GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Monthly archive

Marzo 2016 - page 5

Libia: Farnesina conferma morte dei 2 italiani

BreakingNews/EUROPA di

“Relativamente alla diffusione di alcune immagini di vittime di sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, apparentemente riconducibili a occidentali, la Farnesina informa che da tali immagini e tuttora in assenza della disponibilità dei corpi, potrebbe trattarsi di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni “Bonatti”, rapiti nel luglio 2015 e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla. Al riguardo la Farnesina ha già informato i familiari. Sono in corso verifiche rese difficili, come detto, dalla non disponibilità dei corpi”. Questa la nota di giovedì 3 marzo del Ministero degli Esteri che conferma l’indiscrezione sulla morte degli italiani Fausto Piano, 61, e Salvatore Failla, 47. Mentre gli altri due compagni connazionali, Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, rapiti anch’essi nel luglio scorso, “sono ancora vivi”, come riferito dal presidente del Copasir Marco Minniti.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Le circostanze della morte

Mercoledì 2 aprile, Fausto Piano e Salvatore Failla sarebbero rimasti vittima di uno scontro a fuoco nei pressi di Sabrata tra le forze di sicurezza di Tripoli, guidate da Fajr Libya, e un gruppo di miliziani dell’ISIS. Secondo le fonti locali, i due italiani sarebbero stati colpiti mentre viaggiavano a bordo di un convoglio jihadista.

Le conferme video arrivate su Facebook e il comunicato della Farnesina non lasciano spazi a dubbi sulla morte dei due italiani. Dubbi, invece, che rimangono sin dagli albori dell’intera vicenda, a cominciare proprio dal rapimento del 20 luglio 2015. Infatti, al momento dell’assalto, i quattro dipendenti della Benetti stavano tornando a casa dalla Libia in Tunisia a bordo di un’autovettura, mentre solitamente i dipendenti di Eni e della stessa Benetti, per lo stesso viaggio, utilizzano un’imbarcazione marittima.

Non solo. Anche i mesi successivi sono avvolti in un alone di mistero. Se negli ultimi tre mesi già si sapeva della separazione dei quattro rapiti, meno si sapeva invece su chi li tenesse prigionieri, visto che una rivendicazione non è mai arrivata. Addirittura, fino a fine febbraio, era stato esclusa la pista ISIS.

Circostanza di fatto smentita con lo scontro a fuoco dove, molto probabilmente, i jihadisti hanno utilizzato i due italiani come scudo. Mentre gli uomini di Fajr Libya non erano al corrente che nel convoglio della brigata dello Stato Islamico fossero presenti i due dipendenti della Bonatti.

 

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

EU rejects 308 refugees

The EU Commission confirmed that Greece is rejecting 308 irregular migrants in Turkey. The European Union is in fact intensifying its efforts to ensure that those who did not qualify for international protection in Europe are rapidly and actually driven back to their countries of origin or sent back to the countries of transit.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

The Commissioner for Migration, Home Affairs and Citizenship, Dimitris Avramopoulos, said: “Under the EU-Turkey joint action plan we agreed to accelerate return and readmission procedures with Turkey. The European Commission has reinforced its support for cooperation on return between EU Member States and Turkey and today’s transfers of returnees from Greece to Turkey show that our efforts are starting to bear fruit. If we want to address the challenges of the refugee crisis successfully we need to get back to an orderly management of the migration flows: We have to make sure that those who are in need of protection will receive it, but it has to be clear as well that those who have no right to stay in the EU will be quickly and effectively returned“.

According to the Commission, to ensure that the European Common Asylum System will work, it is essential that the return policy is fully functioning. While fully respecting fundamental rights and the principle of reception, repatriation to countries of origin or to transit countries by irregular migrants who are not entitled to remain in the EU constitutes an essential part of overall efforts of EU to address the phenomenon of migration and, in particular, to reduce the regular immigration.

