GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo

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Crisi alimentare, tasso di povertà superiore al 50 per cento, 700mila casi di colera, a cui si aggiunge anche il COVID-19. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite prevede che se il conflitto continuerà ancora fino al 2022, il paese potrebbe divenire il più povero al mondo. In realtà, anche prima della guerra e del COVID-19, lo sviluppo economico yemenita era debole. Le cause sono da ricercare nella corruzione dilagante, alti tassi di disoccupazione e un sistema istituzionale incapace di guidare il paese verso la crescita.

La guerra civile ha fatto crollare questo sistema fragile, stremato ancor più da un blocco navale ai porti yemeniti imposto dall’Arabia Saudita e che impedisce il transito delle merci, compresi cibo e medicinali.

Il paese affronta infatti quotidianamente una triplice crisi: politica, economica e umanitaria, l’una strettamente legata all’altra.

La crisi politica è generata da fattori con elementi sia regionali che internazionali. La guerra civile scoppiata nel 2015, e ancora in corso, è la causa principale della pesante situazione in cui versa lo Yemen, ma non l’unica. Ad essa si sono affiancate calamità naturali, emergenze sanitarie e un collasso economico che hanno precipitato il paese nel baratro. Già nel 2016 la dimensione dell’economia yemenita si era dimezzata e il valore della moneta era sceso a un quarto del suo valore iniziale. Peraltro l’assenza di un governo eletto democraticamente non facilita la soluzione della crisi.

La carenza di cibo, acqua potabile, servizi igienici e assistenza sanitaria, nonché la diffusione di massicce epidemie di colera e difterite, hanno gravato sulle condizioni di vita dei civili e privato le famiglie dei bisogni primari. A gennaio 2021, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha segnalato 2.123 casi confermati di COVID-19 nello Yemen e 616 decessi, con un tasso di mortalità del 29%. È stato osservato un notevole calo del numero di casi segnalati, ma gli indicatori suggeriscono che il virus stia continuando a diffondersi. È probabile che i casi segnalati siano sottostimati a causa della limitata capacità di test e difficoltà di accesso ai servizi di cura nonché alla paura di rimanere vittima di uno dei numerosi attacchi alle strutture sanitarie.

Le Nazioni Unite definiscono la crisi umanitaria nello Yemen “la peggiore del mondo”, cosa di cui al-Qaeda non ha mai smesso di trarre vantaggio per espandere il proprio punto d’appoggio nella regione. La situazione è peggiorata quando nel 2017 le forze militari hanno iniziato ad ostacolare la fornitura di beni primari, causando più di centomila decessi a causa della mancanza di cibo, servizi sanitari e infrastrutture.

Mark Lowcock, coordinatore delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ha dichiarato: “I tassi di malnutrizione sono a livelli record e 400.000 bambini sono gravemente malnutriti, 16 milioni di persone soffrono la fame, di cui 5 milioni sono a un passo dalla carestia”. Ha detto che le questioni inaccettabili di accesso umanitario continuano con le forze Houthi che ritardano regolarmente i convogli di aiuti e molestano regolarmente il personale umanitario.

Inoltre, in un rapporto delle Nazioni Unite è stato dimostrato che sia gli Houthi che le forze della coalizione internazionale hanno violato il diritto internazionale umanitario attaccando obiettivi civili. Ciò include la distruzione, da parte della coalizione, di un ospedale gestito dall’organizzazione Medici Senza Frontiere nel 2015. Tortura, arresti arbitrari e sparizioni forzate sono tra le altre violazioni perpetrate da entrambe le parti.

 

Come e perché nasce il conflitto?

Il conflitto, nato come risposta alla politica repressiva del regime di Saleh (1990-2012), aveva visto gli Houthi trarre vantaggio dalle tensioni politiche e sociali nella capitale yemenita. Con l’esplosione della primavera araba e il massacro dei manifestanti da parte del governo nel marzo 2011, il regime di Saleh si spacca definitivamente.

Si apre allora un periodo di transizione affinché lo Yemen potesse dotarsi di una nuova Costituzione e eleggere un nuovo governo. Dopo tre anni dalla caduta del governo però l’insuccesso delle trattative tradisce le speranze della popolazione, ormai allo stremo sia a causa della crisi economica che alimentare. Ciò diventa l’occasione per le milizie degli Houthi di cavalcare l’ondata di malcontento e legittimare la loro azione politica.

