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Caso Navalny, la condanna dell’UE e le manifestazioni in Russia

EUROPA di

Lo scorso agosto, il principale oppositore del presidente Putin, Alexei Navalny, è stato ricoverato in terapia intensiva per un avvelenamento di cui è accusata la sicurezza russa. L’inchiesta internazionale è durata diversi mesi e per tutto il periodo della convalescenza Navalny è stato ospitato in Germania, pronto a fare rientro in Russia una volta migliorate le sue condizioni di salute. Consapevole dei rischi a cui andava incontro, Navalny ha deciso di tornare in patria domenica 17 gennaio ma, una volta atterrato all’aeroporto di Mosca, è stato subito fermato dagli agenti aeroportuali e consegnato alle autorità giudiziarie russe. Il suo arresto ha dato luogo a molte reazioni, scatenando una serie di proteste in Russia e forti prese di posizione da parte delle istituzioni europee.

Alexei Navalny, dall’avvelenamento all’arresto

Il più noto dissidente politico dell’attuale presidente russo Vladimir Putin, nonché uno dei migliori giornalisti investigativi, è al centro dell’attenzione già da diversi anni per la sua attività politica ed è stato più volte arrestato dalle autorità russe. Dopo anni di arresti, tentati omicidi e avvelenamenti, lo scorso 20 agosto, durante un volo tra Tomsk e Mosca, ha accusato dei malori, costringendo l’aereo ad un atterraggio di emergenza a Omsk. Non senza difficoltà è stato poi trasferito a Berlino, dove l’equipe di medici che lo ha preso in cura ha confermato l’avvelenamento avvenuto con una variante del novichok, un agente nervino di produzione russa: questa versione è stata poi confermata anche da altri laboratori indipendenti, nonché dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.

Navalny ha trascorso un primo periodo in coma, dopodiché si è risvegliato ed ha passato la sua convalescenza in Germania, consapevole che sarebbe voluto tornare in patria non appena possibile. Durante tutto il periodo, il governo russo ha ricevuto numerose accuse da parte della comunità internazionale e delle testate giornalistiche che hanno indagato in merito, fino a ricostruire gli spostamenti di agenti che per anni hanno pedinato l’oppositore di Putin. Sembrerebbe che degli agenti dell’FSB, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa, facciano parte di un gruppo clandestino specializzato nell’uso di tossine e sostanze velenose che seguiva Navalny sin dal 2017, dopo aver lanciato la sua candidatura alle presidenziali del 2018.

Pur consapevole della propria posizione rischiosa e convinto che dietro il proprio avvelenamento ci sia anche il presidente Putin, Navalny è comunque voluto tornare in Russia appena terminato il periodo di convalescenza. Fermato all’aeroporto di Mosca il 17 gennaio dalle autorità aeroportuali, Navalny è stato consegnato alle autorità giudiziarie russe che ne hanno disposto l’arresto in attesa di un’udienza che dovrà valutare l’accusa: secondo gli agenti, l’oppositore di Putin ha violato gli obblighi di una precedente sentenza detentiva che risale al 2014. Lo stesso governo russo aveva annunciato nei giorni precedenti al suo rientro che, una volta atterrato, sarebbe stato arrestato per questo motivo e nonostante la grande partecipazione popolare dei suoi sostenitori che lo attendevano in aeroporto, il suo destino è stato proprio questo, con una custodia cautelare di 30 giorni. Dopo 3 giorni, la polizia russa ha arrestato anche alcuni collaboratori di Navalny, tra cui la portavoce, gli avvocati e un altro membro dell’organizzazione.

Le reazioni dell’Unione europea

Non appena si è diffusa la notizia dell’arresto di Navalny, la comunità internazionale ha rinnovato la propria posizione in merito facendo sentire la propria voce e non sono mancate le accuse europee. In primo luogo, il Parlamento europeo ha preso una seria posizione adottando una risoluzione e richiedendo il rilascio “immediato e incondizionato” di quello che, a tutti gli effetti, è un prigioniero politico. In particolare, l’Eurocamera ha chiesto il rilascio anche di tutte le persone fermate in occasione del suo rientro in Russia, compresi giornalisti, collaboratori o cittadini che lo sostengono. Poi, tutti gli Stati membri sono stati invitati ad “inasprire sensibilmente le misure restrittive nei confronti della Russia”, anche sanzionando le persone fisiche e giuridiche coinvolte nell’arresto di Navalny. L’invito a tali sanzioni è stato poi allargato anche agli oligarchi russi legati al regime, nonché ai membri della cerchia di Putin. I deputati hanno anche chiesto una revisione della cooperazione con la Russia, in particolare sui progetti come il Nord Stream 2, chiedendo di fermare subito i lavori del completamento. La risoluzione è stata adottata con 581 voti favorevoli, 50 contrari e 44 astensioni: la stragrande maggioranza degli eurodeputati ha dunque preso una posizione ben precisa.

