GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Marzo 2016 - page 4

NATO-FRONTEX, joint in the Aegean Sea

We note that Frontex and NATO reached yesterday a common understanding  on the modalities of their cooperation in the Aegean Sea.

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In accordance with a EU press release, these operational modalities will maximise the effectiveness, ensure consistency and complementarity of the FRONTEX operation “Poseidon Rapid Intervention” in the area and the efforts of NATO’s support activities.

“The decision of NATO to assist in the conduct of reconnaissance, monitoring and surveillance of illegal crossings in the Aegean Sea is an important contribution to international efforts to tackle smuggling and irregular migration in the Aegean Sea in the context of the refugee crisis”.

Today’s common understanding is another example of the relevance of EU-NATO practical cooperation, already present in many crisis theatres. The EU, in facts, officially declared its trusts that its joint efforts with NATO will contribute to address the many challenges raised by the current migration crisis, and reduce the dangers of irregular crossings in the Aegean Sea.

On the other hand, NATO ships are already collecting information and conducting monitoring in the Aegean sea. Their activity will now be expanded to take place also in territorial waters.

Employed naval commanders have defined the area of activity in close consultation and coordination with both Greece and Turkey Authorities, also for access in their respective national waters.

The purpose of NATO’s deployment is not to stop or push back migrant boats, but to help Greece and Turkey, as well as the European Union, in their efforts to tackle human trafficking and the criminal networks that are fueling this crisis.

NATO’s Maritime Command has also agreed with FRONTEX on arrangements at the operational and tactical level. NATO and FRONTEX will be able to exchange liaison officers and share information in real time, to enable FRONTEX, as well as Greece and Turkey, to take action in real time.

This is an excellent example of how NATO and the EU can work together to address common challenges. Europeanaffairs.media also praises the quickness and the rapidity of this joint decision and believes that in facing the crisis, “time is the essence, and cooperation is key”.

 

Domenico Martinelli

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Libia: le divisioni interne e lo scenario politico italiano

Le divisioni interne libiche e la realpolitik di casa nostra. La vicenda legata alla liberazione dei due ostaggi italiani Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, rapiti in Libia lo scorso 20 luglio, si è intrecciata infatti attorno alle divisioni tribali del Paese nordafricano e alla reazione del premier Matteo Renzi nei confronti della stampa nazionale e degli alleati internazionali, in particolar modo degli Stati Uniti.

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La notizia della liberazione e le congetture

La notizia della scomparsa di Salvatore Failla e Fausto Piano (le due salme saranno sottoposte ad autopsia a Tripoli e non in Italia) di giovedì 3 marzo è stata seguita, il giorno successivo, da quella della liberazione degli altri due italiani e colleghi Filippo Calcagno e Gino Pollicardo. Una concomitanza particolare dopo gli scontri tra le milizie di Sabrata e i jihadisti dell’Isis e la notizia della liberazione nella stessa località quasi preannunciata dal presidente del Copasir Marco Minniti nella giornata di giovedì, quando ha assicurato che gli altri due italiani erano “in vita”.

Una concomitanza che ha lasciato scettici alcuni osservatori italiani e la vedova di Failla: “Lo Stato italiano ha fallito: la liberazione dei due ostaggi è stata pagata con il sangue di mio marito”, ha affermato.

Le difficili trattative per il rientro dei due dipendenti della Bonatti

Aldilà delle congetture, i fatti della giornata di sabato 5 marzo sono stati convulsi. Dapprima, con il presidente del Consiglio Renzi che aveva preannunciato il rientro dei due italiani entro la serata. Poi, con il complicarsi del ritorno a casa dei due italiani.

Infatti, il governo italiano aveva inviato a Sabrata, luogo dove i due dipendenti della Bonatti sono stati liberati, due funzionari. Ma le autorità della città, in aperto contrasto con Tripoli, hanno richiesto, e ottenuto, che Filippo Calcagno e Gino Pollicardo venissero prelevati anche dalla delegazioni ufficiale del governo della capitale libica: “Non siamo rispettati come doveroso – ha dichiarato al Corriere della Sera Taher Algribli, uno dei capi militari che partecipato alle operazioni militari contro il Daesh -. Vogliamo delegazioni ufficiali del Ministro degli Esteri libico. Dopotutto, i ragazzi hanno combattuto e sono morti per battere l’Isis”.

Una volta risolta la questione, l’unità di crisi della Farnesina ha dovuto gestire il difficile spostamento di Calcagno e Pollicardo, attesi domenica in Italia dopo essere transitati dalla difficile rotta da Sabrata a Mellitah, per poi essere trasportati in elicottero a Tripoli, da dove un aereo li riporterà a Roma.

Divisioni interne alla Libia

Una questione, quello dello scontro tra Tripoli e Sabrata, a testimonianza delle divisioni interne al tessuto sociale, politico e militare della Libia. Oltre alla crescente radicalizzazione dello Stato Islamico in più zone del Paese, quello che preoccupa gli osservatori internazionali è il contrasto non solo tra i governi di Tripoli e Tobruk, ma anche tra le tante fazioni e tribù locali. Un ostacolo, innanzitutto, alla formazione del governo di unità nazionale caldeggiato dalle Nazioni Unite, giudicato, con ogni probabilità, un corpo estraneo da gran parte della popolazione libica.

