GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Il Dragone cambia pelle. L’evoluzione della politica estera di Pechino

 

Durante i giorni scorsi il Presidente russo Putin ha ospitato a Mosca il leader cinese Xi Jinping in visita ufficiale per una tre giorni di incontri diplomatico – politici.

Il vertice russo-cinese si è concluso con la pubblicazione di un documento congiunto nel quale sono stati ribaditi i parametri concettuali della convergenza delle posizioni geostrategiche dei due Paesi: la conferma dell’asse ideologico Mosca – Pechino quale alternativa al dominio USA, il supporto non condizionato alla Russia per l’Ucraina, la volontà di attrarre il Global SUD nella sfera di influenza russo-cinese e il consolidamento di una partnership economico finanziaria sino-russa in grado di bilanciare e annullare gli effetti del sistema occidentale delle sanzioni.

Indubbiamente, il profilo programmatico che deriva dalla formulazione di un tale documento rappresenta un elemento di estremo interesse per le conseguenze che investono lo sviluppo dello scenario internazionale, ma non risulta essere l’evento fondamentale che ha conferito un’estrema valenza geopolitica al vertice di Mosca.

Il fattore critico e di gran lunga più interessante per il prossimo futuro è risultato essere la conferma del ruolo che Pechino ha deciso di svolgere a livello internazionale con la presentazione della proposta di soluzione della crisi ucraina, che la Cina ha elaborato e discusso con il partner russo.

Anche se il documento era stato annunciato antecedentemente al meeting di Mosca, la sua presentazione durante l’incontro tra Putin e Xi conferisce un aspetto formale all’iniziativa di Pechino che si propone, non solo, come potenza neutrale interessata alla soluzione del conflitto, ma come grande potenza disposta a ricoprire il ruolo da protagonista nella gestione dell’ordine mondiale.

A sostegno di tale tesi deve essere intesa la dichiarazione di Xi di voler nei prossimi giorni contattare Zelensky per sondare la disponibilità dell’Ucraina a discutere la proposta cinese.

Questo cambiamento dell’orientamento della politica estera di Pechino risulta essere l’elemento di massima importanza che il vertice ha evidenziato, confermando che il successo del riavvicinamento diplomatico tra Arabia Saudita e Iran, conclusosi attraverso l’opera mediatrice della Cina, non ha rappresentato un’azione circoscritta nell’ambito di uno scenario locale, ma ha costituito il primo passo della nuova linea politica di Pechino.

Dopo la conferma della sua leadership interna con l’approvazione di un terzo mandato, il rafforzamento della cerchia di alleati fedeli con nuove nomine negli incarichi cardine del sistema politico, il superamento indenne delle critiche all’opzione Zero-Covid, adesso Xi Jinping ha intrapreso un nuovo step per condurre la Cina a imporre il proprio concetto di ordine internazionale e conquistare quel ruolo di egemonia mondiale che appartiene al DNA cinese da secoli.

Abbandonando la visione di Deng che rifiutava il coinvolgimento diretto nel contesto geostrategico mondiale, Xi ha dato inizio al nuovo corso della politica estera cinese.

Per poter consolidare la sua posizione in un tale contesto la partnership con la Russia – partnership e non alleanza, questo deve essere chiaro – risulta essere fondamentale per una serie di motivi di immediata comprensione. Innanzi tutto, questa amicizia senza limiti permette alla Cina di non dover distogliere parte delle sue risorse per fronteggiare un Paese ostile lungo le sue estese frontiere settentrionali. Successivamente, l’Orso Russo, agendo come lo spauracchio in una rinnovata Guerra Fredda, fantasticata e ardentemente rivissuta dall’Europa orientale e baltica, calamita l’attenzione di una NATO e di una Unione Europea sempre più a trazione orientale, focalizzandoli su uno scenario, oramai, di secondaria importanza, che li priva di una visione strategica globale e li costringe a concentrare le loro risorse nel punto sbagliato. Ultimo elemento di interesse, ma non meno importante, risulta essere la possibilità di usufruire delle enormi risorse naturali che la Russia possiede e che la Cina non ha, che consentirebbero a Pechino di disporre di un ulteriore vantaggio per supportare il processo di sviluppo interno.

L’elemento critico fondamentale della visione cinese nel sostenere il processo di costituzione di un ordine mondiale, alternativo a quella che viene percepita come un’egemonia occidentale, rappresenta un paradigma concettuale e ideologico certamente non originale, che, inizialmente, si è sviluppato attraverso gli schemi della contrapposizione di opposte teorie politiche basate, principalmente, sulla identificazione di sistemi economico finanziari differenti (capitalismo e socialismo).

Tale paradigma, persa questa sua connotazione ideologica, si è, quindi, trasformato in una lotta manichea tra il Bene e il Male, rappresentati dai sostenitori del sistema democratico opposto a quelli che perseguono una impostazione autoritaria.