Il 25 gennaio, la questione di Navalny è stata al centro del Consiglio Affari Esteri dell’UE. L’Alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell ha informato i ministri degli Esteri in merito alla Russia e alla detenzione di Alexei Navalny: il Consiglio ha condannato le detenzioni di massa e la brutalità della polizia durante le proteste in Russia ed ha invitato il paese di Putin a rilasciare quanto prima Navalny e i detenuti. In tale contesto l’Alto rappresentante ha informato i ministri che terrà una visita a Mosca prossimamente.

Anche la presidente della Commissione europea ha espresso la propria opinione in merito, chiedendo alle autorità russe di rilasciare immediatamente e garantire la sicurezza di Navalny, poiché “la detenzione di oppositori politici è contraria agli impegni internazionali della Russia”.

Nonostante tutti gli Stati membri condannino le azioni del governo russo, gli arresti da parte della polizia e il trattamento degli oppositori, non è semplice trovare una posizione comune sulle sanzioni. I Paesi Baltici, Polonia e Romania sono favorevoli alle sanzioni, così come l’Italia. Francia e Germania hanno mostrato una posizione meno netta verso le sanzioni, aspettando a sbilanciarsi in merito.

Le proteste in Russia

Dopo essere stato arrestato, Navalny ha lanciato sui propri social network un appello per far scendere in piazza i cittadini russi e manifestare contro il governo, con il preciso invito a “non tacere e resistere”. Dando seguito alla richiesta di Navalny, per il weekend del 23 e 24 gennaio sono state organizzate manifestazioni in più di 60 città russe tra cui Mosca, San Pietroburgo, Novosibirsk, che hanno portato a più di tremila arresti. La manifestazione principale è quella svolta a Mosca, vicino alle sedi delle istituzioni russe. Oltre migliaia di manifestanti hanno occupato le piazze e le strade principali provocando una forte reazione da parte della polizia che ha arrestato oltre mille persone. Non è mancata neanche in questo caso la reazione dell’UE: l’Alto rappresentante Borrell ha condannato gli arresti di massa, l’uso sproporzionato della forza e l’interruzione di internet e della rete telefonica.

Le recenti tensioni diplomatiche della Repubblica Ceca con Russia e Polonia

EUROPA di

Nell’ultimo periodo, la Repubblica Ceca ha dovuto affrontare diverse questioni: dal coronavirus e la crisi economica alle tensioni diplomatiche con la Polonia e la Russia. Per ciò che riguarda la Polonia, il governo di Varsavia ha erroneamente invaso la Repubblica Ceca mantenendo la presenza dell’esercito nel Paese dalla fine di maggio, fino a quando i soldati non sono stati richiamati in Polonia. Quanto alla Russia, l’ultimo avvenimento dell’espulsione di due diplomatici cechi da Mosca, è una reazione per quanto avvenuto in Repubblica Ceca: ad aprile, la città di Praga ha rimosso la statua del generale dell’Armata rossa che liberò Praga dai Nazisti; inoltre, i media cechi hanno accusato un diplomatico russo di essere stato inviato a Praga per avvelenare tre politici cechi, tra cui il sindaco della capitale, Zdenek Hrib. In seguito, due diplomatici russi sono stati espulsi da Praga e la crescente tensione tra Mosca e Praga ha portato ad una reazione del Cremlino.

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La democrazia ai tempi del coronavirus: una quarantena pericolosa

POLITICA di

Le circostanze eccezionali dovute alla pandemia minacciano di facilitare la prolungata erosione delle libertà e delle garanzie in alcuni Paesi in cui lo stato di diritto è  debole.

La crisi sanitaria, sociale ed economica causata dalla pandemia del coronavirus non ha precedenti nella storia moderna. Il Covid-19 ha causato oltre 30.000 morti fino ad oggi in tutto il globo. Proprio la minaccia alla salute pubblica ha portato un buon numero di Paesi a prendere misure eccezionali, limitando le libertà individuali fondamentali ad un livello mai visto in tempo di pace: dall’Italia alla Spagna, dal Regno Unito al Canada, i governi con segni diversi hanno approvato più poteri per lo Stato e misure di controllo più restrittive per i cittadini. Nelle autocrazie o nei Paesi con fragili democrazie, i leader usano la pandemia per indebolire le istituzioni democratiche e rafforzare la sorveglianza e la censura, o per smorzare l’opposizione. Misure che potrebbero non sparire quando l’emergenza sarà svanita.

