GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 99

LA CRISI DEL GOLFO E LE NUOVE DINAMICHE MEDIORIENTALI

MEDIO ORIENTE di

I tradizionali (quanto precari) equilibri geopolitici ed economici esistenti nell’aera del Golfo persico, messi in discussione dalla crisi politica apertasi lo scorso giugno tra Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Barhein ed Egitto, continuano a produrre tensioni ed instabilità in tutto il Mashrek, dove le ripercussioni della questione qatariota hanno investito non solo nella Penisola arabica ed i principali teatri di crisi mediorientali, ma anche diverse regioni dell’Africa orientale, dove qatarini e sauditi si confrontano da tempo sostenendo processi di penetrazione a livello economico-militare.

È proprio il Corno d’Africa, terreno di competizione geopolitica fra i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), ad aver subito importanti stravolgimenti a seguito della rottura, decisa da Gibuti e Somaliland, delle relazioni diplomatiche con Doha cui hanno fatto seguito il ritiro dal Paese del contingente qatariota, inviato al confine tra Eritrea e Gibuti per monitorare il cessate il fuoco, e l’espansione di Riad e Abu-Dhabi con l’apertura di nuove basi militari estere in Gibuti, e nelle località di Assab (Eritrea) e Berbera (Somaliland). A differenza di Djibouti e Hargheisa, Somalia, Sudan ed Eritrea hanno deciso, nonostante le pressioni saudite, di mantenere rapporti politico-commerciali con il Qatar, correndo il rischio di perdere i decisivi aiuti di Riad e Abu-Bhabi, mentre l’Egitto di Al-Sisi, alleato del Regno saudita, ha abilmente sfruttato la crisi in corso tra le monarchie del Golfo per operare l’ennesima stretta autoritaria interna adottando nuove misure che (prescindendo dall’esistenza di simpatie o legami con Doha) obbligano al silenzio l’intero spettro dell’opposizione.

La conflittualità politica nel Golfo ha influito inevitabilmente anche sul contesto mediorientale, soprattutto in Siria, dove la crisi del GCC ha ridotto gli spazi dell’azione di contrasto al regime di Al-Assad (sponsorizzata da Arabia Saudita, Qatar e Turchia), ma anche in Yemen, da cui Doha ha dovuto ritirare circa 1000 soldati impiegati da oltre due anni nella coalizione anti-sciita a guida saudita-emiratina, e nella striscia di Gaza che ha visto in questi ultimi mesi un sempre maggior interventismo degli Emirati Arabi impegnati a colmare il vuoto finanziario lasciato dal Qatar.

Le dure sanzioni economiche imposte dal c.d. “quartetto” al Qatar, danneggiando settori strategici come quello bancario, commerciale e turistico, hanno infatti costretto la monarchia di Al-Thani ad utilizzate il 23% del Pil per sostenere la propria economia interna, riducendo, contestualmente, la partecipazione di Doha a importanti dossier.

Il rimescolamento degli equilibri regionali intervenuto con il boicottaggio di Arabia, Emirati e Bahrein ed esacerbato dalla rigidità dimostrata dai sauditi nella gestione della crisi, ha però contribuito anche a velocizzare la costituzione di un allineamento geopolitico tra Qatar, Iran, Turchia e Russia potenzialmente sfavorevole agli obiettivi egemonici di Riad nella regione. Doha, a fronte di una restrizione degli spazi di manovra imposta dall’Arabia Saudita con l’assedio politico-commerciale e la conseguente chiusura di canali vitali per la vita socio-economica del Paese, ha infatti avviato un processo di compensazione imperniato sulla progressiva diversificazione delle attività di public diplomacy e sul consolidamento di nuove alleanze (come quella con Erdogan e Rouhani, il cui supporto alla monarchia qatarina con aiuti militari ed umanitari è stato finora essenziale per Al Thani). Il Qatar è infatti riuscito a stringere velocemente legami politici ed economici forti e variegati con Paesi vicini e lontani, compensando così i costi legati all’assedio e rafforzando il Paese sul piano diplomatico. Risalgono proprio al settembre scorso gli incontri ufficiali dell’Emiro del Qatar Al-Thani con il Presidente turco Ergogan, la cancelliera Merkel e Emmanuel Macron, con cui il leader qatarino ha raccolto ampi consensi sulla necessità di risolvere diplomaticamente la disputa con i sauditi.

Una saldatura tra le necessità dell’Emirato e gli obiettivi di Ankara, Teheran e Nuova Delhi, e quindi l’ingresso di nuovi attori nella gestione della disputa, potrebbe disegnare un quadro inedito in cui l’ascendente di Riad rischia di diminuire favorendo l’espansione dell’influenza di altre potenze nel contesto del Golfo e l’emergere di dinamiche fuori dal controllo diretto degli Al-Saud.

A confermare una simile possibilità è intervenuto anche il crescente disimpegno in Medio Oriente di potenze globali come gli Usa che potrebbe avvantaggiare tanto il Regno saudita, libero di colmare il vuoto lasciato da Washington e di imporsi come punto di riferimento esclusivo nella regione, quanto le ambizioni di altri attori in grado di competere su più livelli che potrebbero invece contribuire alla creazione di un nuovo ordine regionale (sgradito ai sauditi) caratterizzato da un multilateralismo ed una competitività più marcati rispetto al passato.

Una simile congiuntura potrebbe condurre l’Arabia ad assumere un atteggiamento meno assertivo e inflessibile, attraverso il riordino delle proprie priorità e l’apertura di alcuni spazi di negoziazione, con il duplice obiettivo di rendere più incisiva la propria azione nel contesto mediorientale e contrastare l’emergere di nuovi protagonisti potenzialmente rivali degli Al-Saud e delle loro aspirazioni egemoniche. Oppure, se si considera l’intransigenza dimostrata dalla leadership saudita dall’inizio della crisi nel giugno 2017, Riad potrebbe reagire a questo riposizionamento degli attori locali, regionali ed internazionali adottando una strategia di logoramento progressivo e di minacce tese a debilitare ulteriormente lo Stato qatarino e a scoraggiare tutti quei Paesi finora allineati a Riad dal tentativo di smarcarsi dalla linea dettata dagli Al-Saud.

