GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Asia - page 8

Cina, Maitra: “Nessuna politica antiIslam: Xinjiang motore dello sviluppo economico”

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Lo sviluppo verso ovest. La questione degli Uiguri. La rinascita della Via della Seta. I rapporti con i Stati confinanti. Dal 2000, lo Xinjiang è divenuto per la Cina uno dei motori al servizio della sua preponderante crescita economica. Ma è anche una terra in cui l’identità e la religione locale, l’Islam, rischiano di scontrarsi con gli Han, la maggioranza etnica del Paese. Per affrontare questi temi, European Affairs ha intervistato Ramtanu Maitra, analista presso la sede statunitense della rivista Eir. Inoltre, egli collabora regolarmente con tre trimestrali indiani nel settore della Difesa: Aakrosh, Agni e The Indian Defence Review. In passato, ha scritto per la redazione online di Asia Times.

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Per gli Uiguri, le questioni indipendentiste e religiose vanno di pari passo?

“La religione non è sicuramente la questione più importante per gli Uiguri. Essi non sembrano pronti a sacrificare le proprie vite per salvaguardare la loro religione. Ma quando altri fattori entrano in gioco, come lo spostamento in massa degli Han nello Xinjiang da parte di Pechino, l’identità religiosa viene messa in mostra. In particolar modo, i seguaci dell’Islam, molti dei quali sono stati vittime del colonialismo occidentale in passato, hanno iniziato a riaffermarsi negli ultimi anni e a mostrare la forza della propria religione come un’arma efficace. Pechino ha mostrato poca sensibilità nei rapporti con i musulmani e non sembra comprendere che disonorarli, perfino in un Paese come la Cina dove i musulmani sono un ridottissima minoranza. Non permettere agli Uiguri, perfino a quei pochi impiegati come dipendenti, di non digiunare durante il Ramadan è una pratica che potrebbe ricompattare gli Uiguri più determinati e portarli in diretto contatto con gli islamici più radicali, i quali sono pronti a dichiarare la Jihad contro qualsiasi Paese non islamico”.

“Sono dell’opinione che la maggioranza degli Uiguri non abbia interesse ad arrivare all’indipendenza. Ci potrebbe essere qualcuno che, invece, è interessato, ma la gran parte di loro non vuole semplicemente essere inglobato dagli Han. Da quando Pechino ha adottato la politica dello sviluppo almeno di una minima parte dell’ovest del Paese (ovvero lo Xinjiang), in modo da poter accedere all’Asia Centrale, Meridionale e Sudorientale, questo ha portato con sé, e lo porterà anche in futuro, molti Han ad emigrare verso lo Xinjiang. Questi Han sono lavoratori qualificati, hanno una migliore retribuzione e sono arrivati nello Xinjiang con l’intento di radicare il più possibile le proprie famiglie”.

“Questi sono i problemi riguardanti gli Uiguri. Tuttavia, mentre molti di essi assistono passivamente a questo cambiamento demografico, penalizzante nei confronti della maggioranza etnica nello Xinjiang (un caso non differente da quello che è accaduto e che accadrà in Tibet), alcuni di ribelleranno a questa politica di stato tesa a distruggere la loro identità, la loro cultura, il loro stile di vita e ad imporre la cultura della riverenza verso gli Han. Quest’ultimo gruppo di Uiguri potrebbe parlare di indipendenza, ma essi non possono montare un caso per giustificare la loro indipendenza contro una grande potenza come la Cina. Allo stesso tempo, gli Uiguri di ieri e di oggi, che hanno vissuto o vivono una vita molto dura, accolgono con favore lo sviluppo che Pechino sta portando nello Xinjiang. Non esiste la possibilità che gli Uiguri si uniscano sotto un solo ombrello in una causa molto astratta come l’indipendenza dalla Cina”.
Il ripopolamento dello Xinjiang, attraverso lo spostamento in loco degli Han avvenuto negli ultimi 15 anni, ha avuto l’effetto contrario rispetto alla volontà del governo di sopprimere le istanze degli Uiguri?

“La politica di Pechino di portare l’etnia Han ad abitare nello Xinjiang non mira ad indebolire l’etnia Uiguri. Come ho fatto notare in precedenza, la Cina ha bisogno di sviluppare un’infrastruttura che le consenta l’accesso verso la parte occidentale del Paese, dove ci sono grandi giacimenti di petrolio e gas che Pechino potrebbe utilizzare per sostenere e far crescere la sua economia. Il processo ha fatto riversare la migrazione di una enorme quantità di Han nello Xinjiang, la terra degli Uiguri. Il processo ha anche modernizzato, e continuerà a farlo ulteriormente, molte parti dello Xinjiang. Gli Uiguri trarranno beneficio da tutto ciò, ma, al tempo stesso, entreranno quotidianamente in contatto con gli Han, molti dei quali non hanno ancora ben compreso le cose da fare e da non fare nella religione islamica, la loro cultura e l’attitudine isolazionista degli Uiguri. Alcuni Han potrebbero sentirsi in qualche modo superiori agli Uiguri. Queste differenze potrebbero portare a scontri e conflitti di tanto in tanto, ma non c’è nessuna ragione per credere che, nel corso dei prossimi anni, questi due gruppi etnici non saranno in grado di vivere fianco a fianco”.