Raffreddamento dell’asse Roma-Washington

Oltre ad avere preannunciato il rientro di Calcagno e Pollicardo, Renzi, nella mattinata di sabato 5 marzo, si è rivolto in modo stizzito ai media e, seppur non citandoli, agli Stati Uniti, dopo le pressioni ricevute in merito ad un intervento militare italiano a breve e con un contingente significativo: “I media si affannano ad immaginare scenari di guerra in Libia che non corrispondono alla realtà. Questo non è il tempo delle forzature, ma del buon senso e dell’equilibrio”. E ancora: “Il coinvolgimento militare avverrà assieme a tutti gli alleati, americani compresi”.

Una chiara risposta all’ambasciatore statunitense John R. Philips, che aveva chiesto all’Italia un coinvolgimento attivo nella sempre più papabile azione militare in Libia, ma aveva anche escluso un impiego diretto di forze americane sul campo. E una replica alle pressioni di Francia e Regno Unito, già attive in Libia da qualche settimana.

Le ripercussioni sulla politica interna italiana

Come già accaduto a Hollande a novembre, anche Renzi deve rapportarsi con la popolarità delle scelte del suo governo in materia di politica estera. La scelta di entrare in guerra in Libia, seppur subordinata ad una richiesta del governo di unità nazionale, potrebbe portare ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo.

Ci sono tre ragioni a testimoniarlo. Il primo, la modalità d’intervento in Libia: ovvero, se a pieno regime o se solo come supporto agli alleati e alle forze di sicurezza locali. Il secondo, già intravisto negli effetti con la notizia della scomparsa dei due dipendenti della Bonatti: le ripercussioni della morte di soldati italiani inviati sul campo di battaglia. Il terzo, le Amministrative alle porte.

In definitiva, sul piano internazionale, oltre ad aspettare la formazione del governo d’unità nazionale libico, gli Stati Uniti vogliono accertarsi che l’Italia assuma il ruolo guida nell’operazione militare in Libia.

D’altro canto, questo contesto s’intreccia con il piano nazionale, dove dalla partita libica dipendono le sorti del governo Renzi.
Giacomo Pratali

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Israel and Russia, friends or enemies: A Lesson From the Past

Miscellaneous di

The mainstream rhetoric in the Middle East tends to deliberately or unintentionally portray that the Russian have always posed an imminent threat to Israel’s security neglecting the significant role the Soviets played in the creation of the Jewish State. Without such support at the very beginning, Israel would not have been born.

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Unsurprisingly, the recent military coordination between both countries regarding the on-going proxy war in Syria did not emerge out of nowhere and is not only based on common interests, but can be traced back to the history of the formation of Israel in which Russia played a vital, if often forgotten, role.

Many believed that the birth of Israel owed a lot to Stalin’s Russia. However, others argued that this was unlikely since the Stalinist period was the toughest era in the modern history of Russia due to the restrictive, intolerant and totalitarian policies that Stalin adopted. A number of discriminatory policies against Soviet Jews were carried out during the ‘Soviet Jewry’ period in the early 1950s, which led to a total embargo on Jewish immigration from Eastern Europe.

Taken into consideration the large number of Jewish officers who notably contributed in Soviet arms production during WWII, it would have been a gigantic advantage the fledgling state to increase its manpower both in number and experience.

Despite this, Stalin played an essential role in the formation of Israel particularly during the vote on the UN Partition Plan in 1947, where his Ambassador Andrei Gromyko deliver an unprecedented speech that addressed the horrible fate that Jews have undergone in Europe and their right to have their own state. Moreover, Stalin ordered his allies in the Eastern Communist States to support the establishment of Israel as the decisive bloc that provided the two thirds majority required to win the vote at the UN. Until the late 1940s, Stalin’s Russia supported Israel politically, militarily, and demographically.

Demographically, the USSR made a decisive contribution in increasing Israel’s manpower in which it was one-third of total inhabitants at that time. Stalin supported the Jewish Agency immigration operations, where almost 67% of Jewish immigrants who arrived in Palestine came from Eastern Europe. He also supported Israel politically at the UN through voting against resolution 194, which demanded immediate return of 700,000 Palestinian refugees forcefully expelled from their homeland and absolved Israel of responsibility and blamed Britain.

Militarily, Stalin permitted the Skoda factory to supply the struggling Israeli forces with heavier artillery during the 1948 War. By the early 1950s, Israel received military aid from Stalin’s Russia that exceeded its expectation without having to worry about its relationship with Western powers. Even David Ben-Gurion publicly announced that without the Soviet support at the very beginning, Israel would have never survived the full-scale attack of Arab armies.

However, the explicit objectives of the Soviets support to Israel remained ambiguous. So why did Joseph Stalin support Israel despite of his totalitarian policy? What was his strategy?

It was obvious that Stalin had two complicit strategic ends. Firstly, he aimed at supporting the creation of Israel in order to bring disorder and political unrest to the region and hence, seize the influence of the British Empire. Secondly, he believed that Israel would become a strong ally to the USSR particularly with its socialist ideology that it adopted in the first few years of its establishment.

In the 1950s, Golda Meir put Israel in a neutral position during the Cold War and refused to militarily participate alongside the US in the Korean War. However, Israel relation with Moscow begun to deteriorate because of a number of political events that provoked Stalin’s power, particularly the incident of 1953 Doctor’s Plot.

Israel-USSR relation encountered another drop following Stalin’s death in 1953, where his successors relatively turned against Israel through signing arm deals with Arab states such as the Egyptian-Czechoslovak deal in 1955. As late as 1980s, the USSR signed billion of dollars of arm deals with its Arab clients, which altered the balance of power in the region. As Ariel Sharon declared that Israel faced two sources of existential threats; the Arab military build-ups and the Soviet expansionist policy that supported the Arabs politically and militarily.

