A seguito dei tristissimi fatti di Parigi, degli episodi di violenza perpetrata da singoli individui radicalizzati, spesso paranoici e non legati a organizzazioni terroristiche, dagli eccidi in Syria ed in Africa è lecito chiedersi se l’intelligence sia l’unica arma contro il terrorismo.
A nostro parere la risposta è no. O, meglio, non solo. L’intelligence è un campo in cui l’Europa e le Nazioni Unite non esistono ed in cui i trattati di fatto non esistono. L’intelligence, sia esso esterno o interno è qualcosa che esula dai rapporti tra stati e organizzazioni internazionali e, molto spesso, interessa esclusivamente i rapporti bilaterali sussistenti tra Stati, che – come la storia insegna – non sono sempre in rapporto di parità ma, anzi, molto spesso sono in rapporto di sudditanza o dipendenza.
Da sempre, ed ancor più in questi giorni, in Europa si parla di un’intelligence unica, di scambio informazioni, e di collaborazione tra servizi.
Non confondiamo le cose: agenzie europee di sicurezza, Europol in primis, e consessi internazionali del settore non sono intelligence e non fanno intelligence; si tratta di organismi e comitati, molti dei quali in seno all’UE o all’ONU, che elaborano dati, studiano casi, individuano buone prassi, ed emanano raccomandazioni, producendo un ottima mole di lavoro per gli addetti istituzionali e para-istituzionali e per i decisori politici, ma non creano intelligence, indirizzandosi per lo più a forze ed operazioni di polizia di tipo palese e di tipo investigativo e giudiziario. Men che meno sono veritiere le paventate (da alcuna stampa) potenziali operazioni di intelligence poste in essere da organismi cerati sulla base di accordi multilaterali (o bilaterali incorciati) quali l’Eurogendfor (che è un perfetto e meritevole connubio di gendarmerie europee, essenzialmente impegnato a fornire expertise di polizia ed addestramento militare in paesi in via di sviluppo, e ad agire quale forza di interposizione in aree di crisi).
Le differenze normative tra gli Stati europei, di fatto, costituiscono a detta di molti un notevole intralcio alla costituzione di un apparato di intelligence comune. Secondo altri politici, italiani o stranieri che siano, gli Stati europei non vogliono realmente costruire un’unica intelligence perché sono gelosi delle informazioni possedute e non credono di riceverne di altrettanto qualificate da parte dei loro omologhi interlocutori; questo proprio perché la materia non è regolata e perché le regole in questo settore, dove la trasparenza non è una forza – ma necessariamente una debolezza – non si scrivono.
Per questo motivo l’intelligence potrebbe essere una buona arma unica contro il terrorismo, ma tale esercizio non è praticabile nel breve periodo, nemmeno in un regime di massima urgenza qual’è quello che stiamo vivendo.
L’Europa, però, può utilizzare gli strumenti normativi ed operativi di cui nel tempo si è dotata e si è perfezionata, rasentando davvero l’eccellenza.
In tutti gli Stati membri si parla infatti di sicurezza partecipata: un concetto molto ampio, che, per essere spiegato, potrebbe richiamare una dottrina cinese secondo la quale ogni cittadino è tenuto a fare sicurezza, a dare sicurezza ed a custodire anche le informazioni minimali, divulgandole solo alle autorità. La sicurezza partecipata si misura studiando le attività poste in campo dallo Stato a livello centrale, fino ad arrivare alle più infime articolazioni dei piccoli comuni e dei villaggi.
A differenza dell’intelligence unica, il concetto di sicurezza partecipata non è un’utopia: è davvero realizzabile e, forse, è già in corso di realizzazione, addirittura in modo inconsapevole, specie in questi periodo. Ma occhio agli allarmismi. Dietro un hijab non si nasconde sempre una terrorista.
Altro strumento utilizzabile, stavolta dai decisori politici, è ciò che potrebbe derivare dagli esiti dei Consigli e Comitati europei in ambito sicurezza interna. La Strategia della Sicurezza Interna, i Report annuali di Europol sul terrorismo, l’Agenda Europea sulla Sicurezza sono tutti utili strumenti per gli Stati membri per affinare strategie, condividere esperienze e formare una coscienza comune, a livello politico, per contrastare il fenomeno terroristico. Ma, va da sé, i decisori devono poi decidere. Devono agire e far agire gli apparati dei loro stati, promuovendo per quanto possibile non utopie giuridiche, come quella dell’unificazione dei servizi d’intelligence europei, ma disposizioni normative concrete, stringenti e precise.
Prendiamo Europol, agenzia GAI europea, di cui abbiamo già parlato altre volte, qui su European Affairs.
Ogni anno l’Agenzia emana un Rapporto dell’Unione Europea sulla situazione ed il trend del terrorismo, il c. d. “TE-SAT”, documento famoso per gli addetti ai lavori. Europol, da sempre specializzata nell’analisi criminale, distingue giustamente vari fenomeni terroristici, non soffermandosi esclusivamente su quello di matrice islamica, che è al momento quello che desta più clamore. Oltre al terrorismo di ispirazione religiosa, infatti, Europol rammenta che esiste un terrorismo etnico-separatista e nazionalista, un terrorismo di sinistra (di matrice anarco-insurrezionalista, espressione tanto cara agli analisti italiani) ed un terrorismo di destra. Ovviamente Europol si interessa dei fenomeni da un punto di vista complessivo, specie se gli stessi sono connotati da caratteristiche transnazionali e transfrontaliere. Si pensi all’ETA, alla Resistencia Galega o al PKK o ai gruppi antisemiti o islamofobi che, sebbene in misura sicuramente minore, hanno comunque fatto parlare di sé in questi mesi e nell’ultimo biennio. Si pensi, infine, al terrorismo di matrice religiosa: per questo tipo di fenomeno Europol studia ed elenca i vari episodi, conta gli arresti eseguiti dagli Stati membri ed elenca alcune attività criminali che devono essere contrastate perché contribuiscono a rafforzare il terrorismo quali il finanziamento, l’immissione nell’economia legale, i rapporti con l’economia sommersa e criminale e con la criminalità organizzata, e la facilità con cui si trasferiscono informazioni sul maneggio e la costruzione di ordigni esplosivi mediante il deep web (lambendo così il fenomeno del cyber crime).
