 ottobre scorso il governo curdo di Irbil si è espresso chiedendo l’immediato “cessate il fuoco” nella regione curda e il “congelamento dei risultati del referendum, al fine di poter riprendere pacificamente il dialogo con Baghdad, evitando disordini e violenze nel paese”. Un tentativo di mettere in atto un processo di pacificazione messo in moto anche dal governo centrale iracheno, assestatosi anch’esso sul fronte favorevole alla cancellazione dei risultati elettorali. Una proposta, apparsa però più come un monito impositivo, e rimasta tutt’ora una questione aperta.

Altro punto caldo: le violenze scoppiate nella provincia di Kirkuk (zona strategica e uno dei maggiori poli petroliferi iracheni) attaccata lo scorso 22 ottobre dalle forze irachene, sostenute dall’Iran e dalle milizie sciite. Gli eventi, verificatisi in seguito agli scontri scoppiati nelle aree a nord dell’Iraq, avrebbe causato un peggioramento della già critica e labile situazione: le morti verificate sarebbero circa 40, di cui 30 combattenti Peshmerga e 10 membri della milizia sciita.

Un referendum trasformatosi da “espressione democratica” a “turbinio di violenze e perdite umane”, motivo anche della fuga di migliaia di civili, circa 136 mila secondo quanto riportato dal Segretario Generale dell’ONU Farhan Haq. Su che ne sarà di loro in futuro ancora poco si sa. Per ora le Agenzie delle Nazioni Unite hanno assicurato loro rifugi temporanei e assistenza, e si stanno impegnando per garantirgli un rientro sicuro nelle proprie terre.

Afghanistan: Il contingente italiano del “TAAC-W” prosegue con le operazioni di supporto nel settore agricolo

MEDIO ORIENTE/REGIONI di

Continuano le attività di supporto alla popolazione nella città di Herat, in Afghanistan, sede del contingente italiano del TAAC-W. L’ultima operazione in ordine temporale riguarda il settore primario . Presso il dipartimento dell’Agricoltura di Herat è stato infatti consegnato del materiale tecnico. Queste attività sono organizzate in collaborazione con gli specialisti della cellula “CIMIC”, che si occupa proprio della cooperazione tra componente militare e civile e rientrano nell’ambito generale della missione “Resolute Support”. Entrando nel particolare, con una cerimonia informale, il generale e comandante del contingente italiano Massimo Biagini ha consegnato 10 motociclette che saranno utili per muoversi nelle carrarecce dei campi siti nelle aree rurali intorno alla città. Questa iniziativa è solo l’ultima di una lunga serie, infatti da un decennio a questa parte l’Italia, con 95 progetti conclusi, mira ad implementare un settore, quello agricolo, che costituisce il 62% dell’economia del territorio ed è fonte di guadagno per le classi sociali meno alfabetizzate. Nei mesi precedenti il comando del TAAC-West aveva consegnato oltre a materiali di tipo tecnico, tra cui computer e supporti informatici per garantire una migliore attività gestionale, anche dei beni di prima necessità. Nel mese di luglio infatti sono stati donati alle famiglie più bisognose dei “food-kit”, contenenti ognuno circa 20 kg tra farina, riso e biscotti. Prima della consegna del materiale, il generale Massimo Biagini, ha avuto modo di incontrare alcuni agricoltori provenienti dai villaggi limitrofi, presenti al dipartimento . In questo breve incontro, le parti , hanno avuto modo di  confrontarsi sulle problematiche che affliggono in questo momento la regione di Herat, colpita da una siccità che dura da ormai 6 mesi . Queste le parole dell’ elder responsabile del villaggio di Sanow Gerd : “Poter ricevere questi aiuti dai militari italiani è molto importante per noi, ci permetteranno di migliorare l’organizzazione dei nostri campi e di riprendere il lavoro  con meno timore dopo questa pesante estate senza pioggia”.

 

LA CRISI DEL GOLFO E LE NUOVE DINAMICHE MEDIORIENTALI

MEDIO ORIENTE di

I tradizionali (quanto precari) equilibri geopolitici ed economici esistenti nell’aera del Golfo persico, messi in discussione dalla crisi politica apertasi lo scorso giugno tra Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Barhein ed Egitto, continuano a produrre tensioni ed instabilità in tutto il Mashrek, dove le ripercussioni della questione qatariota hanno investito non solo nella Penisola arabica ed i principali teatri di crisi mediorientali, ma anche diverse regioni dell’Africa orientale, dove qatarini e sauditi si confrontano da tempo sostenendo processi di penetrazione a livello economico-militare.