Following the dissolution of the USSR, Israeli-Russian relation was restored to the extent that both countries have been sharing common interests in the periphery of the Middle East. The recent bilateral efforts between both countries to avoid unintended conflicts of their airpower in Syria, explicitly demonstrate that Putin’s Russia is still committed to Israel’s security. Perhaps the recent targeted-killing strike of Samir Al-Kuntar in Syria portrays the close Israeli-Russian relation. But not as close as in late 1940s, where, without the Soviet support at the very beginning, Israel would not have seen the light.

Redazione

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New people inserted in the anti-North Korea “Black list”

 

Today, the Council of the European Union – which, we remember is the Union’s executive body – has added 16 persons and 12 entities to its “black list” of individuals and companies affected by restrictive measures taken by europe against the conduct of the Democratic People’s Republic of Korea.

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The decision reflects the new requirements imposed by the 2270 resolution of the United Nations Security Council adopted on the 2nd March 2016 in response to the test launches of nuclear rockets by North Korea, which took place on January 6 and 7 February.
The formal proceedings of this diplomatic initiative will be published in the EU Official Journal tomorrow. The EU’s restrictive measures against North Korea have been introduced for the first time on 22 December 2006. Current measures comply with all the resolutions of the UN Security Council adopted after the launches and nuclear tests performed by North Korea, using ballistic missile technology, and also include additional measures taken by the EU autonomously. Such decision is to hit the North Koreans launch program policies.

 

 

The most important measures include import and export bans for weapons, and every object or technology that could contribute to such activities. Both the UN and the EU, independently, have also imposed restrictive measures for financial and commercial activities and transport services.

With this initiative, today, the European Union has strengthened its latest measures, which were decided on 22 April 2013, implementing the UN Security Council Resolution. 2094.

 

Domenico Martinelli

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Cina: sì a base navale nel Corno d’Africa

Asia di

Non solo infrastrutture civili per la Cina in Africa. Secondo quanto riportato il 25 febbraio scorso dalla Reuter, il gigante asiatico ha iniziato la costruzione di una base navale sulle coste del Gibuti la cui funzione, ufficialmente, sarà quella di supportare le missioni umanitarie, di peacekeeping, e di protezione nell’area del’Africa Orientale. Con questa operazione, la Cina diventerebbe il terzo paese, con Francia e Stati Uniti, ad avere una base militare navale a Gibuti, nella regione del Corno d’Africa, in posizione strategica sia dal punto di vista militare che da quello del controllo delle rotte commerciali. Ma al di là dell’ingranaggio, è il meccanismo complessivo quello che conta. La Cina vuole allargare progressivamente la propria sfera di influenza sullo scacchiere internazionale, mettendo in piedi un network di infrastrutture civili e militari che possano supportare operazioni su un piano che possa ben presto definirsi globale.

 

La nuova base, che dovrebbe nascere a Obock, sulle coste settentrionali di Gibuti, si troverà a 7700 chilometri da Pechino e sarà la prima installazione navale al di fuori dei confini nazionali. L’iniziativa dimostra come la Cina stia progressivamente calzando le scarpe della grande potenza e come la sua visione strategica si stia evolvendo, proiettandosi verso un futuro nel quale dovrà esercitare la sua leadership a livello mondiale.

 

La Cina già da diversi anni mantiene una presenza costante nell’area dell’Oceano Indiano e del Golfo di Aden e fa parte della missione ONU contro la pirateria, avviata nel 2008. Da allora le navi da guerra cinesi hanno attraccato nei porti di Gibuti oltre 50 volte e la nuova installazione risponderebbe, in prima istanza, all’obiettivo di garantire un punto di attracco e rifornimento maggiormente organizzato. Ma gli interessi cinesi vanno ben al di là delle operazioni anti-pirateria. Oggi, la nuova base potrebbe servire da snodo della catena logistica di supporto alle operazioni di peacekeeping sotto bandiera ONU in Africa. Domani, potrebbe diventare la testa di ponte per ogni intervento cinese nel continente, in difesa dei propri interessi strategici nazionali. Intanto, rafforzerebbe l’influenza cinese sull’Oceano Indiano, permettendo di organizzare missioni con velivoli di pattugliamento marittimo direttamente dalle coste africane.

 

Nel corso degli ultimi anni, l’attivismo cinese all’estero ha prevalentemente riguardato la creazione di infrastrutture civili e commerciali, sulla base di accordi bilaterali di collaborazione e sviluppo. La componente militare è sempre esistita, ma è rimasta a lungo sotto traccia. Oggi questo approccio sta cambiando e Pechino è sempre più intenzionata a pubblicizzare il dispiegamento della propria flotta al di là del mare domestico, dimostrando minori reticenze ad assumere apertamente un ruolo internazionale, anche a livello militare.

 

La base navale di Gibuti non sarà un semplice approdo di rifornimento, ma offrirà alla marina cinese ampie capacità logistiche. Con essa aumenterà la presenza cinese a terra, sarà possibile operare, presumibilmente, una manutenzione completa delle navi, saranno incrementate le capacità di trasporto e stoccaggio di munizioni e pezzi di ricambio, al suo interno saranno costruite strutture per gli equipaggi ed infrastrutture per l’aeronautica.

 

L’espansione cinese nell’area dell’Oceano Indiano non dipende, ovviamente, solo dal futuro di Gibuti. Le navi cinesi approdano regolarmente  in molti porti disseminati tra Sri Lanka, Pakistan, Oman, Yemen e Seychelles e, per il futuro prossimo, Pechino sta valutando la possibilità di stringere nuovi accordi con Kenya, Tanzania e Namibia per rafforzare e differenziare ulteriormente le proprie opzioni logistiche. Creare hub logistici integrati per la marina, in questi paesi, non sarà semplice però, per ragioni, di volta in volta, politiche, di sicurezza o di eccessiva concorrenza.

