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Hezbollah e la lotta al coronavirus

MEDIO ORIENTE di
Il partito della milizia sciita libanese annuncia la mobilitazione di migliaia di volontari con il tentativo di riconquistare la legittimità persa negli ultimi mesi.

Hezbollah ha dichiarato guerra al coronavirus in Libano. Un esercito di 25.000 persone in prima linea e quattro ospedali privati per vincere la battaglia contro il virus, una priorità dichiarata dal partito della milizia sciita libanese. La terminologia bellicosa permea i discorsi televisivi del segretario generale del partito, lo sceicco Hasan Nasralà, che non si riferisce alla milizia meglio equipaggiata della regione, ma al reggimento di medici, infermieri e volontari mobilitati nel Paese levantino. E’ la penultima mutazione di un movimento, denominato di resistenza islamica, in costante metamorfosi nell’ultimo decennio.

Hezbollah è passato dallo scontro con Israele, il nemico sionista, alla lotta contro i “tafkiris in Libano e Siria” – dal 2012 circa 10.000 miliziani libanesi  hanno combattuto nel Paese vicino a fianco di truppe fedeli a Bachar al-Assad e al sostegno di Teheran -, fino a trovarsi oggi ad affrontare la questione pandemia. A livello nazionale, ha cessato di essere un partito di opposizione  per entrare a far parte del governo appena creato, un governo fragile che ha preso vita insieme agli alleati sciiti di Amal e alla forza cristiana incarnata dal Movimento patriottico libero. Nella distribuzione dei ministeri, il partito islamista ha preteso quello della salute.

“La paura del virus ha riportato i libanesi nelle tradizionali strutture di solidarietà basate sul partito e sulla confessione, oggi in competizione per servire le proprie basi sociali”, ha affermato Maha Yahia, direttrice del Carniege Center for the Middle East, a Beirut. Le persone hanno perso la fiducia nelle istituzioni statali in cui il potere politico-economico è distribuito sulla base delle 18 religioni ufficiali. “Tra le parti, Hezbollah è semplicemente quello che offre il piano più completo avendo a disposizione più risorse”, sottolinea la Yahia. La milizia ha deciso di trasferire la sua capacità di mobilitazione militare sul piano sociale. Nei sobborghi di Dahie, periferia a sud di Beirut e feudo di Hezbollah, si trova l’ospedale Saint George Hospital, che il partito della milizia ha messo a disposizione come centro nevralgico per la cura dei pazienti infetti dal Covid-19: 1000 tamponi e 80 posti letto, 16 dei quali con respiratori, in un quartiere dove la popolazione è di 800 mila abitanti, secondo le informazioni che ha dato alla stampa il direttore del centro ospedaliero Hasan Oleik.

L’esecutivo libanese ha stabilito l’ospedale universitario Rafik Hariri come centro nevralgico per il trattamento degli infetti, con una capacità di 128 posti letto. Con 541 positivi e 19 decessi (dati risalenti alla settimana passata), gli esperti hanno già annunciato che il settore della sanità pubblica libanese non sarà in grado di far fronte a un aumento del numero degli infetti.

Nel seminterrato di una moschea di Dahie si può apprezzare la complessa rete sociale di Hezbollah: dozzine di volontari muniti di mascherine e guanti impacchettano diversi prodotti alimentari nelle scatole che poi distribuiranno alle famiglie più svantaggiate. Hanno a disposizione un budget di 1,8 milioni di euro “tra fondi propri e donazioni di affiliati”, affermano fonti del partito.

La pandemia di coronavirus arriva in piena crisi economica. Prima che il virus si diffondesse, la Banca Mondiale aveva avvertito che metà dei 4,5 milioni di libanesi sarebbe finita al di sotto della soglia di povertà. Dal 17 ottobre, giorno in cui le proteste antigovernative hanno iniziato a chiedere la caduta in blocco dei partiti tradizionali, oltre 220.000 persone hanno perso il lavoro. Ora questi stessi partiti stanno cercando di sfruttare questa minaccia sanitaria. Questo è il motivo per cui è stata lanciata una campagna strada per strada distribuendo aiuti economici e alimentari. I leader promettono donazioni milionarie agli ospedali seguendo la mappa demografica-confessionale, mentre il governo ha dovuto annunciare il primo default dovuto al proprio debito statale nella sua storia.

Di Mario Savina

Israele: l’accordo per il governo d’emergenza e il possibile vaccino

Questa mattina il ministro della salute israeliano Yaakov Litzman ha annunciato tramite un comunicato ministeriale che nell’ultima giornata si è registrato il maggiore aumento di casi di contagio nel paese; nelle ultime 24 ore infatti il numero di contagiati è salito di 760 casi, per un totale di 6.200 pazienti e 30 morti. 