È proprio il Corno d’Africa, terreno di competizione geopolitica fra i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), ad aver subito importanti stravolgimenti a seguito della rottura, decisa da Gibuti e Somaliland, delle relazioni diplomatiche con Doha cui hanno fatto seguito il ritiro dal Paese del contingente qatariota, inviato al confine tra Eritrea e Gibuti per monitorare il cessate il fuoco, e l’espansione di Riad e Abu-Dhabi con l’apertura di nuove basi militari estere in Gibuti, e nelle località di Assab (Eritrea) e Berbera (Somaliland). A differenza di Djibouti e Hargheisa, Somalia, Sudan ed Eritrea hanno deciso, nonostante le pressioni saudite, di mantenere rapporti politico-commerciali con il Qatar, correndo il rischio di perdere i decisivi aiuti di Riad e Abu-Bhabi, mentre l’Egitto di Al-Sisi, alleato del Regno saudita, ha abilmente sfruttato la crisi in corso tra le monarchie del Golfo per operare l’ennesima stretta autoritaria interna adottando nuove misure che (prescindendo dall’esistenza di simpatie o legami con Doha) obbligano al silenzio l’intero spettro dell’opposizione.

La conflittualità politica nel Golfo ha influito inevitabilmente anche sul contesto mediorientale, soprattutto in Siria, dove la crisi del GCC ha ridotto gli spazi dell’azione di contrasto al regime di Al-Assad (sponsorizzata da Arabia Saudita, Qatar e Turchia), ma anche in Yemen, da cui Doha ha dovuto ritirare circa 1000 soldati impiegati da oltre due anni nella coalizione anti-sciita a guida saudita-emiratina, e nella striscia di Gaza che ha visto in questi ultimi mesi un sempre maggior interventismo degli Emirati Arabi impegnati a colmare il vuoto finanziario lasciato dal Qatar.

Le dure sanzioni economiche imposte dal c.d. “quartetto” al Qatar, danneggiando settori strategici come quello bancario, commerciale e turistico, hanno infatti costretto la monarchia di Al-Thani ad utilizzate il 23% del Pil per sostenere la propria economia interna, riducendo, contestualmente, la partecipazione di Doha a importanti dossier.

Il rimescolamento degli equilibri regionali intervenuto con il boicottaggio di Arabia, Emirati e Bahrein ed esacerbato dalla rigidità dimostrata dai sauditi nella gestione della crisi, ha però contribuito anche a velocizzare la costituzione di un allineamento geopolitico tra Qatar, Iran, Turchia e Russia potenzialmente sfavorevole agli obiettivi egemonici di Riad nella regione. Doha, a fronte di una restrizione degli spazi di manovra imposta dall’Arabia Saudita con l’assedio politico-commerciale e la conseguente chiusura di canali vitali per la vita socio-economica del Paese, ha infatti avviato un processo di compensazione imperniato sulla progressiva diversificazione delle attività di public diplomacy e sul consolidamento di nuove alleanze (come quella con Erdogan e Rouhani, il cui supporto alla monarchia qatarina con aiuti militari ed umanitari è stato finora essenziale per Al Thani). Il Qatar è infatti riuscito a stringere velocemente legami politici ed economici forti e variegati con Paesi vicini e lontani, compensando così i costi legati all’assedio e rafforzando il Paese sul piano diplomatico. Risalgono proprio al settembre scorso gli incontri ufficiali dell’Emiro del Qatar Al-Thani con il Presidente turco Ergogan, la cancelliera Merkel e Emmanuel Macron, con cui il leader qatarino ha raccolto ampi consensi sulla necessità di risolvere diplomaticamente la disputa con i sauditi.

Una saldatura tra le necessità dell’Emirato e gli obiettivi di Ankara, Teheran e Nuova Delhi, e quindi l’ingresso di nuovi attori nella gestione della disputa, potrebbe disegnare un quadro inedito in cui l’ascendente di Riad rischia di diminuire favorendo l’espansione dell’influenza di altre potenze nel contesto del Golfo e l’emergere di dinamiche fuori dal controllo diretto degli Al-Saud.

A confermare una simile possibilità è intervenuto anche il crescente disimpegno in Medio Oriente di potenze globali come gli Usa che potrebbe avvantaggiare tanto il Regno saudita, libero di colmare il vuoto lasciato da Washington e di imporsi come punto di riferimento esclusivo nella regione, quanto le ambizioni di altri attori in grado di competere su più livelli che potrebbero invece contribuire alla creazione di un nuovo ordine regionale (sgradito ai sauditi) caratterizzato da un multilateralismo ed una competitività più marcati rispetto al passato.

