GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000

La partita russa tra Ucraina e Turchia

Varie di

Il fronte ucraino torna ad essere caldo. Mercoledì 16 dicembre, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato il decreto (già annunciato in precedenza) che sospende l’accordo di libero scambio tra Kiev e la CSI. La sospensione arriva a seguito dell’accordo di libero scambio tra Ucraina e Unione Europea, in vigore dal 1° gennaio. Il capo del Cremlino ha motivato la decisione spiegando che tale patto lede gli interessi economici russi.

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Di fatto, come citato da molte fonti internazionali, la guerra nell’Est europeo non è ancora finita. In primis, per la conferma, arrivata da Putin nel corso della conferenza stampa di fine anno, della presenza di truppe russe all’interno del territorio ucraino. Poi, a causa del’ostacolo continuo da parte dei separatisti al lavoro dell’OSCE nel Donbass, dove il blocco degli aiuti umanitari, denunciato da Unicef e Medici Senza Frontiere, e la violazione del cessate il fuoco stanno mettendo in pericolo la sopravvivenza degli accordi di Minsk/2.

Un pericolo denunciato dallo stesso segretario generale NATO Jens Stoltenberg nel corso della conferenza stampa di giovedì 17 dicembre con il presidente ucraino Petro Poroshenko: “Ci sono stati progressi negli ultimi mesi. Tuttavia, recentemente, abbiamo registrato l’aumento delle violazione degli accordi di pace. Esiste un reale rischio di un ritorno alla violenza”.

La conferenza stampa congiunta si è tenuta il giorno dopo la firma del piano di cooperazione tra NATO e Ucraina, altro fattore che potrebbe rendere vani i progressi fatti a Minsk lo scorso febbraio e portare ad un ennesimo raffreddamento dei rapporti tra Occidente e Mosca. Il piano prevede la riconfigurazione del settore Difesa ucraino e il miglioramento del potenziale delle sue forze armate, e la partecipazione di Kiev ai progetti atlantici sulla “Difesa Intelligente”.

Con il continuare delle sanzioni europee ai danni della Russia fino a quando la situazione non andrà stabilizzandosi, come annunciato dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, e con la possibilità dell’ingresso della Turchia in Europa, il Sud-Est europeo si è fatto rovente in questo finale di autunno.

Sempre nel corso della conferenza stampa di fine anno, oltre a definire “atto ostile” l’abbattimento del caccia russo lo scorso 24 novembre, il capo del Cremlino ha parlato di una evidente volontà dei turchi “di mostrarsi compiacenti con gli americani”.

Pur essendo conciliante con gli Stati Uniti sul fronte siriano (“faremo il possibile per trovare il modo di superare questa crisi”) e appoggiando la linea italo-americana in Libia (appoggio del governo di unità nazionale e dell’intervento militare ONU), i rapporti tra Russia e Occidente destano ancora motivi di preoccupazione.

Soprattutto perché, oltre al tema dell’allargamento NATO e alla crisi di rapporti con Ankara, dobbiamo aggiungere la crisi economica russa “troppo dipendente – come dichiarato dallo stesso Putin – da fattori economici esterni, come il drastico calo del prezzo del petrolo” e, come denunciato nei mesi scorsi, dalle sanzioni inflitte da Stati Uniti e Unione Europea.
Giacomo Pratali

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Libia: dubbi sull’accordo preliminare

Medio oriente – Africa di

A quasi un mese dalla fine del mandato di Bernardino Leon, il GNC di Tripoli ha annunciato di avere trovato un accordo preliminare con Tobruk per la formazione di un governo di unità nazionale, al di fuori però della precedente bozza ONU. Essa prevede la creazione di un comitato di dieci rappresentati, divisi equamente tra i due esecutivi in carica, i quali eleggeranno il nuovo premier e i due vicepresidenti.