In Russia, l’uso della tecnologia per il controllo di massa è aumentato e sono state approvate nuove regole per contrastare le fake-news circolanti sul virus, che potrebbero portare a una maggiore persecuzione dei media indipendenti. Una formula che viene già applicata da Serbia o Turchia.  Con l’argomento della protezione della salute pubblica, la Moldavia e il Montenegro hanno superato seri ostacoli diffondendo i dati sanitari delle persone infette o sospettate di esserlo. In Israele, il partito di Netanyahu ha utilizzato l’emergenza sanitaria per impedire all’opposizione – che ha ottenuto la maggioranza dei seggi nelle elezioni del 2 marzo – di assumere il controllo delle procedure parlamentari.

La crisi provocata dal coronavirus sta dando nuova energia al populismo e un’opportunità per accumulare più potere nelle mani di pochi. L’Ungheria, membro dell’Unione Europea, è uno dei casi che ha generato più allarme. Il Primo Ministro, Victor Orban, primo ad associare stranieri e migranti alla diffusione del virus, ha dichiarato lo stato d’emergenza come molti altri Paesi, riuscendo a convincere il Parlamento – in cui possiede una larga maggioranza – a dare via libera ad un’estensione dei poteri straordinari derivanti dall’emergenza senza fissare un limite temporale. In poche parole, tale decisione gli permetterà di governare per decreto a tempo indeterminato senza alcun tipo di controllo, nemmeno parlamentare, per l’esecutivo.

Lo Stato di emergenza è una situazione giuridica speciale necessaria per affrontare crisi come questa, poiché consente ai governi di reagire più rapidamente. Ma è importante che tutte le misure adottate siano trasparenti, proporzionate e limitate nel tempo, e soprattutto che siano soggette a qualche forma di controllo da parte del Parlamento o di altri organi legislativi. Ma in Paesi come la Russia, dove tale supervisione e controllo indipendenti sullo Stato sono scarsi e deboli e l’opposizione manca di rappresentanza parlamentare, l’imposizione di ulteriori misure come le intercettazione telefoniche, quelle di posta elettronica o censure di altro tipo potrebbero supporre un pericolo. La pandemia ha raggiunto il Paese eurasiatico in un momento politico decisivo per il Cremlino: nel bel mezzo del caos globale, il Presidente Vladimir Putin sta tentando di garantirsi la possibilità di rimanere al potere grazie ad una riforma costituzionale. Fra i primi Paesi a chiudere i confini di fronte alla crisi che si stava affacciando al mondo, la Russia tesse le lodi delle proprie scelte che hanno portato ad una diffusione più limitata del coronavirus (secondo i numeri ufficiali), rispetto alle posizioni più liberali adottate dagli altri governi. Con circa 1.800 casi positivi e una dozzina di morti – numeri che hanno sollevato molti dubbi tra ong, analisti e funzionari russi – il Gabinetto di Putin sta utilizzando questa narrativa per difendere la propria visione del mondo contro ciò che considera una fragilità del globalismo ed il crollo dell’unità europea ed occidentale. La Russia ha scommesso principalmente sulla tecnologia autoritaria: a Mosca le migliaia di telecamere di videosorveglianza vengono usate per catturare chiunque infranga le regole; vengono tracciati i dati sugli spostamenti in auto; e prima dello scoppio della pandemia, quando ancora la Cina era la principale e quasi unica colpita, la polizia effettuava raid negli hotel, nelle residenze di studenti, negli appartamenti turistici e nei mezzi di trasporto pubblico per individuare le persone provenienti dalla Cina, costringendole a rimanere in isolamento. Inoltre, le autorità russe stanno utilizzando i dati forniti dagli operatori telefonici per geolocalizzare i casi positivi e rintracciare coloro che hanno avuto contatti con questi.