Come evidenziano i dati Gerusalemme è la città più colpita, ma ciò che suscita interesse è il fatto che il secondo focolaio più grande del paese stia a Bnei Brak, una città di 185mila cittadini abitata prevalentemente dalla comunità haredi (ortodossa); solo nell’ultima giornata si è registrato un amumento di 159 pazienti affetti dal virus, per un totale di 730 casi. Le varie testate nazionali hanno riportato il fatto con notevole interesse poiché oltre alla cittadina in questione si è rilevato che il virus ha maggiore contagio in altre zone a prevalenza ortodossa, tant’è che l’esecutivo stesso sta valutando se decretare una quarantena differenziata per questi bacini, per via della reticenza delle comunità ortodosse a seguire le disposizioni sanitarie.
In un’ottica più ampia Israele è il secondo paese del Medio Oriente per contagi dopo l’Iran, dove il virus ha impattato fortemente e sta portando la Repubblica Islamica a dichiarare un’emergenza sanitaria disastrosa; tuttavia Gerusalemme sta dando notevoli risposte alla crisi pandemica sul piano politico e tecnologico, le quali se concretizzate potrebbero rinsaldare il ruolo di leadership nel quadrante medio-orientale.
Difatti in questa settimana i due partiti che da ormai più di un anno si contendono la guida del paese, ovvero il Likud di Netanyahu e il Blu e Bianco di Gantz, dovrebbero concludere un accordo per spartirsi l’esecutivo e formare un governo di coalizione per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In virtù dell’accordo i rispettivi leader divideranno nell’arco della legislatura la carica di premier e, a meno di imprevisti, Netanyahu, che guiderà il governo nella prima fase, finirà la sua carriera politica nel 2021, allo scadere dei 18 mesi previsti; dall’altra parte Benny Gantz in attesa di succedere al capo di Likud è stato già eletto presidente della Knesset il 26 marzo, con l’appoggio compatto dei parlamentari di Likud e successivamente, alla ratifica dell’accordo per il nuovo esecutivo, dovrebbe essere investito della carica di ministro della Difesa.
Sembrerebbe quest’evento una vera svolta per Israele in quanto tre consultazioni elettorali, la prima il 9 aprile dell’anno passato, non sono riuscite a dare al paese una leadership, tenendo in sospeso alcuni temi; ciononostante il nuovo governo di unità nazionale, secondo le indiscrezioni riportate dai media israeliani, dovrebbe essere costituito al solo scopo di far fronte all’emergenza e quindi difficilmente lavorerà sulle annose questioni che da anni affliggono Israele, come i rapporti con la Palestina o la questione della Cisgiordania. Sul fronte interno l’azione comune dei due leader ha creato non pochi scontenti nelle rispettive file, soprattutto sul versante Blu e Bianco. Il neo partito, fondato un anno fa a seguito di una coalizione elettorale fra i partiti Resilienza per Israele del generale Gantz e Yesh Atid del giornalista Yair Lapid, sta subendo una sorta di fuoriuscita da parte dell’ala più progressista, facente capo a quest’ultimo.
“Abbiamo formato Blu e Bianco per offrire un’alternativa al popolo israeliano, un partito centrista decente, onesto e basato su dei valori. I risultati delle elezioni hanno dimostrato che il paese aveva bisogno di un’alternativa, che è necessaria quanto l’aria, ma Benny Gantz oggi ha deciso di strisciare nel nuovo governo di Netanyahu, una decisione deludente. Questo non è un governo di unità, è un nuovo governo di Netanyahu. Gantz si è arreso e si è unito con il blocco estremista-ortodosso” ha detto Lapid lo stesso giorno dell’investitura di Gantz a capo della Knesset, aggiungendo che il suo blocco, quello ex-Yesh Atid, ha presentato la richiesta per fuoriuscire dalla coalizione e tornare a fare opposizione assieme al gruppo Telem e altri di sinistra.
Più in generale questo è il prezzo che ha dovuto pagare Gantz per unirsi nel governo con Likud; a sua difesa l’ex generale ha capito che tornare per la quarta volta a elezioni senza che vi sia stato un reale cambiamento avrebbe potuto rivelarsi il punto di non ritorno politicamente parlando, visto che il Likud negli ultimi sondaggi veniva dato in crescita, e che le ultime tre tornate elettorali sono costate allo stato circa due miliardi di dollari. D’altronde questa decisione ha spaccato in due il partito che in un anno era riuscito ad essere una seria alternativa al premier più intaccabile della storia di Israele, complice l’ampio spazio politico che è riuscito a ottenere nei momenti di opposizione: come per il Movimento 5 Stelle in Italia, Blu e Bianco non ha una definita posizione sulla tradizionale linea di lettura sinistra-destra, occupa un posto centrale e per certi versi è a metà tra il conservatorismo, una caratteristica diffusa nella politica israeliana, e il secolarismo-progressista in chiave anti-ortodossa (nelle posizioni di vertice), si è spesso detto a favore di un’apertura al dialogo con i partiti di sinistra mantenendo però una certa diffidenza verso le liste a maggioranza araba, ma soprattutto ha sempre avuto una continua avversione contro Benjamin Netanyahu, più volte definito dallo stesso Gantz un despota disonesto, paragonandolo ad Erdogan.
Nel frattempo, a margine di queste ultime vicende politiche, Israele si sta rendendo protagonista nel mondo per la sua ricerca contro il COVID-19. Secondo quanto riferito dal dott. Chen Katz, capo del dipartimento di biotecnologia del Migal Galilee Research Institute, l’istituto potrebbe presto trovare il vaccino contro il virus, in quanto già da quattro anni il Migal si sta concentrando sulla ricerca per un vaccino contro la famiglia dei coronavirus come la SARS e il MERS. Il vaccino dovrebbe consistere in una proteina e presto potrebbe arrivare, tuttavia anche se ultimato bisognerà aspettare i risultati di alcuni test e le pratiche d’ufficio prima di metterlo a disposizione; per questo il Migal sta cercando un partner disposto a snellire l’iter burocratico.

Missili Houthi intercettati su Riad

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I ribelli yemeniti ignorano la richiesta di tregua del segretario generale delle Nazioni Unite

L’Arabia Saudita ha intercettato due missili balistici lanciati sabato sera dai ribelli sciiti Houthi dello Yemen contro il suo territorio, ha annunciato un portavoce militare nella giornata di domenica. Uno dei due razzi è stato distrutto sopra la capitale, Riad, dove l’esplosione ha causato preoccupazione ai residenti e ferito due persone.  L’attacco arriva solo tre giorni dopo che entrambe le parti in guerra avevano ricevuto “positivamente” la richiesta da parte delle Nazioni Unite di una tregua immediata per limitare la diffusione del coronavirus.