In questo clima ancora permeato da tensioni e accuse che non sembra favorire una rapida ricomposizione della frattura tra Arabia Saudita e Qatar, l’atteggiamento di quest’ultimo appare comunque più ragionevole, coerente e disponibile rispetto a quello dimostrato dai quattro Stati assedianti che con le loro richieste irrealistiche non stanno certo facilitando la soluzione della disputa, ma sicuramente perdendo credibilità e sostegno a livello internazionale.

di Marta Panaiotti

Roma, incontri di geopolitica alla società Geografica Italiana

EUROPA di

Giovedi 12 ottobre si é aperto il ciclo “Nuovi orizzonti del pensiero geografico: la geopolitica oggi” che vedrà altri due incontri, presso la società geografica italiana di Roma. Quali sono i temi dei dibattiti? A chi sono diretti? Il primo incontro ha affrontato  la responsabilità degli intellettuali di fronte al potere, dove sono intervenuti Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali presso l Università di Milano, Dario fabbri, facente parte della redazione della rivista di geopolitica Limes, Maria Luisa Sturani dell Università di Torino e Lida Viganoni direttamente dall Orientale di Napoli.

Oltre che per la provenienza, tutti questi “intellettuali” hanno presentato la loro posizione discordante o per lo meno differente  circa il tema proposto. Innanzitutto bisogna citare l’ organizzatore di questa serie di incontri:  il geografo Edoardo Boria, che a partire dal suo video “che cos’é la geopolitica” é stato lo spunto delle riflessioni. Da qui si distaccano due filoni principali di concezione del ruolo dell’intellettuale: un primo che sta al lato del “principe”, contribuendo quindi alle decisioni politiche orientandole verso le sue intuizioni, un secondo che invece ritiene che il suo lavoro  debba rimanere autonomo ed isolato dall’ esterno. Si sviluppa cosi l’idea della geopolitica come strumento per la sottomissione da parte del potere o istituzioni, spesso manipolatori delle informazioni poi trasmesse pubblicamente.

Colombo esordisce con la necessitá di intervenire nella realtà odierna, non potendo restare passivi e quindi oggetto di strategia del potere; l’ intellettuale  non vive più l’emarginazione  ma sono i suoi “costi” ora che lo inducono sovente a fargli restringere anziché allargare gli orizzonti. Il professore ritiene che l ‘intellettuale debba trovare la corretta focalizzazione delle vere problematiche dello scenario politico.

Secondo Fabbri poi, la geopolitica può influire sulla politica, soprattutto nella tattica o strategia, per quanto riguarda quindi le questioni strutturali. I compiti dell’ intellettuale ? Fornire una valutazione nella maniera più asettica possibile e non focalizzandosi su specifici aspetti. Ritiene poi che ci debba essere una minor intercambiabilità culturale tra i paesi, così da poter acquisire un’identità ben solida senza influenze esterne.
Sturani supporta il contributo che l’ intellettuale deve dare al sapere scientifico in generale, da un pubblico più o meno esperto.

La professoressa Viganoni ritiene infine fondamentale l’elemento locale insieme alle componenti territoriali di ciascuno Stato per la comprensione e approfondimento dei temi geopolitici. Gli intellettuali, a partire dagli insegnanti a contatto con gli studenti, devono assumere un atteggiamento critico così da poterlo trasmettere, influendo sulla creazione di un’opinione generale che non segua però quella di massa.
È senza dubbio complesso poter analizzare gli innumerevoli ruoli presenti nelle società odierne che interagiscono nei processi sociali e politici ma è altresì fondamentale saperli distinguere e che ciascuno contribuisca al miglioramento altrui, ma se non dopo aver pensato al proprio di miglioramento.
.. Al prossimo incontro.

LauraSacher

Dure parole dell’UE contro la Corea del Nord e il Myanmar.

Il 16 ottobre è stato un giorno intenso anche sotto il punto di vista delle operazioni più squisitamente politiche dell’UE.

Prima di tutto il Consiglio ha adottato delle conclusioni sul Myanmar/Birmania, abbastanza dure, in cui si legge che “la situazione umanitaria e dei diritti umani nello Stato di Rakhine è estremamente grave” per via delle notizie, recentemente diffuse, su violenze nei confronti della popolazione e di gravi violazioni dei diritti umani (uso di mine, violenza di genere, uso indiscriminato di armi da fuoco). Nel documento si parla della popolazione Rohingya, che sta fuggendo in Bangladesh, e si lancia un appello a tutte le parti in conflitto

Rohingya in fuga verso il Bangladesh su mezzi di fortuna (fonte www.rai.it)

affinché le violenze cessino. Nel frattempo, l’UE ha intensificato l’assistenza umanitaria a favore dei rifugiati Rohingya in Bangladesh e si è dichiarata pronta a estendere le proprie attività a favore di tutte le persone in stato di necessità nello Stato di Rakhine, una volta che venga consentito l’accesso ad una sua missione (in virtù del principio giuridico internazionale secondo il quale uno Stato in crisi debba necessariamente acconsentire all’ingresso di organizzazioni internazionali nel suo territorio). 

D’altro canto – si legge in una nota – l’UE si è compiaciuta del fatto che alcuni enti governativi si stiano occupando del triste fenomeno dell’apolidia dei Rohingya e che il governo si stia in qualche modo impegnando a consegnare alla giustizia  i responsabili delle violazioni dei diritti umani (spesso commesse anche nei confronti di minori) e lo ha invitato a collaborare con la Commissione Internazionale dei Diritti Umani dell’ONU, che ha stabilito una missione in quei territori.