Rimanendo in tema di operatori telefonici, la Commissione Europea ha chiesto alle diverse società che operano in questo settore di fornire dati anonimi per analizzare gli spostamenti delle persone così da poter sviluppare modelli sull’evoluzione dei contagi. Una misura che ha alimentato il dibattito sul diritto alla privacy e sui potenziali rischi di una violazione delle protezione di tali dati. Molti sono i Paesi che utilizzano i dati telefonici in questa crisi: dalla Slovacchia, dove vengono tenuti sotto controllo i cellulari di tutti i casi positivi per assicurare il rispetto della quarantena; alla Polonia, dove vengono monitorati coloro che arrivano dall’estero tramite un’applicazione mobile.  In molti Paesi europei e non solo, come il Canada, queste misure hanno generato un intenso dibattito. Tuttavia, in Stati di natura democratica più vulnerabile e dove non esiste quasi una cultura della privacy sono stati attuati con poco o quasi niente clamore, sebbene queste misure possono non solo aprire la strada alla repressione di attivisti ed oppositori,  ma anche lasciare un’impronta permanente sulle modalità di governo.

In Cina, la censura e il controllo delle informazioni da parte dello Stato hanno contribuito nelle prime settimane alla diffusione dell’epidemia: i media cinesi avrebbero potuto informare il pubblico molto prima dell’aggravarsi della situazione, salvando così migliaia di vite ed evitando, forse, l’attuale pandemia. Per monitorare l’avanzamento del contagio, molte province cinesi hanno creato applicazioni mobili che stabiliscono i movimenti dei loro proprietari e determinano se sono stati a contatto con possibili aree a rischio, assegnando loro un codice sanitario: se verde, l’utente è sano, mentre l’utente rosso va in quarantena. Dato l’obbligo delle società tecnologiche  di condividere i dati con il governo cinese, il timore è che possa aumentare il controllo sulla popolazione, attraverso l’utilizzo di applicazioni del genere, anche quando l’emergenza sarà rientrata.

All’altro estremo, l’uso della sorveglianza ritenuta invadente è stata una delle chiavi della reazione “positiva” della Corea del Sud. Il Paese, una delle storie di successo – almeno per il momento – nella lotta al Covid-19, ha applicato rigorose formule che combinano test per rilevare l’infezione e l’uso esaustivo della tecnologia per rintracciare i movimenti delle persone infettate e di quelle ad esse vicine. Le decisioni prese del governo hanno suscitato uno scarsissimo dibattito sull’impatto di tali misure sulle libertà civili soprattutto grazie alla grande trasparenza nei confronti della popolazione e alla consapevolezza da parte della società civile della necessità di combattere quest’epidemia.

Di Mario Savina

Ricercatore di Amnesty International sequestrato in Inguscenzia (Russia)

EUROPA di

In Inguscezia, nella federazione Russa, migliaia di persone protestano contro un accordo relativo alla demarcazione amministrativa dei confini con la vicina Cecenia. I manifestanti sostengono che l’accordo – approvato dai due parlamenti locali e dai due presidenti – sia una sconfitta per gli ingusci e una vittoria per i ceceni. L’attuale accordo prevede di cedere alla Cecenia un pezzo di territorio che molti ingusci considerano loro: aree non residenziali e coperte di boschi vicino a Dattykh. L’accordo è stato firmato a fine settembre dai presidenti delle due repubbliche, il ceceno Ramzan Kadyrov e l’inguscio Junus-Bek Yevkurov. Lo scorso 4 ottobre i due parlamenti hanno votato la ratifica: i deputati del parlamento ceceno hanno votato in modo compatto, mentre dei 25 deputati che compongono il parlamento dell’Inguscezia 17 hanno votato a favore, 3 hanno votato contro e gli altri si sono astenuti. Le proteste a Magas, la capitale dell’Inguscezia, sono iniziate in occasione della firma dei presidenti e si sono intensificate dopo la ratifica del parlamento. Secondo i manifestanti, il presidente inguscio avrebbe agito in modo autoritario e senza prima una consultazione popolare: tra gli altri, è stato criticato anche il presidente Vladimir Putin, accusato di non essere intervenuto in favore dell’Inguscezia. In questo contesto Amnesty International ha inviato un suo ricercatore a seguire le manifestazioni ma è stato sequestrato, picchiato e sottoposto a terribili finte esecuzioni da uomini qualificatisi come membri dei servizi di sicurezza.