 

Al di là del Corno d’Africa e dell’Oceano indiano, la marina di Pechino ha allungato negli ultimi anni la gittata delle sue incursioni, visitando gli Stati uniti e diversi paesi europei, africani e dell’America Latina. I vascelli cinesi hanno attraversato il Canale di Suez, quello di Panama ed hanno doppiato capo Horn e Capo di Buona Speranza, per spingersi poi nelle acque del Mar Nero, del Mare del Nord e di Bering. Mentre le missioni navali si protraggono fino ai limiti delle acque navigabili del globo, aumenta la necessità di nuovi approdi affidabili, per il rifornimento e la logistica. Un esigenza destinata a diventare sempre più importante nei prossimi anni.

 

Per ora, la marina cinese continua a fare ampio affidamento sulle navi di supporto, per operare rifornimenti in alto mare quando necessario o per reintegrare le scorte di armi e materiali. In questo campo, gli investimenti cinesi sono aumentati in modo massiccio e quest’anno la marina ha varato due nuovi vascelli per il rifornimento in navigazione Type 903A. E’ stata inoltre avviata la costruzione del nuovo Type 901nei cantieri di Guangzhou. La nave, una volta ultimata, sarà capace di trasportare 45 mila tonnellate, un valore di carico mai raggiunto prima.

 

Se paragonata agli Stati Uniti, la Cina sta ancora compiendo i primi passi sulla via della realizzazione di un network logistico globale per la sua marina. La supremazia americana non si basa solo sul numero di navi ma anche sulla vasta disponibilità di porti amici in cui attraccare per fare rifornimento ed operare interventi di manutenzione. La Cina, per continuare a crescere sui mari e cementare il suo status di nuova potenza globale, dovrà concentrare i suoi sforzi nel rafforzamento delle capacità di rifornimento in mare e nella realizzazione progressiva di una propria rete di attracchi sicuri.

 

Il mare, per Pechino, è ancora troppo grande.

 

Foto: Wikipedia Commons

China: yes to naval base in the Horn of Africa

Asia @en di

Not only civil infrastructure for China in Africa. As reported on February 25 by Reuter, the Asian giant has begun the construction of a naval base on the coast of Djibouti whose function, officially, it will be to support humanitarian, peacekeeping and escort missions in the area of Eastern Africa. China would become the third country, with France and the United States, to have a naval military base in Djibouti, in the Horn of Africa, in a strategic position from a military point of view and from that of the control of commercial routes. Apart from the gear there, is the overall mechanism that matters. China wants to gradually expand its sphere of influence on the international stage, by setting up a network of civilian and military infrastructure that could support operations on a plan that would soon be called global.

The new base, which should be born in Obock, on the northern coast of Djibouti, will be at a distance of 7700 km from Beijing and will be the first naval installation outside the national borders. The initiative demonstrates how China is gradually wearing the shoes of the great power as its strategic vision is evolving toward a future in which it will exercise its global leadership.

China for many years has been maintaining an international presence in the Indian Ocean and the Gulf of Aden and is part of the UN mission against piracy, launched in 2008. Since then, the Chinese warships docked in the ports of Djibouti over 50 times and the new installation would respond, in the first instance, the objective of ensuring a more organized berth and supply point. But China’s interests go far beyond the anti-piracy operations. Today, the new base could serve as the main joint in the chain of logistical support for peacekeeping operations under the UN flag in Africa. Tomorrow, it could become a bridgehead for any Chinese intervention in the continent, in defense of its national strategic interests. Meanwhile, it will strengthen the Chinese influence on the Indian Ocean, allowing Beijing to organize missions of maritime patrol aircraft directly from the African coast.

Over the past few years, China’s activism abroad mainly concerned the creation of civil and commercial infrastructures, on the basis of bilateral cooperation and development agreements. The military component has always existed, but has long remained concealed. Today this approach is changing and Beijing is increasingly determined to publicize the deployment of its fleet beyond the domestic sea, proving less reticence to openly take on an international role, even militarily.

The naval base in Djibouti will not be a simple supply landing, but will offer Chinese navy extensive logistical capabilities. With it, it will increase the Chinese presence on the ground, it will be possible to operate, presumably, a complete maintenance of ships, will be increased the ability to transport and storage ammunition and spare parts, will be built facilities for the crews and infrastructure for the aeronautics.

The Chinese expansion in the Indian Ocean does not depend, of course, only on the future of Djibouti. Chinese ships arrive regularly in many ports scattered between Sri Lanka, Pakistan, Oman, Yemen and Seychelles and, for the foreseeable future, Beijing is considering whether to make new agreements with Kenya, Tanzania and Namibia to further strengthen and differentiate its logistic options. To create integrated logistics hub for the Navy, in these countries, won’t be easy, however, for reasons which are, from time to time, political, of security or related to excessive competition.

Beyond the Horn of Africa and the Indian Ocean, the Beijing’s navy has extended the range of its raids in the last years, visiting the United States and several European countries, Africa and Latin America. The Chinese ships have passed through the Suez Canal, the Panama Canal and have doubled Cape Horn and the Cape of Good Hope, then to go into the Black Sea, the North Sea and the Bering. While the naval mission reached the limits of the navigable waters of the globe, it increases the need for more reliable landings for refueling and logistics. A requirement to become increasingly important in the coming years.