It is for this reason that the strengthening of cooperation on refoulement with Turkey is considered today as one of the main priorities of the European Commission. As part of the Joint Action Plan EU-Turkey, activated on November 29, the EU and Turkey have pledged to strengthen cooperation in the field of migration management – including the prevention of irregular migration flows towards EU – and in order to speed up the procedures for denial of entry of illegal immigrants, in line with the provisions specifically designed.

So yesterday and today, the return of illegal immigrants, mostly from Morocco, Algeria and Tunisia started.

A clear and unequivocal signal to those who know in advance to be not entitled to international protection.

 

Domenico Martinelli

[/level-european-affairs]

UE: rimpatrio per 308 profughi

BreakingNews/EUROPA/POLITICA di

La Commissione ha confermato che la Grecia sta respingendo 308 migranti irregolari in Turchia. L’Unione Europea sta infatti intensificando i suoi sforzi per fare in modo che coloro che non si sono qualificati per ottenere la protezione internazionale in Europa siano rapidamente e realmente riaccompagnati nei loro paesi di origine o respinti verso i paesi di transito.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Il Commissario per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, Dimitris Avramopoulos, ha dichiarato: “Nell’ambito del piano d’azione comune UE-Turchia abbiamo deciso di accelerare le procedure di rimpatrio e di riammissione. La Commissione europea ha rafforzato il suo sostegno alla cooperazione in materia di rimpatrio tra gli Stati membri UE e la Turchia e i trasferimenti di oggi  dalla Grecia alla Turchia dimostrano che i nostri sforzi stanno iniziando a dare i loro frutti; se vogliamo affrontare le sfide della crisi dei rifugiati con successo abbiamo bisogno di tornare ad una gestione ordinata dei flussi migratori. Dobbiamo fare in modo che coloro che hanno bisogno di protezione vengano accettare, ma deve essere chiaro anche che coloro che non hanno diritto di restare nell’UE saranno modo rapido ed efficace respinti“.

Secondo la Commissione, per fare in modo che il sistema europeo comune di asilo funzioni, è fondamentale che la politica di rimpatrio sia pienamente funzionante. Pur nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e del principio di accoglienza, il rimpatrio verso i paesi d’origine o verso i paesi di transito da parte dei migranti irregolari che non hanno diritto di restare nell’UE costituisce una parte essenziale degli sforzi globali dell’UE per affrontare il fenomeno della migrazione e, in particolare, per ridurre quello dell’immigrazione irregolare.

E’ per questo motivo che il rafforzamento della cooperazione in materia di respingimento con la Turchia è considerata ad oggi quale una delle priorità principali della Commissione europea. Nell’ambito del piano d’azione congiunto UE-Turchia, attivato il 29 novembre, l’UE e la Turchia si sono impegnati a rafforzare la cooperazione in materia di gestione del fenomeno migratorio – anche attraverso la prevenzione dei flussi migratori irregolari verso l’UE – e ad accelerare le procedure di respingimento degli  immigrati irregolari, in linea con le disposizioni studiate ad hoc per.

Tra ieri e oggi, pertanto, è iniziato il respingimento degli immigrati irregolari, prevalentemente di origine marocchina, algerina e tunisina.

Un segnale chiaro ed inequivocabile per coloro che sanno a priori di non aver diritto alla protezione internazionale.

Domenico Martinelli

[/level-european-affairs]

 