Alle 21 del 6 ottobre un uomo ha bussato alla porta della camera d’albergo di Oleg Kozlovsky sostenendo che uno degli organizzatori delle proteste voleva vederlo. L’uomo ha portato Oleg Kozlovsky all’angolo di una strada, dove c’era un’automobile in attesa. Una volta salito a bordo, due uomini dal volto coperto sono a loro volta entrati nell’automobile. Uno di loro ha chiesto a Oleg di spegnere il telefono, l’altro ha iniziato a colpirlo sul volto.  L’automobile si è diretta verso un campo. Per tutto il tempo Oleg è stato tenuto a capo chino. Giunti a destinazione, Oleg è stato denudato e minacciato di morte se avesse tentato di fuggire. Gli uomini dal volto coperto gli hanno chiesto chi fosse, cosa facesse a Magas e per chi lavorasse, poi hanno tentato di convincerlo a diventare un loro informatore. È stato picchiato a lungo, ha subito la frattura di una costola ed è stato sottoposto due volte a finte esecuzioni con una pistola puntata alla nuca, la seconda volta dopo un invito a dire una preghiera. È stato fotografato nudo e ammonito a non parlare altrimenti le fotografie sarebbero state rese pubbliche. Dopo il rifiuto di diventare loro informatore, i sequestratori gli hanno confiscato telefono e videocamera e lo hanno portato nella vicina Repubblica dell’Ossezia del Nord, dove lo hanno rilasciato nei pressi dell’aeroporto. Uno degli uomini lo ha avvisato: “Non tornare mai più e non scrivere porcherie sull’Inguscezia”.

    Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale, ha dichiarato “questo è un episodio scioccante e sconvolgente. Le autorità devono sapere che non ci piegheremo alle intimidazioni di chi agisce a volto coperto. Abbiamo sporto formale denuncia alle autorità russe”, ha dichiarato. Oleg Kozlovsky è stato sequestrato di fronte a personale di un albergo e alle telecamere di sorveglianza, in una Magas piena di forze di polizia. I responsabili di questo attacco codardo devono essere rapidamente individuati e portati di fronte alla giustizia”.

 

 

Iraq: Liberata Rawa, è la fine del “Califfato”

MEDIO ORIENTE di

Venerdì 17 novembre 2017 è la data che segna la fine dello Stato Islamico in Iraq. Le forze armate irachene e le milizie filo-Iraniane alleate hanno annunciato la liberazione dell’ultimo bastione di Daesh nella provincia dell’Anbar, Rawa. Le operazioni per liberare Rawa e Qaim erano state annunciate dal governo a settembre e hanno prese piede alla fine di ottobre. Le due città sono state liberate nell’arco di 20 giorni, considerando che la presa di Qaim è arrivata il 3 novembre 2017. Nei giorni scorsi sono stati liberati 12 villaggi nella stessa provincia, a nord del fiume Eufrate.    “La liberazione di Rawa in poche ore mostra il potere e la capacità delle nostre forze armate, nonché il successo dei nostri piani nelle battaglie” queste le dichiarazioni del premier Abadi, riportate da “Iraqi News”.

Il Califfato sta per finire. In un tweet di Brett McGurk, inviato dagli stati Uniti per la Coalizione internazionale anti-Isis, si legge espressamente che; “Le forze irachene, con il sostegno della coalizione, annunciano la liberazione di Rawa, tra le ultime aree popolate in Iraq ancora nelle mani dei terroristi dell’Isis. I giorni del suo falso ‘Califfato’ stanno per finire”.

Contemporaneamente alla liberazione di Rawa, la vittoria sembra essere vicina anche dall’altro lato del confine. Secondo quanto riportato  dall’emittente televisiva locale al Mayadin, nella città di Abukamal, precedentemente liberata ma poi riconquistata, le forze filo-Iraniane stanno combattendo a fianco di quelle siriane per sconfiggere Daesh. Qui i miliziani iracheni filo-iraniani presenti ad Abukamal hanno assicurato che «la vittoria è vicina».

La sconfitta di Daesh nei territori tra Iraq e Siria è arrivata anche grazie ad una coalizione internazionale specifica, in cui si sono stati fondamentali gli interventi da parte di due super-potenze mondiali quali Stati Uniti e Russia. Si sta mettendo fine a quello che è stato probabilmente il terrorismo più efferato degli ultimi anni. L’Isis, in queste zone, dal 2014 ha annunciato un “califfato” che ha preso le sembianze di un vero e proprio stato, arrivando a controllare circa 7,5 milioni di persone in un area grande quasi quanto la Gran Bretagna, causando la morte di migliaia di civili.

