Conflitto nella striscia di Gaza, urgente il cessate il fuoco

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Mentre dai fronti di guerra dell’Ucraina, dopo quasi due anni, non viene percepito alcun segnale di possibile cessazione e soluzione del conflitto, un’altra polveriera è esplosa nella fin troppo martoriata terra di Palestina, con l’attacco a Gaza deciso dal governo di Tel Aviv, a seguito del terribile e sanguinoso attentato di Hamas del 7 ottobre che ha provocato una strage di militari e civili, seguita dal sequestro di circa 250 ostaggi, ai fini di aprire nuovi margini di trattativa con Israele.

Così come il conflitto in Ucraina, anche quello di Gaza staprovocando ora un’emergenza umanitaria che immola migliaia di civili innocenti. Devastazioni ed evacuazioni rendono ancora più precaria la condizione di un popolo senza patria, la cui domanda di stabilità e di sicurezza non trova risposta, da parte della comunità internazionale, da oltre settant’anni. E la durezza degli attacchi determina, con ogni probabilità, un ulteriore inasprimento dei sentimenti anti israeliani, anche nelle più giovani generazioni, che potrebbe allontanare la soluzione del conflitto.

La contesa territoriale tra palestinesi ed israeliani, dopo decenni di tensioni che hanno coinvolto anche gli Stati arabi dell’area, sembrava giunta faticosamente ad un passo dalla soluzione con gli accordi di Oslo del 1993, tra i cui massimi protagonisti annoveriamo il primo ministro israeliano Rabin, il leader dell’OLP Arafat e il Presidente Usa Clinton. A quegli accordi seguirono quelli di Oslo 2 del 1995 che estendevano il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese ad ulteriori territori.

L’assassinio di Rabin, alla fine del 1995, ha concorso sensibilmente al rallentamento dell’attuazione del processo di pace e l’incauta accettazione, da parte dei successivi governi, dell’incremento degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori destinati al nuovo Stato palestinese ha contribuito inevitabilmente ad ostacolare l’attuazione delle intese. A seguito del fallimento del tentativo di accordo di Camp David (luglio 2000) tra Arafat e Barak, arbitro ancora una volta il Presidente Clinton, ormai a un passo dalla cessazione del secondo mandato, uno stepsignificativo si registrò nel 2005, con il ritiro dei coloni israeliani da Gaza, deciso dal governo di Ariel Sharon.

Ma la malattia che colpì poco dopo il vecchio generale e la tempesta giudiziaria che investì poi il suo delfino e successore Ehud Olmert, determinandone le dimissioni da premier, ostacolarono la prosecuzione del processo di decolonizzazione relativamente alla Cisgiordania, regione destinata, come Gaza, a costituire il territorio delnuovo Stato palestinese. I negoziati nuovamente intrapresi nel settembre 2010 hanno presto registrato un’interruzione e da allora il processo di pace è apparsocongelato in un limbo di inerzia inconcludente.

Gli stessi“accordi di Abramo” (2020) – per la pacificazione e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e due paesi arabi (Emirati e Bahrein) – che avevano ingenerato aspettative di distensione, anche in ordine alla questione palestinese, sembrano ora compromessi dalla crisi posta in essere dagli attentati di ottobre. Una questione rimasta pericolosamente aperta ed inspiegabilmente rimossa da politica e diplomazia. Il nodo irrisolto e ingombrante diun popolo senza patria e privo di una dimensione territoriale sufficiente a consentire condizioni di crescita e di prosperità !!

A fronte di un’inerzia ambigua e sospetta da parte di entrambe le parti in causa, non potevano che proliferare e consolidarsi le componenti più estreme, come appunto Hamas, il movimento fondamentalista sunnita che amministra la Striscia di Gaza, dopo essersi dissociata, nell’ormai lontano 2007, dall’Autorità Nazionale Palestinese, rimasta sotto la guida degli uomini di Al Fatah e del Presidente Abu Mazen. E proprio contro Hamas, responsabile del terribile attacco del 7 ottobre scorso, è diretta ora l’operazione militare degli israeliani a Gaza che sta provocando molte migliaia di vittime tra i civili e gravi sofferenze in una popolazione già esposta ad una cronica precarietà e in condizioni di disagio diffuso.