For now, the Chinese navy continues to rely heavily on support ships, to operate supplies on the high seas when needed or to replenish stocks of weapons and other materials. In this field, Chinese investments have increased massively, and  this year the navy has launched two new vessels Type 903A, for refueling at sea. It was also launched the construction of the new Type 901 in Guangzhou shipyards. The ship, once completed, will be capable of transporting 45,000 tons, a value never achieved before.

Compared to the United States, China is still in its first steps towards the realization of a global logistics network for its navy. American supremacy is not only based on the number of ships, but also about the wide availability of friendly ports in which to dock for refueling and maintenance works. China, to continue to grow on the seas and cement his new status as a global power, will have to concentrate its efforts in the strengthening of supply capacity at sea and in the progressive realization of a network of safe moorings.

The sea, for Beijing, is still too large.

 

Luca Marchesini

 

Terrore in Turchia: Curdi o Erdogan?

Medio oriente – Africa di

Due donne, verosimilmente appartenenti a gruppi di estrema sinistra, hanno aperto il fuoco ad Ankara uccidendo due vittime. La notizia è delle ultime ore. Qualche giorno prima, il 17 febbraio, un attentato terroristico ha provocato sempre ad Ankara l’uccisione di 28 persone, per lo più militari ed il ferimento di altre 64.

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Nella mattinata a Diyarbakir, principale città curda nel sud-est della Turchia, un’altra esplosione ha freddato 7 soldati turchi. La paternità, come annunciato direttamente attraverso il sito portavoce, è stata rivendicata dal Kurdistan Freedom Hawks (Tak), gruppo militare curdo. L’attentato suicida organizzato dai Falconi della libertà è stato organizzato per osteggiare quella che viene definita “repubblica turca fascista” e per contrastare le politiche anti curde del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Kurdistan Freedom Hawks si è allontanato nel 2005 dal Pkk, il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan che, dall’estate scorsa, ha rotto la tregua fino a quel momento stabilita con Ankara.

Il gioco delle elezioni, organizzate a giugno e poi ripetute qualche mese dopo per volere Erdogan, orfano della maggioranza persa grazie all’impennata del partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, ha provocato una nuova frattura. Attentati, persecuzioni, tentativi, riusciti, di imbavagliare la stampa nazionale hanno devastato il paese e confuso la comunità internazionale a proposito della paternità degli stessi. I curdi si dichiarano per lo più estranei, pronti a scaricare la responsabilità degli attacchi a Erdogan che a sua volta li rimbalza su di loro.

Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha coinvolto nelle attribuzioni di responsabilità relative all’attentato anche le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG operative in Siria, che prontamente si sono definite estranee. A parere del Comando Generale delle YPG, l’accusa serve ad Ankara per aprire la strada a un’offensiva nel Rojava e in Siria, dove le forze delle Unità di Difesa del Popolo stanno difendendo i curdi da ISIS e Al-Nusra. Sicuramente l’ attentato del 17 febbraio, ha offerto la possibilità a Erdogan di ribadire ancora una volta ad Obama le sue convinzioni, relative al profilo terroristico del Partito siriano dell’Unione democratica curda (Pyd), al quale l’YPG è legato, insinuando che le armi a loro fornite dalla coalizione vengano prontamente consegnate a Isis. Ciò che in pratica il governo di Ankara pare faccia da mesi. Erdogan vorrebbe che il Pyd fosse inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma Washington tiene duro e non si piega ai desideri di Erdogan. I curdi, vessati dalla Turchia, sono ora al centro della crisi che sta sconvolgendo il Medio Oriente. La regione autonoma del Kurdistan iracheno vive ancora in uno stato di grazia mentre attorno si sta scatenando l’inferno. Le milizie curde sono impegnate in Siria contro Isis e la coalizione internazionale continua a dare loro fiducia anche per ragioni logistico e tattiche.

I gruppi curdi presenti e operativi in Turchia sono diversi. La sigla più nota è quella del PKK, il partito dei lavoratori curdi e simbolo del movimento separatista che Abdullah Ocalan ha fondato in Turchia. Il Pkk è considerato a tutti gli effetti gruppo terroristico per Stati Uniti, Unione Europea e Turchia. La lotta contro il governo di Ankara ha provocato dal 1980 circa 40.000 vittime. Il testimone è passato oggi a due organizzazioni, il Movimento Patriottico Giovanile, organizzazione paramilitare formata da simpatizzanti del PKK e le Unità di Protezione Civile. Al loro fianco si schierano i Falconi della Libertà, i Tak, un tempo ramo del PKK. A livello politico, i curdi sono rappresentati dall’HDP di Demirtas, il Partito Democratico Popolare, coalizione di sinistra nella quale si riconoscono anche altre minoranze turche, le stesse che hanno decretato il suo successo durante le elezioni, poi invalidate, del giugno scorso nel quale l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza. Gli attentati che hanno insanguinato la Turchia nel periodo trascorso fra i due appuntamenti elettorali, e che Erdogan ha prontamente attribuito ai curdi, ha permesso all’AKP di impossessarsi nuovamente della maggioranza.
In Siria i curdi sono rappresentati dall’Unione Democratica curda, il PYD, che ha ritagliato nel nord del paese una porzione di territorio, il Rojava. I turchi considerano il PYD come il ramo siriano del PKK e sono contrari alla creazione di un corridoio curdo in Siria. Usa e Russia, al contrario, hanno fino ad ora sostenuto l’operato del PYD, che si è rivelato uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i crimini compiuti dallo Stato Islamico. Le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG sono le milizie associate al PYD nelle quali è inserito anche una componente femminile, definite YPJ. Le YPG hanno attirato centinaia di giovani curdi dalle città della Turchia pronte a difendere le roccaforti curde in Siria. E’ su di loro che Ankara ha cercato di attirare le accuse dell’attentato del 17 febbraio scorso poi smentite dallo stesso movimento. Ed è su di loro che i militari turchi dirigono gli attacchi che ufficialmente dovrebbero essere rivolti ai terroristi dell’Isis.
In Iraq i Peshmerga, l’esercito ufficioso della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, hanno svolto un ruolo fondamentale nel tentativo di contrastare la penetrazione dello Stato Islamico. In questa porzione eletta di territorio curdo, continuano a rivaleggiare i due partiti di punta, il democratico PDK e il patriottico PUK. Sulla bilancia degli interessi, i piatti – curdi da un lato e turchi dall’altro – continuano a danzare. La speranza curda è di ottenere vantaggi per coronare il sogno, mai svanito, di riconquistare una patria. La speranza turca è di arrivare a resuscitare i fasti dell’antico impero ottomano. Ma se da un lato i curdi stanno guadagnando con il sangue la fiducia della comunità internazionale, i turchi fanno di tutto per demolire agli occhi della stessa la credibilità curda. In questo clima è lecito pensare a reazioni violente da parte dei curdi, da anni oppressi, ma non esclusive. Erdogan è abituato a costringere quando non riesce a ottenere spontaneamente. E la situazione che in Turchia sta diventando sempre più drastica ne è una prova.