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Un accordo che, seppure fuori dalla bozza Onu dell’ottobre scorso, è stato salutato in maniera positiva dallo stesso Kobler e dall’Italia. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, pur frenando su un intervento militare in Libia nel breve termine, ha affermato che il proprio Paese “è pronto a fare la propria parte”.

A partire dalla prima conferenza internazionale sulla Libia, in programma il prossimo 13 dicembre a Roma. Un po’ come accaduto con il vertice di Vienna sulla Siria dopo gli attentati di Parigi e la reazione francese sul suolo siriano, l’Italia cerca di guadagnarsi un ruolo di primo piano in quest’altro contesto geopolitico caldo, avendo al suo fianco gli Stati Uniti, ma anche la Russia, la quale, attraverso il proprio ministro degli Esteri Lavrov, ha dichiarato che Mosca “è pronta ad aiutare l’Italia sulla Libia”.

Un modo, dunque, per rimettersi in gioco dopo l’attendismo dimostrato a seguito dei fatti di Parigi. In più, la notizia riportata da un’agenzia stampa iraniana, ancora non confermata, della presenza del califfo al Baghdadi a Sirte, roccaforte dell’Isis in Libia, pone il problema della presenza dell’organizzazione jihadista a 300 chilometri dalle coste italiane. Una risposta comune dall’Europa è ora quanto mai necessaria.
Giacomo Pratali

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Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

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Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Italia: pronta azione militare in Iraq?

Difesa/EUROPA di

“In merito a indiscrezioni di stampa su operazioni militari aeree italiane in Iraq, il Ministero della Difesa precisa che sono solo ipotesi da valutare assieme agli alleati e non decisioni prese che, in ogni caso, dovranno passare dal Parlamento”. Questa la nota pubblicata dal Ministero della Difesa italiano a seguito dell’indiscrezione, rilanciata da Il Corriere della Sera il 5 ottobre, in merito ad un presunto intervento dei propri Tornado a fianco della coalizione occidentale contro lo Stato Islamico.

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Se da un anno a questa parte, infatti, gli aerei italiani sono stati configurati per le ricognizioni sul territorio iracheno e in appoggio ai Peshmerga, adesso le regole d’ingaggio con il governo iracheno cambierebbero, così come avvenuto tra quello siriano e la Russia. Mentre sullo sfondo Nato, Francia e Gran Bretagna (in attesa del via libera da parte del Parlamento) operano militarmente in Siria.

Tornando al caso italiano, se da una parte il Ministero della Difesa ha smentito le indiscrezioni della stampa, dall’altra parte l’incontro tra il ministro Roberta Pinotti e il Segretario di Stato alla Difesa Ashton Baldwiin Carter, in programma a Roma il 7 ottobre, potrebbe essere un chiaro indizio sulla volontà italiana di partecipare ai bombardamenti contro le postazioni dell’Isis. E forse il prologo di una missione militare in Libia con l’Italia a capo di una coalizione internazionale.
Giacomo Pratali

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Trattato anti proliferazione nucleare, USA e Russia per l’aggiornamento

AMERICHE/EUROPA di

La  Russia si sente sempre più vincolata dal trattato INF (Intermediate Nuclar Forces) di disarmo nucleare siglato negli anni 80, che nonostante sia firmato da entrambe le gradi potenze non ha impedito loro di modernizzare i propri arsenali nucleari e le difese missilistiche.

Il patto IFN è una parte fondamentale del trattato di disarmo nucleare bilaterale che ha fermato la proliferazione di tetsate a medio aggio in Europea negli anni 80 con un pericolo di incidenti molto alto.

Le spinte a rivedere e modificare gli accordi sono oggi molto forti sia in campo statunitense che in campo sovietico con il percolo che venga abbandonato del tutto.

Lo scorso 23 settembre la ussia ha criticato aspramente il dispiegamento del modello aggiornato delle testate B61-12 in Germania alzando ancora i toni della discussone minacciando di ritirarsi dal trattato.