Gli Houthi propongono un governo di unità nazionale in cui questi ultimi sono ai vertici dello Stato, mentre il governo è formato da ministri tecnici, monitorati in base ai progressi raggiunti in ambito economico. Il nuovo governo tecnico, insediatosi nell’ottobre del 2014, non ha però vita facile a causa delle continue intromissioni delle milizie (in qualità di “supervisori”) nelle attività del governo. Nel gennaio 2015, gli Houthi rovesciano definitivamente il governo e ne prendono le redini.

 

Chi sono le parti coinvolte?

Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sfruttano la situazione in Yemen per imporre la propria influenza nella Penisola Arabica. Diversamente dagli anni passati, in cui gli Stati del Golfo si affidavano prevalentemente agli Stati Uniti per assicurare la stabilità della regione, ora i leader dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi hanno propri obiettivi strategici in Yemen, tra cui contrastare il controllo dell’Iran sul territorio yemenita.

L’Arabia ha peraltro avviato una campagna militare in Yemen che inasprisce le tensioni. Ciò nonostante, l’amministrazione Trump ha abbracciato la causa saudita e ne difende gli interessi, sostenendo che sia l’Iran il principale responsabile dell’instabilità della regione.

Iran

Contrariamente a quanto sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti, molti esperti regionali affermano che l’influenza di Teheran sia invece piuttosto limitata, soprattutto perché iraniani e houthi aderiscono a diverse scuole di islam sciita. In generale, è vero che l’Iran e gli Houthi condividono interessi geopolitici che vedono il dominio saudita e statunitense nella regione come una minaccia, diverse però sono le ragioni alla base di queste posizioni.

Stati Uniti

Sebbene il Congresso degli Stati Uniti sia stato diviso sulla questione, gli Stati Uniti hanno sostenuto la coalizione guidata dai sauditi, così come la Francia, la Germania e il Regno Unito. I loro interessi in Yemen includono la sicurezza dei confini sauditi; passaggio libero nello stretto di Bab al-Mandeb, arteria vitale per il trasporto globale di petrolio; e un governo yemenita stabile che collabori con i programmi antiterrorismo statunitensi. Tuttavia, il clamore per le morti civili nelle campagne aeree della coalizione, che spesso usano armi di fabbricazione statunitense, e il ruolo dell’Arabia Saudita nell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018, hanno indotto gli Stati Uniti e altre potenze occidentali a limitare la vendita di armi e rifornimento di carburante degli aerei della coalizione.

Cooperazione rafforzata tra Arabia Saudita e Iraq

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Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il primo ministro iracheno Mustafa Al-Kadhimi hanno discusso martedì 2 febbraio i lavori della quarta sessione del Consiglio di coordinamento saudita-iracheno.

Durante un incontro virtuale i leader hanno esaminato gli accordi sviluppati durante le tre sessioni precedenti con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le relazioni tra i due paesi. I temi sui quali si è svolto l’incontro vanno dalla sicurezza, alla politica, e agli investimenti commerciali e energetici. Leggi Tutto

Israele è il primo paese a imporre un secondo lockdown

MEDIO ORIENTE/Middle East - Africa di

La scorsa primavera Israele è stato uno dei primi paesi ad adottare misure di contenimento sociale per evitare la diffusione del coronavirus, imponendo l’isolamento dei propri cittadini già dal 9 marzo, prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ufficializzasse lo stato pandemico del virus; ciononostante, oggi Israele è diventata la prima nazione al mondo ad imporre un secondo lockdown a livello nazionale per via del preoccupante aumento di casi giornalieri nelle ultime settimane.   Leggi Tutto