Una simile congiuntura potrebbe condurre l’Arabia ad assumere un atteggiamento meno assertivo e inflessibile, attraverso il riordino delle proprie priorità e l’apertura di alcuni spazi di negoziazione, con il duplice obiettivo di rendere più incisiva la propria azione nel contesto mediorientale e contrastare l’emergere di nuovi protagonisti potenzialmente rivali degli Al-Saud e delle loro aspirazioni egemoniche. Oppure, se si considera l’intransigenza dimostrata dalla leadership saudita dall’inizio della crisi nel giugno 2017, Riad potrebbe reagire a questo riposizionamento degli attori locali, regionali ed internazionali adottando una strategia di logoramento progressivo e di minacce tese a debilitare ulteriormente lo Stato qatarino e a scoraggiare tutti quei Paesi finora allineati a Riad dal tentativo di smarcarsi dalla linea dettata dagli Al-Saud.

In questo clima ancora permeato da tensioni e accuse che non sembra favorire una rapida ricomposizione della frattura tra Arabia Saudita e Qatar, l’atteggiamento di quest’ultimo appare comunque più ragionevole, coerente e disponibile rispetto a quello dimostrato dai quattro Stati assedianti che con le loro richieste irrealistiche non stanno certo facilitando la soluzione della disputa, ma sicuramente perdendo credibilità e sostegno a livello internazionale.

di Marta Panaiotti

L’UE sempre più “operativa” nelle aree di crisi: nuova missione in Iraq, confermata missione in Bosnia, adottata nuova strategia per l’Afghanistan

Il 16 ottobre è stata una giornata impegnativa per la politica di sicurezza dell’UE, per vari motivi.

In primis, il Consiglio ha lanciato una nuova missione civile nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) in Iraq. La missione sarà incentrata sul sostegno alle autorità irachene nell’attuazione degli aspetti civili della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq, e sarà guidata dal tedesco Markus Ritter. Saranno 35 gli esperti dell’UE che forniranno consulenza e assistenza in diversi settori fondamentali identificati come “critici” (nel senso anglosassone del termine) dalle autorità irachene.  La missione dovrebbe essere dispiegata a Baghdad entro la fine dell’anno, e dovrebbe avere un costo (inziale) di 14 milioni di euro. La missione, sotto egida PSDC si inquadra nelle missioni così dette “civili” dell’UE: ossia quelle missioni che hanno il principale obiettivo di ricostruire le istituzioni nei paesi martoriate dalla guerra, che ne siano usciti o ne stiano uscendo. Normalmente l’UE invia degli esperti (per l’appunto) civili, affinché affianchino le autorità locali e tentino di riformare e rifondare i settori della pubblica amministrazione: polizia, apparato giudiziario, sanità. Ma gli esperti possono fornire consulenza anche in settori come l’uguaglianza di genere ed i diritti umani; insomma: tentano in ogni modo di ripristinare o di stabilire lo stato di diritto. Le missioni dell’UE vengono dirette dal Comitato Politico di Sicurezza, che risponde all’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE (ora Federica Mogherini). L’Alto Rappresentante è a capo del SEAE, il Servizio di Azione esterna dell’UE, e presiede anche il Consiglio dell’UE nella sua versione “Affari Esteri” (cosa anomala per il Consiglio, la cui presidenza nei diversi settori

La sede del Servizio Europeo di Azione Esterna a Bruxelles

di legiferazione, normalmente, è a rotazione).  L’Alto Rappresentante è anche uno dei Vice Presidenti della Commissione europea: è l’unica figura, quindi, a cavallo sia del Consiglio che della Commissione. Il Comitato Politico di Sicurezza ha due ulteriori entità alle sue dipendenze: il Comitato Militare dell’UE, che guida le missioni di taglio più “robusto” o militare, ed il così detto CIVCOM o comitato per la gestione civile delle crisi. A occhio e croce questa nuova missione in Iraq dovrebbe inquadrarsi sotto l’egida del CIVCOM. L’obiettivo della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq è creare istituzioni statali capaci di consolidare la sicurezza e la pace e di prevenire i conflitti, rispettando nel contempo lo Stato di diritto e le norme in materia di diritti umani. La strategia individua una serie di minacce urgenti alla sicurezza nazionale – tra cui terrorismo, corruzione, instabilità politica e polarizzazione etnica e settaria – che la missione PSDC contribuirà ad affrontare.

La missione opererà in stretto coordinamento con la delegazione dell’UE in Iraq e con i partner internazionali presenti nel paese, compresi il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), la NATO e la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Il che significa che le questioni squisitamente militare

Soldati dell’EUFOR e forze di polizia della Bosnia Erzegovina (fonte www.euforbih.org)

resteranno un affaire della NATO.