“Tornando al tema della domanda, io ritengo che la politica messa in campo da Pechino non abbia lo scopo di sopprimere l’etnia Uiguri, anche se non è comprensiva nei loro confronti. Pechino ha ritenuto che non ci fossero ragioni di fare sforzi a livello sociale per integrare gli Uiguri con il resto della Cina. D’altra parte, se la Cina volesse sopprimere gli Uiguri, perché non gli Han sono stati fatti emigrare nello Xinjiang tra il 1950 e il 2000? Questo non è accaduto semplicemente perché non aveva ancora adottato la nuova politica di sviluppo economico relativamente alla Via della Seta”.
Il fatto che dal 2012 oltre 200 cinesi siano andati a combattere in Siria, fa della Cina uno degli Stati più a rischio a proposito della minaccia jihadista?

“No, questo è assurdo. Se migliaia di fondamentalisti islamici non hanno rappresentato una seria minaccia per 64 milioni di britannici, perché 200 islamisti dovrebbero rappresentare un qualche problema per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti? Questo non accadrà. La Cina non vuole utilizzare la forza per dialogare con gli Uiguri. La Cina vuole una “ascesa pacifica”. Atti violenti per frenare le rivolte degli Uiguri, per quanto piccole possano essere, verrebbero sottolineati con titoli da prima pagina dai media occidentali e sarebbero colte dai poteri forti in Occidente che intendono mostrare la Cina come spietata, intollerante agli altri gruppi religiosi e pronta ad esercitare l’uso della forza qualora non venisse seguito il proprio volere”.
Il passaggio della nuova Via della Seta e la presenza di risorse di gas e petrolio: l’aspetto economico è il vero motore della politica antiIslam di Pechino nello Xinjiang?

“In parte sì e in parte no. La Cina dovrà muoversi verso ovest se vuole arrivare al gas e al petrolio dell’Asia Centrale e della Penisola Arabia. Ma la Cina avrà anche bisogno di fare fruttare le risorse minerarie in funzione delle sue aziende produttrici in serie di una grande varietà di prodotti. Ma questa non sarà l’unica strada da perseguire. La Cina, con la sua ampia ed efficiente base di produzione, sarà attivamente alla ricerca di mercati in Asia Centrale e Sudoccidentale, Russia, Ucriana, Bielorussia, Crimea, Europa. Già nel Kyrgyzstan quasi tutti i prodotti venduti nei mercati hanno impressa la scritta “Made in China”. Questa è la parte affermativa della mia risposta”.

“La parte negativa, invece, è che la Cina non sta mettendo in atto nessuna politica antiIslam nello Xinjiang. Tutti i Paesi ad ovest di Pechino che sono in attesa di fornire alla Cina un accesso alle loro risorse energetiche e alle molte risorse di minerali, con l’eccezione d Russia e Georgia, sono tutte nazioni musulmane: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e l’intera Penisola Arabica”.
Giacomo Pratali

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Cina, controllo dei mari e sicurezza nazionale

Asia di

Da molti ritenuta l’avversario più temibile per gli Stati Uniti, da altri il suo erede, la Cina ha subito profonde rivoluzioni sociali, economiche, nelle corporations. La prossima frontiera di competizione saranno i mari – in cui rischia la collisione con gli Stati Uniti – il controllo delle rotte commerciali e la sicurezza degli approvvigionamenti da cui dipende la sopravvivenza della nazione.

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Per difendere i suoi interessi commerciali e competere con potenze vecchie e nuove (Giappone, India, Stati Uniti ecc) la Cina ha da anni avviato un processo di rinascita e riammodernamento della propria flotta navale militare in parallelo con la sua crescita economica. La difesa degli interessi nazionali viaggia anche attraverso il potenziamento del potere navale, declinato anch’esso in soft e hard power. Contratti commerciali, joint ventures, porti ed infrastrutture in grado di contenere e sopportare il peso di flussi sempre più intensi ma soprattutto una politica di vicinato che sarà supportata da una flotta sempre più ricca e tecnologicamente avanzata. La prima portaerei cinese, la Liaoling, è stato il primo grande passo verso la riappropriazione e riaffermazione nel Mar Giallo, nel Mar Orientale Cinese e in quello Meridionale e la difesa di un’area che ha incontrato già le prime opposizioni.

La Cina si affaccia sul mare per oltre 14.000 km ed ha pretese su una superficie molto vasta dei mari che la circondano (circa il 90% del mare Cinese Meridionale), compresi alcuni arcipelaghi che le garantirebbero di estendere la propria sovranità in maniera considerevole (sarebbero comprese anche le isole Senkaku, Paracel e le Spratly). Le ragioni risiedono nella presenza di ricchi giacimenti off-shore di petrolio e gas, ricche riserve di pesca, possibilità di estendere la sua influenza su superfici che pur non essendo popolabili (se sei escludono alcune isole naturali e le isole artificiali) sono però la rappresentazione pratica di una volontà politica che è volontà di potenza (in questo caso una rinata potenza). Insomma, le acque territoriali arriverebbero a lambire le coste di Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine e Giappone: la Cina così facendo creerebbe una sorta di piscina privata di fronte le sue coste.