La Francia dei Cedri a un mese dal disastro di Beirut

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E’ passato appena un mese dal 4 agosto 2020, data in cui 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio abbandonate all’interno dell’area portuale di Beirut sono esplose causando un impatto così violento da essere registrato persino dall’isola di Cipro, a circa 240 chilometri dalla capitale del Libano. Il bilancio è disastroso, in termini di vite si contano più di 200 morti e migliaia di feriti, e inoltre, come se non bastasse, l’esplosione dell’area portuale, centro economico della città, ha peggiorato ulteriormente la situazione economica del Paese, ufficialmente in crisi dagli inizi di marzo, quando il premier Diab aveva dichiarato default, ma la cui precarietà ha radici ben più lontane. E da qui nell’arco di questo mese la classe politica ha quindi ceduto alle forti pressioni del popolo libanese, comportando così le dimissioni in blocco del governo alcuni giorni dopo l’esplosione; infatti il 10 agosto lo stesso Hassan Diab, primo ministro in carica da appena sette mesi, ha rassegnato le dimissioni dell’esecutivo di fronte al Presidente Michel Aoun, aggravando ulteriormente l’instabilità del Paese, che oramai non riesce più a garantire ai propri cittadini servizi essenziali come l’alimentazione, una carenza peraltro esacerbata dal disastro che ha distrutto circa l’85% delle scorte nazionali di cereali. Leggi Tutto

Sull’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti

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Attraverso un tweet risalente al 16 agosto il presidente americano Donald J. Trump ha annunciato al mondo l’avvio verso una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele; l’intesa segna un passaggio storico per le relazioni tra gli stati del Medio Oriente e una vittoria diplomatica per la Casa Bianca.

Stando a quanto riporta la BBC i colloqui inizieranno nei prossimi giorni e probabilmente le parti si riuniranno a Washington per firmare l’accordo di normalizzazione dei rapporti entro le tre settimane; non solo, la futura apertura delle rispettive ambasciate nei due paesi darà il via a numerosi accordi bilaterali di commercio in più campi che, stando al comunicato congiunto rilasciato dalla Casa Bianca, riguarderanno investimenti, turismo, sanità e sicurezza mentre già da giorni è stata data la possibilità di chiamarsi da un Paese all’altro, cosa fino a qualche mese fa impensabile. Leggi Tutto

Partenariato strategico Cina-Iran: non una novità

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L’ampio partenariato tra i due Paesi spianerebbe la strada a miliardi di investimenti cinesi, complicando tutti gli sforzi del presidente Trump di isolare Teheran e le sue ambizioni nucleari e militari. La cooperazione militare tra Cina e Iran non è però una novità.

Secondo il Wall Street Journal, l’Iran e la Cina avrebbero raggiunto un importante accordo militare e commerciale. L’intesa lascerebbe spazio a investimenti cinesi per circa 400 miliardi di dollari nei settori chiave dell’energia e delle infrastrutture della Repubblica islamica nei prossimi 25 anni. L’intelligence statunitense è preoccupata che l’accordo possa prevedere l’installazione di basi militari cinesi nel paese mediorientale: se così fosse la geopolitica dell’intera regione subirà un cambiamento radicale.

La bozza dell’accordo, come riporta la testata giornalistica americana, parla di una forte espansione cinese in Iran (dalle banche, alle Tlc, dalle ferrovie ai porti); in cambio Teheran dovrebbe fornire una quantità regolare di petrolio a Pechino nel prossimo quarto di secolo.

L’intesa prevedrebbe anche un approfondimento della cooperazione militare tra i due Paesi, con addestramento ed esercitazioni congiunte, ricerca e sviluppo nel settore e condivisione dell’intelligence. Questa “collaborazione militare” avrebbe l’obiettivo di contrastare il terrorismo internazionale, traffico di droga e di essere umani e crimini transazionali.

L’accordo sarebbe stato promosso dal presidente cinese, Xi Jinping, durante la sua visita nella capitale iraniana nel 2016, per poi essere approvato dal presidente iraniano, Hassan Rouhani nelle ultime settimane. Tuttavia, non è stato ancora presentato al Parlamento iraniano, sebbene i funzionari di Teheran abbiano più volte dichiarato che con la Cina esiste un progetto in sospeso. Questa  alleanza arriva in un periodo alquanto difficile per l’Iran, sia a causa delle sanzioni statunitensi  che della pandemia di coronavirus.