Nel contempo però, l’UE ha stigmatizzato lo sproporzionato uso della forza da parte delle forze di sicurezza ed ha annunciato che rivedrà tutti gli accordi di cooperazione concreta in materia di difesa, confermando la permanenza del vigente embargo su armi e affini e promettendo anche misure più drastiche, in ogni sede, qualora la situazione dovesse non mutare.  Insomma: una situazione ancora in divenire, e dagli scenari mutevoli, anche perché in Myanmar esiste una Delegazione UE, ossia una vera e propria ambasciate dell’Unione, che dipende dal Servizio di Azione Esterna.

Una delle strade “deserte” di Pyongyang, capitale della Corea del Nord.

Altro fronte aperto rimane quello della Corea del Nord. Il 16 ottobre il Consiglio in versione “Affari esteri” ha infatti discusso del dossier, con particolare riferimento allo sviluppo di armi nucleari e di missili balistici che hanno violato totalmente ogni risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite al riguardo.

L’UE ha comminato ulteriori sanzioni, che rafforzano quelle già decise in ambito ONU:

 

  • il divieto totale di investimenti dell’UE in Corea del Nord, in ogni settore: in precedenza il divieto era circoscritto agli investimenti nell’industria nucleare e delle armi convenzionali, nei settori minerario, della raffinazione e delle industrie chimiche, della metallurgia e della lavorazione dei metalli, nonché nel settore aerospaziale. Ora non si può investire più in Nord Corea. 
  • il divieto totale della vendita di prodotti petroliferi raffinati e petrolio greggio, senza alcuna limitazione in pejus. Prima c’erano dei limiti, già insopportabili, che comunque permettevano un minimo commercio di idrocarburi. Ora tutto questo non sara proprio più possibile. 
  • la riduzione dell’importo delle rimesse personali, da parte dei nordocreani residenti all’estero, da 15.000  a 5.000 euro, in ragione dei sospetti che queste siano utilizzate per sostenere programmi illegali connessi al nucleare o ai missili balistici. Quindi, difficoltà anche a spedire i soldi a casa: non verranno nemmeno rinnovati i permessi di lavoro per i cittadini nordcoreani presenti nel territorio dell’Unione (tranne per coloro che godono della protezione internazionale, perché rifugiati. In poche parole, solo ai dissidenti del regime dei Kim verranno garantiti lavoro ed assistenza). 

Il Consiglio ha inoltre inserito negli elenchi delle persone ed entità soggette al congelamento dei beni e a restrizioni di viaggio tre persone e sei società che sostengono i programmi nucleari illeciti. Sono quindi 41 le persone e 10 le società sottoposte a misure restrittive nei confronti della Corea del Nord – che si aggiungono alle 63 persone e 53 entità designate dalle Nazioni Unite – a cui si sta cercando in tutti i modi di “tarpare le ali” per fare pressione sul (pericoloso) governo di Pyongyang. 

(fonte www.consilium.europa.eu)

L’UE sempre più “operativa” nelle aree di crisi: nuova missione in Iraq, confermata missione in Bosnia, adottata nuova strategia per l’Afghanistan

Il 16 ottobre è stata una giornata impegnativa per la politica di sicurezza dell’UE, per vari motivi.

In primis, il Consiglio ha lanciato una nuova missione civile nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) in Iraq. La missione sarà incentrata sul sostegno alle autorità irachene nell’attuazione degli aspetti civili della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq, e sarà guidata dal tedesco Markus Ritter. Saranno 35 gli esperti dell’UE che forniranno consulenza e assistenza in diversi settori fondamentali identificati come “critici” (nel senso anglosassone del termine) dalle autorità irachene.  La missione dovrebbe essere dispiegata a Baghdad entro la fine dell’anno, e dovrebbe avere un costo (inziale) di 14 milioni di euro. La missione, sotto egida PSDC si inquadra nelle missioni così dette “civili” dell’UE: ossia quelle missioni che hanno il principale obiettivo di ricostruire le istituzioni nei paesi martoriate dalla guerra, che ne siano usciti o ne stiano uscendo. Normalmente l’UE invia degli esperti (per l’appunto) civili, affinché affianchino le autorità locali e tentino di riformare e rifondare i settori della pubblica amministrazione: polizia, apparato giudiziario, sanità. Ma gli esperti possono fornire consulenza anche in settori come l’uguaglianza di genere ed i diritti umani; insomma: tentano in ogni modo di ripristinare o di stabilire lo stato di diritto. Le missioni dell’UE vengono dirette dal Comitato Politico di Sicurezza, che risponde all’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE (ora Federica Mogherini). L’Alto Rappresentante è a capo del SEAE, il Servizio di Azione esterna dell’UE, e presiede anche il Consiglio dell’UE nella sua versione “Affari Esteri” (cosa anomala per il Consiglio, la cui presidenza nei diversi settori

La sede del Servizio Europeo di Azione Esterna a Bruxelles

di legiferazione, normalmente, è a rotazione).  L’Alto Rappresentante è anche uno dei Vice Presidenti della Commissione europea: è l’unica figura, quindi, a cavallo sia del Consiglio che della Commissione. Il Comitato Politico di Sicurezza ha due ulteriori entità alle sue dipendenze: il Comitato Militare dell’UE, che guida le missioni di taglio più “robusto” o militare, ed il così detto CIVCOM o comitato per la gestione civile delle crisi. A occhio e croce questa nuova missione in Iraq dovrebbe inquadrarsi sotto l’egida del CIVCOM. L’obiettivo della strategia di sicurezza nazionale dell’Iraq è creare istituzioni statali capaci di consolidare la sicurezza e la pace e di prevenire i conflitti, rispettando nel contempo lo Stato di diritto e le norme in materia di diritti umani. La strategia individua una serie di minacce urgenti alla sicurezza nazionale – tra cui terrorismo, corruzione, instabilità politica e polarizzazione etnica e settaria – che la missione PSDC contribuirà ad affrontare.