Per garantire una presenza ed una sicurezza costanti è interessante notare come l’uso di soft e hard power si sia fatto sempre più complesso: forza economica, forza lavoro da esportare, trattati commerciali e flussi di merci da un lato, gara all’innovazione tecnologica civile e militare, presenza nei mercati energetici dall’altro). Le basi navali cinesi, infatti, ne sono dimostrazione. Osservando la loro dislocazione si può capire in che modo la proiezione dell’interesse nazionale cinese sulle acque del mare Cinese Meridionale possa essere una potenziale fonte di tensione e scontro con i Paesi che si affacciano sullo stesso mare e con gli Stati Uniti. Esse sono dislocate a nord ed a sud della nazione: a nord quelle di Qingdao e Dinghai proprio in corrispondenza di Korea del Sud e Giappone (dove sono presenti le basi navali statunitensi di Chinhae, Sasebo, Okinawa e la settima flotta navale), a sud in prossimità delle installazioni navali americane di Cam Ranh Port in Vietnam e la più lontana Singapore. E’ chiaro che una presenza nell’area sarebbe in grado di ottenere effetti positivi per la sicurezza cinese non tanto in vista di un confronto militare (che per quanto improbabile ed altamente sconsigliabile non può essere escluso a priori) quanto per una più sicura proiezione temporale che vedrebbe la sua crescita economica beneficiarne direttamente. Non si tratta, qui, di gareggiare contro rivali ormai noti. Si tratta invece di garantire un futuro sicuro alla nazione: la riformulazione del diritto per l’adeguamento agli standard internazionali, la rivoluzione sociale e culturale e la riconversione delle aziende devono necessariamente essere sostenute da una visione che, senza un continuo afflusso di energia, non potrebbe essere perseguita.

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In questo campo la Cina ha scoperto che per continuare la sua inarrestabile crescita economica ha bisogno di ancora più energia (i trend di crescita che lasciavano sgomenti alcuni anni addietro saranno probabilmente in calo nel prossimo futuro ma tenderanno a rimanere su valori comunque superiori a quelli di molta parte del cosiddetto mondo sviluppato): la popolazione negli ultimi decenni ha fatto registrare flussi sempre maggiori in direzione delle grandi metropoli che, quindi, per poter reggere gli stress sociali ed industriali necessitano di approvvigionamenti e disponibilità continua di energia. La modernizzazione ha fatto i conti con un impianto industriale basato su produzioni non adeguate alle sfide della globalizzazione (economia pianificata, accentramento del potere e del decisionismo governativo), assenza di compagnie private in grado di portare valore aggiunto alla diversificazione del sistema nel complesso, una classe politica ancorata a vecchi schemi. Ma una volta tornata sullo scenario mondiale la Cina (tra sottosviluppo rurale, povertà, crescita demografica, forza lavoro competitiva, economia sommersa) ha dovuto recuperare un gap enorme accumulato durante decenni in cui, per potersi risollevare internamente e costruire un sistema nazione autosufficiente, ha lasciato da parte il mondo che la circondava. Ora, però, quella striscia di mare che lambisce le coste di Cambogia, Filippine, Malesia va in qualche modo blindata attraverso la presenza di sottomarini (meglio se capaci di lanciare missili con testate nucleari), navi, portaerei; va rivendicata territorialmente, anche se ciò cozza con le limitazioni stabilite dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che prevede un intricato sistema di spartizione delle zone economiche esclusive dei vari Paesi rivieraschi e all’interno della quale le rivendicazioni cinesi si allargherebbero rendendola carta straccia. Ciò che è importante riportare è che buona parte del commercio mondiale attraversa queste acque connettendo lo stretto di Aden con l’Oceano Indiano, passando attraverso lo stretto di Malacca (500 miglia nautiche di percorrenza lo rendono lo stretto più lungo del mondo utilizzato per la navigazione commerciale) per trasportare merci e petrolio fino ai porti cinesi e viceversa.

 

L’intera zona è, a ragione delle rivendicazioni cinesi (forse non abbastanza per sovvertire l’attuale stato delle cose) interessata storicamente dai traffici navali dell’ex impero, che hanno sviluppato assieme al commercio della Cina anche i porti dei Paesi vicini e fatto di questa rotta una delle più trafficate al mondo. Una delle tecniche che il governo cinese sta utilizzando per assicurarsi una predominanza sui mari è quello della costruzione di isole artificiali. Queste infrastrutture costituiscono una sorta di intermezzo momentaneo che separa la loro nazione dal controllo del mare Cinese Meridionale e che sono un’estensione del territorio della Repubblica Popolare. Vengono costruite attraverso materiale incanalato in condotte apposite che per mezzo di numerose draghe esportano sedimenti dal sottosuolo per poi depositarli ove il fondale consente un rapido accumulo degli stessi. Numerose sono le affermazioni succedutesi da Washington e dai governi interessati affinché il governo cinese limiti queste operazioni. Sin dalle pronunce di Hillary Clinton gli Stati Uniti, coscienti della distanza geografica che li separa da questo quadrante sempre più caldo, hanno approcciato la questione seguendo una politica il cui obiettivo è quello di coinvolgere tutte le parti interessate. Questo significa coinvolgere anche gli Stati Uniti, che hanno una forte presenza nell’area. Si è quindi più volte parlato di “multilateralismo”, ma il governo di Pechino sembra rigettare al mittente la proposta. L’impressione è che agendo singolarmente, cercando quindi di gestire le dispute volta per volta (con Stati che a volte soffrono di un certo timore nei confronti di Pechino) e lasciando la proposta negoziale da parte, si cerche di arrivare ad una soluzione più equa e ovviamente più congeniale al volere cinese.