Per entrambi i Paesi, si tratta di una mossa strategica di grande importanza, non solo per espandere i propri interessi nella regione, ma anche per contrastare la politica di Washington. Il progetto con l’Iran mostra come la Cina, a differenza di altri Paesi, ritiene di essere in grado di sfidare gli Stati Uniti. Dall’altra parte, la Repubblica islamica, abituata ad intese di solo carattere commerciale con i Paesi europei, per la prima volta, stringe un’alleanza con una grande potenza mondiale.

Tra i vari investimenti nel settore delle infrastrutture, molta importanza acquista l’eventuale costruzione di un porto a Jask, appena fuori dal Golfo di Hormuz. Un porto cinese a Jask consentirebbe a Pechino di avere una posizione strategica in una tratta nella quale transita gran parte del petrolio mondiale. Tale ipotesi preoccupa molto la Casa Bianca che considera il passaggio di fondamentale importanza strategica.

L’accordo in sé rappresenta un duro colpo per l’amministrazione guidata da Donald Trump e la sua politica aggressiva nei confronti della Repubblica islamica da quando ha abbandonato l’accordo nucleare raggiunto nel 2015 dal suo predecessore Barack Obama e dai leader di altre sei nazioni dopo oltre due anni di estenuanti negoziati. Le rinnovate sanzioni statunitensi sono riuscite a soffocare l’economia iraniana e spingere Teheran tra le braccia di Pechino.

La collaborazione militare tra Iran e Cina non è cosa nuova. All’inizio degli anni Novanta intensi rapporti erano in atto tra i due Paesi. Durante la guerra tra Iran e Iraq, la Cina fornì all’Iran il 22% del totale delle importazioni iraniani di armi, e nel 1989 divenne il suo maggiore fornitore. Inoltre la Cina partecipò attivamente agli sforzi iraniani, esplicitamente dichiarati, di acquisire armi nucleari in passato. Dopo un primo “accordo iniziale di cooperazione sino-iraniano”, nel gennaio del 1990 i due paesi raggiunsero un’intesa decennale in materia di cooperazione scientifica e trasferimento di tecnologia militare. Nel settembre del 1992 il presidente Rafsanjani si recò in Pakistan e quindi in Cina, dove firmò un altro accordo di cooperazione nucleare. Nel febbraio del 1993 la Cina acconsentì a costruire in Iran due reattori nucleari 300-MW. In ossequio a tali accordi, la Cina trasferì informazioni e tecnologia nucleare all’Iran, addestrando inoltre ingegneri e scienziati. Nel 1995, dietro forte pressione statunitense la Cina fu costretta a “sospendere” la vendita dei due reattori. Pechino è stato anche fornitore di missili e tecnologia missilistica all’Iran, come i Silkworm (via Corea del Nord).

UNIFIL Medal Parade al Sector West

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I caschi blu italiani ricevono la United Nations Medal. Oltre 250 le UN Medal consegnate ieri ai caschi blu del Sector West. Una rappresentanza degli oltre mille peacekeeper dell’Esercito Italiano e dei quasi tremila colleghi delle quindici nazioni impegnate nel sud del Libano sotto comando italiano.

La Medal Parade è la cerimonia che sancisce l’impegno di uomini e donne, il loro servizio sotto egida delle Nazioni Unite, la loro competenza e professionalità a favore della collettività.

“Il conferimento della UN Medal si arricchisce oggi di significato – ha ricordato il Comandante del Sector West, Gen. B. Diego Filippo Fulco – voi avete dimostrato spirito di sacrificio, flessibilità e capacità di adattamento, caratteristiche che vi hanno permesso, ci hanno permesso di tener fede al nostro mandato nonostante le difficoltà dettate dall’emergenza sanitaria che ci ha posto a confronto con problematiche nuove e imprevedibili.”

La UN Medal racchiude simbolicamente le oltre 250 attività quotidiane, le cinquanta pattuglie sulla Blue Line, i più di 1300 progetti di cooperazione civile-militare, il supporto alle Lebanese Armed Forces ma anche le tante esercitazioni multinazionali, l’aiuto alla popolazione, la salvaguarda della stabilità, l’impegno per la sicurezza, in una parola il peacekeeping.

Iran: per Rouhani un “anno difficile”

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Secondo il presidente iraniano la pandemia di Covid-19 ha accentuato le difficoltà create dalle sanzioni americane. Ad Abu Dhabi colloquio tra USA ed EAU per la stabilità della regione.