In secundis, il Consiglio ha ribadito e confermato il suo impegno a favore della prospettiva europea della Bosnia-Erzegovina come paese unico, unito e sovrano ed ha ufficialmente stigmatizzato il fatto che, negli ultimi mesi, le riforme siano state rallentate a causa di politiche legate al (triste) passato e di polemiche sorte in occasione delle elezioni anticipate.

Per tale motivo, l’Istituzione europea ha dichiarato, con una nota, che approva ed accetta di buon grado il fatto che l’operazione ALTHEA continui ad esistere in BiH. Le forze militari impegnate nell’operazione contribuiscono ormai da tempo alla capacità di deterrenza delle legittime autorità bosniache nelle situazioni di crisi. Inoltre, non si può non dire che la forza multinazionale europea, con sede presso la base di Butmir e “succursali” in tutto il paese,  ha effettivamente contribuito anche a formare ed incrementare le capacità delle forze armate e di polizia bosniache e, più in generale, a sostenere tutti i settori della pubblica amministrazione che andavano riformati.

Infine, sempre il Consiglio ha adottato delle conclusioni su una strategia dell’UE relativa all’Afghanistan. Nel documento è stato ribadito l’impegno a lungo termine dell’UE e degli Stati membri in Afghanistan per promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo sostenibile. La strategia si concentra su quattro settori prioritari, così come elencati nel documento: la promozione della pace, della stabilità e della sicurezza nella regione; il rafforzamento della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani e la promozione della buona governance e dell’emancipazione delle donne; il sostegno allo sviluppo economico e umano; la gestione delle sfide legate alla migrazione. L’UE vanta ormai una lunga storia di cooperazione con l’Afghanistan ed in Afghanistan volta a contrastare la corruzione e la povertà ed a favorire la crescita economica ed il rafforzamento delle istituzioni democratiche.

In un solo giorno tre segnali da parte di un UE sempre più impegnata ben oltre i suoi confini, e – come nell’ultimo caso esaminato – ben oltre le così dette politiche di vicinato. In futuro, aspettiamoci un’Europa sempre più solida e più compatta nel campo della risoluzione (militare o civile) delle crisi internazionali, magari anche al fianco della NATO e, sicuramente, su mandato dell’ONU.

 

(fonte www.consilium.europa.eu)

MIBIL: Ministro della difesa libanese Yacoub Sarraf in visita al comando generale.

MEDIO ORIENTE di

Il 10 ottobre scorso, il ministro della difesa libanese Yacoub Sarraf, accompagnato dall’ambasciatore Italiano in Libano Massimo Marotti, è andato in visita presso il comando della MIBIL, in Al Samaya, Sud del Libano. L’acronimo MIBIL sta per missione italiana bilaterale in Libano. Inquadrata in ambito ONU, dal 2015 si propone di supportare il Libano che, alla luce del conflitto siriano, è affetto da numerosi disagi sociali ed economici. A seguito  delle gravi ripercussioni sui fronti della stabilità e della sicurezza l’Italia ha avviato delle attività bilaterali nel settore della formazione del personale militare libanese(LAF).

Ad accogliere Yacoub Sarraf c’era il comandante Stefano Giribono, in carica dal 15 settembre scorso. Durante la riunione gli sono state fornite tutte le informazioni riguardanti la MIBIL, da come è nata, passando per l’organizzazione e arrivando ai risultati ed agli obbiettivi futuri. I dati forniti riguardo i corsi di addestramento parlano di 700 unità formate, tra ufficiali, sottoufficiali e militari di truppa, tra il 2016 ed il 2017, con un numero che arriverà a toccare le 1000 unità nelle previsioni per la fine dell’anno solare. Il ministro ha poi assistito simultaneamente ad una dimostrazione pratica del corso mirato a formare le unità cinofile effettive alla guardia presidenziale libanese.

Una volta concluso l’incontro Yacoub Sarraf ha speso parole d’elogio per l’organizzazione della missione, definendosi molto soddisfatto: “Ringrazio davvero per il contributo offerto. Oggi ho avuto la prova di una grande cooperazione. In particolare, in questo contesto di minaccia terroristica, l’Italia non contribuisce solo con UNIFIL, ma anche con la MIBIL che garantisce un ulteriore incremento dell’efficienza delle LAF”. Le autorità si sono poi spostate verso la base “Millevoi” di Shama, sede del Comando del Contingente italiano in Libano, dove il ministro ha firmato l’albo d’onore.