 

Monia Savioli

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Security and privacy: the eternal dilemma

Europe/Innovation/Policy di

“Security and privacy. The eternal dilemma “. Sometimes it is so. Sometimes not. From a relative and business perspective, privacy is one of the fundamental aspects of security, meaning that a bug in the privacy system will involve considerable damage to the company and its customers.

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In the enterprise field, and in almost the whole world, the issue of privacy is recognized as one of the fundamental ones, which may imply – in the larger companies, the separation of the post of privacy “officer” or “consultant” from the most generic post of “security manager”. But from an absolute point of view, privacy and security are two titans destined for confrontation. What and how you oppose? Undoubtedly in Europe there is a double need: on one hand making Europe citizens grow and progress in terms of human rights and individual rights, and perhaps privacy, at first glance it would seem one of the most important individual rights almost to rise, nowadays, in the category of natural rights.

From another point of view, it is necessary that national and European institutions literally invade the privacy of residents and foreigners who apply to reside in the old continent. This, of course, for clear reasons of public order and security, in order to counteract the sad phenomenon whom every day we hear and read: from illegal immigration to migrants smuggling, from terrorism to money laundering.

And that’s why Europe is taking on regulatory instruments to govern on the one hand the duties / rights in the field of private citizens and, secondly, the duties / rights of the institutions towards the citizens. We are talking, respectively, of the Regulation and the Directive on Data Protection. “Regulation” and “directive” are two very general words, which bear far more complex legal and long nomenclatures, but, in the data protection background, interested people can immediately understand what they refer to.

In both normative sources, upcoming promulgation – it  seems that both measures have passed the steps of the discussion in trilogue – roles, responsibilities, recipients and “actors” of the data protection system and, consequently, privacy are defined and soon they will cover Europe, the United States and Third Countries. Much importance will be obviously assumed by the national controller authorities, which are already partly coordinated by the European Data Protection Supervisor.

From an operational point of view and spare change, however, it should change little, but it will be very useful once and for all to give uniformity to the individual national laws and procedures to provide common data access and litigation systems.

In any case, to date, the European and national institutions acting in the field of security are – in extreme and deep synthesis – legitimate holders of power related to the use, collection and retention of data, to fulfill their purposes and founding their institutional purposes. The so called “Swedish Initiative”, the “Prüm Decisions” are nothing more than legal attempts, already adopted or in the process of transposition in national law, in order to provide a better use of these information and their exchange between Authorities.

And this is the knot of the question: according to the European and national case-law, the compression of the right to privacy has so far been generally considered correct, if the same interest conflicts with higher interests, such as the right to life, or the principle that it must a crime must be prevented or brought to completion. In fact these – let’s call them philosophical – principles, are underlying the legislative existence of disparate databases – even if, some of them, are not yet operational – that support justice and European police forces in their daily mission of prevention and contrasting crime.

In this specific sector there have been fundamental judgments of the European Court of Justice who have disciplined and completely redesigned the architecture of data protection, especially in the economic relations with major US giants, which are in fact the monopoly of social communication and service providers online.

For example, think about the famous sentence on the “Data Retention” (to Security-vs-Privacy-420x300which we refer integrally) that made completely skip the agreements so far perfectly and “efficient” between EU and US. Before the sentence, every non-EU state, which managed European citizens’ data was in fact free to manage by itself: or rather, despite having to ensure an adequate data protection regime, it was quite free from forms of controls and inspections by the EU institutions. The  so called principle of the “Safe Harbour” proved to be insufficient to protect the privacy of citizens who entrusted to the giants of the global telematics their data, their own interests and their own photographs. Following the judgment, the “Safe Harbour” has been completely revised and replaced by a safer agreement called “Privacy Shield “.

European institution which is tasked with signing these agreements is the Commission. The agreement has developed has developed a new legal system putting, so to speak, “the stakes” for the United States, providing clear guarantees and transparency requirements applicable to access to data from the government of the US, by imposing specific obligations on companies and a robust application, providing effective protection of the rights of EU citizens with different possibilities of litigation and devising a mechanism of annual joint review of the effectiveness of the shield.