NATO, il Gen. Farina al comando del JFC

Difesa di

Il prossimo 4 marzo il Generale di Corpo d’Armata Salvatore Farina subentra al Comando del Joint Force Command Brunssum. [subscriptionform] [level-european-affairs] Si tratta di uno dei due comandi operativi della NATO con base in Olanda, a Brunssum. Tra le altre ingerenze, la struttura di comando multinazionale e interforze ha il compito di gestire la missione Resolute Support (RS) in Afghanistan e di pianificare, preparare e gestire l’impiego della Forza di Risposta della NATO (NATO Response Force – NRF) in alternanza con il Comando JFC di Napoli. Con il Generale Farina, il prestigioso Comando NATO è per la prima volta sotto guida italiana, a riprova dell’impegno profuso in questi anni dalle Forze Armate nei teatri operativi NATO e della leadership militare nazionale che vede l’Italia alla guida delle principali missioni internazionali in atto: KFOR, UNIFIL, EUNAVORMED, EUTM SOMALIA, EUNAVFOR ATALANTA. Salvatore Farina è un Ufficiale Generale dell’Esercito Italiano con una vasta esperienza professionale maturata in incarichi sia in Italia, nell’ambito dello Stato Maggiore dell’Esercito e di quello della Difesa, sia all’estero quale Addetto Militare per la Difesa a Londra e  Comandante della Forza Nato in Kosovo (KFOR) dal 2013 al 2014.   Viviana Passalacqua [/level-european-affairs]

Iraq: firma contratto Trevi – autorità irachene per consolidamento diga di Mosul

BreakingNews di

Il ministero degli Esteri italiano ha confermato  che è appena stato firmato il contratto della ditta Trevi con le autorità irachene per i lavori di consolidamento della diga di Mosul.

La firma fa seguito all’intenso negoziato svolto tra l’azienda e le autorità irachene a Baghdad. Sulla base della decisione delle autorità irachene, potrà svilupparsi l’operazione di consolidamento della diga concordata nella recente visita del premier iracheno Al Abadi a Roma, e oggetto anche dei contatti avuti in questi giorni a New York dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Paolo Gentiloni con i rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Iraq per accelerare i termini del contratto.

Intelligence: unica risorsa contro il terrorismo?

Varie di

A seguito dei tristissimi fatti di Parigi, degli episodi di violenza perpetrata da singoli individui radicalizzati, spesso paranoici e non legati a organizzazioni terroristiche, dagli eccidi in Syria ed in Africa è lecito chiedersi se l’intelligence sia l’unica arma contro il terrorismo.

A nostro parere la risposta è no. O, meglio, non solo. L’intelligence è un campo in cui l’Europa e le Nazioni Unite non esistono ed in cui i trattati di fatto non esistono. L’intelligence, sia esso esterno o interno è qualcosa che esula dai rapporti tra stati e organizzazioni internazionali e, molto spesso, interessa esclusivamente i rapporti bilaterali sussistenti tra Stati, che – come la storia insegna – non sono sempre in rapporto di parità ma, anzi, molto spesso sono in rapporto di sudditanza o dipendenza.

Da sempre, ed ancor più in questi giorni, in Europa si parla di un’intelligence unica, di scambio informazioni, e di collaborazione tra servizi.

Non confondiamo le cose: agenzie europee di sicurezza, Europol in primis, e consessi internazionali del settore non sono intelligence e non fanno intelligence; si tratta di organismi e comitati, molti dei quali in seno all’UE o all’ONU, che elaborano dati, studiano casi, individuano buone prassi, ed emanano raccomandazioni, producendo un ottima mole di lavoro per gli addetti istituzionali e para-istituzionali e per i decisori politici, ma non creano intelligence, indirizzandosi per lo più a forze ed operazioni di polizia di tipo palese e di tipo investigativo e giudiziario. Men che meno sono veritiere le paventate (da alcuna stampa) potenziali operazioni di intelligence poste in essere da organismi cerati sulla base di accordi multilaterali (o bilaterali incorciati) quali l’Eurogendfor (che è un perfetto e meritevole connubio di gendarmerie europee, essenzialmente impegnato a fornire expertise di polizia ed addestramento militare in paesi in via di sviluppo, e ad agire quale forza di interposizione in aree di crisi).

Le differenze normative tra gli Stati europei, di fatto, costituiscono a detta di molti un notevole intralcio alla costituzione di un apparato di intelligence comune. Secondo altri politici, italiani o stranieri che siano, gli Stati europei non vogliono realmente costruire un’unica intelligence perché sono gelosi delle informazioni possedute e non credono di riceverne di altrettanto qualificate da parte dei loro omologhi interlocutori; questo proprio perché la materia non è regolata e perché le regole in questo settore, dove la trasparenza non è una forza – ma necessariamente una debolezza – non si scrivono.