. L’INF vieta la presenza di armi nucleari in deposito a terra  o missili a medio raggio convenzionali (da 500 a 5.500 chilometri, o da 300 a 3.400 miglia). Anche se la distribuzione statunitense di B61-12 armi nucleari in Germania non viola il Trattato INF, viene percepita da Mosca come una prova di forza nei suoi confronti e si sente limitata nella reazione dal trattato.

Nessuna delle due super potenze vuole ritirarsi dal trattato ma è chiaro che in questo periodo di forte instabilità geopolitica entrambe sono portate a flettere i muscoli spingendo per una rivisitazione del trattato che permetta una difesa dei propri territori.

Crisi Ucraina: autunno decisivo

EUROPA di

Il summit delle Nazioni Unite del 24-30 settembre e il vertice tra Germania, Francia, Ucraina e Russia del 2 ottobre sono due appuntamenti cruciali sia per un cessate il fuoco definitivo tra Kiev e i separatisti, sia per i rapporti futuri tra Washington e Mosca.

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Situazione di stand-by nell’ambito della guerra civile in Ucraina. Nel corso del mese di settembre, il cessate il fuoco tra esercito e combattenti filorussi ha retto. Mentre è in corso la visita del segretario generale Nato Jens Stoltenberg a Kiev, dove ha incontrato il presidente Petro Poroshenko: “La Russia sta continuando ad armare i ribelli separatisti nonostante la tregua”, hanno ammonito i due. Ma il clima che si respira è di attesa verso il vertice del 2 ottobre, quando i leader di Germania, Francia, Ucraina e Russia si incontreranno per fare tracciare un bilancio della flebile tregua imposta dall’accordo di Minsk/2.

Se a questo vertice si aggiunge quello delle Nazioni Unite del 24-30 settembre, si intuisce che questo autunno potrebbe essere decisivo per il contesto ucraino, oltre che per altri scenari geopolitici. La crisi finanziaria e di sistema hanno infatti spinto il governo ucraino ad accelerare, a fine agosto, quelle riforme costituzionali che mirano a dare più autonomia alla regioni del Donbass, in linea con gli accordi di Minsk, e a siglare un accordo di ristrutturazione del debito con i creditori.

Dall’altro lato, c’è la Russia. Una Russia colpita duramente dal crollo dei prezzo del petrolio e che ha visto calare di oltre il 20% il valore del Rublo negli ultimi quattro mesi. Uno scenario dove le sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea non sono la principale causa della crisi, ma fattori tuttavia importanti, soprattutto nell’ottica dello sviluppo energetico.

Se il Cremlino, infatti, ha il coltello dalla parte del manico verso l’Europa per quanto concerne la fornitura di gas, dall’altro lato le sanzioni costituiscono un intralcio ai progetti di sviluppo petrolifero e gasifero nel Mar Artico. Programmi di cui l’economia russa ha bisogno per mantenere alto il proprio livello di produzione attuale.

La crisi ucraina, pertanto, potrebbe vivere di riflesso degli esiti dei vertici del 24-30 settembre e 2 ottobre. Nel primo, sarà importante l’incontro tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, dove verrà evidenziato l’intervento russo in Siria al fianco del governo ma, soprattutto, contro lo Stato Islamico. Nel secondo, il vertice di Vladimir Putin con Angela Merkel e Francoise Hollande servirà ad ammorbidire Germania e Francia. In entrambi i casi, l’obiettivo è uno solo: arrivare alla riduzione delle sanzioni economiche contro la Russia a partire dal biennio 2016/17.

Tuttavia, i passi falsi da ambo le parti continuano. Sul fronte ucraino, si registra l’aumento del coinvolgimento di combattenti nelle brigate paramilitari di estrema destra che combattono al fianco dell’esercito di Kiev. Mentre il Consiglio Nazionale per la Sicurezza ha redatto una nuova lista nera che ha messo al bando 34 giornalisti stranieri, di cui 3 della Bbc, oltre all’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, reo di avere preso parte alla visita in Crimea assieme a Putin.