AFGHANISTAN: AIUTI ALL’OSPEDALE REGIONALE DI HERAT

MEDIO ORIENTE/REGIONI di

Herat, NA, ANDSF, 14 settembre 2017 – La Cooperazione Civile e Militare (CIMIC) italiana del Train Advise Assist Command West (TAAC-W), su base Brigata alpina Taurinense, ha organizzato e condotto la donazione di farmaci generici a favore dell’ospedale regionale di Herat, una delle poche strutture sanitarie che supportano la popolazione afgana nell’ovest. I farmaci, forniti dalla onlus Perigeo – organizzazione non governativa (ONG) italiana che da anni collabora con la componente CIMIC – e consegnati al vice direttore dell’ospedale regionale di Herat, dr. Ibrahim Basim presso Camp Arena sede del TAAC-W, sono stati l’ultima tranche di quattro precedenti donazioni avvenute nell’ultimo quadrimestre, attraverso le quali sono state complessivamente distribuite oltre 220 mila confezioni di farmaci generici ai presidi sanitari di Herat. Durante la consegna il dr. Ibrahim Basim ha ringraziato l’Italia per aver supportato da oltre un decennio la sua struttura con importanti progetti che hanno consentito ad oggi di curare una media di ben 1500 pazienti al giorno. Il vice direttore ha inoltre voluto ricordare il sostegno sanitario offerto dal contingente italiano per la stabilizzazione dei feriti più gravi la notte del sanguinoso attentato alla moschea di Jawadia a Dehr Hebad di Herat lo scorso agosto. In tale circostanza il personale medico dell’ospedale da campo italiano, immediatamente allertato, è rimasto per tutta la notte e le giornate successive pronto ad intervenire su richiesta delle autorità afghane qualora non fossero state in grado di gestire l’emergenza sanitaria. I proficui e costanti rapporti con il Dipartimento di Sanità di Herat e con l’organizzazione sanitaria dell’esercito afgano, instaurati nel corso di anni di collaborazione dal contingente italiano, proseguono non solo con collaborazioni finalizzate al supporto sanitario di emergenza ma soprattutto con continui confronti tra il personale medico italiano e locale; inoltre sono programmati numerosi corsi formativi a favore del personale dell’ospedale militare del 207° Corpo d’Armata dell’Afghan National Army (ANA) di stanza a camp Zafar condotti nell’ambito dell’addestramento (Train) e consulenza (Advise e Assist), compito attualmente svolto dagli advisors della Taurinense a favore delle Afghan National Defence and Security Forces (ANDSF). Il supporto alla popolazione, realizzato grazie al contributo degli operatori del Multinational CIMIC Group, unità dell’ Esercito – multinazionale e a valenza interforze – specializzata nella cooperazione civile-militare, è una delle attività che si affianca a quella principale di addestramento e assistenza delle Forze di Sicurezza afghane, focus primario della missione di Resolute Support.

Regeni, caso chiuso ma non risolto

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

Davanti alle Commissioni riunite di Camera e Senato il ministro Alfano ha dichiarato che, nonostante il caso Regeni, i rapporti dell’Italia con l’Egitto e quelli dell’Egitto con l’Italia sono inalienabili. Ha aggiunto che tra i compiti che il nostro Ambasciatore dovrà svolgere c’è anche quello di continuare, di concerto con le autorità egiziane, a cercare la verità su quanto accaduto al nostro povero connazionale. Certo, dopo tutte le accuse di resa avanzategli dalle opposizioni interne alla coalizione che sostiene il Governo, non poteva dire altrimenti ma è a tutti chiaro che, nella sostanza, il “caso Regeni” è pressoché chiuso. Non importa quali altre carte o filmati saranno trasmessi alla nostra magistratura: la verità è già conosciuta ma, semplicemente, non si può dire.

Resteranno oscuri alcuni aspetti della vicenda quali, ad esempio, il perché’ il cadavere sia stato lasciato in una località ove sarebbe stato facilmente rinvenuto. Oppure quali rispettivi ruoli abbiano avuto la polizia egiziana e i servizi segreti di quel Paese. O ancora se anche altri “servizi” abbiano o meno avuto una parte nella storia e, nel caso, a quale scopo. Comunque, la sostanza è che, magari senza capirne tutti i contorni e le finalità, il giovane dottorando stava raccogliendo informazioni e contatti negli ambienti contrari al regime e che stava trasmettendo quei dati ai suoi mandanti a Londra. In altre parole, stava collaborando a quello che avrebbe potuto trasformarsi in una ribellione contro il Governo attualmente in carica.

Che questa ricostruzione sia la più plausibile è confermato dal fatto che la sua relatrice che gli affidò l’incarico, è una professoressa di origine egiziana che si era già distinta come ostile ad Al Sisi e, davanti alla richiesta della nostra magistratura di poterla interrogare, si è negata. Come lei, hanno rifiutato la collaborazione con i nostri investigatori anche tutti gli organi dirigenti dell’Universita’ di Cambridge, l’ateneo ove il povero Regeni sperava di costruire la sua carriera di ricercatore.