Trump bombarda la Siria: 59 missili su una base militare di Assad

Difesa/Varie di

Gli Stati Uniti hanno dato il via ad una pesante offensiva nei confronti del regime di Assad. Sono stati ben cinquantanove i missili Tomahawk lanciati su una base militare siriana a Damasco, secondo le fonti siriane sarebbero circa 15 le vittime tra cui alcuni civili.  La dichiarazione di intenti da parte del Governo Trump secondo le fonti più accreditate è quello di una ritorsione e di una risposta violenta all’attacco con le armi chimiche di martedì a Idrib dove sono morti in atroci sofferenze molte persone e bambini. Gli Stati Uniti hanno agito da soli, l’Alleanza Atlantica in una nota stampa rende noto l’intento da parte degli americani quello di rispondere con un duro colpo al regime siriano a causa del ripetuto utilizzo di armi chimiche. Questa situazione però crea un quadro complesso che in parte potrebbe compromettere le relazioni della Casa Bianca con il Kremlino.

Come è noto Putin è un sostenitore di Assad di conseguenza ha definito l’attacco USA un vero e proprio attacco alla Siria e questo procedimento sta andando a creare delle frizioni molto importanti tra le due potenze. Ci sarebbe infatti una fregata russa che avrebbe già oltrepassato lo stretto del Bosforo in direzione delle navi a stelle e strisce che hanno lanciato i missili nelle prime ore del mattino di questo 7 aprile 2017. Per quanto riguarda le posizioni dell’Unione Europea, così come l’Italia, si schiera  con l’atteggiamento offensivo degli Stati Uniti perché “risposta a crimini di guerra”, ma purché resti una tantum.
Molte sono le critiche che invece sono rivolte alle Nazioni Unite, non sta risultando un organo al momento incisivo al fine della risoluzione del conflitto, tanto che ci sono degli attori di questo panorama geopolitico che lo definiscono “inutile”.


La situazione al momento è quella, ancora una volta di una polveriera che sembra pronta ad esplodere da un momento all’altro con degli equilibri che non sono ben chiari. I rischi che questa manovra di indebolimento di Assad possa agevolare lo Stato Islamico nel conflitto siriano non sono ancora quantificabili, al momento non sembra che ci si debbano aspettare nuove azioni offensive da parte degli Stati Uniti, quello che resta poco chiaro è se questa azione è veramente solo una reazione di “pancia” del presidente Trump e dei suoi generali, o parte di una strategia più complessa. Quello che possiamo immaginare è innanzitutto una dimostrazione di forza, di una linea  dura e ben precisa, in rottura con la precedente linea più prudente di Obama. Per The Donald questo attacco è una dichiarazione della potenza degli Stati Uniti che ovviamente non piace molto alla Russia. Stanno seguendo delle ore molto delicate in cui ci sono dei meccanismi precari che potrebbero incrinarsi, un aspetto molto importante però, che può rassicurare il panorama internazionale, è quella che le vie diplomatiche di Russia e USA sono ancora aperte, è stata confermata infatti la visita del Segretario di Stato americano Rex Tillerson a Mosca previsto tra pochi giorni.

Attentato a San Pietroburgo: la Russia di Putin ancora sotto attacco

BreakingNews/Defence di

Fumo, fuoco, una carrozza della metropolitana di San Pietroburgo sventrata da una bomba. Uno scenario drammatico: almeno 11 vittime, 45 feriti di cui 14 in condizioni molto gravi. Il terrorismo colpisce ancora. La Russia è di nuovo ferita da un attentato. L’esplosione avviene circa alle 14.45 ora locale del 3 aprile 2017, quando un’esplosione coinvolge il terzo vagone di una metro della linea blu in direzione dell’Istituto di Tecnologia, ma il macchinista decide di proseguire la sua corsa fino alla fermata successiva, permettendo così il soccorso immediato di molti dei feriti. Le autorità locali decidono per l’immediata chiusura dell’intera rete di trasporto sotterraneo della città. La decisione si rivela quanto più sensata, considerato che durante l’ispezione effettuata in tutte le stazioni, in un’altra viene rinvenuto un secondo ordigno esplosivo.

Questo drammatico evento si colloca in un quadro molto complesso: secondo i quotidiani russi, i servizi segreti erano a conoscenza di un piano d’azione da parte dell’ISIS proprio con obiettivo San Pietroburgo. Le notizie erano state riportate da un uomo che era rientrato sin Russia dalla Siria dove operava come foreign fighter per lo Stato Islamico ed arrestato immediatamente, ma purtroppo non era in un grado della gerarchia molto alto, tale da essere a conoscenza dei dettagli di questo folle piano omicida. Purtroppo tutti gli sforzi messi in campo dai Servizi Segreti sono stati vani. A causa dell’impossibilità di risalire all’identità reale di alcuni soggetti che avevano acquistato delle schede telefoniche non c’è stata la possibilità di rintracciarli. Le ricerche stavano proseguendo con urgenza, ma i terroristi non hanno dato il tempo necessario, colpendo in tempi molto più brevi di quelli che ci si potessero aspettare.