Per questo motivo l’intelligence potrebbe essere una buona arma unica contro il terrorismo, ma tale esercizio non è praticabile nel breve periodo, nemmeno in un regime di massima urgenza qual’è quello che stiamo vivendo.

L’Europa, però, può utilizzare gli strumenti normativi ed operativi di cui nel tempo si è dotata e si è perfezionata, rasentando davvero l’eccellenza.

In tutti gli Stati membri si parla infatti di sicurezza partecipata: un concetto molto ampio, che, per essere spiegato, potrebbe richiamare una dottrina cinese secondo la quale ogni cittadino è tenuto a fare sicurezza, a dare sicurezza ed a custodire anche le informazioni minimali, divulgandole solo alle autorità. La sicurezza partecipata si misura studiando le attività poste in campo dallo Stato a livello centrale, fino ad arrivare alle più infime articolazioni dei piccoli comuni e dei villaggi.

A differenza dell’intelligence unica, il concetto di sicurezza partecipata non è un’utopia: è davvero realizzabile e, forse, è già in corso di realizzazione, addirittura in modo inconsapevole, specie in questi periodo. Ma occhio agli allarmismi. Dietro un hijab non si nasconde sempre una terrorista.

Altro strumento utilizzabile, stavolta dai decisori politici, è ciò che potrebbe derivare dagli esiti dei Consigli e Comitati europei in ambito sicurezza interna. La Strategia della Sicurezza Interna, i Report annuali di Europol sul terrorismo, l’Agenda Europea sulla Sicurezza sono tutti utili strumenti per gli Stati membri per affinare strategie, condividere esperienze e formare una coscienza comune, a livello politico, per contrastare il fenomeno terroristico. Ma, va da sé, i decisori devono poi decidere. Devono agire e far agire gli apparati dei loro stati, promuovendo per quanto possibile non utopie giuridiche, come quella dell’unificazione dei servizi d’intelligence europei, ma disposizioni normative concrete, stringenti e precise.

Printelligence_antiterrorismo_2_940endiamo Europol, agenzia GAI europea, di cui abbiamo già parlato altre volte, qui su European Affairs.

Ogni anno l’Agenzia emana un Rapporto dell’Unione Europea sulla situazione ed il trend del terrorismo, il c. d. “TE-SAT”, documento famoso per gli addetti ai lavori. Europol, da sempre specializzata nell’analisi criminale, distingue giustamente vari fenomeni terroristici, non soffermandosi esclusivamente su quello di matrice islamica, che è al momento quello che desta più clamore. Oltre al terrorismo di ispirazione religiosa, infatti, Europol rammenta che esiste un terrorismo etnico-separatista e nazionalista, un terrorismo di sinistra (di matrice anarco-insurrezionalista, espressione tanto cara agli analisti italiani) ed un terrorismo di destra. Ovviamente Europol si interessa dei fenomeni da un punto di vista complessivo, specie se gli stessi sono connotati da caratteristiche transnazionali e transfrontaliere. Si pensi all’ETA, alla Resistencia Galega o al PKK o ai gruppi antisemiti o islamofobi che, sebbene in misura sicuramente minore, hanno comunque fatto parlare di sé in questi mesi e nell’ultimo biennio. Si pensi, infine, al terrorismo di matrice religiosa: per questo tipo di fenomeno Europol studia ed elenca i vari episodi, conta gli arresti eseguiti dagli Stati membri ed elenca alcune attività criminali che devono essere contrastate perché contribuiscono a rafforzare il terrorismo quali il finanziamento, l’immissione nell’economia legale, i rapporti con l’economia sommersa e criminale e con la criminalità organizzata, e la facilità con cui si trasferiscono informazioni sul maneggio e la costruzione di ordigni esplosivi mediante il deep web (lambendo così il fenomeno del cyber crime).

I dati sono noti, pubblici, ed ogni Stato ha la ricetta per contrastare i fenomeni.