Poichè la vittima di quel brutale trattamento è un cittadino italiano, era scontato che il nostro Governo avanzasse pretese di chiarimenti sia da parte egiziana che britannica e sarebbe stato altrettanto naturale ottenere collaborazione da entrambe. Chissà perché’ seppur con gli egiziani la mancata assistenza ha portato a una nostra ovvia reazione diplomatica, contro la Gran Bretagna, che ci ha silenziosamente snobbati, nessuna reazione è stata prevista.

D’altra parte, se gli egiziani ci avessero fatto conoscere la verità ufficialmente e cioè che erano stati organi dello Stato a torturare e uccidere il nostro concittadino, saremmo stati obbligati a una formale e dura reazione, ben più pesante del semplice richiamo dell’Ambasciatore. Tuttavia ciò avrebbe significato rompere per un tempo indeterminato i rapporti tra i due Paesi che, come ha affermato giustamente Alfano, devono invece restare ottimali. È perfino comprensibile l’atteggiamento dei britannici. Dovevano dirci formalmente di aver “usato” un ambizioso ma insospettabile studente italiano per una operazione di spionaggio utile solo a loro? Quando mai? In qualunque parte del mondo, se una spia viene scoperta tutti i mandanti si precipitano a smentire di esserlo stati. Ebbene, i nostri bravi alleati d’oltre Manica non si sono nemmeno sprecati a mentirci: hanno semplicemente rifiutato di parlarci.

Ora, dopo mesi in cui il nostro Ministero degli Esteri ha manifestato il nostro disappunto, cosa che dovevamo fare per salvare la faccia, è arrivato il momento di ritornare a pensare realisticamente ai più grandi e ai veri interessi del nostro Paese: è quello che è stato fatto inviando un nuovo Ambasciatore.

A chi accusa il Governo di debolezza o di privilegiare interessi economici alla nostra dignità, basta ricordare che, appena noi ritirammo il nostro diplomatico dal Cairo, il Presidente francese Hollande si precipitò in Egitto con una pletora di industriali francesi (che bell’esempio di solidarietà europea! …) per fare affari in tanti settori, magari proprio sostituendo le aziende italiane che erano venute a trovarsi in difficoltà per la nostra mossa. Non solo, gioirono dell’incidente anche tutti coloro che si erano preoccupati (alcuni fortemente) all’annuncio della scoperta del giacimento di gas Zohr fatta dalla nostra ENI in acque egiziane. Si tratta del più grande giacimento di tutto il Mediterraneo che fa impallidire i precedenti due ritrovamenti nelle acque israeliane/cipriote. Zohr non darà all’Egitto soltanto una autosufficienza energetica dal valore strategico incommensurabile, ma gli consentirà perfino di diventare un esportatore netto di gas. È ovvio che essendo stata l’ENI a cercare e trovare quella ricchezza, molte altre aziende italiane potranno essere coinvolte nel suo sfruttamento. Ciò, naturalmente, se i rapporti tra i due Paesi continueranno ad essere virtuosi come lo sono sempre stati nel passato. L’interruzione dei rapporti diplomatici, se continuata, avrebbe pregiudicato la collaborazione in questo campo ed è esattamente ciò che molti altri Stati si auguravano.

Come se non bastasse, è bene anche ricordare ai nostri “moralisti” che uno dei maggiori problemi politici che stiamo fronteggiando è il continuo afflusso di “profughi” dalle coste nord africane. Il Governo si è mosso facendo accordi con i sindaci di tanti villaggi libici, con i capi tribù e con il Governo di Tripoli, ma è noto che Al Sarraj controlla solo una parte del territorio e che tutta la Cirenaica è invece sotto il controllo del gen. Haftar, che sta a Tobruk. Mentre la gran parte della Comunità internazionale sostiene il primo, l’Egitto è il principale sponsor (anche militare) del secondo. Dopo il nostro accordo con Al Sarraj, Haftar si era precipitato a dichiarare di essere pronto a colpire i “neocolonialisti” italiani, lasciando intendere che o si trattava anche con lui oppure il nostro con Tripoli era un puro “chiffon de papier”. Uso non a caso il termine in questa lingua (anche se il primo a definire così un trattato fu un generale tedesco, proprio contro la Francia) perché’ il nuovo Presidente francese ha cercato di emarginarci anche in Libia, ponendosi come mediatore tra le parti per ipotecarvi il futuro.

Nonostante i “cugini”, il nostro ritrovato rapporto con il Cairo sarà utilissimo pure per i negoziati con Tobruk, poiché’ Haftar non può certo negarsi ad un invito in questo senso che gli arrivasse dall’Egitto.