“Due civili sono stati feriti dalla caduta dei resti del missile intercettato dopo l’esplosione in aria in un quartiere residenziale”, ha dichiarato il tenente colonnello Mohammed al Hammadi, portavoce della difesa civile nella provincia di Riad, citato dall’agenzia statale SPA. Un secondo razzo ha colpito la città di Jizan, situata nel sud-ovest del paese, in una regione di confine con lo Yemen, secondo le informazioni riferite dal colonnello Turki al Maiki, portavoce della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita contro gli Houthi. I ribelli hanno rivendicato la responsabilità dell’attacco.

Poco prima di mezzanotte, alcuni dei 7,5 milioni di abitanti della capitale saudita hanno segnalato, anche attraverso i social media, le varie esplosioni con immagini e video che mostravano i possibili missili: molta la paura e lo spavento. Riad, come altre grandi città saudite, è sotto un severo coprifuoco per contrastare la diffusione della pandemia che ha già causato 8 morti quasi 1300 casi positivi confermati.

L’Arabia Saudita ha espresso il suo sostegno all’appello del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per un immediato cessate-il-fuoco in Yemen, nella cui guerra è intervenuta cinque anni fa, sostenendo il governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, ma soprattutto con l’obiettivo di limitare ciò che era vista come una crescente influenza iraniana nella zona attraverso gli Houthi. Da allora, i ribelli, che fino a quel momento erano privi di capacità missilistica, hanno lanciato centinaia di missili e attacchi con droni contro il territorio saudita. Molti attacchi avevano come obiettivo installazioni militari di frontiera, ma anche civili come l’aeroporto di Abha. L’ultima volta che avevano preso di mira la capitale era stato nel giugno del 2018. Fra i vari attacchi era stato rivendicato anche il bombardamento di impianti petroliferi sauditi che hanno dimezzato la produzione di greggio a settembre dell’anno passato, anche se Riad e i suoi alleati hanno sempre accusato l’Iran.

Senza respingere la proposta di Guterres, gli Houthi, che hanno lanciato un’offensiva sullo Yemen orientale dal mese di gennaio, hanno manifestato una posizione più ambigua: osservare l’atteggiamento del nemico e comportarsi di conseguenza. Gli scontri non sono cessati: da una parte, l’Arabia Saudita ha accusato i ribelli yemeniti di un attacco di droni contro due città del sud; mentre, dall’altra parte, gli Houthi hanno affermato di aver intercettato aerei sauditi su Ma’rib.

La guerra civile in Yemen è iniziata a marzo del 2015, quando i ribelli sciiti hanno iniziato una lotta per il controllo sulle regioni meridionali del paese. Dopo aver conquistato la capitale San’a, si sono dichiarati fedeli all’ex-presidente, Ali Abdullah Saleh, e il governo del presidente  Abd Rabbo Mansour Hadi, sostenuto dalla coalizione a guida saudita che è intervenuta nel conflitto ed è stato riconosciuto anche dalla comunità internazionale, si è ritirato nella città di Aden. La coalizione comprende l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan, il Bahrain, il Kuwait, il Qatar, l’Egitto, il Marocco, la Giordania e il Senegal. I ribelli sciiti Houthi sono sostenuti, invece, dall’Iran e dalle milizie di Hezbollah.

Di Mario Savina

Israeliani e palestinesi insieme contro la diffusione del Covid-19

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Israele offre assistenza medica all’Autorità Nazionale Palestinese dopo la rottura provocata dal piano di pace proposto dal Presidente americano  Donald Trump.

Dopo anni di congelamento delle relazioni e la rottura dei legami causati dalla presentazione nel mese di febbraio del controverso piano di pace dagli Stati Uniti, israeliani e palestinesi stanno collaborando da vicino nelle ultime settimane per arginare la diffusione della pandemia del coronavirus. L’avvicinamento, generato dal coordinamento sanitario, ha portato Israele ad offrire aiuti medici all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), estendendosi per la prima volta anche alla sovraffollata Striscia di Gaza, sotto il controllo dell’organizzazione islamista Hamas. Inoltre, decine di migliaia di lavoratori della Gisgiordania sono stati autorizzati a risiedere sul territorio israeliano, contrariamente all’attuale divieto, durante la situazione d’emergenza.

In una tregua non dichiarata, i razzi hanno smesso di librarsi nei cieli delle città israeliane al confine con Gaza, le truppe rimangono acquartierate e gli incidenti violenti sono diventati una rarità nelle comunicazioni dei media locali. L’ANP ha dichiarato il confinamento di tutta la popolazione a partire da domenica.

Già con quasi mille casi di Covid-19 registrati in Israele (9 milioni di abitanti), con un deceduto fino ad oggi, e oltre cinquanta positivi in Cisgiordania (2,5 milioni di abitanti), la crisi è ancora distante dai livelli europei. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono stati colpiti dal fatto che nell’enclave sovraffollata di Gaza (circa 2 milioni tra residenti e rifugiati) nessun caso è stato  dichiarato fino a sabato sera, quando sono stati annunciati i primi due casi positivi: due viaggiatori provenienti dal Pakistan.

La striscia costiera, appena 375 chilometri quadrati, è stata isolata dal 2007, quando gli islamisti di Hamas hanno estromesso il partito Fatah del Presidente dell’ANP Mahmud Abbas e Israele ha imposto un feroce blocco militare. Poiché Gaza è dotata di un solo laboratorio per eseguire i test di rilevamento dei virus, Israele ha facilitato l’ingresso di qualche centinaio di kit per eseguire test e dispositivi di protezione per il personale medico, pur ammettendo un grave deficit di apparecchiature mediche nei loro centri ospedalieri, secondo i dati ufficiali riportati dal The Jerusalem Post.