Ci sono Stati che si limitano a sospendere l’efficacia del trattato Schengen. Ovviamente tale soluzione – la più facile – può rivelarsi utile nel breve o brevissimo periodo, ma è letale sul lungo termine. Questo perché i cittadini ed i commercianti sono insofferenti alle limitazioni di libertà acquisite ormai da anni e, inevitabilemente, la politica risente di tali pressioni sicché è facilissimo riallargare le maglie dei controlli alle frontiere dopo pochi giorni, facendo passare poi, secondo la legge del contrappasso, qualunque tipo di merce e di persona.

Qualcuno, specie nei paesi nordici, parla di contro-narrativa: ossia dell’avvio di una vera e propria campagna culturale e mediatica di contro-informazione contro il jihadismo e la radicalizzazione. Addirittura c’è chi vorrebbe prevedere dei programmi di riabilitazione “sociale” per i sospetti e potenziali foreign fighters (qualcuno anche per quali acclarati): evitare la prigione in cambio di un impegno civile nella lotta all’estremismo ed alla violenza religiosi.

Ma anche queste soluzioni ci sembrano poco adeguate e, a dire il vero, abbastanza utopistiche, specie per realtà e architetture giuridiche e politiche di origine “latina”, come quella italiana.

Meglio sarebbe parlare di “resilienza civile”, ossia di una forma di boicottaggio – anche’esso nomativamente e politicamente guidato – degli effetti che il terrorismo può produrre sulla società: campagne di informazione sui pericoli dell’estremismo religioso, da praticarsi nelle scuole sin dalle prime classi, seminari gratutiti di istruzione alle prime azioni da compiere per salvare sé e gli altri a seguito o durante un attentato terroristico, attenzione e focus mediatici frequenti, ma non noiosi e pendanti, sul terrorismo religioso, e sui pericoli del fondamentalismo. Soluzioni di tipo culturale, insomma.

A poco o a nulla serve quell’onda cavalcata da varie fazioni politiche europee, repubblicane o democratiche, per dirla all’americana, che individua la soluzione nella corresponsione di maggiori fondi alle Forze Armate o di Polizia: questo perché qualunque “squilibrio”, specie se improvviso, nel bilancio degli Stati, prima o poi si ripercuote inevitabilmente proprio sul settore che ha “causato” lo squilibrio stesso e gli effetti non possono essere che poco duraturi, se non disastrosi, nei loro risvolti sociali, politici e sindacali.

Bene sarebbe, invece, investire nella controinterdizione economica: ossia nella pratica di un’intelligence economica aggressiva nei confronti anche dei piccoli capitali, delle donazioni per cause religiose non meglio specificate, delle oblazioni per opere umanitarie portate avanti da organizzazioni indubbiamente poco famose, poco note in ambito worldwide e di nascita relativamente giovane. Aggredire l’economia del terrorismo, significa inevitabilmente aggredire la linfa vitale di una tale cattiva escrescenza; del resto la tecnica di aggressione dei patrimoni costituisce il classico metodo di lotta alle forme più radicate di malavita organizzata in tutto il mondo.

formiche_cyberwar2-960x485

Metodologie di pagamento quali l’hawala o il chitti banking sono ormai molto conosciute e rappresentano un rischio per chi, Stato o persona, ne è in qualche modo vittima. Ma tali metodi sono rischiosi anche per chi li pratica, questo specie in un’Europa che ha fatto dell’antiriciclaggio uno dei suoi principali cavalli di battaglia, sfornando con sempre maggior frequenza direttive e decisioni che impongono agli Stati membri adeguamenti normativi urgenti e che hanno regalato  – come nel caso italiano – una definizione sempre più nitida della fattispecie del riciclaggio e delle responsabilità anche in campo amministrativo, oltre che penale, che da essa derivano.