La politica internazionale è una questione molto complessa per le innumerevoli varianti che entrano in gioco e l’abilità diplomatica consiste sempre in un difficile equilibrio tra forza vera, forza apparente, bluff, menzogne, verità, idealismo e realismo. Ogni Governo che persegua gli interessi del suo popolo deve sapere, all’occasione, usare tutte le armi a sua disposizione senza velleitarismi o fanatismi. Che ci piaccia o no per molti altri motivi, nel caso dei rapporti con l’Egitto Gentiloni ha fatto quanto poteva e quanto doveva, niente di più ma anche niente di meno.

 

Dario Rivolta

 

TRUMP CAMBIA STRATEGIA, NESSUN RITIRO FINO ALLA VITTORIA

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

WASHINGTON, 21 agosto 2017 – Il presidente Donald J. Trump ha presentato una nuova strategia espansiva per l’Asia meridionale, in netta contrapossizione con le sue precedenti dichiarazione, volta a rafforzare la sicurezza americana.

La nuova strategia comprende l’Afghanistan, il Pakistan, l’India, le nazioni dell’Asia centrale e si estende in Sud-Est asiatico.

Ai soldati presenti all’incontro presso la Joint Baser Myer –Henderson Ha sottolineato che la strategia non avrà linee naascoste tra le pieghe .

Trump ha detto che “il popolo americano è frustrato dalla guerra più lunga della nazione in Afghanistan, chiamandola una guerra senza vittoria” e che la nuova strategia “è un cammino verso la vittoria e si allontana da una politica di costruzione della nazione”.

‘Le truppe hanno bisogno di piani per la vittoria, la nuova strategia, ha detto Trump, è il risultato di uno studio che ha ordinato subito dopo l’insediaziamento gennaio e si basa su tre precetti.

“In primo luogo, la nostra nazione deve cercare un risultato onorato e duratura degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti, specialmente i sacrifici delle vite”, ha detto Trump. “Gli uomini e le donne che servono la nostra nazione in combattimento meritano un piano per la vittoria. Meritano gli strumenti necessari e la fiducia che hanno guadagnato per combattere e vincere “.

Il secondo concetto che deve essere chiaro ha ricordato il Presidente è che una uscita frettolosa dall’Afghanistan permetterebbe il ritrono dei terroristi nel paese.

Il terzo punto, ha affermato, riguarda le minacce provenienti dalla regione, che sono immense e devono essere affrontate.

“Oggi, 20 organizzazioni terroristiche straniere designate dagli Usa sono attive in Afghanistan e in Pakistan, la più alta concentrazione in qualsiasi regione in tutto il mondo”, ha detto il presidente. “Da parte sua, il Pakistan spesso offre rifugio sicuro agli agenti di caos, violenza e terrore. La minaccia è peggiore perché Pakistan e India sono due stati armati nucleari i cui rapporti tesi minacciano di spiralarsi in conflitto. E questo potrebbe accadere “.

Gli Stati Uniti, i suoi alleati e i loro partner si sono impegnati a sconfiggere questi gruppi terroristici, ha detto Trump.

Di Redazione European Affairs

LE FORZE IRACHENE INIZIANO A LIBERARE TALA AFAR

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

ASIA SUDOVA, 20 agosto 2017 – Le forze di sicurezza irachene hanno iniziato la loro offensiva per liberare la città di Tal Afar dallo stato islamico di Irak e dalla Siria, i funzionari in comune di Task Force Combined Combined Resolve hanno dichiarato oggi.

La coalizione globale contro l’ISIS accoglie favorevolmente la dichiarazione del primo ministro iracheno Haider al-Abadi che ha annunciato oggi il lancio dell’offensiva per liberare Tal Afar e il resto della provincia di Ninevah e dell’Iraq settentrionale dall’ISIS, il generale Gen. Stephen J. Townsend, il comandante Delle forze statunitensi e di coalizione in Iraq e in Siria, ha detto in una dichiarazione.

Tutti i rami delle forze di sicurezza iracheni parteciperanno alla liberazione di Tal Afar: i 9, 15 e 16 divisioni dell’esercito iracheno, il servizio controterrorismo, la polizia federale e la divisione di emergenza e la polizia locale irachena, nonché le forze di mobilitazione popolare Sotto il comando di Abadi, ha dichiarato i funzionari delle task force.

“Dopo la loro vittoria storica a Mosul, le [forze di sicurezza irachene si sono dimostrate una forza capace, formidabile e sempre più professionale e sono pronti a portare un’altra sconfitta all’ISIS a Tal Afar”, hanno dichiarato i funzionari della coalizione in una dichiarazione. “La coalizione continuerà ad aiutare il governo e le forze di sicurezza a liberare il popolo iracheno e sconfiggere ISIS attraverso cinque mezzi: fornendo attrezzature, formazione, intelligenza, incendi di precisione e consigli di combattimento”.