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I motivi di questo decisionismo (che ha però radici storiche ben piantate nella cultura cinese) sono vari. Proviamo a delinearne alcuni:

  • Ritorno sulla scena internazionale dopo un lungo periodo di isolazionismo (oltre alla mai sopita competizione con l’Impero del Sol Levante e l’ingombrante presenza statunitense).
  • Nelle zone contese si incrociano non solo le volontà di potenza dei Paesi ma, più pragmaticamente a sovrapporsi sono le zone di identificazione degli spazi aerei e le zone economiche esclusive di Cina e Giappone (oltre che delle altre nazioni). Proprio il giacimento di gas di Chunxiao è situato all’interno delle due aree. Il problema che si pone è dunque non solo di tipo navale, marittimo, ma anche relativo agli spazi aerei. Qui la questione della rivendicazione di sovranità è affrontata anche attraverso una corsa alla supremazia dell’aria.
  • La Cina è attualmente una potenza non in grado di sfidare gli Stati Uniti a viso aperto. Deve quindi rafforzare la propria struttura interna sociale ed economica (il che, però, prevede ulteriori investimenti interni per la lotta contro la povertà diffusa ad esempio) e per farlo ha bisogno di una sistema Paese che al momento è ancora in fase di costruzione. Internamente è un Paese diviso e quindi debole.
  • Presenza di risorse energetiche diffuse nelle regioni su cui vanta sovranità. Questo vorrebbe dire diversificare provenienza e rotte per la fornitura di petrolio e gas, quindi una minore dipendenza dalla Russia e dal medio Oriente (in questo caso bilanciata da un maggiore controllo commerciale e militare delle rotte navali).
  • Disporre di una vasta superficie su cui effettuare addestramenti ed operazioni congiunte, oppure testare le proprie armi. Una presenza militare servirebbe indubbiamente a garantire una cornice di difesa e sicurezza maggiore sotto due aspetti: garantirebbe maggiore presenza e peso politico/militare nell’area; garantirebbe le rotte commerciali che trasportano il petrolio del medio Oriente e costituiscono la linfa vitale del commercio da e per la Cina.
  • Le riserve di pesca presenti nelle acque del Mare Cinese fornirebbero sussistenza ad una parte significativa della popolazione, prevenendo così possibili rivolte e tensioni sociali dovute all’eccessivo sfruttamento e quindi alla riduzione delle riserve presenti.

 

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Francesco Danzi

The Railway Diaries:tornare a raccontare sulla Via della Seta

Asia/EUROPA/Sud Asia/Varie di

Da Venezia a Samarcanda. Epici viaggi raccolti nella storia delle prime relazioni internazionali, degli scambi, dello studio interculturale. Epici per dimensioni e per impegno. Tale rimane il tracciato della Via della Seta, epico. Riecheggia fantasie lontane, esotiche. Un milione di volti che spopolano pagine, fogli illustrati, documenti ufficiali, giunti con autorevolezza fino ai nostri giorni.

A “illuminarne” la contemporaneità, con professionalità e un pizzico di poesia questa volta saranno le freelance del neonato collettivo giornalistico Nawart Press, Costanza Spocci, Eleonora Vio, Giulia Bertoluzzi, Tanja Jovetic e lo faranno…in treno. Per costruire The Railway Diaries dovranno attraversare i Balcani e passeranno per Grecia, Turchia, Iran, fino ai paesi dell’Asia centrale. Un’estate per documentare nuovi vecchi mondi.

“Quello che proponiamo con il progetto The Railway Diaries, e più in generale attraverso Nawart è di dar un volto e una voce a chi non ce l’ha per far si che lo scambio culturale possa arricchire anziché dividere”. Protagoniste del viaggio narrato saranno le donne e le espressioni delle loro vicende da paese a paese. Il fenomeno delle Vergini Giurate in Albania del nord, le sacerdotesse zoroastriane in Iran o le donne nel Kurdistan iracheno.

The Railway Diaries sarà una narrazione diversificata e multimediale, dalle tante modalità di rappresentazione: foto, video-reportage, articoli da pubblicare nei media, blog e infine la produzione di un documentario finale che ne raccoglierà l’esperienza. Per ora il progetto verrà illustrato in tre lingue, italiano, inglese e francese, ma si punta ad ampliarne l’espressione.

Chi è Nawart Press?

E’ un’idea concretizzata che unisce specificità e professionalità del mondo giornalistico diversificate. Una realtà nata dalla voglia delle nostre protagoniste a darsi una dimensione propria nel mondo che cambia, un’indipendenza, una propulsione alle esperienze di lavoro sin qui maturate. The Railway Diaries altro non è che il progetto pilota di Nawart che esprimerà sul campo quello che è l’idea di un giornalismo orizzontale, graduale, rispettoso che è alla base della sua funzione.

Perché il Crowdfunding?

Il progetto è stato lanciato per il crowdfunding su BECROWDBY.   La raccolta fondi ci serve  per partire, andare” spiega Eleonora “ proprio sfruttando l’intuizione del lavoro collettivo, della responsabilità in prima persona, ma dà anche la possibilità a chi rimane, a chi sta a casa di partecipare, sostenendoci e influenzando il progetto facendolo crescere in una o più direzioni condivise.”

Mentre intervisto Eleonora colgo la determinazione di chi ha bene in testa l’obiettivo e mi complimento della grinta, ma v’è qualcos’altro di indicibile, ma evidente: lo scalpitare di chi non vede l’ora di partire, quella irrefrenabile sensazione piena di tutto di chi aspetta un treno per andare.