Riassumendo: forze militari e di polizia dedicate e costituite da un consistente numero di professionisti; provvedimenti normativi chiari, mirati, di lunga durata, non oppressivi e non circoscritti alle sole emergenze; operazioni culturali e mediatiche che educhino – nel rispetto di ogni confessione religiosa – sì alla tolleranza ecumenica, ma anche alla totale intolleranza verso qualsivoglia forma di violenza ispirata alla o dalla fede;  lotta indiscriminata contro ogni forma di criminalità economica che possa anche minimamente rendersi sospetta di appoggiare, anche solo idealmente, il terrorismo e la radicalizzazione.

In attesa di un’unica Procura europea contro il terrorismo, di un unico esercito europeo, di un’unica agenzia europea di intelligence, sono queste, secondo noi, le ricette alternative per sconfiggere il terrorismo.

 

 

 

Un nuovo consistente fondo di aiuti economici dell’Europa ai profughi palestinesi

Ieri la Commissione europea ha approvato un pacchetto di assistenza di 252 milioni e 500 mila euro per sostenere le Autorità ed rifugiati palestinesi. E questa è solo la prima parte del pacchetto di sostegno annuo dell’UE a favore della Palestina previsto per il 2016.

L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha dichiarato: “L’Unione europea rinnova il suo impegno concreto per i palestinesi attraverso questo pacchetto, l’UE sostiene la vita quotidiana dei palestinesi nei campi dell’istruzione e della sanità, proteggendo le famiglie più povere e  garantendo ai profughi palestinesi l’accesso ai servizi essenziali; questi sono passi tangibili sul campo che possono migliorare la vita dei palestinesi, ma questi passaggi non sono sufficienti. Le istituzioni palestinesi devono continuare a crescere di più, devono diventare più trasparenti, più responsabili e più democratiche. Istituzioni fondamentali e inclusive, basate sul rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, sono cruciali in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Perché quello che vogliamo raggiungere è la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, che viva, in pace e sicurezza, al fianco dello Stato di Israele e degli altri vicini “.

Il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, Johannes Hahn, ha dichiarato: “L’UE rimane ferma nel suo impegno per i palestinesi e sostiene attivamente una soluzione basata su due stati La nostra assistenza per assicurare il funzionamento dell’Autorità palestinese e per sostenere i gruppi di palestinesi vulnerabili, compresi i rifugiati palestinesi, è un esempio concreto di questo impegno. Ringrazio anche tutti gli Stati membri per il loro sostegno continuo dei programmi dell’UE per questa regione tormentata, che si è dimostrato efficace”.

UNRWA-logoDel pacchetto di fondi inviato ieri, 170 milioni e 500 mila euro saranno inviati direttamente all’Autorità palestinese, attraverso il meccanismo PEGASE (Mécanisme Palestino-Européen de Gestion de l’Aide socio-Economique). Con questi fondi l’UE sosterrà l’Autorità palestinese nella fornitura di servizi sanitari ed educativi, proteggendo le famiglie più povere e fornendo assistenza finanziaria agli ospedali situati a Gerusalemme Est.

I restanti 82 milioni costituiranno un contributo al bilancio del programma di soccorso e lavori dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA). Organismo ONU che fornisce servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in tutta la regione. Questo supporto si propone di offrire un migliore accesso ai servizi pubblici essenziali e maggiori opportunità di sostentamento per i profughi palestinesi.

Un secondo pacchetto di misure a favore dei palestinesi sarà annunciato nel corso dell’anno.

A beneficio dei lettori, precisiamo che il PEGASE è il meccanismo attraverso il quale l’Unione europea aiuta l’Autorità palestinese a costruire le istituzioni di un futuro Stato palestinese indipendente. Attraverso il pagamento delle pensioni e degli stipendi dei funzionari pubblici, assicura che i servizi pubblici essenziali continuino a funzionare. Il PEGASE fornisce anche prestazioni sociali alle famiglie palestinesi che vivono in condizioni di estrema povertà ed anche un contributo all’Autorità Palestinese per sostenere i consumi degli ospedali di Gerusalemme Est.