Nonostante gli inviti alla cessazione delle ostilità ripetutamente formulati dal Segretario Generale delle Nazioni Uniti Guterres e la diffusa preoccupazione di tanta parte dell’opinione pubblica, anche israeliana e delle classi dirigenti, sul piano internazionale, il governo di Tel Aviv giustifica i raid su Gaza con la necessità di difendere il proprio paese, portando a termine la distruzione totale di Hamas. Questo obiettivo finale, ritenuto ineludibile, anche a costo di un conflitto ancora lungo e foriero di ulteriori sofferenze per la popolazione civile della Striscia, dovrebbe mettere finalmente in sicurezza Israele e sue frontiere.

Ma che un’azione tanto violenta, distruttiva e devastante possa rafforzare la sicurezza e la stabilità dello Stato di Israele sembra difficile da credere. Hamas è un movimento che potrebbe avere adepti distribuiti in diversi paesi dell’area, non soltanto a Gaza e gli stessi capi più autorevoli sembra risiedano in Qatar, tanto che proprio in quel paese sono state intraprese le trattative per il rilascio degli ostaggi israeliani. Il movimento, di fede sunnita, caratterizzandosi per le posizioni antisraelianeestreme ed irriducibili, esercita una forte attrattiva per quelle fasce della popolazione palestinese che si rivelano più esasperate per le condizioni di vita, la carenza di prospettive, la lunga occupazione dei territori, la mancata realizzazione di uno Stato che era stato promesso dalle Nazioni Unite fin dagli anni del secondo dopoguerra.

E se, certamente, nulla può giustificare il ricorso al terrorismo praticato dal movimento e il feroce attentato del 7 ottobre, appare fondata la preoccupazione che una reazione come quella attuata da Israele nella Striscia di Gaza, per le modalità con cui viene condotta, susciti la sensazione di una vendetta, più che di un’operazione difensiva volta a mettere in sicurezza il Paese e a garantire la sopravvivenza dello Stato. Un’operazione che determini una condizione di prolungate precarietà e sofferenze, devastazione degli agglomerati urbani, migrazioni di massa disperate, morti innocenti sotto le macerie, potrebbe alimentare, soprattutto nelle giovani generazioni e forse anche in coloro che ancora siano solo dei bambini, l’attrattiva verso il movimento più estremo della galassia palestinese, già da tempo accreditatosi come il vendicatore delle penalizzazioni inflitte da decenni al popolo palestinese.

E, dunque, da una reazione che assomiglia a una vendetta, Hamas, anziché azzerata,potrebbe uscirne rafforzata. A prescindere da torti e ragioni, questo è un effetto difficilmente evitabile, quando una popolazione civile ed inerme subisca un’aggressione di queste dimensioni, il nemico dell’aggressore, ancorché esso stesso responsabile di gravissime atrocità, diventa attrattivo, soprattutto quando, come in questo caso, si accrediti come il più convinto difensore della causa di quella stessa popolazione. Difficilmente, con questa offensiva,Israele potrà dunque garantirsi la sicurezza.

L’odio e l’ostilità tra i palestinesi e nel mondo arabo in generale non potranno che aumentare. E probabilmente proprio questo è l’intento della centrale terroristica che ha voluto l’attacco del 7 ottobre. L’unica garanzia per la stabile pacificazione dell’area è la creazione, in coerenza con la risoluzione Onu 181/1947 e con i richiamati Accordi di Oslo, delle condizioni per la costituzione dello Stato palestinese, restituendo una patria sicura e ospitale a tutti coloro che, da troppo tempo, ne sono privi, a causa della mancata soluzione della questione. Fino ad ora è sembrato spesso che, oltre all’evidente affanno della comunità internazionale nell’azione di mediazione e nel tentativo di favorire il superamento del conflitto, si rivelasse una carenza di volontà verso la soluzione dello stesso, da parte delle due parti in causa, o almeno dei settori più estremi delle stesse. Il quadro appare, quindi, complesso e i disegni tattici e strategici molteplici e contraddittori, difficili da decifrare.

Ma le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, le grandi potenze, i paesi arabi non devono stare a guardare o gettare la spugna, ma premere incisivamente per un’immediata cessazione delle ostilità e della conseguente catastrofe umanitaria e la ripresa del processo di pace.

Bookreporter Settembre

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