Sul fronte russo, infine, il Cremlino è stato smentito da un articolo, pubblicato per sbaglio (poi rimosso) dalla testata Delovaia Zhizn e ripreso per primo da Forbes, in cui è stato svelato il numero di soldati russi morti nel conflitto in Ucraina: 2000. Mentre Mosca ha sempre negato il coinvolgimento diretto.

Ma la riunione Onu del 24-30 settembre e il vertice europeo a quattro del 2 ottobre, assieme all’accentuarsi delle crisi geopolitiche in Siria e Libia, potrebbero indurre le parti in causa a giungere ad una soluzione che porti non solo alla fine della guerra civile in Ucraina, ma al “riscaldamento” dei gelidi rapporti tra Stati Uniti e Russia.
Giacomo Pratali

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Russia pro Assad fra Isis e business

ECONOMIA/Medio oriente – Africa/Varie di

Il politico svedese Kjell-Olof Feldt ha firmato, anni fa, questa frase “Le guerre non sono calamità naturali. Le iniziano gli uomini e possono terminarle solo gli uomini”. Ora, quella riflessione, potrebbe suonare come un monito alla luce del marasma che coinvolge l’intero pianeta. Il regime di Bashar al Assad rappresenta un problema da quando il vento della “primavera araba” ha deciso di soffiare anche sulla Siria. Quattro anni sono passati. Mesi in cui l’opposizione al Regime, dipinta dallo stesso come pacifica resistenza al governo sulla rotta di una democratizzazione abbozzata fra i capitoli della nuova costituzione, ha assunto, gradualmente per noi occidentali abituati al contrario a considerarla più aggressiva ed armata, i connotati degli sgherri del Califfato. Un errore? Assad sostiene che da sempre quei neri figuri siano il prodotto del credo estremista diffuso dall’elemento esterno chiamato Isis e non i membri della sua opposizione, al contrario pacata e civile, pronta a confrontarsi unicamente attraverso il dialogo. Alle sue capacità di pieno controllo ha sempre creduto la vicina Russia, fino alla dimostrazione inequivocabile offerta di recente dalla dichiarazione del pieno sostegno lanciata da Putin. Parole alle quali sono seguiti i fatti, dall’invio di mezzi corazzati – tank, cannoni, blindati, missili antiaereo – e uomini, alla costruzione di una base aerea vicino allo scalo di Latakia, roccaforte del governo siriano, documentata dalle immagini satellitari pubblicate da Foreign Policy. Il punto di vista della Russia è articolato. La necessità di far capitolare Assad, sostenuta da Stati Uniti e coalizione Nato, secondo Putin avrebbe l’effetto del boomerang già lanciato in passato per eliminare le dittature di Saddam Hussein in Iraq e di Muammar Gheddafi in Libia. Le condizioni sono diverse ma l’effetto sarebbe simile. Eliminare lui, significherebbe per il Cremlino, aprire definitivamente le porte al Califfato. A dichiararlo è il portavoce della presidenza russa Dmitry Peskov che nei giorni scorsi ha affermato come “La minaccia rappresentata dal gruppo Stato islamico sia evidente e l’unica forza in grado di resisterle sia l’esercito siriano”. Il forte riavvicinamento dei due paesi è avvenuto dopo la guerra del Libano. Era l’anno 2006 e la Siria, isolata dall’Occidente per il ruolo avuto in quel conflitto, chiese aiuto alla Russia che cancellò il 75% dei debiti vantati nei suoi confronti. Tutt’ora la Siria rappresenta uno dei migliori compratori del materiale bellico prodotto in Russia. L’acquisto più recente riguarda l’acquisizione di 36 aerei da guerra Yakovlev Yak-130 costati ad Assad circa 550 milioni di dollari. Se per la Russia il regime siriano rappresenta un ottimo partner commerciale, la sua capacità di spesa lo rende altrettanto gradevole anche agli occhi della Cina per la quale la Siria, in base ai dati diffusi dalla Commissione Europea, si colloca sul terzo gradino del podio occupato dagli importatori. I sostenitori della tesi che in realtà il vero mandante dell’Isis sia lo stesso Assad per distogliere l’attenzione di Usa e Nato dalla complessa situazione siriana e conservare il suo potere, trovano nella presa di posizione della Russia una ulteriore conferma. Usa e Nato affidano la loro contrarietà a, per ora, timide rimostranze mentre il flusso degli esuli continua ad aumentare. Dall’inizio del conflitto sono morte in Siria oltre 200 mila persone mentre 11 dei suoi circa 22 milioni di abitanti, sono stati costretti a lasciare le case. Di loro 4 milioni hanno abbandonato il paese per emigrare principalmente in Turchia, Libano e Giordania ed ora anche in Europa.