L’Agenzia UNRWA fornisce invece servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, Siria e Libano. L’UE è il maggior contributore di questa Agenzia ONU specializzata. Tra il 2007 e il 2014, l’UE ha contribuito con oltre 1 miliardo di euro , tra cui 809 milioni destinati al bilancio del programma dell’ente. Inoltre, l’UE ha generosamente contribuito alle richieste dell’UNRWA nelle emergenze umanitarie e nei progetti ideati ad hoc per rispondere alle varie crisi  ed alle esigenze specifiche sorte in tutta la regione. Il partenariato tra l’UE e l’UNRWA ha permesso a milioni di rifugiati palestinesi di essere istruiti, di vivere una vita più sana, di avere accesso alle opportunità di lavoro e di migliorare le generali  condizioni di vita, contribuendo così allo sviluppo di tutta la regione.

Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

New economic funds sent from EU to Palestinian refugees

BreakingNews @en/Europe/Policy di

Yesterday, the European Commission approved a package of assistance of 252 million and 500 thousand euro to support the Authority and Palestinian refugees. And this is only the first part of the EU’s annual support package for Palestine scheduled for 2016.
The High Representative for the Union’s foreign policy, Federica Mogherini, said:  “The European Union renews its concrete commitment to the Palestinians. Through this package, the EU supports the daily lives of Palestinians in the fields of education and health, protecting the poorest families and also providing the Palestinian refugees with access to essential services. These are tangible steps on the ground that can improve the lives of Palestinian people. But these steps are not enough; Palestinian institutions must continue to grow stronger, become more transparent, more accountable and more democratic. Viable and inclusive institutions, based on respect for the rule of law and human rights, are crucial in view of the establishment of an independent and sovereign Palestinian State. Because what we want to achieve is the establishment of an independent and sovereign Palestinian State living side by side, in peace and security, with the State of Israel and other neighbours“.

The European Commissioner for Neighbourhood Policy and Enlargement, Johannes Hahn, said: “The EU remains firm in its commitment to Palestinians and actively supports a two-state solution. Our assistance to ensure the functioning of the Palestinian Authority and to support vulnerable Palestinian groups, including Palestinian refugees is a concrete example of this commitment. Let me also thank all EU Member States for their continued backing of EU programmes for this troubled region, which have proved effective”.

From the fund package sent yesterday, 170 million and 500 thousand euro will be sent directly to the Palestinian Authority, through the PEGASE mechanism (Mécanisme Palestino-Européen de Gestion de l’Aide Socio-Economique). With these funds, the EU will support the Palestinian Authority in the delivery of health and educational services, protecting the poorest families and providing financial assistance to hospitals located in East Jerusalem.

The remaining 82 million will constitute a contribution to the budget of the rescue program and the Agency’s work of the United Nations Relief and Works Agency (UNRWA). This UN body provides essential services for Palestinian refugees throughout the region. This support aims to provide better access to essential public services and increased livelihood opportunities for Palestinian refugees.
A second package of measures, in favor of the Palestinians, will be announced during the year.
For the readers, we specify that the PEGASE is the mechanism through which the EU is helping the Palestinian Authority to build the institutions of a future independent Palestinian state.

Through the UNRWA-logopayment of pensions and salaries of public officials, it ensures that essential public services continue to work. The PEGASE also provides social services to Palestinian families living in extreme poverty and also a contribution to the Palestinian Authority to support the costs of the hospitals in East Jerusalem.
UNRWA agency also provides essential services for Palestinian refugees in the West Bank, Gaza, Jordan, Syria and Lebanon. The EU is the largest contributor of this specialized UN agency. Between 2007 and 2014, the EU has contributed with more than 1 billion euro, including 809 million for the budget of the institution’s program. In addition, the EU has made generous contributions to UNRWA requests in humanitarian emergencies and in projects designed specifically to respond to the various crises and the specific requirements arising in the entire region. The partnership between the EU and UNRWA has allowed millions of Palestinian refugees to be educated, to live a healthier life, to have access to job opportunities and improve the general living conditions, thus contributing to the development of all the region.