Cina, campagna antijihadista: la repressione silenziosa degli Uiguri

Asia di

Lo Xinjiang è il teatro di una sanguinosa repressione messa in atto da Pechino. Qui la minoranza Uiguri, di fede musulmana, ha sempre difeso l’autonomia del proprio territorio. Ma l’emergere del terrorismo islamico e l’importanza economica di questo territorio hanno spinto la Repubblica Popolare ad inasprire la campagna antiterrorismo

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Il jihadismo non è un fenomeno che riguarda solo il mondo arabo e il suo rapporto con l’Occidente. Le Torri Gemelle, gli attentati nelle maggiori capitali europee, la minaccia qaedista degli anni Duemila, la guerra mediatica dello Stato Islamico: sono queste le prime immagini che vengono in mente quando si parla di fondamentalismo islamico. Tuttavia, non solo Stati Uniti ed Europa devono fare i conti con questo fenomeno.

Dimenticata dai media occidentali, la campagna antiterrorista in Cina è ormai divenuta centrale nel programma politico della Repubblica Popolare. E questa riguarda soprattutto lo Xinjiang, regione autonoma confinante con Mongolia, Russia, Kazakistan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Afghanistan, Pakistan e India, in cui abitano gli Uiguri, musulmani sunniti di origine turca.

Un territorio da sempre al centro degli interessi economici visto che da lì passava la Via della Seta, mentre oggi è un’importante risorsa petrolifera e gasifera. E la stessa strada percorsa da Marco Polo dovrebbe, nei piani di Pechino, tornare agli antichi fasti dato che è in corso un progetto infrastrutturale per collegare, via terra e via mare, la Cina all’Europa.

L’importanza dello Xinjang nel prepotente boom economico del Paese contrasta con la minaccia jihadista proveniente da questa regione. In più, questo è un luogo storicamente turbolento, come dimostrano le continue lotte indipendentiste degli Uiguri tra il 1911 e il 1949, che hanno dato vita, seppure a tratti, al Turkmenistan Orientale. Pertanto, sentimento patriottico e sentimento religioso si fondono in una continua lotta contro lo Stato centrale.

Ed è questo che Pechino intende combattere. Già dall’11 settembre 2001, è in corso una sorta di “sommersione etnica”, cioè il ripopolamento dello Xinjiang attraverso lo spostamento in loco degli Han, l’etnia predominante in Cina. Un programma politico efficace, visto che gli Uiguri presenti nella regione sono passati dall’80% degli anni ’80 al 45% dei giorni nostri.

Ma la battaglia politica di Pechino non finisce qui. Se dopo l’attentato alle Twin Towers esisteva il sospetto che gli Uiguri venissero addestrati da Al Qaeda in Afghanistan, dall’aprile 2014 la campagna antiterrorismo ha assunto connotati violenti per due ragioni.

Dal 2012 ad oggi, infatti, si sospetta che oltre 200 cinesi si siano andati in Siria per arruolarsi con lo Stato Islamico. Una presenza cresciuta a tal punto da fare nascere una Chinatown a Raqqa. Al tempo stesso, dal 2013, le vittime degli attacchi jihadisti nello Xinjiang sono oltre 800. Attacchi che mescolano fondamentalismo islamico all’odio verso gli Han e il governo centrale cinese.

La risposta di Pechino, che ha prorogato la campagna antiterrorismo almeno fino alla fine del 2015, è stata violenta. Basti pensare agli oltre 2000 morti (secondo fonti non ufficiali) a seguito della repressione delle autorità cinesi nel luglio del 2014. Una strage dimenticata dai media occidentali, ma che rievoca la stessa gravità di quanto avvenuto in passato in Piazza Tien An Men o in Tibet.

E ancora altre cifre mettono a nudo le paure della Repubblica Popolare, interessata a difendere i propri interessi in questo territorio di fondamentale importanza dal punto di vista economico ed industriale. Come gli oltre 27mila sospetti terroristi arrestati nel 2014 (+95% rispetto al 2013). Come i 55 presunti terroristi processati in pubblico di fronte a 7mila spettatori. Come il numero di cause penali riguardante la popolazione Uiguri, aumentato del 45%.

E ancora le restrizioni. Vedi il divieto di indossare il burqa e di portare la barba lunga. Vedi il no al Ramadan per i dipendenti pubblici di fede musulmana. Vedi l’autorizzazione limitata e sporadica di effettuare pellegrinaggi alla Mecca.

Il miraggio di un stop all’imperioso sviluppo economico è quindi alla base dell’azione firmata dalle autorità centrali pechinesi. Questioni all’ordine del giorno in Occidente, come l’integrazione o il pericolo corso dai cittadini, sono secondarie. E lo dimostra il fatto che, nei confronti degli Hui, l’altra etnia di fede islamica presente in Cina, seppure in maniera sparsa, l’atteggiamento del governo è diverso. Se difatti alla base dell’odio degli Uiguri nei confronti degli Han ci sono istanze nazionalistiche, gli Hui, tranne qualche raro episodio, non si sono mai opposti alle politiche del governo centrale.

Di conseguenza, la cosiddetta “sinizzazione”, cioè l’assorbimento culturale, politico ed economico di Pechino ai danni delle minoranze etniche, ha in parte attecchito con gli Hui, mentre lo stesso non si può dire per gli Uiguri.