La missione opererà in stretto coordinamento con la delegazione dell’UE in Iraq e con i partner internazionali presenti nel paese, compresi il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), la NATO e la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Il che significa che le questioni squisitamente militare

Soldati dell’EUFOR e forze di polizia della Bosnia Erzegovina (fonte www.euforbih.org)

resteranno un affaire della NATO.

In secundis, il Consiglio ha ribadito e confermato il suo impegno a favore della prospettiva europea della Bosnia-Erzegovina come paese unico, unito e sovrano ed ha ufficialmente stigmatizzato il fatto che, negli ultimi mesi, le riforme siano state rallentate a causa di politiche legate al (triste) passato e di polemiche sorte in occasione delle elezioni anticipate.

Per tale motivo, l’Istituzione europea ha dichiarato, con una nota, che approva ed accetta di buon grado il fatto che l’operazione ALTHEA continui ad esistere in BiH. Le forze militari impegnate nell’operazione contribuiscono ormai da tempo alla capacità di deterrenza delle legittime autorità bosniache nelle situazioni di crisi. Inoltre, non si può non dire che la forza multinazionale europea, con sede presso la base di Butmir e “succursali” in tutto il paese,  ha effettivamente contribuito anche a formare ed incrementare le capacità delle forze armate e di polizia bosniache e, più in generale, a sostenere tutti i settori della pubblica amministrazione che andavano riformati.

Infine, sempre il Consiglio ha adottato delle conclusioni su una strategia dell’UE relativa all’Afghanistan. Nel documento è stato ribadito l’impegno a lungo termine dell’UE e degli Stati membri in Afghanistan per promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo sostenibile. La strategia si concentra su quattro settori prioritari, così come elencati nel documento: la promozione della pace, della stabilità e della sicurezza nella regione; il rafforzamento della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani e la promozione della buona governance e dell’emancipazione delle donne; il sostegno allo sviluppo economico e umano; la gestione delle sfide legate alla migrazione. L’UE vanta ormai una lunga storia di cooperazione con l’Afghanistan ed in Afghanistan volta a contrastare la corruzione e la povertà ed a favorire la crescita economica ed il rafforzamento delle istituzioni democratiche.

In un solo giorno tre segnali da parte di un UE sempre più impegnata ben oltre i suoi confini, e – come nell’ultimo caso esaminato – ben oltre le così dette politiche di vicinato. In futuro, aspettiamoci un’Europa sempre più solida e più compatta nel campo della risoluzione (militare o civile) delle crisi internazionali, magari anche al fianco della NATO e, sicuramente, su mandato dell’ONU.

 

(fonte www.consilium.europa.eu)

Giornalista uccisa a Malta: l’OSCE e l’UE impegnati nei diritti umani, nella libertà di stampa e di espressione.

È stato comunicato ufficialmente oggi dall’OSCE che la 19esima conferenza sull’Open Journalism in Asia Centrale (che si terrà a Tashkent dal 17 al 19 ottobre), verrà presieduta dal Rappresentante dell’OSCE per la libertà di stampa, Harlem Désir, che ricopre questo incarico dal luglio scorso. La conferenza sull’Open journalism nell’Asia Centrale si tiene ogni anno e garantisce un form per la discussione di questioni relative alla libertà di espressione ed integrai

(fonte www.osce.org)

doveri istituzionali dell’OSCE nello specifico settore, ovviamente in territorio centroasiatico. Désir incontrerà nella circostanza alti funzionari degli Stati aderenti e rappresentanti della società civile e dei media per discutere, in particolare, dello stato della libertà di stampa in Uzbekistan ed in tutte le aree di competenza dell’OSCE. Ma oltre alla rappresentativa uzbeka, lo stato dell’arte in materia verrà discusso in questi due giorni da oltre 100 partecipanti, tra cui attori istituzionali, giornalisti ed accademici provenienti da Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Turkmenistan, con rappresentanti provenienti persino dalla Mongolia ed altri esperti internazionali. Il Rappresentante OSCE ha il compito di monitorare gli sviluppi della libertà di stampa e di espressione presso i 57 Stati membri dell’OSCE e di denunciare le violazioni in tali settori, indicando anche quali siano le prescrizioni dell’OSCE in materia. E proprio oggi, per esempio, ha chiesto alle autorità maltesi di indagare velocemente sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia, giornalista uccisa in questi giorni sull’isola. Nel formulare le sue condoglianze alla famiglia, Désir si è detto “profondamente scioccato ed offeso dall’omicidio” della giornalista, che ha definito “fiera, investigatrice e coraggiosa”, ed ha chiesto che tutto il mondo conosca chi ne ha cagionato la morte.

Daphne Caruana Galizia (fonte www.wikipedia.it)