Il Cogat, il corpo del Ministero della Difesa israeliano che gestisce l’occupazione nei territori palestinesi, ha messo in guardia da un possibile contagio tra la popolazione della Striscia di Gaza, il cui sistema sanitario copre a malapena i bisogni minimi dopo le tre guerre devastanti con Israele tra il 2008 e il 2014. Il maggiore Yotam Shefer, capo del dipartimento internazionale del Cogat, ha avvertito in una teleconferenza con giornalisti stranierei che “i virus non conoscono confini”. L’enclave dispone solamente di 60 posti nelle unità di terapia intensiva. Al momento, oltre 2700 persone sono confinate nelle loro case dopo essere tornate a Gaza attraverso il varco di Rafah, l’unico passaggio aperto con l’Egitto. Il confine di Erez con Israele è chiuso, tranne che per i pazienti oncologici e con malattie gravi che devono essere trasferiti negli ospedali israeliani o della Cisgiordania.

Sempre Sheref ha affermato che “per tre settimane, il Cogat ha coordinato la cooperazione tra il Ministero della Salute israeliano e le autorità sanitarie palestinesi”, ricevendo circa 400 kit di test di rilevazione e 500 dispositivi di protezione individuale. Sono stati inoltre organizzati incontri telematici per formare professionisti palestinesi per la prevenzione della pandemia. La prospettiva di un massiccio contagio in Cisgiordania e a Gaza viene analizzata con preoccupazione dallo stato maggiore delle forze armate, riferisce il quotidiano Haaretxz.

Il Presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha telefonato nei giorni scorsi a Rais Mahmus Abbas: un gesto di avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese inusuale da quando i negoziati di pace sono stati annullati nel 2014. “La crisi del coronavirus non distingue tra popoli e territori”, ha detto il Presidente ebraico, “e la nostra cooperazione è vitale per proteggere la salute di israeliani e palestinesi: la nostra capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonierà anche la nostra volontà di collaborare in futuro per il bene di tutti”, ha aggiunto Rivlin, prima di esprimere ad Abbas la sua volontà di offrire aiuto, in modo coordinato.

Da parte palestinese, il Ministro degli Affari Civili, Hussein al-Sheikh, responsabile del coordinamento con Israele, ha riconosciuto in alcune interviste il miglioramento delle relazioni bilaterali, sottolineando come ci sia una forte volontà di collaborazione e come il pericolo pandemia non abbia confini. E’ nella situazione degli oltre cento mila palestinesi che ogni giorno attraversano la Cisgiordania verso Israele per motivi di lavoro che la cooperazione è diventata più visibile. Infatti, secondo Al-Sheikh saranno circa 45.000 i lavoratori che riceveranno l’autorizzazione a risiedere in territorio israeliano per almeno un mese, evitando così quei trasferimenti continui che potrebbero moltiplicare le possibilità di diffusione del virus.

Di Mario Savina

Gli USA colpiscono una milizia legata all’Iran

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L’attacco dopo la morte di tre soldati della coalizione internazionale. L’operazione aveva come obiettivo alcune installazioni del gruppo sciita Kata’ib Hezbollah in diversi punti dell’Iraq.

Gli Stati Uniti hanno bombardato le posizioni della milizia irachena incolpata dell’attacco che nella giornata di ieri ha ucciso tre soldati della coalizione internazionale all’interno della base di Taji. Questo è un messaggio per l’Iran, sponsor di Kata’ib Hezbollah e di altri gruppi armati sciiti. Tuttavia, il pericolo è quello di incoraggiare una nuova ondata di antiamericanismo tra gli iracheni che vedono ancora una volta il loro Paese diventare il campo di battaglia tra Washington e Teheran. Il governo iracheno ha condannato il raid che ha ucciso sei dei suoi cittadini.

“E’ un chiaro messaggio che gli Stati Uniti non tollereranno attacchi iraniani indiretti”, ha detto il generale Kenneth MacKenzie, capo del comando centrale (CENTCOM, da cui dipende l’operazione in Iraq) durante un’apparizione davanti la stampa. MAcKenzie ha anche affermato di essersi consultato con l’Iraq prima dell’attacco. “Sapevano che la risposta stava arrivando”, ha assicurato.

Ma gli iracheni non la vedono allo stesso modo. Sia le autorità civili che militari hanno condannato l’operazione di ritorsione come una  violazione alla loro sovranità. Il ministero degli Esteri ha convocato gli ambasciatori di Stati Uniti e  Regno Unito, i Paesi di origine dei tre morti nell’attacco di mercoledì notte, per avere chiarimenti in merito all’aggressione americana.

“Il pretesto che si tratti di una risposta all’aggressione contro la base di Taji è un falso pretesto che porta solo ad una escalation e non facilita una soluzione”, si afferma nel comunicato emesso dal Comando iracheno delle operazioni congiunte. Secondo i suoi calcoli, l’attentato ha ucciso tre soldati, due poliziotti, un civile e ferito altre dodici persone, oltre a distruggere infrastrutture, armi e attrezzature militari. Il Dipartimento della Difesa americano, da parte sua, ha dichiarato che i suoi aerei hanno bombardato “cinque centri di deposito di armi” di Kata’ib Hezbollah e “ridotto significativamente la sua capacità di effettuare attacchi futuri contro le forze della coalizione”.