La questione dello Xinjiang sta assumendo contorni sempre più rilevanti. E, visti i crescenti interessi cinesi in altre aree del mondo a forte presenza musulmana, come l’Africa, il problema jihadista potrebbe divenire di portata globale. In futuro, pertanto, Pechino potrebbe diventare, assieme agli Stati occidentali, un attore geopolitico di primaria rilevanza nella lotta al fondamentalismo islamica.

Giacomo Pratali

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La “linea promessa” della politica estera russa

Asia/POLITICA di

Dal viaggio in America Latina al nuovo accordo dei Brics: la Russia tra una più consolidata politica estera e la creazione di un nuovo hub finanziario.

Il vecchio mondo bipolare sembra aver voltato pagina ma lo strascico di rivalità è tutt’altro che passato di moda: solo si sono modificate le modalità di confronto. Il viaggio di Putin effettuato in America Latina aveva come obiettivo nuove e più proficue relazioni politico commerciali con i Paesi oggetto di visita. Il messaggio ufficiale era quello di stabilire una linea promessa di alleanze. Quello indiretto poteva leggersi in due maniere: da un lato Putin arrivava oltreoceano per andare a stringere le mani ai vicini di casa degli statunitensi; dall’altro si trattava di un invito di più larga portata, per stimolare altri possibili partner ad entrare in un nuovo e diverso sistema di coalizioni politiche ed economiche tese a creare un sistema alternativo di preferenze e scambi commerciali.

Siamo onesti: il problema ucraino è qualcosa di politicamente molto fastidioso e la portata di questa nuova crisi a cavallo tra Russia e Stati Uniti è ampia ed ha influenze in molti settori. La Russia, così come tutti gli altri attori coinvolti loro malgrado deve prenderne atto. Questo rallentamento che Putin ha subito ad occidente ha però i suoi risvolti dall’altra parte del mondo: la visita presso numerosi Paesi latinoamericani; il ritorno di un presidente Russo in Nicaragua; il taglio di una  fetta enorme del debito cubano (debito che con l’attuale trend Cuba non sarebbe comunque stata in grado di saldare) con la prospettiva di rinsaldare la vecchia alleanza; nuove intese con il governo argentino sul fronte dei prestiti e degli investimenti anche e soprattutto sul nucleare; una tappa brasiliana che ha rivelato possibili accordi futuri nel settore militare, della collaborazione per lo sfruttamento del petrolio e, cosa più importante un positivo atteggiamento di fiducia nell’inaugurazione di proficui rapporti con il Cremlino. Insomma, la nazionale russa non avrà giocato la finale dei mondiali di calcio ma il suo presidente è tornato a casa soddisfatto della sua trasferta. Soddisfatto poi di un’ulteriore ma altrettanto significativo appoggio politico. Si perchè la sua visita ha raccolto consenso, da parte di alcuni dei probabili futuri partner di questa ritrovata alleanza russa, per quanto riguarda la questione ucraina. In breve, Putin offre aiuto economico a nazioni che geograficamente o economicamente (vedi l’Argentina) sono stretti nell’abbraccio di un ingombrante vicino (gli Stati Uniti) che a torto o a ragione li considera suoi condomini, con tutto quello che ne consegue. In cambio (e questo è solo uno dei successi attualmente riscontrabili), alcuni di questi Paesi considerano l’opzione di appoggiare politicamente il presidente russo in quello che si prospetta un lungo autunno.

Ed è proprio nel cortile di casa degli Stati Uniti che Putin ha segnato un importante punto. A Fortaleza la sfida è stata delle più importanti: l’ufficializzazione della creazione di un fondo monetario alternativo (CRA, Accordo di Riserva Contingente) e di una nuova banca di sviluppo. L’obiettivo è scalzare l’egemonia del dollaro e promuovere progetti nel continente africano, dando allo stesso tempo un’alternativa alla Banca Mondiale ed al Fondo Monetario Internazionale e sviluppando i propri settori produttivi interni, che diverrebbero meno esposti alle turbolenze finanziarie internazionali. Data la proporzione rilevante della popolazione dei BRICS sul totale mondiale e del PIL realizzato dallo stesso gruppo sul totale del Prodotto mondale, la nuova forza di questo accordo sta non solo nella sottrazione di spazio geografico agli ormai già stabiliti hubs economici e finanziari “occidentali”, che si vedrebbero mancare di importanti mercati e spazi di espansione economica, ma alla preparazione di un nuovo blocco di alleanze che assumerà con ogni probabilità il ruolo di frangiflutti e di strategica alleanza al tempo stesso.

Afghanistan, chiusura missione Isaf: bilancio positivo per Stoltenberg

Asia di

Il Segretario Generale della Nato parla di “missione impegnativa” che ha reso “l’Afghanistan più forte”. Dal 2003, 3482 i caduti totali, con un picco di 140 mila unità coinvolte nek 2011. Il ritiro delle truppe Usa è previsto a fine 2016. E all’orizzonte Putin tende la mano al paese in questa fase delicata

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Il 17 dicembre, a quasi dieci giorni dalla cerimonia di chiusura della missione Isaf in Afghanistan, Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, ha riassunto così gli undici anni di missione: “Per oltre un decennio, le nostre nazioni hanno combattuto fianco a fianco per la pace e la stabilità. Questa è stata una missione impegnativa, sotto molti aspetti. Militarmente. Politicamente. Economicamente. Ma siamo andati ugualmente incontro a queste sfide. Insieme – prosegue -, abbiamo fatto quello che era necessario. Mediante un chiaro mandato delle Nazioni Unite, abbiamo sfidato il rifugio dei terroristi internazionali. Abbiamo reso l’Afghanistan più forte. E abbiamo resto le nostre nazioni più sicure. Le sfide rimangono. Ma oggi, l’Afghanistan è più stabile e prosperoso che mai”, conclude.