La collega era infatti autrice su Malta Indipendent, e scriveva su un suo blog personale. È  morta questo lunedì (16 ottobre) pomeriggio in una macchina appena noleggiata, che è esplosa con lei a bordo: aveva denunciato di essere stata minacciata di morte due settimane prima. Già da febbraio – si legge in una nota dell’OSCE – l’ufficio del Rappresentante per la libertà di stampa aveva invitato le autorità maltesi a proteggere la giornalista e la libertà di stampa, in generale. È pur vero che lo stesso Rappresentante – cha ribadito come “silenziare i giornalisti uccidendoli sia un fatto inaccettabile” ha apprezzato sin da subito le indagini immediatamente avviate dagli inquirenti della polizia maltese ed ha ulteriormente espresso apprezzamento per il fatto che il Primo Ministro Muscat e le altre autorità abbiano immediatamente condannato l’attacco. Non esistono delle stime ufficiali e universalmente condivise sullo stato della libertà di stampa nel mondo. Annualmente l’organizzazione Reporters san frontières stila una classifica di 180 Paesi: quest’anno l’Italia si è classificata solamente al 52° posto. Ma come vengono compilati questi elenchi? Ce lo spiega in un suo articolo di aprile u. s. la giornalista de La Stampa Nadia Ferrigo. L’ONG per giornalisti invia ai suoi partners dei questionari da compilare in merito a  “pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusi”. All’ultimo posto? Ovviamente la Corea del Nord, di cui abbiamo svariate volte esaltato le prodezze geopolitiche su questa rivista. Ma come mai l’Italia è in una zona quasi di pericolo? Parrebbe che i giornalisti si sentano in parte minacciati dalla pressioni politiche, ed optino talvolta per non esprimersi. La colpa, sembrerebbe, è da attribuirsi ad alcuni partiti populisti, che hanno assunto talvolta posizioni anti-media. Ma per correttezza (e non per paura) preferiamo non entrare nella discussione politica.

Harlem Désir, rappresentante OSCE per la libetà di stampa (fonte www.OSCE.org)

Apprezziamo invece il lavoro dell’OSCE e ci rammarichiamo davvero per la scomparsa di una collega, vittima della sopraffazione e dell’ignoranza che, purtroppo, non hanno bandiera e non hanno colore. Anzi: forse hanno proprio tutte le bandiere e tutti i colori. Alla sua famiglia ed ai suoi colleghi, le espressioni più sentite della redazione di European Affairs.

Ci fa piacere e ci entusiasma, invece, come proprio oggi anche l’UE abbia ribadito l’importanza dei diritti umani e, tra questi, quello ad esprimersi liberamente. Il Consiglio “Affari esteri”, in data odierna, ha discusso infatti della politica dell’UE in materia di diritti umani e delle modalità migliori per promuoverli nei contesti bilaterali e multilaterali. L’Istituzione europea ha ribadito l’impegno dell’UE a promuovere e proteggere i diritti umani ovunque nel mondo, adottando conclusioni sulla revisione intermedia del piano d’azione per i diritti umani e la democrazia. Ha adottato anche la sua relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2016. Ma questa è (anche) un’altra storia.

Trump e l’Europa, prove generali dello scontro?

AMERICHE/EUROPA/POLITICA/SICUREZZA di

Rilevata l’importanza dell’asse Francia-Germania all’interno dell’Unione Europea (https://goo.gl/fU4azs) e quanto dipenderà soprattutto da esso lo sviluppo dell’integrazione in materia di Difesa e Sicurezza, è necessario sottolineare che la relazione tra l’UE e il partner transatlantico continua e continuerà ad influenzare i progressi comunitari in ambito di “hard policies” sia agendo che non agendo.

Lungi dal voler ridurre il rapporto tra NATO e Difesa UE ad una mera compensazione per cui se la NATO difetta, gli alleati europei danno nuovo impulso all’integrazione UE di Difesa e Sicurezza, e viceversa, è, però, da notare come negli ultimi mesi la retorica europea abbia evidenziato la necessità di maggiore integrazione UE proprio a causa di una sopraggiunta inaffidabilità del partner americano (in particolare si rimanda alla dichiarazione della Cancelliera Merkel “The times in which we could rely fully on others — they are somewhat over”, a margine del summit NATO a Bruxelles).

Neanche dopo 5 mesi dal summit NATO di Bruxelles, il rapporto UE-NATO sembra essere messo alla prova su un dossier scottante, l’Iran. Durante la conferenza stampa del 13 ottobre, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato una nuova strategia USA per l’Iran che si fonderà su:

  1. Un lavoro congiunto con gli alleati per lottare contro il ruolo destabilizzante di Teheran.
  2. Un nuovo regime di sanzioni contro il paese.
  3. Nuove azioni per contrastare non più solo la corsa al nucleare, ma la proliferazione missilistica e di armi che possano minacciare la regione, il commercio internazionale e la libertà di navigazione.
  4. Un rinnovato impegno contro ogni possibile percorso iraniano verso il nucleare.

Concludendo, il Presidente Trump ha annunciato che non certificherà più l’effettivo rispetto dell’accordo da parte iraniana presso il Congresso, de facto delegando ad esso la stesura di un nuovo set di requisiti per l’Iran che comprenda anche misure di contro-proliferazione missilistica. Nel caso in cui il Congresso non riuscisse nel suo intento, il Presidente si riserva di “terminare l’accordo”.

Quello che Trump sembra proporre più che una nuova strategia sembra un ritorno all’approccio pre-2015 e in maniera neanche troppo radicale. Le uniche due manovre dichiarate, nuove sanzioni contro le Guardie della Rivoluzione Islamica e la non-certificazione, non implicano l’uscita degli USA dall’accordo. Ci si chiede se, quindi, le discussioni in Congresso siano un pro-forma e il Partito Repubblicano, facendo fallire qualsiasi compromesso, voglia appoggiare il Presidente (che ha criticato aspramente l’Iran Deal) permettendogli, così, di tirare fuori gli Stati Uniti dall’accordo, oppure se, effettivamente, Trump abbia delegato al Congresso la gestione di un dossier così importante come quello dell’accordo iraniano.

Intanto, le reazioni dei leader europei non si sono fatte attendere. Emmanuel Macron, Theresa May e Angela Merkel hanno preso parola congiuntamente con un comunicato stampa che recita:

We stand committed to the JCPoA and its full implementation by all sides. Preserving the JCPoA is in our shared national security interest. […] Therefore, we encourage the US Administration and Congress to consider the implications to the security of the US and its allies before taking any steps that might undermine the JCPoA, such as re-imposing sanctions on Iran lifted under the agreement.”