Questa visione tipicamente occidentale si è sublimata nella narrativa che ha contraddistinto, dall’inizio, l’ultima e più attuale fase della crisi ucraina: l’Ucraina è l’ultimo baluardo della democrazia e della libertà dell’Occidente contro la barbarie autocratica che viene da oriente.

La miopia che contraddistingue questa visione geopolitica è stata usata dalla Cina per costruire la sua narrative a supporto della necessità di un nuovo ordine.

Senza dover inventare nulla ha ripreso i concetti culturali sviluppati dall’Occidente (pace, collaborazione, libero sviluppo della tecnologia a favore di tutti, benessere sociale, ruolo fondamentale delle Istituzioni Internazionali), li ha integrati con la propria visione (i concetti di democrazia e di libertà individuali non sono univoci, devono essere adattati alla realtà culturale dei vari Paesi, non ingerenza nelle tematiche interne degli Stati), li ha mischiati per bene e ha servito la propria mano, proponendo un nuovo ordine multipolare, democratico, pacifico dove le alleanze lasciano il posto alla collaborazione tra Stati, dove il Global Sud sia protagonista e non più terra di conquista e dove, soprattutto, la Cina sia la potenza dominante ed equilibratrice dell’intero sistema!

In linea di principio il discorso non fa una grinza in quanto usa e ripropone i valori culturali cari all’Occidente, anche se la loro declinazione è leggermente differente. Insiste sui principi geopolitici condivisi dall’Occidente e sulla preminenza delle Istituzioni da noi create. Fa riferimento a una pace cosmica e una collaborazione disinteressata.

Ma in realtà propone un sistema completamente differente, dove i valori culturali e i principi liberali sono stravolti a beneficio di un’organizzazione di relazioni internazionali non più guidate e sorrette da concetti universali e applicabili indistintamente al genere umano, ma adattate ai singoli casi a seconda della convenienza dello Stato.

E la Cina non ha fatto mistero di questa sua interpretazione, anzi, non ha perso occasione per propagandarla e dichiararla con documenti pubblici: la dichiarazione congiunta prima delle Olimpiadi a febbraio dello scorso anno, il documento di condanna degli Stati Uniti emanato dal Ministero degli Esteri cinese di inizio anno e adesso la dichiarazione finale del meeting appena concluso.

Tutto questo in aggiunta alla crescente proattività a tutto campo che ha contraddistinto la Cina negli ultimi anni con iniziative diplomatico-economico-finanziarie in Medio Oriente, in Africa, nel Pacifico.

Insomma, non si tratta di una operazione segreta volta a svelare all’improvviso un complotto teso a sovvertire l’ordine mondiale, ma una scelta programmatica precisa, chiara e pubblicizzata senza riserve e senza peli sulla lingua.

Ma questo non basta per un Occidente sempre più incapace di guardare al di là di un orizzonte limitato e senza profondità. Un Occidente che continua a giocare a Risiko invece di comprendere che il mondo è definitivamente cambiato, dove le regole che noi vogliamo usare non sono più accettate e condivise dagli altri, dove ancora pensiamo e ragioniamo in termini di interesse privato e nazionale, illudendoci che il Vecchio Continente sia ancora il centro del mondo.

Il sistema USA sta disperatamente cercando di tracciare una rotta da dare alla propria geopolitica, barcollando nell’illusione utopica di poter sanzionare il mondo intero, qualora questo non condivida la sua visione.

L’Europa bluffa con se stessa illudendosi di essere un modello di virtù e di valori da imitare a occhi chiusi, senza rendersi conto che ancora si rifà a un sistema di relazioni internazionali che risalgono a un concetto che ormai appartiene al passato, accanendosi nel sostenere un sistema che privilegia gli interessi delle singole nazioni a scapito di una unione europea reale e coesa.

Se non fosse estremamente pericoloso per il nostro futuro assetto nel contesto internazionale, sarebbe perfino ridicolo l’atteggiamento di paesi come la Francia e Germania, che ancora ritengono di potersi contendere la guida di un continente, o come il Regno Unito che, una volta svincolatosi dalla zavorra dell’Unione Europea, credeva di essere diventato di nuovo l’Impero Britannico.

L’Occidente, insomma, sta illudendo sé stesso, precipitato in un conflitto che non sa come fermare e che lo sta danneggiando sempre di più, travolto da una retorica che fa riferimento a un mondo scomparso (non ci darà una nuova Norimberga perché non ci sarà una resa senza condizioni), ma non è capace di fermarsi e di guardare al futuro con lucidità.

La Cina ci ha battuto sul tempo proponendosi come la Grande Potenza che dirime i conflitti, assicura la prosperità e garantisce l’ordine mondiale. Purtroppo, l’Occidente nella sua presunzione si ostina a non volerlo capire!