So, to sum up, Europe is not in contrast with common sense: on the one hand provides for the guarantee of the right to privacy issues and fundamental rights, on the other manages to balance strongly her action of collecting information necessary to safeguard of its citizens, defending its interests and its autonomy from friends across the Atlantic.

On this dilemma some very strong doubts remain, especially with regard to national legislation. Consider, for example, in countries where prostitution is illegal. Many political movements or currents of thought are clamoring for the legalization and the drafting of specific rules. A writer’s opinion is that a law in matter can never be enacted, precisely for reasons of privacy, even if the “prostitution” topic is touches many others: human rights, gender-based violence, exploitation, immigration, acts of disposal of his own body and so on.

If a law to regularize and reinstitute prostitution would issued, the same would conflict – without limitation – with rules requiring the accommodation lists to be communicated to the authorities (and thus to enter into the databases). Inevitably a client and a prostitute would be identified, and a profile of the people who attend the same prostitute or who usually frequents that area could equally be traced or, worse, sexual habits (which are, for now, quite rightly, a as sensitive) could be profiled. Again, it is essential for the authorities to know hotel customer records (that can be crucial in resolving judicial and investigation cases) and hotel owners are oblige to communicate them.

Here the dilemma: to protecting the public interest or  the individual interests?

Domenico Martinelli

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Sicurezza e privacy: l’eterno dilemma

EUROPA/INNOVAZIONE/POLITICA/Varie di

“Sicurezza e privacy. Eterno dilemma”. Talvolta è così. Talvolta no. Da un punto di vista relativo ed aziendale, la privacy rientra tra gli aspetti fondamentali propri della sicurezza, significando che un baco nel sistema di privacy comporterà ingenti danni all’impresa ed ai suoi clienti.

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In campo aziendale, ormai a livello mondiale, il problema della privacy è riconosciuto quale uno di quelli fondamentali, tali da implicare – nelle aziende più grandi, la separazione della figura del privacy “officer” o “consultant” da quella più generica del “security manager”.

Ma da un punto di vista assoluto, privacy e sicurezza sono due titani destinati allo scontro. Quanto e come si contrastano? Indubbiamente in Europa assistiamo ad una doppia esigenza: da un lato quella di far crescere e progredire i cittadini europei sotto il profilo dei diritti umani e dei diritti individuali, e la privacy forse, al primo colpo d’occhio sembrerebbe uno dei più importanti diritti individuali, quasi da assurgere, al giorno d’oggi, nella categoria dei diritti naturali. Da un altro punto di visita occorre che le istituzioni nazionali ed europee invadano letteralmente la privacy dei residenti e degli stranieri che chiedono di soggiornare nel vecchio continente.

Questo, com’è ovvio, per chiari motivi di ordine e sicurezza pubblica, al fine di contrastare i tristissimi fenomeni di cui tutti i giorni sentiamo e leggiamo: dall’immigrazione clandestina, al traffico di migranti, dal terrorismo, al riciclaggio di danaro. Ed è per questo che l’Europa si sta dotando di strumenti normativi volti a disciplinare da un lato i doveri/diritti dei cittadini in campo privato e, dall’altro, i doveri/diritti delle istituzioni nei confronti dei cittadini. Stiamo parlando, rispettivamente, del Regolamento e della Direttiva sulla Protezione dei dati. “Regolamento” e “Direttiva” sono due parole molto generiche, che recano invece nomenclature giuridiche molto più complesse e lunghe, ma che, nel settore della protezione dati, fanno immediatamente capire a cosa si riferiscono. In entrambe le fonti normative, di imminente promulgazione – pare che entrambi i provvedimenti abbiano superato gli step della discussione in Trilogo – si definiscono ruoli, competenze, soggetti destinatari ed “attori” del sistema di protezione dati e, conseguentemente, di privacy, che presto riguarderanno Europa, Stati Membri e Paesi c. d. Terzi. Molta importanza verrà ovviamente affidata, si presume, alle autorità nazionali di controllo, ossia ai rispettivi Garanti della Privacy nazionali, che sono già in parte coordinati dal Garante Europeo per la Protezione dei Dati.

Da un punto di vista operativo e spicciolo, comunque, dovrebbe cambiare poco, ma sarà utilissimo dare una volta per tutte uniformità alle singole legislazioni nazionali e prevedere comuni procedure di accesso ai dati e di contenzioso in materia.

In ogni caso, ad oggi, le istituzioni Europee e nazionali che agiscono nel campo della sicurezza sono – in estrema e profonda sintesi – legittimamente titolari delle potestà relative all’uso, alla raccolta ed alla detenzione dei dati, per adempiere ai loro fini istitutivi ed ai loro scopi istituzionali. La c. d. “Iniziativa Svedese”, le c. d. “Decisioni di Prüm” altro non sono che tentativi normativi, già recepiti od in corso di recepimento per migliorare l’uso delle informazioni ed il loro scambio tra Stati membri.

Ed è qui il nodo centrale della questione: secondo la giurisprudenza europea e nazionale, è stata sinora generalmente considerata giusta la compressione del diritto alla privacy, se lo stesso interesse confligge con interessi superiori, quale il diritto alla vita, od il principio secondo cui occorre evitare che un reato venga perpetrato o portato a compimento. E sono di fatto questi i principi, per così dire, filosofici, che sottendono all’esistenza normativa delle più disparate banche dati – talune ancora nemmeno in funzione – che supportano la giustizia e le forze di polizia europee nella loro quotidiana missione di prevenzione del e contrasto del crimine.