Iniziata l’11 agosto 2003 con l’obiettivo di stanare sul campo i talebani, in pieno clima post 11 settembre, la missione internazione Isaf in Afghanistan ha visto coinvolti circa 58 mila uomini, arrivati a 140 mila nel 2011. I caduti totali sono stati 3482, di cui 2354 americani. Dal 2004, inoltre, si è insediato, nella provincia di Herat, anche il contingente italiano, che ha subito 48 perdite sul campo. Nel corso della cerimonia di chiusura (“Casing of Colors”) tenutasi l’8 dicembre all’aeroporto di Kabul il comandante in capo, gen. John F. Campbell ha poi annunciato che “gli Usa si ritireranno completamente a fine 2016, mantenendo fino ad allora un contingente che, dalle circa 10 mila unità di gennaio 2015, andrà via via azzerandosi”. In più, fino al 2025, avrà luogo missione “Resolute Support”, incaricata di addestrare e assistere le forze militari afghane.

È da ricordare, tuttavia, il discorso pronunciato dal Vladimir Putin il 6 novembre 2014, nel corso del summit tra i membri del Csto, di cui l’Afghanistan è stato membro osservatore del 2013. Il leader della Russia, in previsione della fine della missione Isaf, ha dichiarato di comprendere “che il ritiro del contingente militare internazionale non renderà la situazione facile nel paese. Ma, in caso di necessità, siamo pronti ad aiutare i nostri amici in Afghanistan in modo da rendere la situazione stabile e con prospettive di sviluppo”, afferma ancora. Le parole del Capo del Cremlino sono di preoccupazione sincera? O intendono allargare il terreno di scontro della rinnovata Guerra Fredda dall’Ucraina alla zona asiatica?

Giacomo Pratali

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Fuoco contro giovani studenti, giornata di sangue in Pakistan

Asia di

I talebani del Tehrek- e- Taliban Pakistan TTP hanno attaccato una scuola gestita dall’esercito uccidendo più di 100 bambini

É durato nove ore l’attacco alla scuola pubblica, un commando di sette uomini armati pesantemente sono entrati nella scuola all’apertura e hanno cominciato ad uccidere chiunque incontrassero. Hanno fatto esplodere esplosivi con I quali hanno mietuto ancora vittime 145 civili di cui più di 100 bambini.

Il gesto è stato rivendicato dal TTP come vendetta nei confronti degli attacchi che l’esercito ha sferrato nei territori tribali per debellare il gruppo terroristico. Unanime la condanna dalla comunità internazionale.

 

Alessandro Conte

La “linea promessa” della politica estera russa ed il nuovo hub finanziario targato BRICS. Certe mode non passano mai.

AMERICHE/Asia/ECONOMIA/Energia di

Dal viaggio in America Latina al nuovo accordo dei Brics: la Russia tra una più consolidata politica estera e la creazione di un nuovo hub finanziario.

Il vecchio mondo bipolare sembra aver voltato pagina ma lo strascico di rivalità è tutt’altro che passato di moda: solo si sono modificate le modalità di confronto. Il viaggio di Putin effettuato in America Latina aveva come obiettivo nuove e più proficue relazioni politico commerciali con i Paesi oggetto di visita. Il messaggio ufficiale era quello di stabilire una linea promessa di alleanze. Quello indiretto poteva leggersi in due maniere: da un lato Putin arrivava oltreoceano per andare a stringere le mani ai vicini di casa degli statunitensi; dall’altro si trattava di un invito di più larga portata, per stimolare altri possibili partner ad entrare in un nuovo e diverso sistema di coalizioni politiche ed economiche tese a creare un sistema alternativo di preferenze e scambi commerciali.

Siamo onesti: il problema ucraino è qualcosa di politicamente molto fastidioso e la portata di questa nuova crisi a cavallo tra Russia e Stati Uniti è ampia ed ha influenze in molti settori. La Russia, così come tutti gli altri attori coinvolti loro malgrado deve prenderne atto. Questo rallentamento che Putin ha subito ad occidente ha però i suoi risvolti dall’altra parte del mondo: la visita presso numerosi Paesi latinoamericani; il ritorno di un presidente Russo in Nicaragua; il taglio di una  fetta enorme del debito cubano (debito che con l’attuale trend Cuba non sarebbe comunque stata in grado di saldare) con la prospettiva di rinsaldare la vecchia alleanza; nuove intese con il governo argentino sul fronte dei prestiti e degli investimenti anche e soprattutto sul nucleare; una tappa brasiliana che ha rivelato possibili accordi futuri nel settore militare, della collaborazione per lo sfruttamento del petrolio e, cosa più importante un positivo atteggiamento di fiducia nell’inaugurazione di proficui rapporti con il Cremlino. Insomma, la nazionale russa non avrà giocato la finale dei mondiali di calcio ma il suo presidente è tornato a casa soddisfatto della sua trasferta. Soddisfatto poi di un’ulteriore ma altrettanto significativo appoggio politico. Si perchè la sua visita ha raccolto consenso, da parte di alcuni dei probabili futuri partner di questa ritrovata alleanza russa, per quanto riguarda la questione ucraina. In breve, Putin offre aiuto economico a nazioni che geograficamente o economicamente (vedi l’Argentina) sono stretti nell’abbraccio di un ingombrante vicino (gli Stati Uniti) che a torto o a ragione li considera suoi condomini, con tutto quello che ne consegue. In cambio (e questo è solo uno dei successi attualmente riscontrabili), alcuni di questi Paesi considerano l’opzione di appoggiare politicamente il presidente russo in quello che si prospetta un lungo autunno.