 

 

 

Al via comitato tecnico per sostenere la candidatura di Palermo a sede dell’Autorità europea contro il riciclaggio

POLITICA di

Prosegue il lavoro congiunto tra Regione Siciliana e Comune di Palermo per proporre il capoluogo siciliano come candidato italiano ad accogliere la sede dell’Amla, l’Autorità europea per la lotta contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, di prossima istituzione. Nella sede di Palazzo delle Aquile, alla presenza del sindaco Roberto Lagalla, è stato costituito il Comitato tecnico che seguirà il percorso della candidatura. Il gruppo di lavoro è coordinato dal professore Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo e consigliere giuridico del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ne fanno parte esperti e rappresentanti delle istituzioni, tra questi il capo della segreteria particolare del presidente della Regione Marcello Caruso, il vicesindaco di Palermo Carolina Varchi, l’assessore comunale all’Urbanistica Maurizio Carta, il professore ed ex assessore regionale all’Economia Gaetano Armao, il direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Palermo Costantino Visconti e il magistrato ed ex assessore regionale Giovanni Ilarda.  

«La costituzione del Comitato – afferma il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani – rappresenta un passaggio fondamentale per rafforzare il ruolo di Palermo come città simbolo per l’affermazione della legalità, rivalutando il prezioso rapporto con l’Europa, in continuità con le premesse poste in occasione del mio recente incontro con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Siamo convinti che, se l’Autorità dovesse insediarsi in città, ciò contribuirebbe in modo determinante all’ulteriore sviluppo del nostro territorio e costituirebbe una concreta e ulteriore attestazione di vicinanza delle istituzioni alla voglia di riscatto e crescita culturale e civile di tutti i siciliani che credono nel valore del quotidiano impegno contro ogni forma di criminalità».

«Ritengo che Palermo possa concretamente aspirare a rappresentare l’Italia come sede europea dell’Amla – aggiunge il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla –  in virtù della sua storia e del fondamentale contributo che numerosi suoi figli, uomini e donne delle istituzioni e vittime del dovere, hanno dato alla lotta alla mafia. È grazie alla capacità di visione di questi eroi che, nel 2000, proprio a Palermo, è stata firmata la Convenzione delle Nazioni unite contro la criminalità organizzata transnazionale che oggi conta l’adesione di 190 Stati. La “Convenzione di Palermo”, per la quale viene universalmente riconosciuto il ruolo fondamentale del lavoro compiuto dalla magistratura palermitana e dal giudice Giovanni Falcone, costituisce oggi lo strumento giuridico più importante per il contrasto al crimine organizzato».  

La proposta di candidatura avanzata a Palazzo Chigi è stata supportata da numerosi enti pubblici e privati disponibili a contribuire, ciascuno per le proprie competenze, allo sviluppo delle attività dell’Amla: l’Università di Palermo, gli Ordini degli avvocati e dei commercialisti, il Distretto giudiziario della Corte d’Appello e le fondazioni “Gaetano Costa”, “Giovanni Falcone”, “Rocco Chinnici”, “Progetto Legalità”, “Luigi Einaudi” e “Sicilia”, “Caponnetto”, la “Fondazione Sicilia”, il Centro studi “Cesare Terranova” e il “Siracusa international institute for criminal justice and human rights”.

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

La diplomazia che non si vuole

Nei giorni scorsi la firma di una tregua ha consentito l’inizio dei negoziati di pace che hanno posto termine alla guerra civile che ha visto fronteggiarsi per oltre due anni il Governo Etiope e i separatisti del Tigrai. Questa guerra, segnata da eccessi di violenza e crimini da ambo le parti, ha causato più di 500.000 morti, provocato oltre due milioni di profughi e ha distrutto il tessuto sociale di un’intera regione.

Le ragioni del conflitto, che costituiva una seria minaccia per la fragile stabilità dell’intera regione del Corno d’Africa, sembravano insanabili ma, alla fine, dopo difficili negoziati condotti sotto l’egida USA, la diplomazia ha imposto una tregua, consentendo le premesse per raggiungere la pace.

Certamente l’Etiopia non è alle porte di casa nostra e risulta lontana, non soltanto geograficamente, ma anche dal punto di vista della nostra percezione di pericolo. Il conflitto che ha interessato la regione africana ha molte similitudini con quello che si sta svolgendo in Ucraina: è motivato da odio e rancori che si perdono nel tempo, ha prodotto un elevato numeri di morti e un enorme flusso di profughi, ha causato la distruzione di numerosissime strutture civili, è stato condizionato da un’estrema violenza. Tuttavia, è terminato con una soluzione diplomatica perseguita con razionalità e realismo che, alla fine, ha consentito di individuare e raggiungere una situazione di mediazione vantaggiosa per entrambe le parti.

