GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Redazione - page 306

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Iran Afghanistan Railway, 3rd segment construction started today

Asia @en/BreakingNews @en di

The construction of the 3rd segment connecting Iran and Afghanistan started this morning. The ceremony was attended by Iran’s Minister of Roads and Urban Development Abbas Akhundi, Mahmoud Baligh, Afghanistan’s Minister of Public Works, and Eklil Ahmad Hakimi, Afghanistan’s Minister of Finance on Thursday at the border point of Chahsorkh in Herat Province of Afghanistan.

Afghanistan’s Minister of Finance Hakimi said that the rail track would boost the volume of trade between Iran and Afghanistan.

Turkey: Military Makes Second Syrian Incursion

Defence di

Turkey sent tanks over the Syrian border for the second time Sept. 3, crossing into al Rai, Kilis province, from Cobanbey, Dogan news reported.

The military also launched artillery strikes on the area, which has changed hands frequently between Islamic State and rebel forces. Turkey’s first incursion occurred Aug. 24 at the city of Jarabulus 55 kilometers (34 miles) northeast. Also on Sept. 3, Turkish-backed Hamza Brigade and Failaq al-Sham rebels took control of the Syrian villages of Arab Ezra, Fursan, Lilawa, Kino and Najma.

These communities are all west of Jarabulus. After clearing a path for its troops to enter Syria, Turkey is now fully involved in a military campaign in northern Aleppo province. Turkey is attempting to move the Islamic State away from the border and, at the same time, prevent Kurdish militants in the Syrian Democratic Forces from establishing a foothold.

 

Source STRATFOR

Nigeria: Oil Workers Kidnapped In Rivers State

Middle East - Africa di

Militants in Rivers state on the Niger Delta kidnapped 14 Nestoil employees and their driver Sept. 3 on the road from Omoku to Elele, according to local police, Reuters reported. Authorities found their vehicle abandoned and the abductors have not yet contacted the company. No foreigners were among those taken. With the rise of the Niger Delta Avengers militant group, kidnappings of oil workers have increased.

Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000

Benin, viaggio in un paese in bilico

Medio oriente – Africa di

Reportage dal Benin di Loretta Doro

Quando si atterra all’aeroporto di Cotonou si respira subito l’Africa, non quella turistica proposta dai tour operator delle agenzie di viaggio, con spiagge bianche e animali da zoo, ma un paese povero e pieno di contraddizioni. La folata di aria calda ti invade e il tasso di umidità, che a volte può raggiungere anche il 95%, si fa sentire.

Il Benin così poco conosciuto e cosi sorprendentemente con qualcosa da dire. Bisogna avere uno spirito di adattamento e la volontà di immergersi e capire quella realtà, senza mediazioni e propaganda turistica, nulla da riportare agli amici come tipica attrattiva “africana”.

 

Il Benin conta circa 10 milioni di persone ed è posto nell’Africa Occidentale confinante con il Togo, il Burkina Faso, Niger e Nigeria, mentre a sud si affaccia sul Golfo di Guinea, rimanendo uno dei paesi più piccoli di quella zona d’Africa.

La lingua ufficiale è il francese ereditato da un lungo colonialismo di quella nazione, il dialetto più diffuso, soprattutto nei piccoli villaggi della savana, è il fon.

La religione di stato è il vudù che convive con quella cristiana, animista e musulmana

La Capitale amministrativa e sede del Parlamento è Porto Novo, invece Cotonou è la città maggiore, considerata la capitale dal punto di vista economico e sede del Capo dello Stato e del Governo

Il Benin è un paese molto povero, privo di materie prime, per questo poco appetibile dagli investitori alla conquista di business

E’ una Repubblica presidenziale e quando viene eletto il nuovo presidente rinnova tutti i funzionari e politici portando con se tutto un entourage personale composto da amici e parenti, ma continuando a stipendiare i precedenti.

La corruzione, almeno fino al 2015 vigeva ovunque, dal piccolo favore alla grande opera, i governanti non ne fanno un mistero, negli ultimi anni il presidente si è messo in affari con la Cina, che è succeduta alla Russia e precedentemente alla colonizzazione della Francia.

Strade

L’arteria principale che collega il porto di Cotonou e che serve anche il Togo e Burkina Faso, è da anni un cantiere aperto causando disagi enormi.

Gli appalti per la costruzione di strade, negli ultimi anni sono stati completamente in mano ai cinesi facendo morire le pochissime aziende locali. Come moneta di scambio veniva usato il pregiato legno di tek, una patrimonio naturale che rischiava di essere devastata da accordi governativi scapestrati. Tutta l’attrezzatura e macchinari erano di origine cinese e i beninesi venivano considerati solo braccia per lavorare. Il rifacimento stradale non è continuativo e ogni tanto si trova la strada interrotta costringendo gli automobilisti a fare delle deviazioni improvvisate, senza indicazione alcuna per ritornare sulla strada maestra , si è costretti passare all’interno di piccoli villaggi, dove spesso si viene taglieggiati a cambio di poter proseguire. Spesso si creano degli ingorghi incredibili dovuti a camion che non riescono a darsi strada in questi passaggi sterrati strettissimi, causando di frequente risse tra gli autisti. Il tempo che ci vuole per un certo tragitto può essere anche triplicato o di più dovuto a questa mancanza di organizzazione e regole. Ci si può imbattere in taglieggiamenti anche da parte di squadre di polizia statale. Tutto ciò sembra stia cambiando, da quando, nell’Aprile 2016 è stato eletto il nuovo Presidente, Talon Patrice , importante industriale del cotone, che ha bloccato con un decreto, in attesa di una legge specifica, il commercio del legno verso i paesi stranieri, compresa la Cina, con la quale ha troncato tutti i rapporti combattendo anche molta la corruzione. I beninesi però a causa di queste limitazioni di fatto stanno subendo una crisi economica per le molte attività commerciali chiuse e per mancati salari che, anche se erano miseri, permettevano loro di sopravvivere , ma fa ben sperare che ci sia una rinascita con regole più democratiche che portino un beneficio economico anche per i poveri.