Simili le parole di Paolo Gentiloni:

L’Italia […] si unisce alla preoccupazione espressa dai Capi di Stato e di Governo di Francia, Germania e Regno Unito per le possibili conseguenze. Preservare l’accordo, unanimemente fatto proprio dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 2231, corrisponde a interessi di sicurezza nazionali condivisi.”

Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, in maniera più dura ha dichiarato che:

We cannot afford as the international community to dismantle a nuclear agreement that is working. This deal is not a bilateral agreement […] The international community, and the European Union with it, has clearly indicated that the deal is, and will, continue to be in place.”

Stiamo osservando una cristallizzazione delle posizioni transatlantiche sull’Iran che porterà a risultati incerti per quanto riguarda la tenuta dell’accordo. Quello che è chiaro è che lo scontro sull’accordo iraniano è stato semplicemente ritardato e che, quando sorgerà, avrà delle conseguenze anche sul ruolo della NATO in Europa.

Guarda anche “Sull’Iran, tutti contro Trump – Infografica

Lorenzo Termine

12 e 13 ottobre: i Ministri della Giustizia e dell’Interno europei si incontrano a Bruxelles.

Il Palazzo Justus Lipsius, sed eprincipale del Consiglio dell’UE.

Varie volte su queste colonne abbiamo avuto modo di parlare delle istituzioni europee deputate alla sicurezza interna, ossia all’interno delle frontiere dell’Unione. Una di queste è di sicuro il Consiglio Giustizia  Affari Interni, che riunisce a Bruxelles, con cadenza mensile, tutti i ministri dell’Interno e della Giustizia degli Stati membri. Ovviamente gli argomenti oggetto di discussione si soffermano sulle proposte legislative in itinere tra le viari istituzioni europee coinvolte. Di volta in volta, vuoi su input della Commissione europea, vuoi sulla base del lavoro dei  sottogruppi strategici e tecnici che sempre in seno al Consiglio si riuniscono, il Consiglio GAI affronta gli argomenti più disparati: dalla gestione delle frontiere esterne, all’ordinamento delle agenzie europee che operano nel settore, dal terrorismo all’eguaglianza di genere, dal cybercrime all’immigrazione ed all’asilo, dalla cooperazione giudiziaria alla procura europea. A distanza di qualche mese dall’avvio delle primissime attività della Presidenza estone, non possiamo non lodare le numerosissime iniziative intraprese nel settore dallo Stato membro baltico, di cui abbiamo esaltato parecchie peculiarità diverse volte qui su Europeanaffairs.it (qui, qui e qui ): un particolare impulso è stato dato proprio alle banche dati, allo scambio delle informazioni tra forze di polizia, alla cooperazione con le agenzie GAI specializzate; il tutto nell’ottica di una visione sempre più analitica e statisticamente intellegibile dei fenomeni securitari dell’Unione, volta a cercare rimedi e soluzioni altrettanto analiticamente misurabili e subito operativi sul campo.

Non a caso, la velocità con cui il Consiglio GAI promuove l’iter legislativo, la rapidità con cui discute di quanto portato alla sua attenzione in sede strategica e tecnica e l’efficacia delle azioni intraprese, molto dipendono dalla Presidenza di turno. Repetita iuvant, chi assume la Presidenza del Consiglio dell’Unione, guida tutti i tavoli  anche a livello ministeriale, quando il Consiglio si riunisce in diverse “versioni” per legiferare rispettivamente in “diverse” materie.

Ma veniamo a noi: il 12 ed il 13 ottobre a Bruxelles si è riunito un’altra volta il Consiglio GAI. Sono stati affrontati vari argomenti. Ci soffermeremo su quelli più inerenti gli home affairs, facendo un volo in planata sulle questioni attinenti alla giustizia.

Dopo un breve scambio di vedute sulla proposta di modifica del Codice Frontiere Schengen, già da tempo all’ordine del giorno del Consiglio, i Ministri hanno subito rinviato a quanto verrà loro suggerito a livello tecnico: la riforma del Codice Schengen prevede dei cambiamente nelle regole che disciplinano la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne agli Stati membri. Inutile nascondere che l’argomento è un topic sensibile e non è facile, almeno a livello politico, raggiungere immediati accordi: pertanto è necessario che i tecnici, i così detti “eurocrati” (termine che noi non consideriamo dispregiativo, anzi) trovino prima delle possibili soluzioni compromissorie, sul campo.

A sinistra il commissario europeo per la Migrazione,Avramopoulos e a destra, il Ministro dell’Interno Estone, presidente del Consiglio GAI, Andreas Anvelt (foto www.consilium.europa.eu)