La situazione in Ucraina, invece, sembra essere priva di una apparente via d’uscita che ponga termine al conflitto. Ma davvero non esiste una via diplomatica per poter porre fine a questa crisi? Quali sono, in realtà, gli ostacoli che si frappongono alla risoluzione del conflitto?

Le ragioni del perché sussiste questo stallo diplomatico sono molteplici e di differente natura.

Innanzitutto, il conflitto in Ucraina ha da subito assunto il ruolo di protagonista dei nostri media e ci è stato descritto come la rappresentazione della sfida ultima tra il bene e il male, contribuendo a creare un’impostazione mentale dell’opinione pubblica particolare e unidirezionale.

La narrazione di quanto accade ha anestetizzato la nostra capacità di guardare oltre l’orizzonte limitato del nostro microcosmo europeo, cancellando ogni altro riferimento a ciò che avviene nel contesto internazionale, facendoci dimenticare che, purtroppo, esistono altre situazioni di crisi, ugualmente drammatiche e pericolose, dove sono coinvolti quei valori di cui ci sentiamo i difensori e i portatori. Di conseguenza, non siamo in grado di realizzare che la difesa della democrazia e della libertà non si giocano sostenendo a spada tratta l’Ucraina acriticamente e senza realismo politico.

L’unidirezionalità con la quale l’opinione pubblica occidentale descrive il conflitto ci impedisce di accettare l’adozione di una azione diplomatica che si basi sul perseguimento di fattori oggettivi e realistici. Sicuramente e senza nessuna scusante il ricorso della Russia alle armi è da condannare a priori, ma questo non implica che non si debba comunque ricercare una soluzione diplomatica che possa mettere termine al conflitto.

In secondo luogo, la dinamica propagandistica adottata dalle due parti, riguardo alle eventuali possibili soluzioni, le ha spinte in un tunnel cieco, sclerotizzando la narrazione del conflitto su posizioni diametralmente opposte condizionate da premesse di base del tutto irrealistiche e irrazionali.

Da una parte, infatti, l’Ucraina (e i suoi sponsor – USA ed Europa) insiste per avere una situazione che riporti il confine a quello che era prima del 2014, chiedendo un ritiro completo e incondizionato della Russia entro i territori e i confini che esistevano prima della annessione della Crimea.

Dall’altra parte, la Russia insiste nel suo progetto relativo alla creazione di una serie di entità statali solo da lei riconosciute che possano creare una fascia cuscinetto lungo la frontiera tra la Russia e l’Ucraina, al fine di separare il territorio russo dalla compagine dell’Europa e della NATO, assicurando quel minimo di protezione che consenta a Mosca di non sentirsi completamente accerchiata da quelli che considerano essere i suoi nemici di sempre.

Entrambe le posizioni non possono realisticamente essere conseguite.

La Russia, anche se sulla difensiva dal punto di vista militare, rimane una potenza solida con un proprio progetto strategico connesso ai suoi interessi nazionali. E’ sicuramente provata dalle sanzioni ma non è piegata, ha ancori enormi risorse economiche e non è stata isolata nel contesto internazionale. Putin ha coinvolto la Russia e il suo orgoglio di grande potenza in una situazione dalla quale non può uscire a mani vuote. Una resa incondizionata stile Seconda Guerra Mondiale non è assolutamente una soluzione che possa essere accettata dalla Russia.

L’Ucraina definendo quale condizione per il termine del conflitto la restaurazione dei confini ante 2014, impone una condizione di difficile accettazione in quanto disconoscerebbe sia la situazione particolare delle regioni di confine contese, negando che esista un problema con le minoranze russe presenti (vedasi il Protocollo di Minsk), sia l’eccezionale situazione della Crimea che affonda le sue radici nel complicato processo che è seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

In sintesi, l’epoca delle vittorie definitive e delle rese incondizionate appartiene al passato e, quindi l’Occidente deve interrompere la politica di alimentare il conflitto militarmente, usando, invece, la diplomazia per accettare la situazione reale e lavorare per raggiungere una soluzione mediata che ridimensioni le due opposte visioni e consenta di comporre la crisi in atto, soluzione, tra l’altro sostenuta, sin dall’inizio, da uno dei più grandi diplomatici del nostro tempo: Henry Kissinger!

Infine, c’è un altro aspetto critico da considerare per mettere a fuoco con precisione la crisi della diplomazia in relazione al conflitto ucraino.

Il vero end state della crisi non è rappresentato dalla difesa della libertà e della democrazia messe in pericolo dalle aspirazioni zaristico-sovietiche di Putin, come la propaganda occidentale sbandiera ipocritamente.