L’attentato è avvenuto in un giorno particolare: la visita di  Vladimir Putin nella grande città baltica. L’obiettivo  – secondo le fonti estremiste cecene – sarebbe stato proprio lo stesso Putin, visto come grande nemico, sia dalle milizie dell’ISIS, sia dai Ceceni che spesso diventano braccio armato di Daesh come forza esterna estremamente specializzata. L’attentatore infatti – come comunicato dalle fonti di intelligence sovietica – sarebbe stato identificato: si tratta di un ragazzo di 22 anni, originario del Kirghizistan e residente da 6 anni a San Pietroburgo. Secondo le fonti, sarebbe stato da sempre in contatto con i combattenti ceceni in Siria.

L’attentato a San Pietroburgo di matrice fondamentalista islamica si inserisce in un quadro già drammatico che aveva visto una lunga scia di sangue a partire dal 1999 quando l’allora Primo Ministro Vladimir Putin aveva lanciato una campagna contro il governo separatista della regione della Russia Meridionale: la Cecenia.  Da quel momento iniziano gli attacchi armati: nel 2002 la polizia fece irruzione in un teatro di Mosca per porre fine a una presa di ostaggi e il bilancio finale fu di 120 ostaggi uccisi. Nel 2004 ricordiamo il massacro di Beslan in cui persero la vita oltre 330 persone di cui la metà erano bambini. Seguendo questo triste filo rosso arriviamo al 2010 quando due donne kamikaze di origine cecena si fecero esplodere nella metropolitana di Mosca mietendo 38 vittime e numerosi feriti.

La Duma ha annunciato di non voler  – almeno per il momento – apportare modifiche all’attuale legge antiterrorismo, ma ONG , associazioni che operano sul territorio, molti membri della stampa internazionale sono convinti che qualcosa all’atto pratico succederà. Non si sa se in termini legislativi o di operazioni militari, ma quasi tutti gli attori in gioco credono che Putin inizierà a valutare l’idea di utilizzare drastiche contro misure.

Gli Stati Uniti cambiano direzione sotto la Presidenza Trump

AMERICHE di

L’8 di novembre il popolo statunitense ha eletto il repubblicano Donald Trump come prossimo Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, i risultati elettorali hanno preso alla sprovvista quasi tutti. La vittoria di Donald Trump è stata assolutamente inaspettata, soprattutto perché i sondaggi avevano previsto il successo di Hillary Clinton. In ogni caso, i risultati elettorali mostrano un Paese profondamente diviso tra due opposte visioni dell’America e opposte idee sul ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero svolgere sul piano delle relazioni internazionali. Per comprendere perché gli statunitensi hanno eletto Donald Trump a dispetto delle previsioni, sarà utile esaminare le sue proposte di politica interna oltre a quelle di politica estera.

La politica interna di Donald Trump può essere sintetizzata nello slogan “Make America great again”. Trump ha svolto la sua campagna elettorale concentrandosi sulla classe lavoratrice ed enfatizzando l’idea che l’America abbia un grande potenziale che non è stato a pieno utilizzato fin’ora. Secondo Trump, le ragioni di tale situazione sono da riscontrarsi nell’eccessivo sviluppo dell’economia finanziaria a scapito di quella reale. L’economia reale sostiene la crescita economica e rende possibile un miglioramento del benessere, mentre l’economia finanziaria è considerata responsabile della bolla immobiliare, che è esplosa nel 2007. Trump si è riferito ai suoi sostenitori definendoli un grande movimento, volenteroso di cambiare l’America. La sua retorica è stata considerata come populismo da gran parte del Paese, tuttavia la maggioranza ha visto in essa un modo per sentirsi in potere di cambiare le sorti dell’America. Secondo alcuni esperti, i votanti hanno preso posizione contro l’establishment. Il rifiuto della classe politica tradizionale non è un fenomeno isolato nello scenario internazionale come abbiamo potuto osservare in occasione del referendum sulla Brexit, oltre che nei recenti risultati elettorali in diversi Paesi europei. I principali strumenti per ridare grandezza all’America, secondo Trump, sono i tagli alle tasse per le imprese, misure più restrittive sull’immigrazione e leggi inflessibili contro criminali e terroristi. Il taglio delle tasse è pensato per sostenere la crescita economica aiutando le imprese a restare negli Stati Uniti invece di delocalizzare la produzione all’estero. La posizione di Trump sull’immigrazione è stata largamente criticata, poiché ha proposto di costruire un muro al confine con il Messico e di espellere tutti gli stranieri irregolari che risiedono negli Stati Uniti. Infine, la sua posizione sui criminali ed i terroristi è stata considerata razzista da gran parte dei cittadini americani. In particolare, Trump ha proposto di introdurre leggi stringenti e rafforzare i poteri della polizia per risolvere il problema della conflittualità razziale negli USA. Tuttavia, questo tipo di misure preoccupa la popolazione afroamericana che è stata protagonista di numerose proteste durante l’ultimo anno poiché si sente discriminata dalla polizia. La durezza della posizione di Donald Trump in merito alla questione razziale potrebbe portare ad incrementare la conflittualità già esistente tra il governo e le comunità afroamericane.