Monia Savioli

Bielorussia: il doppio gioco di Lukashenko

EUROPA di

Rilasciati sei oppositori politici a pochi mesi dalle Presidenziali. Lukashenko tenta un timido riavvicinamento a Bruxelles, ma, temendo il ripetersi dei fatti di Maidan in casa propria, rafforza l’alleanza di tipo militare con Mosca.

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Il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko ha decretato il rilascio di sei oppositori politici, tra cui Mykalai Statkevich, candidato alle Presidenziali del 2010: “Non pensavo che Lukashenko avrebbe avuto il coraggio di liberarmi prima delle elezioni (il prossimo 20 novembre, ndr) – afferma l’ormai ex detenuto -. Forse non avevano più soldi per il carcere. Ora per loro la situazione è ottimale. L’opposizione è in una situazione di stallo. Non può boicottare la consultazione e non è in grado di sostenere nemmeno un proprio candidato. Ecco perché mi hanno rilasciato”.

Oltre alle accuse in merito alla pesante situazione economica dello Stato ex sovietico, questi sei oppositori, così come gran parte degli attivisti presenti in Bielorussia, hanno sempre accusato Lukashenko di un eccessivo avvicinamento alla Russia e di un altrettanto forte allontamento rispetto a Bruxelles e alle democrazie europee.

La notizia del rilascio è stato accolto come “un grande passo in avanti” dall’alto rappresentante Ue Federica Mogherini, questa notizia potrebbe comportare “il miglioramento delle relazioni tra la Bielorussia e l’Unione Europea va nella auspicata direzione di un rafforzamento della tutela di diritti umani e libertà civili nel Paese. La liberazione dei sei prigionieri – osserva ancora Della Vedova – viene incontro alle aspettative che, sia bilateralmente che nel più ampio quadro del dialogo fra UE e Minsk, erano state a più riprese manifestate alle Autorità bielorusse”, afferma il sottosegretario agli Affari Esteri Benedetto Della Vedova.

Considerato l’ultimo dittatore europeo, Lukashenko, in carica dal 1994, ha sempre mosso le proprie pedine in base alle convenienze politiche del momento. Come nel 1997, anno dell’accordo di “Unione Statale” con la Russia. Come oggi, con la decisione del rilascio dei sei detenuti come ramoscello d’ulivo verso Bruxelles, affinché ammorbidisca le sanzioni contro i patrimoni degli oligarchi bielorussi decretate nel 2004.

Di primaria importanza per la Bielorussia, inoltre, è anche la questione ucraina. Aldilà dell’accordo tra Ucraina, Russia, Germania e Francia sancito proprio nella capitale Minsk, Lukashenko teme in patria un possibile Maidan 2, anche in virtù della diffidenza di cui gode presso tutte le cancellerie europee. Conscio di questo rischio, il Presidente bielorusso ha messo nero su bianco, lo scorso 19 agosto, l’accordo con Putin che sancisce lo sviluppo di un comune spazio di difesa aerea a corto raggio.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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