Ciò che realmente interessa all’Occidente non è tanto la liberazione dell’Ucraina ma la eliminazione del presidente russo, ritenuto una personalità ingombrante, pericolosa e scomoda, soprattutto per la determinazione con la quale persegue il suo obiettivo di riportare la Russia ad essere un paese geopoliticamente importante e determinante nel contesto delle relazioni internazionali.

In tale quadro di situazione gli interessi USA sono quelli di eliminare la spina nel fianco rappresentata da una Russia forte e potente quale ulteriore possibile avversario nella contesa vitale con Pechino. Quelli dell’Unione Europea di disporre di una Russia docile e democraticamente inoffensiva sulla quale dirottare le proprie attenzioni di mercato.

Quelli dell’Est Europa, invece, di avere la soddisfazione di vedere umiliato il nemico atavico di sempre verso il quale gli odi e i rancori di un passato remoto e presente sono ancora vivi e accesi.

In sintesi, si sta usando l’Ucraina per cercare di ridimensionare la Russia al fine di eliminare un elemento geopoliticamente scomodo per il mondo occidentale nel confronto che oppone l’Occidente alla crescente potenza della Cina nel quadro dello scontro culturale economico finanziario, e forse militare, finalizzato alla costruzione e al mantenimento di un ordine mondiale basato sui principi e sulle specifiche culturali di cui l’Occidente ritiene di essere il depositario e il difensore.

Per concludere, le posizioni formali dei due campi sono opposte e ugualmente irrealistiche, ma non per questo non è impossibile individuare un accordo.

La soluzione diplomatica è possibile solo se essa può trovare una serie di condizioni cheato a quella che sarebbe, quindi, una sfida caratterizzata da quei valori di democrazia e di rispetto delle libertà che l’Occidente vuole proporre, sostenere e realizzare.

Le annessioni illegali della Russia dei territori Ucraini

EUROPA/Guerra in Ucraina/POLITICA di

 Proprio l’ultimo giorno del mese di settembre, nel cuore del Cremlino si consumava una cerimonia, in cui l’inquilino Vladimir Putin stipulava dei trattati con le delegazioni di quattro entità costituite sul territorio ucraino le c.d. (farse) repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e le oblast di Zaporizhzhia e Kherson. Chiaramente, per giungere a questo evento dell’annessione, si sono tenuti dei referendum nei citati lembi territoriali, accompagnati dal presunto esito popolare per l’adesione alla Russia. Leggi Tutto

L’impasse

Mentre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite si consumava la rappresentazione tragicomica della inanità di questo consesso mondiale, retaggio di un mondo che non esiste più, roboante nei suoi propositi, elefantiaco nella miriade delle sue diramazioni, economicamente fallimentare, ma, soprattutto, impotente nella risoluzione dei conflitti che coinvolgono gli stessi Paesi che ne fanno parte e che era stato deputato a evitare, il Presidente Putin in un discorso alla Nazione ha dato inizio a un nuovo capitolo del conflitto che oppone la Russia all’Occidente (rappresentato sul campo dal suo campione del momento, l’Ucraina). Leggi Tutto

Esiste un nuovo ordine mondiale

I conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.

Queste ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni. E l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!

Pur condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse biblica di matrice autoritaria.

Quello che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale (la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata nell’angusto ambito euroasiatico. In stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!!!!!!).

Ovviamente la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina, ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai più).

Dall’altra parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.

Questo ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.

Di contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile necessità di difendere la Grande Madre Patria da un nuovo attacco da parte del perverso liberalismo occidentale, che vuole privare la Russia del suo ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e diritti individuali.

Allargando la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due livelli differenti: nello scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini; nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben precisi obiettivi.

Oltre agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.

Se ci svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti da quelli propagandistici del Davide difensore della democrazia contro il Golia neo-zarista e che la situazione stimola problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente

Il primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo del sistema globale delle relazioni internazionali.

Dopo l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se non esistesse. Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di democrazia, di diritti individuali e di libertà. Ciò che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare un nodo gordiano: l’imposizione della nostra visione morale collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che non si identifica nella visione da noi proposta.

Se consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

Il secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla qualità della nostra vita. Anche qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema. La vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la gravità della situazione.

Senza dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro continente). Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere per poter sopravvivere. Per tutti un esempio: la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con vettori su ruota a combustibile fossile.

Il terzo aspetto discende direttamente dal precedente. Energia significa economia.

Senza energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato libero che l’Occidente sostiene.

Inoltre, il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per svilupparsi. Tutta la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi. La tecnologia che l’Occidente sviluppa è prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico commerciali!).

La stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico. La ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una politica morale. I concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti quale conditio sine qua non.

L’ultimo aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.

La UE rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).

Eppure, continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena internazionale.

Se non fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre sanzioni economiche al suo migliore cliente!

Infatti, l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi principi. L’allargamento incondizionato basato esclusivamente sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del progetto: la condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.