Domenica scorsa, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha dichiarato che il suo paese sta affrontando il periodo più duro degli ultimi anni a causa delle sanzioni statunitensi e della pandemia di coronavirus.

La scorsa settimana il rial iraniano è sceso al suo valore più basso rispetto al dollaro Usa, mentre l’economia del paese mediorientale continua ad essere colpita dalla pandemia che ha aggravato la già difficile situazione causata dalle sanzioni imposte da Washington nel 2018.

“Viviamo un anno difficile a causa delle sanzioni economiche imposte dal nostro nemico e dalla pandemia”, ha affermato Rouhani in un discorso televisivo. “La pressione economica, iniziata nel 2018, è aumentata, e oggi è il periodo più duro per il nostro paese”, ha continuato il presidente iraniano.

L’Iran ha visto un forte aumento del numero di contagiati e di decessi da coronavirus nelle ultime settimana, in parte causate anche dalla revoca a metà aprile delle misure restrittive per arginare la diffusione del virus. Il bilancio delle vittime ha superato la quota di cento al giorno, per la prima volta dopo due mesi.

Circa 2.490 nuovi casi sono stati registrati nelle ultime 24 ore, portando il totale ad oltre 222.670 contagi. Secondo la portavoce del ministero della Salute, Sima Sadat, i morti avrebbero raggiunto la cifra di 10.508.

Il presidente Rouhani ha detto che indossare la mascherina diventerà obbligatorio per le prossime due settimane in alcune parti del paese considerate ad alto rischio. Funzionari iraniani hanno avvertito che le restrizioni precedentemente revocate potrebbero essere reintrodotte qualora non venga rispettato il distanziamento sociale e le altre misure di sicurezza. Il paese ha lanciato la campagna “#Iwearmask” per motivare il pubblico riluttante a utilizzare i dispositivi sanitari di sicurezza. Il viceministro della Salute, Iraj Harirchi, ha supplicato i suoi concittadini di prendere sul serio la malattia ed evitare qualsiasi comportamento che possa mettere a repentaglio la propia salute o quella degli altri. Secondo lo stesso Harichi, in Iran “ogni 33 secondi una persona viene infettata dal coronovirus, e ogni 13 minuti muore un contagiato”.

Incontro tra USA ed EAU

Sempre ieri, lo sceicco Abdullah bin Zayed al Nahyan, ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato Brian Hook, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran e consulente politico presso il Segretario di Stato, per discutere le questioni regionali di interesse comune e i modi per rafforzare la cooperazione bilaterale tra i due Stati. Al centro degli argomenti trattati la minaccia alla sicurezza posta dall’Iran e gli sforzi congiunti per creare una regione mediorientale più stabile e sicuro.

Mandato di arresto per Trump

Il procuratore di Teheran, Ali Qasi Mehr, citato dall’agenzia di stampa statale IRNA, ha affermato che 36 funzionari politici e militari statunitensi “coinvolti nell’assassinio” del generale Qasem Soleimani “sono stati indagati e nei loro confronti è stato emesso un mandato di arresto”. In cima alla lista ci sarebbe il presidente Donald Trump. Lo stesso procuratore avrebbe richiesto all’agenzia internazionale di polizia Interpol di emettere i mandati di arresto nei confronti di Trump e degli indagati, ma l’Interpol avrebbe chiarito che la sua costituzione impedisce  di “intraprendere qualsiasi intervento o attività di carattere politico, militare, religioso o razziale”. L’organizzazione di polizia internazionale ha dichiarato di non aver ricevuto nessun tipo di richiesta dall’Iran, e che non sarebbe in grado di ottemperare a una richiesta del genere qualora le venisse recapitata.

Di Mario Savina

 

 

IRAN: dalle proteste di novembre alla pandemia, con le denunce dell’OMPI e la condanna dell’UE

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Secondo l’Organizzazione dei Mojahedin del popolo iraniano l’emergenza pandemica ha permesso al regime di rafforzare il proprio potere nonostante gli errori commessi e soprattutto far passare in secondo piano il malessere del popolo. Qalibaf eletto Presidente del Parlamento. L’Unione Europea condanna le dichiarazioni su Israele di Khamanei.

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Mario Savina
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