Alto argomento dibattuto è stato il terrorismo: è già il secondo mese che la Presidenza propone scambi di vedute sullo scambio di informazioni in chiave anti-terrorismo tra le Forze Armate e le Forze di Polizia. Anche questo argomento è però di difficile evoluzione: come abbiamo già detto su questo giornale (qui) non intravediamo nel breve periodo la nascita di una intelligence europea. Nessuno la intravede. E questo gli Stati membri, tutti gelosi della loro intelligence – dove non esistono alleanze – lo sanno bene. Si sta tentando allora di diffondere chiaramente l’idea che le Forze Armate, ormai da parecchi anni impegnate in medio-oriente ed in altre aree di crisi, godono dell’immenso privilegio di raccogliere intelligence durante le operazioni da loro condotte in queste aree e sono, sull’argomento, molto ferrate. Le loro informazioni, che sono quindi processate ed analizzate con rigore scientifico e , per l’appunto, militare, sono una risorsa preziosa. Queste informazioni sarebbero utilissime se condivise tra gli Stati e, ancora di più, tra le loro forze di polizia. Di sicuro i Paesi di origine “latina”, che annoverano tra le loro forze di polizia delle componenti di gendarmeria (ossia di forze di polizia a statuto militare, con competenza anche sulle questioni civili e di ordine pubblico) saranno avvantaggiati in questo ambito, proprio perché le gendarmerie possono dialogare indistintamente ed efficacemente sia con le forze militari sia con le forze di polizia ad ordinamento civile. Ma a parole sono bravi tutti: come abbiamo cercato di dimostrare in passato, un conto è scambiare informazioni di polizia, di taglio investigativo, ed un conto è scambiare ed utilizzare in ambito giudiziario informazioni coperte dal segreto perché raccolte dall’intelligence militare. Ogni ordinamento giuridico, e giudiziario,  di ogni Stato membro, è diverso dall’altro:  in qualche caso, molti Stati sono favorevoli ad una raccolta ed una condivisione dell’intelligence senza limitazioni ed a tutta birra; in alcuni Stati – sembrerà assurdo – l’azione penale non è obbligatoria da parte degli inquirenti (il che significa che un magistrato od un poliziotto potrebbero anche tenere per sé un’informazione relativa ad un reato, utilizzandola in un secondo momento… cosa impossibile in Italia!); in altri Stati la privacy, la corretta utilizzazione delle informazioni in sede giudiziaria, la più precisa separazione tra “poteri”, rappresentano capisaldi del diritto, che non possono essere intaccati se non in casi eclatanti, per necessità ampiamente comprovate. Ma va da sé che se l’intelligence si chiama così proprio perché è molto difficile parlare di dati “comprovati”. Insomma, l’Europa è in realtà ancora lontana, secondo chi scrive, dal raggiungere un accordo in materia. Altro argomento spinoso, di cui i Ministri hanno discusso, è quello dell’immigrazione: avanza l’iter legislativo per l’istituzione di un Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS – Common European Asylum System), e per il miglioramento del sistema EURODAC (che consente di identificare in maniera chiara ed incontrovertibile l’identità dei richiedenti asilo, principalmente per evitare che una persona possa richiederlo in più paesi contemporaneamente o in caso di diniego da parte di uno degli Stati membri). È una novità invece il tentativo della Presidenza di ricevere mandato dal Consiglio per avviare i negoziati con il Parlamento europeo su una normativa che disciplini e regoli la ricollocazione dei migranti e le prescrizioni in capo agli Stati membri nel settore della loro accoglienza. Una norma che, se approvata come piace a noi, metterebbe in mora gli Stati che fanno finta di non sentirci, quando si tratta di accoglienza dei migranti e, in più, metterebbe in ridicolo tutti quei movimenti di destra più o meno estrema che, cavalcando la tigre dell’intolleranza e della disoccupazione dei connazionali, rendono impossibile il processo di integrazione europea ed espongono i propri governi alle ire della Commissione, sempre pronta – con draconiana e giusta severità – ad avviare procedure di infrazione contro gli inadempienti.

Il Ministro italiano Orlando, il 12 ottobre, alla riunione dei Ministri della Giustizia (foto www.consilium.europa.it)

In ogni caso, non si può negare che ciascuno – a modo suo – sta cercando di far confluire in uno sforzo congiunto il tentativo di risolvere i problemi e le paure dei cittadini in questi settori.

Il giorno 12 ottobre, invece, i ministri della Giustizia hanno portato avanti l’iter legislativo per la creazione di una procura europea (EPPO – Europeana Public Prosecutor’s Office), che avrà tra i primi incarichi quello di indagare e punire chi si macchierà di offese agli interessi finanziari dell’Unione. Altro tassello  che si sta felicemente incasellando è quello della creazione del sistema ECRIS: European Criminal Records Information System, una banca dati centralizzata dei casellari giudiziali degli Stati membri, che dovrebbe facilitare il contrasto a vari fenomeni criminali, specialmente ste transfrontalieri e transazionali.

Kurdistan, Bagdad muove le truppe verso Kirkuk dopo il referendum

ASIA PACIFICO di

Dopo il voto referendario dello scorso 25 settembre il governo  della regione autonoma del Kurdistan aveva assunto una posizione attendista non dichiarando subito l’indipendenza e lasciando una porta aperta al dialogo con il governo centrale di Bagdad che però sembra non essere rimasta tale.

In un comunicato diramato dal governo regionale di Erbil viene denunciata una massiccia operazione militare da parte dell’esercito regolare Iracheno e delle milizie Ashd e Shaabi si sta svolgendo in queste ore nella regione con l’obiettivo dichiarato dall’intelligence Kurda di prendere possesso delle citta di Mosul e di Kirkuk e i relativi giacimenti petroliferi.

Il governo della regione autonoma del Kurdistan Iracheno chiede alla comunità internazionale di intervenire e di salvaguardare la sicurezza dell’autonomia e della popolazione Kurda che tanto ha dato nella lotta al terrorismo nell’area.

MIBIL: Ministro della difesa libanese Yacoub Sarraf in visita al comando generale.

MEDIO ORIENTE di

Il 10 ottobre scorso, il ministro della difesa libanese Yacoub Sarraf, accompagnato dall’ambasciatore Italiano in Libano Massimo Marotti, è andato in visita presso il comando della MIBIL, in Al Samaya, Sud del Libano. L’acronimo MIBIL sta per missione italiana bilaterale in Libano. Inquadrata in ambito ONU, dal 2015 si propone di supportare il Libano che, alla luce del conflitto siriano, è affetto da numerosi disagi sociali ed economici. A seguito  delle gravi ripercussioni sui fronti della stabilità e della sicurezza l’Italia ha avviato delle attività bilaterali nel settore della formazione del personale militare libanese(LAF).