Senza voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il suo riferimento all’interno del sistema comunitario.

Se invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo chiamarla Unione Euroasiatica.

In conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole utopia del dopo guerra fredda.

Obtorto collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale, progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato; è diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.

L’Occidente deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.

Tuttavia, per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori, cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche l’assunzione dei doveri; il sostegno delle libertà dell’individuo, ma anche il suo rispetto della comunità; la democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità civile dei cittadini stessi.

NextGenerationEU: la Commissione europea mobilita ulteriori 12 miliardi di € per la ripresa dell’Europa

Ieri la Commissione europea ha emesso 12 miliardi di € in un’operazione in due tranche nell’ambito del programma NextGenerationEU, strumento di ripresa temporanea di oltre 800 miliardi di euro di prezzi correnti per sostenere la ripresa dell’Europa dalla pandemia di coronavirus e contribuire a costruire un’Europa più verde, più digitale e più resiliente. Per finanziare NextGenerationEU, la Commissione – a nome dell’UE – sta raccogliendo dai mercati dei capitali fino a circa 800 miliardi di euro da qui alla fine del 2026.

L’operazione – la 12a sindacata nell’ambito di NextGenerationEU e la settima del 2022 – consiste di una nuova obbligazione a cinque anni da 7 miliardi di € con scadenza il 4 ottobre 2027 e di una nuova obbligazione a 30 anni da 5 miliardi di € con scadenza il 4 ottobre 2052.

Il tasso di percentuale più alto per l’ obbligazione a 5 anni lo possiede il Regno Unito (29%), a seguire la Francia con il 16% , invece per quella di 30 anni al primo posto si colloca la Germania (26,5%) e al secondo posto il Regno Unito (15,1%). Per quanto riguarda l’Italia ha un tasso di obbligazione a cinque anni del 10%, e a 30 anni dell’8,4%.

Nonostante il difficile contesto di mercato, la domanda degli investitori è rimasta forte, con offerte combinate per oltre 114 miliardi di €, vale a dire una sottoscrizione di oltre nove volte superiore all’offerta. È interessante notare che sia per l’obbligazione a 5 anni che quella di 30 anni a offrire di più ci sono stati i gestori di fondi (37,4%-40,9%) e i tessili bancari (25,9%-21,4%).

Johannes Hahn, Commissario europeo per il Bilancio e l’amministrazione, ha dichiarato: “Il programma NextGenerationEU della Commissione continua a offrire vantaggi agli Stati membri dell’UE e ai suoi beneficiari. I fondi raccolti continueranno a sostenere la ripresa dell’Europa dopo la pandemia e le tanto necessarie trasformazioni verde e digitale.”

Con l’operazione di ieri, la Commissione ha emesso un totale di 73,75 miliardi di € in finanziamenti a lungo termine nell’ambito di NextGenerationEU nel 2022 e di 144,75 miliardi di € dall’avvio del programma nel giugno 2021. Di questo totale, 23,75 miliardi di € sono stati emessi dal luglio 2022, in linea con il piano di finanziamento elaborato dalla Commissione per il periodo luglio-dicembre 2022, presentato alla fine di giugno 2022.

Grazie ai fondi raccolti, la Commissione ha finora erogato oltre 110 miliardi di € a titolo del dispositivo per la ripresa e la resilienza e oltre 15 miliardi di € per altri programmi dell’Unione che beneficiano di finanziamenti nell’ambito di NextGenerationEU.

Parallelamente a NextGenerationEU, la Commissione gestisce diversi programmi di finanziamento consecutivi per finanziare le esigenze specifiche degli Stati membri dell’UE e dei paesi terzi. Ciò include il programma di assistenza macrofinanziaria, nell’ambito del quale la Commissione ha fornito un sostegno di 2,2 miliardi di euro all‘Ucraina dall’inizio dell’anno e ha proposto un ulteriore sostegno di 5 miliardi di euro, la seconda tranche di un pacchetto fino a 9 miliardi di euro.

 

Di Anna Tulimieri

 

Una nuova NATO dopo Madrid?

Il vertice della NATO di Madrid, appena concluso, e la recentissima formalizzazione dell’ingresso di due nuovi membri nell’ambito dell’Alleanza sono stati presentati come un’altra risposta forte e decisa che il mondo occidentale ha voluto dare alla Russia. Il vertice ha inteso trasmettere l’immagine di una Alleanza compatta e determinata che si considera il baluardo della libertà e della democrazia contro il quale è destinata a infrangersi qualsiasi velleità di ricostituire un nuovo impero russo in Europa.

Un segnale importante che è stato, inoltre, esteso – peraltro in forma meno incisiva – anche nei confronti dell’altro autoritarismo che minaccia il mondo: la Cina, definita come l’avversario del prossimo futuro.