Il problema  è che l’Iraq ha integrato nelle sue Forze Armate una serie di milizie, principalmente sciite,  che hanno contribuito a combattere lo Stato Islamico (ISIS) tra il 2014 e il 2017 sotto l’etichetta di Popular Mobilization Forces. Tuttavia, alcuni di questi gruppi hanno continuato a mantenere una catena di comando parallela e, grazie  al sostegno dell’Iran, hanno accesso a un’offerta di armi indipendente. Inoltre, il loro braccio politico monopolizza il potere  dello Stato, ciò che ostacola le richieste di scioglimento arrivate. Ciò ha permesso all’Iran, soggetto della politica di massima tensione dell’amministrazione Trump,  di ricorrere a queste milizie per contrastare gli Stati Uniti. E’ un gioco pericoloso che all’inizio dell’anno stava per condurre ad uno scontro diretto, quando Washington ha risposto con l’omicidio del generale Qasem Soleimani alla morte di un appaltatore civile americano in uno di quegli attacchi di logoramento. Insieme a Soleimani è morto anche il suo braccio destro in Iraq, Abu Mahdi al Mohandes, il fondatore di Kata’ib Hezbollah, che gli Stati Uniti hanno etichettato come organizzazione terroristica.

L’Iran non ha perso occasione, attraverso le parole del suo portavoce agli Esteri, di ricordare al Presidente Donald Trump che la colpa degli attacchi è da attribuire alla “presenza e comportamento” delle forze di coalizione. Le forze statunitensi si sono ritirate dall’Iraq nel 2011, sebbene siano tornate tre anni dopo su richiesta del governo di Baghdad per combattere l’ISIS. Ci sono circa 5.000 soldati americani come parte della coalizione internazionale anti-jihadista e che sono dedicati all’addestramento e al sostegno dell’esercito iracheno. Tuttavia, “l’ultimo bombardamento va contro qualsiasi accordo della coalizione”, prosegue il portavoce.

A seguito dell’omicidio di Soleimani, il Parlamento approvò una risoluzione che chiedeva il ritiro delle truppe straniere. La nuova ritorsione può rafforzare quella richiesta. Al di là dell’innegabile influenza iraniana sulla decisione, che è stata sostenuta solo dai deputati sciiti in assenza di sunniti e curdi, la realtà è che gli iracheni vedono con crescente paura il confronto nel loro Paese tra la grande potenza e la potenza regionale. Con attacchi agli Stati Uniti, le milizie sciite stanno guadagnando sostegno e legittimità, secondo molti analisti, convinti che le ritorsioni aumentino il sentimento anti-americano. Le milizie danno l’impressione di agire nell’interesse nazionale contro un potere detestato, la cui presenza si ritiene che non sia più necessaria.

Di Mario Savina

L’evoluzione di Idlib, la guerra silenziosa che inizia a far rumore in Europa

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Ad Idlib lo stallo apparente si è infuocato fino alla tregua di oggi, ma è sempre più alta la posta in gioco. Dal rischio di una strage fino alla crisi umanitaria che bussa all’Europa, tutto ciò è nelle mani di Erdogan.

 

Il precario equilibrio di Idlib ha subito nella scorsa settimana una svolta disastrosa.

Qui, nella provincia più a nord-ovest della Siria, ultima zona di conflitto tra le forze lealiste di Assad e i ribelli filo-turchi, la notte del 27 febbraio i caccia siriani Sukhoi Su-24 assieme ai loro omologhi russi Su-34 hanno portato a termine una serie di raid aerei su degli avamposti turchi, uccidendo nel complesso 33 soldati; si tratta della perdita più ingente che la Turchia abbia mai subito dall’inizio del conflitto. Ad oggi lo scontro tra le due parti si riduce in un fazzoletto di terra; le forze governative di Assad il 19 dicembre hanno lanciato un’offensiva che ha costretto nei mesi i ribelli a ritirarsi dietro al confine che era stato garantito loro, durante l’accordo di Sochi nel settembre 2018. Dall’inizio dell’assalto l’esercito siriano, grazie al supporto russo, ha riconquistato un’area di 4.000 km² lasciando la restante, di pari dimensioni, alle file dei ribelli, area in cui peraltro vi è il concreto rischio di un massacro dato che in questo territorio grande appena quanto il Molise sono concentrate circa 3 milioni di persone, di cui profughe un milione.

Ciononostante pochi giorni prima dell’attacco siriano e russo i ribelli erano riusciti, grazie anche al supporto dell’esercito turco, a prendere il controllo della città di Saraqib, snodo fondamentale da cui passano le autostrade M4 ed M5, che congiungono Aleppo a Laodicea e a Damasco; inoltre poche ore prima del raid siriano alcuni media russi avevano riportato degli attacchi ai loro caccia, resi bersaglio di alcune postazioni antiaeree turche.

La risposta di Erdogan e la sua solitudine
La reazione del presidente turco non si è fatta attendere e nella stessa notte ha chiamato d’urgenza una riunione con i vertici della difesa, a cui sono seguite dichiarazioni molto forti: “Le nostre operazioni in Siria continueranno fino a quando le mani sporche di sangue che hanno di mira la nostra bandiera saranno infrante. E’ stata presa la decisione di ritorcersi con maggior forza contro il regime illegittimo che ha puntato le armi contro i nostri soldati”. Poche ore dopo la stessa conferenza il ministro della difesa turco Hulusi Akar ha annunciato l’avvio della quarta operazione in territorio siriano tramite cui la Turchia da qui in poi applicherà il diritto di autodifesa sui suoi territori in Siria. Denominata ‘Spring Shield’, la manovra secondo i vertici militari turchi ha già neutralizzato (ovvero ucciso, ferito o imprigionato) circa 2.800 soldati siriani; dopo gli eventi di questa settimana appare quindi chiara ormai la frontalità dello scontro tra Ankara e Damasco, Erdogan non vuole che Assad esca da questo conflitto vincitore ed è pronto a non cedere il passo su Idlib, del resto ha fornito fin qui un ingente aiuto ai 30.000 ribelli tramite la dotazione di blindati, missili anti-tank e missili anti-aerei, nonché il supporto dell’esercito turco nei 12 avamposti.