Nello specifico settore ci sono state fondamentali sentenze della Corte di Giustizia Europea che hanno disciplinato e completamente ridisegnato l’architettura della protezione dati, specie nei rapporti economici  con i grandi colossi statunitensi, che sono di fatto i monopolisti della comunicazione social e dei provider di servizi online. Ad esempio, si pensi alla famosa sentenza sulla “Data Retention” (a cui facciamo integrale rimando) che ha fatto completamente saltare gli accordi finora perfettamente “efficienti” tra UE e USA. Ogni stato esterno all’UE, che gestisca materialmente dei dati di cittadini europei, prima era di fatto libero nella gestione stessa: o, meglio, pur dovendo assicurare un adeguato regime di protezione dei dati era abbastanza svincolato da forme di controllo e verifica da parte delle istituzioni comunitarie.

Nel caso degli usa si trattava del c. d. principio del “Safe Harbour”. Rivelatosi insufficiente a tutelare la privacy dei cittadini che affidavano ai colossi della telematica mondiale i propri dati, i propri interessi e le proprie fotografie, a seguito della sentenza il “Safe Harbour” è stato completamente rivisto e rimpiazzato dal più sicuro accordo denominato “Privacy Shield”. Istituzione europea deputata alla sigla di tali accordi è la Commissione che, con il nuovissimo sistema giuridico ha messo, per così dire, i paletti agli Stati Uniti, prevedendo garanzie chiare e obblighi di trasparenza applicabili all’accesso ai dati da parte del governo degli Stati Uniti, imponendo obblighi precisi alle società e una robusta applicazione, prevedendo una protezione effettiva dei diritti dei cittadini dell’UE con diverse possibilità di ricorso e ideando un meccanismo annuale di riesame congiunto dell’efficacia dello scudo.

Quindi, riassumendo, l’Europa non è in controtendenza con il buon senso: se da un lato prevede la giusta garanzia di privacy per questioni e diritti fondamentali, dall’altra riesce a bilanciare con forza la propria azione di raccolta delle informazioni necessarie alla salvaguardia dei suoi cittadini, difendendo i suoi interessi e la sua autonomia anche dagli amici oltre l’Atlantico.

Su questo dilemma permangono comunque fortissimi dubbi, specie con riguardo alle legislazioni nazionali. Si pensi, ad esempio, ai paesi in cui è illegale la prostituzione. Molti movimenti politici o semplici correnti di pensiero chiedono a gran voce la legalizzazione e la redazione di apposite norme in materia.

A parere di chi scrive una norma in materia non potrà mai essere promulgata, proprio per motivi di privacy, anche se il topic “prostituzione” è un argomento che ne lambisce molti altri: diritti umani, violenza di genere, sfruttamento, immigrazione, atti di disposizione del proprio corpo e via dicendo. Se fosse emanata una legge che regolarizzi e, di fatto, re-instituisca la prostituzione, la stessa confliggerebbe – a puro titolo esemplificativo – con le norme che impongono alle strutture ricettive di comunicare alle Autorità (e quindi di far inserire nelle banche dati) quali siano i loro avventori.

Inevitabilmente un cliente ed una prostituta verrebbero identificati, e potrebbe altrettanto venir tracciato un profilo delle persone che frequentano quella prostituta o che frequentano quella determinata area o che, peggio, si diversificano per le loro abitudini sessuali (che sono, ad oggi, giustamente, un dato sensibilissimo). Eppure è fondamentale per le Autorità conoscere quali siano gli avventori degli alberghi, che sono soggetti alle leggi di pubblica sicurezza e che producono registrazioni dei clienti che possono rivelarsi fondamentali nella risoluzione di casi giudiziari ed investigativi.

Qui il dilemma: tutela degli interessi pubblici o tutela degli interessi individuali?

Domenico Martinelli

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Libya: Rome, two Italian hostages killed

BreakingNews @en/Europe di

“In connection to the circulation of several images of the victims, apparently Westerners, of a shootout in Libya’s Sabratha region, the Farnesina informs that from the images, albeit in the absence of bodies, it could be possible to identify two of the four Italians who worked for the Bonatti construction company and who were kidnapped in July 2015.  More specifically, the images could be of Fausto Piano and Salvatore Failla. The Farnesina has already informed the families. However, despite efforts to verify the news, confirmation thereof is made difficult due to the absence of the bodies ”. On March 3, Italian Ministry of Foreign Affairs Thursday confirmed that Fausto Piano, 61, and Salvatore Failla, 47, were killed in Libya. While the other two Italian coworker kidnapped last July, Filippo Calcagno and Gino Pollicardo, “are still alive “, as reported by the president of Copasir Marco Minniti.

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News item

On March 3, Fausto Piano and Salvatore Failla were probably killed during a shoot-out near Sabratha between Tripoli’s security forces, led by Fajr Libya, and an ISIS brigade. According to local sources, the two Italians would be hit while they were traveling aboard a jihadist convoy.

Images on web and the statement of Italian government certified their kill. But there are two doubts. The first one is about the kidnapping of July 20, 2015 because the four Bonatti employeers returned to their home not by sea, but by car. An unusual choice seeing that Eni and Bonatti workers generally choose the first option.

The second one is about imprisonment during the following months, when a claim never arrived. Even until late February, local sources excluded ISIS responsibility. But what happened last Wednesday showed the opposite because jihadists used the two Italians as a shield. While men Fajr Libya were not aware that in Daesh convoy were present Fausto Piano and Salvatore Failla.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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