Se non ci limitiamo a un esame superficiale e spingiamo l’analisi oltre l’involucro mediatico delle dichiarazioni programmatiche e formali che contraddistinguono ogni vertice diplomatico politico ad alto livello, ci possono essere ulteriori chiavi di lettura che si prestano a valutare i risultati del vertice di Madrid.

In tale contesto possono essere fatte due osservazioni tra loro interdipendenti.

La prima riguarda il documento cardine che stabilisce la rotta che la NATO intende seguire. Si tratta del Concetto Strategico, cioè il documento programmatico che stabilisce e delinea le linee d’azione dell’Alleanza per i prossimi anni, approvato dal vertice di Madrid.

Leggendo il testo, se analizziamo i contenuti, questi ci riportano, senza dirlo esplicitamente, indietro di 30 anni, delineando lo scenario della Guerra Fredda. Una Guerra Fredda 2.0, invero, ma dove l’avversario è sempre lo stesso, anche se con un nome differente; dove le Nazioni europee (dell’EST!) si ritengono minacciate dall’essere fagocitate da un impero che non è più portatore di una ideologia politica, ma che è ugualmente visto come il nemico, l’unico e il solo, che incarna il pericolo per la democrazia e la libertà; dove, è bene sottolinearlo, la caratura degli esponenti politici che guidano l’Occidente non è certo paragonabile a quelli che hanno gestito la prima Guerra Fredda! Il resto del contesto geopolitico internazionale non è considerato quasi non esistesse.

Per arginare questa marea che è sul punto di dilagare in Europa il rimedio è sempre lo stesso: una rivisitazione della struttura della NATO, più uomini, più strutture, più tecnologia, più mezzi per rendere la NATO sempre più efficiente e dotarla di un nuovo credibile importante strumento di dissuasione. Il progetto di mettere in campo una NATO Response Force (NRF) di 300.000 unità, come prova della rinnovata volontà di dimostrare la coesione e la determinazione a reagire dell’Alleanza, ha il sapore di una boutade di altri tempi (Otto milioni di baionette!!!!). Se a malapena, e solo sulla carta, ogni anno si appronta una NRF di 40.000 unità, l’incremento sbandierato sembra apparire, esclusivamente un bluff propagandistico.

Il punto critico del Concetto Strategico risiede nella mancanza di una visione che sottintenda una prospettiva geopolitica ampia e coerente con lo sviluppo del contesto internazionale. Il nuovo ordine mondiale che si sta delineando, e che sembra che l’Occidente non voglia vedere, ha abbandonato il confronto Est vs Ovest; non esiste più una contrapposizione tra blocchi monolitici i cui interessi sono limitati al possesso fisico di una porzione di territorio (per quanto grande che essa possa apparire ai nostri occhi di occidentali); non ci sono più Triplici Intese o Entente Cordiale, gli Stati si accordano in base a esigenze specifiche fondate sul perseguimento di obiettivi politici che variano da regione a regione. Non esiste più un sistema di equilibrio di potenze che possa essere gestito dal di fuori con un attore geopolitico la cui azione, volta per volta, possa riportare l’ago della bilancia al centro.

Tutto questo l’Alleanza sembra non averlo percepito! Il nuovo Concetto rimanda a un tempo passato, dove possiamo cullarci in una situazione nota, chiara, ben definita e priva di incognite: il nemico è la Russia che vuole invadere l’Europa per ricostituire il suo impero (zarista o post-sovietico sono solo sfumature).

L’Alleanza con il vertice di Madrid ha perso un’occasione storica, quella di trasformare una organizzazione dalle potenzialità immense e unica nel suo genere da strumento vincolato a una geopolitica provinciale e fuori dal tempo, a mezzo strategico per proiettare il mondo occidentale e la sua visione culturale basata sui valori della democrazia e della libertà, quale protagonista nella costruzione di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali.

La seconda osservazione riguarda un concetto che gli esiti del vertice hanno sancito e cioè che il baricentro politico dell’Alleanza si è spostato ad Est!

Sono i Paesi ex sovietici che oramai dettano le linee guida dell’Alleanza. La nuova frontiera della NATO è costituita dal cordone di Paesi che dal Baltico si estendono sino al Mar Nero.

Sono loro che hanno riportato indietro le lancette del tempo, vincolando la vision atlantica allo scacchiere di Nord – Est, entusiasticamente sostenuti dal settore nordeuropeo dell’Alleanza poco desideroso di ampliare la sua prospettiva geopolitica oltre il giardino di casa.

L’appartenenza all’Alleanza è stata intesa da questi Paesi come il mezzo di ricevere assistenza e protezione contro l’avversario storico di sempre, nei confronti del quale i rancori, gli attriti le rivendicazioni e il sentimento di rivalsa non si sono mai sopiti e che adesso trovano motivo di essere rispolverati e usati come elemento di pressione.