Diversamente dall’approccio che Ankara ha con Damasco il presidente turco si guarda bene dall’inasprire il conflitto con la Russia di Putin, il vero leader della guerra, che ha saputo risollevare Assad quando tutta la comunità internazionale lo dava ormai per finito. Erdogan sa bene che deteriorare i rapporti con Putin potrebbe essere fatale, proprio per questo motivo nelle dichiarazioni congiunte al vertice della difesa il presidente turco evita di menzionare la Russia come nemico, ma tutt’al più come un nazione di rispetto con cui Ankara ha rapporti di parità e a cui ha chiesto “di togliersi di mezzo da Idlib e fare i suoi interessi”. Il rapporto fra i due paesi è incerto; nei mesi passati Ankara ha acquistato da Mosca quattro sistemi missilistici antiaerei S-400 per un totale di 2,5 miliardi di dollari contro il parere dei vertici NATO, i quali non hanno gradito l’affare e fin’ora hanno negato alla Turchia l’acquisto degli F-35, tuttavia su altre questioni di primaria importanza come la Libia i due paesi siedono sui fronti opposti: Erdogan appoggia il governo di Tripoli di Serraj, al quale ha inviato anche delle truppe di supporto, mentre Putin supporta il generale Haftar.

Se Erdogan si trovasse a fronteggiare le forze di Assad da sole avrebbe certo più possibilità di muoversi, ma la forte presenza russa gli impone un’estrema cautela; la Russia è padrona dello spazio aereo di Idlib e nelle scorse settimane ha ripetutamente negato alla Turchia la possibilità di sorvolare i cieli siriani. Fin’ora l’unica mossa di Ankara oltre all’esercizio dell’autodifesa è stata chiedere il ripristino dei confini come erano stati garantiti a Sochi nel 2018, ma è quasi impossibile che vengano concessi da Assad a meno che Erdogan non riesca a persuadere il suo “amico” Putin. Una sorta di immobilismo quello turco, molti analisti paragonano la situazione della Turchia a quella di un vicolo cieco da cui Erdogan sta cercando di uscire in tutti modi.
Effettivamente l’ex Impero Ottomano soffre di una certa solitudine a livello internazionale, complice anche il fatto di aver agito in solitaria nella questione siriana e spesso non rendendo chiari i propri intenti, basti pensare che dopo l’attacco subito Erdogan ha fatto appello “alla voce di aiuto del popolo siriano, il quale chiede di essere protetto dal regime e dal terrore” quando però nel territorio di cui ha il controllo, appena a 5 km dai confini turchi, è stato trovato lo scorso novembre dall’intelligence americana Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’ISIS. Il presidente allora ha necessariamente bisogno di supporto dalla comunità internazionale per aver più peso al tavolo con il Cremlino, e vorrebbe che i suoi partner, che sono tali perlomeno sulla carta come la NATO e l’Unione Europea, lo appoggiassero nelle sue azioni.
La questione profughi, un’arma nei confronti dell’Europa

A questo scopo Ankara dispone di un asso nella manica pesantissimo che è riuscito a gestire nel tempo ed è pronto a utilizzare contro l’Europa se questa non dovesse mostrare il suo appoggio. Nel marzo 2016, a 5 anni di distanza dallo scoppio della guerra e in piena crisi umanitaria, l’Unione per evitare l’acuirsi del fenomeno migratorio dei siriani e combattere l’insurrezione delle destre nei rispettivi paesi membri, aveva deciso di concordare con la Turchia il blocco della rotta balcanica prevedendo il ritorno in territorio turco di tutti quei migranti trovati in viaggio verso la Grecia; l’accordo prevedeva il pagamento di 7 miliardi complessivi fino al 2020.

Lo scenario di collaborazione in questi 4 anni è totalmente cambiato; dai tempi dell’accordo la Turchia è diventata protagonista attiva nella guerra siriana, prima nella provincie di Afrin e di Rojava per fermare l’espansionismo delle forze curde delle SDF, e poi ad Idlib tramite il rifornimento e la partecipazione diretta contro il regime. Inoltre ad Erdogan la questione migranti (si stima un bacino di circa 3,6 milioni di profughi siriani in territorio turco) ha causato un “crollo” di popolarità a favore del partito rivale CHP, il partito popolare-repubblicano, il quale ha conseguito la maggioranza nelle principali città. Quindi, ora che è da poco terminato l’accordo di trattenimento dei profughi, la Turchia sta facendo pressione all’Europa, specie dopo che la morte dei 35 militari turchi il 27 febbraio non ha trovato eco di sostegno da parte di Bruxelles.
Il presidente turco all’indomani dei raid ha denunciato la situazione in Turchia, ormai incapace di trattenere i civili siriani, e avvisato l’UE di aver già aperto i propri confini con la Grecia e la Bulgaria: “Gli ufficiali turchi hanno già caricato più di 600 migranti su dei pullman diretti in Europa, in questi giorni se ne riverseranno a milioni”. Non è nemmeno valsa l’offerta da parte dell’Europa di un miliardo di euro per trattenerli in attesa di una soluzione definitiva, che in questi giorni si sono già riversati migliaia di profughi sia nelle città di confine lungo il fiume Evros che sull’isola di Lesbo, dove d’altronde l’UNHCR già attesta la presenza di 16 mila profughi. L’Unione Europea ha offerto il pieno sostegno alla Grecia, in questi giorni il commissario europeo Ursula von der Leyen e il presidente del parlamento David Sassoli saranno nelle zone di confine per valutare la possibilità, ormai quasi certa, di un intervento di Frontex, l’agenzia di difesa di confini europei.
Arriva intanto, oggi 6 marzo, l’ennesima tregua, concordata dopo numerose ore di negoziati; Putin ha ricevuto al Cremlino Erdogan e i due hanno stabilito il cessate il fuoco, dei pattugliamenti congiunti al confine e un corridoio di sicurezza lungo sei chilometri in prossimità di Saraqib e dell’autostrada M4. Nonostante i leader al termine dei colloqui si congratulino reciprocamente per la vittoria diplomatica emerge sempre più un fatto, ovvero la precarietà delle tregue in Siria; difatti Erdogan ribadisce che qualsiasi violazione da parte delle autorità siriane verrà vendicata mentre gli interessi di Putin sono sempre più contrastanti con quelli turchi, la base russa di Khmeimim ad esempio è stata ripetutamente resa bersaglio di attacchi da parte delle milizie jihadiste dei ribelli. Si tratta pur sempre di una guerra che dura da 9 anni, eppure nemmeno gli ultimi episodi riescono a cedere il passo al futuro della Siria in silenzio.