Ad accogliere Yacoub Sarraf c’era il comandante Stefano Giribono, in carica dal 15 settembre scorso. Durante la riunione gli sono state fornite tutte le informazioni riguardanti la MIBIL, da come è nata, passando per l’organizzazione e arrivando ai risultati ed agli obbiettivi futuri. I dati forniti riguardo i corsi di addestramento parlano di 700 unità formate, tra ufficiali, sottoufficiali e militari di truppa, tra il 2016 ed il 2017, con un numero che arriverà a toccare le 1000 unità nelle previsioni per la fine dell’anno solare. Il ministro ha poi assistito simultaneamente ad una dimostrazione pratica del corso mirato a formare le unità cinofile effettive alla guardia presidenziale libanese.

Una volta concluso l’incontro Yacoub Sarraf ha speso parole d’elogio per l’organizzazione della missione, definendosi molto soddisfatto: “Ringrazio davvero per il contributo offerto. Oggi ho avuto la prova di una grande cooperazione. In particolare, in questo contesto di minaccia terroristica, l’Italia non contribuisce solo con UNIFIL, ma anche con la MIBIL che garantisce un ulteriore incremento dell’efficienza delle LAF”. Le autorità si sono poi spostate verso la base “Millevoi” di Shama, sede del Comando del Contingente italiano in Libano, dove il ministro ha firmato l’albo d’onore.

Aung San Suu Kyi, l’incongruenza di un simbolo

ASIA PACIFICO di

Aung San Suu Kyi è il Consigliere di Stato e Ministra degli Esteri della Birmania. E’ famosa in tutto il mondo come “the Lady”, titolo anche di un film che la ritrae come paladina della democrazia e dei diritti umani. Allo stesso modo deve averla vista anche la commissione che le ha assegnato un premio Nobel nel 1991, e non a torto. Aung San Suu Kyi ha vissuto prigioniera in casa sua per venti anni, combattente non violenta per la democrazia. Battaglia che ha vinto con le elezioni del 2013, anno in cui il partito National League of Democracy viene eletto a guidare il passaggio del Paese alla democrazia. Il suo governo negli ultimi 18 mesi ha lavorato ad un progetto di pace e di sviluppo sostenibile che ha però incontrato molte critiche.

Tra le ultime voci che si sono levate contro la premio Nobel, ci sono i suoi colleghi premio Nobel, Malala e Desmond Tutu, nonché una partecipatissima petizione per revocarle il premio. Il motivo di queste critiche sta nel fatto che una regione del Myanmar, il Rakhine, è oggi occupata militarmente, chiuso ad ogni accesso sia da parte di missioni umanitarie che di media, e la popolazione che abita la regione, musulmani Rohingya, sta emigrando in massa verso il Bangladesh (mezzo milione di persone nelle ultime quattro settimane) 

Ora, la difficoltà di accesso alla regione rende di conseguenza difficile avere notizie certe su ciò che sta succedendo in Rakhine. Certe però, sono le testimonianze di chi è fuggito e di chi si sta rifugiando in Bangladesh. Sono notizie di persecuzioni, violenze, stupri e infanticidi commessi dall’esercito di Myanmar contro la popolazione musulmana Rohingya. L’ONU ha definito i recenti avvenimenti un esempio testuale di pulizia etnica. Di qui le accuse a Aung San Suu Kyi, leader di fatto di un paese sconvolto da una tragedia umanitaria, accuse mosse in relazione al suo status di premio Nobel per la Pace.  

Un aspetto da considerare è il fatto che Aung San Suu Kyi è una figura decisamente secondaria quando si parla di sicurezza e difesa dello stato. Il passaggio alla democrazia non è ancora ultimato, e per essere eletta, la leader è dovuta giungere ad un compromesso con l’esercito, lasciandolo a capo di tre ministeri fondamentali del Myanmar: Difesa, Frontiere e Interno. È perciò presumibile che quando si parli di una persecuzione interna, mossa dall’esercito, Aung San Suu Kyi non abbia i mezzi né i poteri per fermarli. Altro è esigere dalla leader quantomeno una dichiarazione, un riconoscimento della situazione. Ciò non è ancora avvenuto; nella sua ultima dichiarazione, la Lady ha parlato di attacchi terroristici contro la polizia, di una maggioranza di popolazione che non è emigrata e di una sostanziale ignoranza da parte del governo delle cause per cui quel mezzo di milione di persone sono oggi in Bangladesh come rifugiati. Nulla insomma, sui Rohingya, sulla persecuzione di questo gruppo etnico né sulla discriminazione sistemica che il governo ha portato avanti negli ultimi 50 anni nei confronti di questa minoranza musulmana. Non sembra perciò che le posizioni di Aung San Suu Kyi e dell’esercito siano discordi sull’argomento, o almeno fino ad ora la leader non si è pronunciata contro le azioni dell’esercito.  

Desmond Tutu, nella sua dichiarazione sull’operato della Lady, ha parlato di incongruenza di un simbolo, della discrepanza tra ciò che Aung San Suu Kyi dovrebbe rappresentare in quanto premio Nobel per la Pace e la realtà della Birmania oggi. Aung San Suu Kyi ha certamente rappresentato l’elemento fondamentale del passaggio alla democrazia per il suo paese, passaggio che come lei stessa afferma non è ancora perfezionato e richiede tempo. Detto ciò il problema che va oggi affrontato non si esaurisce con una dichiarazione di una leader che non ha potere sull’esercito, o con il ritiro del suo premio. Il problema rimane in quel campo profughi in Cox Bazar di mezzo milione di persone, che non diminuiranno nel prossimo futuro, e nei villaggi che continuano a bruciare in Rakhine ma sono inaccessibili ad aiuti umanitari.  

Richiamando le parole di Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana, attualmente in missione in Cox Bazar, serve uno sforzo consistente da parte della comunità internazionale, aiuti concreti al campo profughi e una strategia di risoluzione della crisi in Rakhine, che affronti l’origine dell’emigrazione. Queste devono essere le direttrici dello sforzo internazionale, queste le priorità.

Redazione
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