Questo spostamento del baricentro è stato reso possibile da due fattori.

Il primo riguarda il rapporto privilegiato che è stato stabilito tra questi Paesi e gli Stati Uniti. Il deteriorarsi dei rapporti euroatlantici degli ultimi vent’anni ha creato una serie di tensioni che ha visto un’Europa occidentale sempre meno coesa e sempre più recalcitrante nell’aderire alla linea politica USA, cosa che ha determinato per l’alleato americano la necessità di gravitare sul settore orientale dell’Europa: sicurezza in cambio di adesione incondizionata alla linea politica americana.

Agli occhi degli Stati Uniti la costituzione di una cintura di sicurezza dal Baltico al Mar Nero costituita da Paesi non ribelli e senza pretese di politiche autonome, che possa imbrigliare la Russia in Europa, ha costituito l’elemento fondamentale per risparmiare risorse ed energie da indirizzare verso la gestione degli altri scacchieri mondiali. La necessità del Regno Unito di ritagliarsi un nuovo ruolo in Europa dopo la Brexit dall’Occidente ha offerto, poi, l’occasione di usufruire di un sicuro alleato quale demoltiplicatore per la gestione del concetto di sicurezza contro l’Orso Russo.

Il secondo fattore, intimamente connesso al primo è stata l’assoluta mancanza di coesione strategica che i Paesi occidentali hanno dimostrato, e che si è tradotta nella traslazione del baricentro verso Est.

Nulla di nuovo, il fenomeno è lo stesso che si è prodotto nell’Unione Europea dove, purtroppo, stiamo assistendo a una mutazione dell’asse portante del concetto culturale che ha dato vita all’Unione Europea. I nuovi Paesi che sono stati accolti e inseriti nell’Unione dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica si sono certamente impegnati per modificare e rendere compatibile il loro impianto economico finanziario ai requisiti di ingresso nella comunità europea e ne hanno tratto i benefici che a essa erano legati. Ma non hanno cambiato il loro impianto culturale, sociale e politico che sono rimasti dissimili da quelli occidentali. Libertà, democrazia, trasparenza, stato di diritto sono concetti che ad Est dell’allineamento Amburgo – Trieste ancora vengono declinati in modo differente da come invece, li intendiamo a Ovest di tale allineamento.

La miopia geopolitica dell’Alleanza unita a una certa pigrizia degli Alleati del fianco Sud nel prospettare un’alternativa ragionata alla nuova Guerra Fredda verso Est, stanno privando la NATO della possibilità di esprimere le sue capacità in scacchieri diversi da quello orientale ma che sono altrettanto importanti, pericolosi e critici per la posizione che l’Europa potrà avere nel futuro immediato.

Trascurare Africa e Medio Oriente è un errore di prospettiva colossale che limita e riduce le nostre chances occidentali di proporci come una valida alternativa culturale ed economica e come garanzia di stabilità e sicurezza nei confronti del polo rappresentato da Russia e Cina.

Non si tiene assolutamente conto che la Russia non esprime il suo disegno di grande potenza solo nei confronti dei suoi ex satelliti nell’Europa orientale, ma è presente sempre con maggior peso nel Mediterraneo, in Libia (grazie al “capolavoro” franco – inglese dell’eliminazione di Gheddafi), in tutto il Medio Oriente, dalla Siria sino all’Afghanistan. E a seguire, anche la Cina si sta consolidando in questi scacchieri, sia economicamente ma anche con le prime installazioni militari.

L’assenza di una prospettiva strategica a 360° e la cristallizzazione delle risorse e dell’impegno dell’Alleanza in senso unidirezionale verso Est rappresentano un fattore di debolezza intrinseco dell’Alleanza stessa che evidenzia come sia preminente l’interesse particolare di alcuni dei suoi membri ma non quello generale di tutti, avvalorando implicitamente una contrapposizione diretta verso la Russia stessa, che risulta essere oltre che pericolosa, anche, estremamente limitante.

Al di là del sottolineare una volontà condivisa nel non tollerare violazioni eclatanti del diritto internazionale come quelle commesse dalla Russia nel condurre il conflitto in Ucraina, il vertice dell’Alleanza non è stato in grado di generare una vision geostrategica all’altezza delle sue potenzialità e in linea con l’intrinseco valore geopolitico che il consesso dei Paesi occidentali è in grado di esprimere. Ci stiamo rituffando in una specie di Guerra Fredda per dare soddisfazione ai rancori mal sopiti del nostro Est europeo, perdendo di vista che la NATO costituisce l’unica organizzazione valida e utile per dare forma e consistenza al ruolo che l’Europa e l’Occidente che condivide i nostri valori, potranno svolgere nel nuovo sistema delle relazioni internazionali che sta prendendo forma adesso.

Maurizio Iacono
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