La visita di Mattarella in Qatar e in Israele

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

La settimana appena trascorsa è stata per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricca di appuntamenti istituzionali per lo più centrati sui nodi del Medio Oriente e della questione libica. 

 

IL SUMMIT IN QATAR
Il Capo di Stato dopo aver ricevuto nel 2018 al Quirinale il sovrano del Qatar, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, si è recato a Doha lunedì 20 gennaio per sostenere dei colloqui assieme a quest’ultimo. Nei due giorni di permanenza sono stati toccati numerosi temi, dai problemi che affliggono la comunità internazionale e la stabilità della regione fino alle fruttuose relazioni economiche tra i due paesi, che negli ultimi anni hanno registrato 2 miliardi di euro in interscambio, ovvero nell’insieme di importazioni ed esportazioni, di cui uno per le esportazioni italiane; a testimonianza del rapporto saldo in materia economica tra Italia e Qatar erano presenti al vertice gli amministratori delegati di numerose aziende italiane, tra cui Eni, Fincantieri, Leonardo e Cassa depositi e prestiti.

Il rapporto tra i due paesi non è solo di cooperazione economica, difatti sia l’Italia che il Qatar nella questione libica appoggiano il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, nell’ultimo periodo sotto l’attacco del Generale Haftar, comandante dell’Esercito Nazionale Libico, che sta conducendo una grave offensiva sulla capitale nonostante le richieste di tregua avanzate sia dalla Conferenza di Berlino che dalla Russia e la Turchia, principali alleati delle rispettive compagini libiche.
Il presidente Mattarella non ha nascosto all’emiro al-Thani la sua preoccupazione per questa grave escalation di violenze, soprattutto alla luce dell’invio da parte del presidente turco Erdogan di un contingente militare in supporto di Tripoli sulla base di un accordo trovato tra Anakara e il Governo di Accordo Nazionale libico lo scorso 27 novembre. Tra i paesi che hanno condannato quest’intromissione, che sembra aver colpito l’intera comunità internazionale, c’è l’Italia. Il Presidente Mattarella ha definito la situazione preoccupante ed ha auspicato una maggiore saggezza; la crisi libica deve essere risolta tramite la mediazione poiché un ulteriore conflitto sarebbe devastante per un paese che dal 2011 ha perso la propria stabilità; è per questo che l’Italia, ha continuato il Capo di Stato, appoggia l’azione multilaterale dell’ONU e del suo alto rappresentante Ghassan Salamé.
Da parte sua l’emiro qatariota al-Thani supporta il governo di al-Serraj ed è al contempo stretto alleato di Ankara, da quando nel 2017 Erdogan supportò il Qatar a fronte di un blocco commerciale che altri Stati vicini come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto, lo Yemen e il Barhein gli imposero a seguito di accuse di finanziamento allo Stato Islamico; aiuto per cui la Turchia sta ora beneficiando di un piano d’investimenti pari a 15 bilioni di dollari da parte di Doha per contrastare la forte svalutazione della lira turca. L’incontro di Doha è stato quindi salutato con esito positivo,nonostante restino alcuni interrogativi circa il futuro della Libia; il multilateralismo e le richieste di tregua restano al contempo strumenti tanto solenni quanto poco efficaci, tant’è che il generale Haftar oltre a violare la tregua auspicata a Berlino sta limitando fortemente la produzione di greggio negli impianti sotto suo controllo, recando danni ingenti a compagnie come la NOC e l’Eni.

 

LA VISITA IN ISRAELE
Dopo gli incontri tenuti in Qatar per il Presidente Mattarella è stata la volta di Gerusalemme, invitato lì il 24 gennaio assieme agli altri capi di stato dal Presidente israeliano Reuven Rivlin per commemorare il 75imo anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau al memoriale della Shoah Yad Vashem. Il Presidente Rivlin per l’occasione si è voluto congratulare con l’Italia per il suo impegno in prima fila nella lotta contro l’antisemitismo, testimoniato anche dalla nomina di Liliana Segre a senatrice a vita nel 2018, a 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali. L’evento di commemorazione si è svolto linearmente; hanno preso parola molti capi di stato tra cui il Presidente russo Vladimir Putin, che anche se con un leggero ritardo ha voluto ringraziare Israele per conservare tutt’oggi la memoria dei tragici eventi legati al nazismo, eventi che uniscono il popolo russo a quello ebraico, e Mike Pence, vice-presidente statunitense, il quale ha rivolto l’attenzione dei partecipanti verso gli attuali nemici del popolo ebraico, prima fra tutti Teheran.
IL VICE USA AL QUIRINALE

All’indomani della commemorazione che si è svolta a Gerusalemme il Presidente Mattarella ha accolto venerdì 24 gennaio, presso il Quirinale, proprio il vice-presidente USA Mike Pence. Le buone relazioni che intercorrono fra Stati Uniti e Italia sono dato certo; le situazioni di crisi nella politica internazionale non ne hanno scalfito l’intesa sebbene l’Italia, come confermato dalle parole dello stesso Presidente, sia preoccupata dal graduale disimpegno americano in Siria e in Libia, oltre che dall’applicazione di dazi nei confronti del nostro paese.