Iran: the country of Ayatollahs at the polls

26 February 2016. An historical date for Iran that, for the first time after the end of the international sanctions, calls its citizens to the polls for a double vote, Parliament and Assembly of Experts. This vote is also a test for President Hassan Rouhani, who, since 2013, has been promoting political and social reforms, characterised by openness towards the West. The outcome of these elections, indeed, will show both to what extend the reformist line of the President is rooted in the society and which could be the future developments for the Republic.

The first vote will be cast for the Parliament, Majlis, consisting of 290 seats, 5 of them allocated to non-Muslim religious minorities. The Parliament is the legislative body, responsible for passing legislation, approving the annual budget and signing international treaties. To date, its majority, conservative and fundamentalist, has sharply contrasted Rouhani’s policies. It is clear how a different arrangement may influence the country’s future actions, as well as its posture in the international arena. “You have created a new atmosphere with your vote” tweeted president Rouhani after the elections.

The Assembly of Experts, instead, is composed of 88 members, exclusively Islamic scholars, serving eight-year terms. In fact, it is the most important body in the country, as it elects the Supreme Leader, the most powerful political and religious position. Considering the poor health condition for the current Supreme Leader, Ayatollah Ali Khamenei, it is very likely that the newly elected Assembly will select his successor.

Therefore, it is not just a nomination of candidates: it is a choice between two opposite political paths. The first is headed by president Rouhani and characterised by openness –especially economic openness- towards the West and by an attempt to promote a positive image of the country in the world. On the other hand, Ayatollah Khamenei, conservative and openly against the West, is the spokesman of a policy that aims to pursue a resistance economy and a political system based on the power of the Revolutionary Guards.

The results of the elections, which was attended by nearly 60% of the electorate (about 33 million Iranians), could have relevant consequences for the future of the Islamic Republic. Reformists won, controlling 96 seats in Parliament, while fundamentalists and independents won respectively 91 and 25 seats. However, two aspects should be pointed out. First, the concept of “reformism” should be seen through the lens of Iranian culture. Their reformism is far away from our reformism. It’s always about fundamentalism, though hidden behind a curtain of openness towards the West. Suffice to say that the real reformists have been disqualified from the list of eligible candidates in both the Parliament and the Assembly.

Secondly, we should consider the electoral base. Reformists have gained ground in metropolitan areas, while fundamentalists obtained more consensus in rural districts, home for one third of the population. However, the eight major cities, where almost half of the Iranians lives, won only 57 of 290 seats in Parliament. Given that 52 of these seats will be allocated in a runoff in late April, it seems that games are still open.

So what next?

Perhaps greater openness, yes, but it doesn’t mean, as some people think (or hope), that Iran will turn into a Western democracy. It is likely, and desirable, a détente in the relations between Iran and the West. However, we should bear in mind that Iran is still a fundamentalist regime, based on Shari’a, which, to date, refuses to give voice to the real reformists, who advocate a significant change in the political, economic and social system. Reformism, indeed, does not mean democracy.

Moreover, it is hard to believe that fundamentalists will easily give up. As percentages show, their ideas are mainly rooted in the rural society, which can still significantly affected the final composition of the Parliament. More than this. If Teheran celebrated the outcome of the elections, the reaction in Qom, Iran’s Shiite heartland, was different. “People in the real Iran are the ones here, we respect and follow the path laid down by Ayatollah Khomeini and we must protect our values”, said a 23-year-old clerical worker.

Questions remain about the future of the country. Despite the victory of reformists, fundamentalist strands are still eradicated in both the political élite and the society. Inevitably, there will be a change: however, we should keep our feet on the ground. It remains to be seen, indeed, whether the path of reformism will actually shape an Iran closer to Western democracies, or whether the hard-line fundamentalism will find a way to regain the support lost, thus hampering the openness towards the West promoted by Rouhani in recent years.

1 3 4 5
Paola Fratantoni
0 £0.00
Vai a Inizio
×