Passiamo ora ad analizzare la politica estera di Donald Trump. Il suo progetto può essere identificato nell’espressione “isolazionismo”. Per quanto riguarda le relazioni economiche con altri Paesi, Trump vorrebbe introdurre misure protezionistiche, poiché ritiene che i problemi economici degli USA siano principalmente dovuti al processo di globalizzazione. Non si tratta di una posizione isolata se pensiamo al Regno Unito che probabilmente negozierà l’uscita dal Mercato Unico Europeo. L’idea di focalizzarsi sui problemi interni degli USA, piuttosto che realizzare interventi militari in tutto il mondo, è l’argomento di politica estera che ha convinto maggiormente gli elettori. Gli statunitensi non comprendono le ragioni del consistente coinvolgimento degli USA in Medio Oriente come in altre parti del mondo, anche perché non percepiscono alcun vantaggio diretto da tali operazioni. Trump ha sostenuto, durante la sua campagna, che gli USA dovrebbero spendere meno soldi nel finanziare la NATO e gli interventi all’estero, concedendo maggiore indipendenza militare ai loro alleati ed usando il denaro per migliorare lo standard di vita americano. Tale isolazionismo in politica estera porta ad alcune importanti conseguenze. In primo luogo, le relazioni con l’UE cambieranno, in campo militare ma anche nel settore economico. Infatti, Trump ha espresso la sua opposizione al Trattato di Partenariato Transatlantico sul commercio e gli investimenti, che dovrebbe essere firmato tra l’UE e gli USA. Ciò nonostante, il più importante cambio nelle relazioni internazionali sarebbe dato da un mutamento di attitudine verso la Russia. Dal canto suo, il Presidente Putin ha subito espresso la sua volontà di ripristinare relazioni amichevoli con gli Stati Uniti. La principale conseguenza di una riconciliazione tra gli USA e la Russia sarebbe un possibile accordo sulle crisi in Siria ed in Ucraina. La stabilizzazione del Medio Oriente, oltre alla soluzione della crisi in Ucraina, allontanerebbe la minaccia di uno scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. D’altro canto, le future relazioni con la Cina sono incerte. Trump ha fatto alcune dichiarazioni contro la strategia economica cinese ed ha espresso la volontà di essere più economicamente indipendente dalla Cina. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che la Cina possiede la maggior parte del debito statunitense. Un altro aspetto della politica estera di Trump, in grado di influenzare tutto il mondo, è la scelta di rispettare o meno l’accordo sul cambio climatico negoziato a Parigi lo scorso anno ed entrato in vigore pochi giorni fa. Infine, non è chiaro se Trump proseguirà nella riconciliazione con l’Iran e se rispetterà l’accordo sul nucleare concluso lo scorso anno con tale Paese.

In conclusione, è ancora troppo presto per fare previsioni su come gli Stati Uniti e le loro relazioni con il resto del mondo cambieranno. La questione dipende fondamentalmente dal fatto che Trump  rispetti o meno il programma elettorale. Secondo le sue prime dichiarazioni, tuttavia, sembra che l’intenzione sia quella di moderare alcuni punti controversi del programma elettorale (si veda la posizione sulla questione razziale, sugli omosessuali e sui musulmani). Trump ha annunciato la volontà di collaborare con l’amministrazione Obama per preservare le maggiori conquiste ottenute negli ultimi 8 anni. Obama, da parte sua, ha manifestato il proprio sostegno al nuovo Presidente ed ha dichiarato che farà tutto il necessario per aiutarlo a svolgere in modo soddisfacente il proprio mandato.

Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000
Redazione
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