Ed è proprio nel cortile di casa degli Stati Uniti che Putin ha segnato un importante punto. A Fortaleza la sfida è stata delle più importanti: l’ufficializzazione della creazione di un fondo monetario alternativo (CRA, Accordo di Riserva Contingente) e di una nuova banca di sviluppo. L’obiettivo è scalzare l’egemonia del dollaro e promuovere progetti nel continente africano, dando allo stesso tempo un’alternativa alla Banca Mondiale ed al Fondo Monetario Internazionale e sviluppando i propri settori produttivi interni, che diverrebbero meno esposti alle turbolenze finanziarie internazionali. Data la proporzione rilevante della popolazione dei BRICS sul totale mondiale e del PIL realizzato dallo stesso gruppo sul totale del Prodotto mondale, la nuova forza di questo accordo sta non solo nella sottrazione di spazio geografico agli ormai già stabiliti hubs economici e finanziari “occidentali”, che si vedrebbero mancare di importanti mercati e spazi di espansione economica, ma alla preparazione di un nuovo blocco di alleanze che assumerà con ogni probabilità il ruolo di frangiflutti e di strategica alleanza al tempo stesso.

Dalla Russia alla Cina: quando un atteggiamento unilaterale fa giurisprudenza nel diritto internazionale

Asia/Sud Asia di

L’atteggiamento aggressivo di Pechino non nuoce solo ai vicini asiatici. In Estremo Oriente si apre un nuovo fronte geopolitico, in cui Stati Uniti e Unione Europea dovranno mettere in campo un atteggiamento non pregiudiziale.

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Non solo la politica aggressiva della Russia nei confronti dell’Ucraina, con l’istituzione unilaterale di un referendum che ha portato alla secessione della Crimea, può avere ripercussioni sul diritto internazionale. Nel mese di maggio, infatti, si è aperto un altro fronte geopolitico caldo: quello relativo al Mar Cinese. In questo caso, l’attore principale è la Cina.

Forte del suo sviluppo economico impetuoso, Pechino ha messo in campo un atteggiamento aggressivo nei confronti dei paesi limitrofi. Mira, attraverso la politica dell’appropriazione de facto, ad appropriarsi di porzioni di spazi aerei e marittimi degli stati confinanti.

In primis, è il caso del Vietnam. Il governo cinese ha infatti installato una piattaforma petrolifera a circa 200 chilometri dalla costa vietnamita (vicino alle contese Isole Paracel), in acque rivendicate da Hanoi, dando una dimostrazione di forza. Attraverso un atteggiamento unilaterale e approfittando del fatto che questo stato non ha potenze protettrici alle sue spalle, la Repubblica Popolare ha attuato la politica del “fatto compiuto”, conquistando una porzione territoriale non sua.

Questo ha provocato violenti scontri in Vietnam e ha costretto il governo di Pechino a riportare molti connazionali a casa. I dimostranti, nonostante l’atteggiamento contrario delle autorità, si sono riversati nelle piazze di tutto il Paese e hanno dato fuoco ad alcune fabbriche appartenenti a proprietari cinesi, provocando diversi morti.

Ma quello che rischia di verificarsi in Estremo Oriente è un effetto a macchia d’olio. A differenza degli altri stati che si affacciano sul Mar Cinese, la Cina non ha aderito alla Zee (Zona Economica Esclusiva) sancita dall’Onu e firmata non solo dal Vietnam, ma anche da Malesia, Brunei, Filippine e Taiwan. Ed è questo il motivo per cui Pechino si è arrogato il diritto di costruire una piattaforma petrolifera in acque territoriale di non sua appartenenza.

Una dimostrazione di forza che potrebbe ripetersi in futuro sia in Asia sia nel resto del mondo e che potrebbe dare seguito a pericolosi precedenti nel campo del diritto internazionale. Così come il referendum sulla secessione della Crimea è stato riconosciuto unilateralmente dalla Russia, la stessa cosa, sebbene con modalità diverse rispetto ad un plebiscito, si potrebbe ripetere con la Cina.

In entrambi i casi, infatti, il fatto avvenuto e, seppur contestato, potrebbe influire sulla giurisprudenza internazionale e moltiplicare in tutto il mondo atteggiamenti violenti e rivendicazioni unilaterali.

La protezione da parte degli Usa di cui godono Giappone e Filippine sembrano, per il momento, aver frenato in parte la sete di espansionismo cinese. Ma la questione è tutt’altro che chiusa. E spetta all’Occidente e alla comunità internazionale riportare il dialogo al centro delle relazioni e dispute internazionali.

Tuttavia, come nei casi delle crisi che hanno coinvolto i paesi del Nord Africa, la Siria e l’Ucraina, Stati Uniti ed Europa devono mettere in campo un atteggiamento non frutto dei pregiudizi tipico del XX secolo, ma aperto e contestualizzato nei nuovi scenari globali che si sono venuti a creare all’inizio del Nuovo Millennio.

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Giacomo Pratali
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