A tal proposito Mattarella ha esortato gli Stati Uniti ad applicare il proprio peso poltico specialmente in Libia, dove l’Italia conserva numerosi interessi, al fine di dare efficacia alla tregua chiesta dalla Conferenza di Berlino. Sulla questione dazi il Presidente ha richiamato il concetto di alleanza come “comunità di valori”, la stessa che lega i due paesi nell’alleanza trans-atlantica, e che rischia però di essere indebolita dall’intromissione di strumenti commerciali nocivi come i dazi commerciali. Dopo il colloquio avuto al Quirinale il vice USA Mike Pence si è diretto a Palazzo Chigi dal premier Conte ma, prima di lasciare il Colle, questo si è voluto complimentare con il Presidente Mattarella per la sua forte leadership.

Trump agita il mondo

MEDIO ORIENTE di

Il calcolo ed il contenimento hanno caratterizzato la lunga rivalità tra Stati Uniti ed Iran. Una rivalità fatta di aggressioni più o meno segrete o tramite intermediari, evitando attacchi diretti e inequivocabili contro civili o militari che avrebbero innescato un aperto conflitto bellico nella regione. Quella tradizione è saltata in aria con un missile lanciato da un drone venerdì mattina nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Con l’ordine di sparare quel missile, il Presidente Donald Trump non solo ha eliminato un nemico degli Usa, il temuto e potente generale iraniano Qasem Soleimani, ma ha anche rinunciato a uno dei suoi pilastri in politica estera: l’impegno a far uscire il Paese dalle “guerre eterne” in Medio Oriente. Le ondate sismiche dell’attacco scuotono un sistema mondiale in cui Trump, a tre anni dal suo insediamento, ben poco ha fatto per stabilizzare.

A differenza di Osama Bin Laden o Abubaker al Baghdadi, leader di Al Qaeda il primo e dello Stato Islamico il secondo, giustiziati in passato dagli Stati Uniti, il comandante delle forze d’élite Al Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana, unità responsabile delle operazioni all’estero, non era un obiettivo troppo difficile da colpire. I due precedenti presidenti hanno avuto la possibilità di eliminarlo, ma hanno preferito evitare per paura di entrare in una guerra senza fine. Ecco perché è sorprendente che colui che ha deciso di agire sia stato proprio Trump, che non ha mai nascosto la sua riluttanza a rimanere imbrigliato in Medio Oriente. Va ricordato che, a differenza di Bin Laden e Al Baghdadi, entrambi terroristi indipendenti che non rispondevano a nessun governo, Soleimani era un funzionario di alto livello di uno Stato,  e non uno qualunque. Ecco perché la sua morte obbliga l’Iran a reagire con forza.

Mentre gli Usa attendono ritorsioni, nessuno contesta che Soleimani fosse un nemico e nemmeno la sua diretta responsabilità nella recente campagna della milizia sciita contro gli interessi degli Stati Uniti, conclusasi con la morte di un contractor lo scorso 27 dicembre a Baghdad, scatenando l’escalation di eventi che ha portato alla morte del generale. Ciò che più fa discutere è quanto sia stato conveniente per Washington questa mossa strategica in un’aerea in cui l’instabilità è cronica. Secondo Robert O’Brien, consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, l’Iran ha due opzioni: una è quella di continuare lo scontro con gli Usa, con ripercussioni sia per il popolo che per il governo iraniano; l’altra è sedersi a un tavolo per negoziare l’abbandono del programma nucleare e la sua guerra in Medio Oriente, comportandosi come un Paese civile.

Lo stesso Trump ha suggerito che l’attacco era uno strumento di negoziazione: “L’Iran non ha mai vinto una guerra, ma non hai mai perso una negoziazione”, ha twittato il Presidente. La sua amministrazione ribadisce che non cerca nessun conflitto e che l’azione è stata un esercizio di autodifesa per evitare un imminente attacco contro gli interessi americani: “Agiamo per fermare una guerra, non agiamo per iniziarne una”, ha dichiarato Trump lo scorso venerdì.

Trump aveva optato per il contenimento già in due occasioni. A giugno, dopo l’abbattimento di un drone di sorveglianza americano, il comandante in capo ha fermato all’ultimo minuto un’offensiva militare che considerava “sproporzionata”. Tre mesi dopo, non c’è stata nessuna reazione all’attacco missilistico alle due navi saudite. Ora, mentre da una parte sostiene che l’esecuzione di Soleimani si adatta alla strategia attuale e nega una svolta verso un conflitto, dall’altra Washington si prepara ad una tale contingenza.

In realtà Trump sembrerebbe aver scelto la strada del conflitto con l’Iran ancor prima di arrivare alla Casa Bianca, promettendo di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare firmato da Barack Obama nel 2015, che aveva tentato di congelare il programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni economiche. Nel 2018, Trump ha realizzato la sua promessa elettorale, ritirandosi ufficialmente dall’accordo e ripristinando le sanzioni, con la speranza di convincere l’Iran a ritornare alle fasi negoziali precedenti ed ottenere maggiori concessioni. Questa strategia ha avuto come risposta una serie di attacchi mirati agli interessi statunitensi, orchestrati dallo stesso Soleimani, in una regione in cui Trump insiste nel voler ignorare.

La sua campagna, finora senza successo, di massima pressione sull’Iran, combinata con la sua allergia al multilateralismo ed al suo comportamento impulsivo, gli ha fatto perdere sostegno nella regione. Questo si concentra in Arabia Saudita, al cui principe ereditario, il controverso Mohamed bin Salman, Trump ha mostrato un sostegno acritico, e nell’Israele di Benjamin Netanyahu, messo alle strette da problemi interni superiori perfino a quelli di Trump stesso.

Di Mario Savina

Mario Savina
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