Completamente impegnato

Anche se la recente liberazione di Mosul, la seconda città irachena, è stata una vittoria decisiva per le forze di sicurezza irachene, non ha segnato la fine dell’ISIS in Iraq o la sua minaccia a livello mondiale “, ha detto Townsend.

“L’operazione [delle forze di sicurezza irachene] per liberare Tal Afar è un’altra importante battaglia che deve essere vinta per assicurare che il Paese ei suoi cittadini siano infine liberi di ISIS”, ha aggiunto. “La coalizione è forte e pienamente impegnata a sostenere i nostri partner iracheni fino a quando ISIS viene sconfitto e il popolo iracheno è libero”.

I funzionari della coalizione stimano che da 10.000 a 50.000 civili rimangano dentro e intorno a Tal Afar, afferma la dichiarazione di task force e la coalizione applica norme rigorose al suo processo di targeting e prende “straordinari sforzi” per proteggere i non combattenti.

“Conformemente alle leggi del conflitto armato e al sostegno delle sue forze partner che rischiano ogni giorno di vivere la loro vita nella lotta contro un nemico malvagio, la coalizione continuerà a colpire validi obiettivi militari, dopo aver considerato i principi della necessità militare, dell’umanità , Proporzionalità e distinzione “, ha dichiarato la dichiarazione della coalizione.

Caschi blu in Libano, cristiani e musulmani insieme per la celebrazione della Madonna

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

Shama (Libano) 16 Agosto 2017 –  ​“La Vergine Maria unisce i cristiani e musulmani. Celebrare l’Assunzione insieme, per la prima volta militari di Unifil e autorità interreligiose qui in Libano, è l’esempio di un percorso di pace e convivenza”. È la frase di apertura di Don Salvatore Lazzara, cappellano militare dei caschi blu italiani in Libano, alla ricorrenza religiosa che ha visto ieri la partecipazione delle più importanti autorità religiose cristiane e musulmane del Sud del Libano.

Numerosi peacekeeper e civili locali hanno partecipato alla funzione religiosa presso la cappella e il piazzale della base “Millevoi” in Shama, a dimostrazione della devozione comune a una delle più importanti figure religiose degli scritti sacri cristiani e musulmani.

Celebrata in sei lingue diverse, la messa è stata condotta dal cappellano militare insieme al Metropolita Greco Ortodosso, l’Arcivescovo Maronita e un rappresentante della Chiesa Ortodossa, seguita successivamente dagli interventi, presso il piazzale principale della base, dai mufti musulmani sciita e sunnita.

Il Generale di Brigata Francesco Olla, dallo scorso aprile comandante del contingente italiano in Libano con l’operazione “Leonte XXII”, ha dichiarato: “Vivere lontano da casa, dai propri affetti e dalla celebrazione delle proprie tradizioni è difficile, ma fa parte della vita del soldato, quella scelta che abbiamo fatto da giovani per passione e senso del dovere. Rendiamo meno difficile il distacco vivendo questo momento insieme ai cristiani e, in modo ancor più significativo, ai musulmani dei dodici contingenti che costituiscono Unifil-Sector West. Ma da peacekeeper quali siamo, cerchiamo sempre di favorire il dialogo attraverso ciò che ci unisce e che abbiamo in comune.

La celebrazione dell’Assunta ci offre un’enorme opportunità aldilà della fede professata da ciascuno di noi. Per questa ragione abbiamo deciso da tempo di condividere, altre che tra noi, anche con la popolazione locale, i sentimenti e le radici culturale che ci legano alla Vergine Maria, Reginae Pacis”.

Il Libano è tra la nazioni con il maggior numero di confessioni religiose nel Medio Oriente e tra le maggiori al mondo, con una popolazione di oltre 6 milioni di abitanti di cui il 54% di fede musulmana (27% sciiti e 27% sunniti), 40% cristiani (21% maroniti, 8% greco ortodossi e 11% tra cattolici, protestanti e altre minoranze) e 6% drusi.

Il contingente italiano, a seguito della risoluzione n.1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è impiegato nella “Terra dei Cedri” dal 2006 e si rapporta quotidianamente con le autorità civili e religiose locali, supportando la popolazione attraverso la funzione operativa di cooperazione civile-militare (CIMIC). Inoltre, i peacekeeper italiani svolgono costantemente attività di pattugliamento e osservazione volte al monitoraggio della Blue Line, al fine di garantire la cessazione delle ostilità tra Libano e Israele, nonché attività di coordinamento, pianificazione e condotta di esercitazioni e operazioni congiunte alle Forze Armate libanesi dislocate a sud del fiume Litani.

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