I dati sono noti, pubblici, ed ogni Stato ha la ricetta per contrastare i fenomeni.
Ci sono Stati che si limitano a sospendere l’efficacia del trattato Schengen. Ovviamente tale soluzione – la più facile – può rivelarsi utile nel breve o brevissimo periodo, ma è letale sul lungo termine. Questo perché i cittadini ed i commercianti sono insofferenti alle limitazioni di libertà acquisite ormai da anni e, inevitabilemente, la politica risente di tali pressioni sicché è facilissimo riallargare le maglie dei controlli alle frontiere dopo pochi giorni, facendo passare poi, secondo la legge del contrappasso, qualunque tipo di merce e di persona.
Qualcuno, specie nei paesi nordici, parla di contro-narrativa: ossia dell’avvio di una vera e propria campagna culturale e mediatica di contro-informazione contro il jihadismo e la radicalizzazione. Addirittura c’è chi vorrebbe prevedere dei programmi di riabilitazione “sociale” per i sospetti e potenziali foreign fighters (qualcuno anche per quali acclarati): evitare la prigione in cambio di un impegno civile nella lotta all’estremismo ed alla violenza religiosi.
Ma anche queste soluzioni ci sembrano poco adeguate e, a dire il vero, abbastanza utopistiche, specie per realtà e architetture giuridiche e politiche di origine “latina”, come quella italiana.
Meglio sarebbe parlare di “resilienza civile”, ossia di una forma di boicottaggio – anche’esso nomativamente e politicamente guidato – degli effetti che il terrorismo può produrre sulla società: campagne di informazione sui pericoli dell’estremismo religioso, da praticarsi nelle scuole sin dalle prime classi, seminari gratutiti di istruzione alle prime azioni da compiere per salvare sé e gli altri a seguito o durante un attentato terroristico, attenzione e focus mediatici frequenti, ma non noiosi e pendanti, sul terrorismo religioso, e sui pericoli del fondamentalismo. Soluzioni di tipo culturale, insomma.
A poco o a nulla serve quell’onda cavalcata da varie fazioni politiche europee, repubblicane o democratiche, per dirla all’americana, che individua la soluzione nella corresponsione di maggiori fondi alle Forze Armate o di Polizia: questo perché qualunque “squilibrio”, specie se improvviso, nel bilancio degli Stati, prima o poi si ripercuote inevitabilmente proprio sul settore che ha “causato” lo squilibrio stesso e gli effetti non possono essere che poco duraturi, se non disastrosi, nei loro risvolti sociali, politici e sindacali.
Bene sarebbe, invece, investire nella controinterdizione economica: ossia nella pratica di un’intelligence economica aggressiva nei confronti anche dei piccoli capitali, delle donazioni per cause religiose non meglio specificate, delle oblazioni per opere umanitarie portate avanti da organizzazioni indubbiamente poco famose, poco note in ambito worldwide e di nascita relativamente giovane. Aggredire l’economia del terrorismo, significa inevitabilmente aggredire la linfa vitale di una tale cattiva escrescenza; del resto la tecnica di aggressione dei patrimoni costituisce il classico metodo di lotta alle forme più radicate di malavita organizzata in tutto il mondo.
Metodologie di pagamento quali l’hawala o il chitti banking sono ormai molto conosciute e rappresentano un rischio per chi, Stato o persona, ne è in qualche modo vittima. Ma tali metodi sono rischiosi anche per chi li pratica, questo specie in un’Europa che ha fatto dell’antiriciclaggio uno dei suoi principali cavalli di battaglia, sfornando con sempre maggior frequenza direttive e decisioni che impongono agli Stati membri adeguamenti normativi urgenti e che hanno regalato – come nel caso italiano – una definizione sempre più nitida della fattispecie del riciclaggio e delle responsabilità anche in campo amministrativo, oltre che penale, che da essa derivano.
Riassumendo: forze militari e di polizia dedicate e costituite da un consistente numero di professionisti; provvedimenti normativi chiari, mirati, di lunga durata, non oppressivi e non circoscritti alle sole emergenze; operazioni culturali e mediatiche che educhino – nel rispetto di ogni confessione religiosa – sì alla tolleranza ecumenica, ma anche alla totale intolleranza verso qualsivoglia forma di violenza ispirata alla o dalla fede; lotta indiscriminata contro ogni forma di criminalità economica che possa anche minimamente rendersi sospetta di appoggiare, anche solo idealmente, il terrorismo e la radicalizzazione.
In attesa di un’unica Procura europea contro il terrorismo, di un unico esercito europeo, di un’unica agenzia europea di intelligence, sono queste, secondo noi, le ricette alternative per sconfiggere il terrorismo.