 

Il Benin ha proprio bisogno di regole e governabilità adeguata alle condizioni , a cominciare dalle strade nelle quali regna il caos più totale: non esistono diritti di precedenza, ne le più elementari regole di sicurezza, i mezzi sfrecciano in tutte le direzioni. A sinistra si trovano spesso dei camion lentissimi che vanno sorpassati sulla destra. A destra si vedono una moltitudine di moto, la maggior parte delle quali il guidatore indossa una casacca gialla che sta ad indicare il ruolo di moto-taxi chiamati Zemidjan. Ogni motorino può far salire anche 5-6 persone in modo molto precario senza la minima accortezza di protezione, solo il guidatore è obbligato a portare il casco , i passeggeri, compresi bambini molto piccoli in spalla alle madri che ad ogni curva ti viene l’istinto di correre a sorreggerli, non c’è nessuna regola . Di recente è stata destinata una corsia preferenziale, ma esiste solo nell’arteria principale delle due grandi città, le uniche strade asfaltate, tutte le altre sono sterrate con buche che sembrano crateri e segnaletica inesistente. Si vedono lungo le strade degli autocarri e camion che creano un scenario surreale, con dei carichi sporgenti fino all’inverosimile ed essendo molto datati sono spesso in avaria, dove si rompono rimangono anche per una settimana intera prima di venire spostati incuranti se quella sosta avvenga in mezzo alla careggiata e in luogo pericoloso per gli altri automobilisti. Lo smog è a livelli altissimi causato dalla grande concentrazione di veicoli lenti e molto vecchi che sputano dai tubi di scappamento del fumo nero e denso. Anche il suono dei clacson è assordante: ci sono svariati motivi per suonarlo; per salutare, per offendere, per sorpassare, per svoltare.. qualsiasi comunicazione tra autisti viene fatta con questo mezzo assordante, è estremamente difficile per chi non è abituato, guidare in mezzo a questo caos, sembra che in questo paese la regola sia non avere regole. Questo lo si può constatare guardando lungo le strade dove avvengono la maggior parte delle attività giornaliere degli abitanti ciò significa dormire, mangiare, cucinare, urinare, pettinarsi, vendere ogni tipo di oggetto e di alimento coperto da una coltre di sabbia e di insetti, per noi europei è proibitivo assaggiare qualsiasi cosa a loro commestibile tranne qualche banana appena colta, togliendone con molta cautela la buccia. Se si vuole intraprendere un viaggio in pullman ci si può recare nella grande piazza di Cotonou, con una stella rossa come monumento centrale, dove regna una grande confusione e senza indicazione alcuna è molto difficile per noi comuni europei, infatti ci si può trovare ad essere gli unici bianchi in mezzo a tutte persone di colore. L’autista parte quando una specie di controllore con un frustino in mano cerca di scacciare le persone che vogliono salire, significa che il pullman è esaurito, sembrano scene irreali, ma a guardarli in faccia e non vedendo nessun stupore, ma solo un disappunto di non poter salire, fa pensare che per loro sia “normale”. Il viaggio poi si rivela molto faticoso e folcloristico, con persone che ad ogni fermata salgono con dei cellulari per farti fare una telefonata a pagamento o delle donne con in testa enormi cestoni che vogliono venderti a tutti i costi, frutta e bibite dissetanti, si perché dopo qualche kilometro l’aria condizionata “sparisce” sostituita da umidità, odori e caldo. Per i viaggi medio lunghi sono previste anche fermate pipì-stop, dove uomini o donne indistintamente scendono e fanno i loro bisogni lungo la strada. Non ci sono limitazioni di comportamento per i passeggeri, si può mangiare, pregare, sentire la radio altissima che unito al caldo e ai dossi che sembrano dei valichi appuntiti che da un momento , pensi, faranno perdere qualche ruota, crea un disagio enorme. Però se si vuole cambiare mezzo di trasporto, si può optare per un taxi ! Autoveicoli fatiscenti spesso con dei copri sedili di finta pelliccia, naturalmente senza aria condizionata, con passeggeri a volontà, fatti salire appiccicati come sardine, con autisti esagitati, incuranti di qualsiasi minimo codice stradale e ti senti precariamente in mano alla provvidenza.

Mercati e piccolo commercio

L’attività di piccolo commercio è l’unica fonte di reddito per sopravvivere e qualsiasi prezzo va contrattato con molto veemenza

Si trova di tutto, dal cibo alla benzina, dai telefonini alle poltrone, praticamente ogni cosa. Ci sono anche dei mercati permanenti dove si può trovare tutto ciò che serve alla loro vita quotidiana, ma le strade sono un serpentone di bancarelle improvvisate con “commessi” di tutte le età dai bambini piccolissimi a vecchi, a donne che ad un certo punto si mettono a cucinare e a pettinare o far fare i propri bisogni ai bambini più piccoli, con un miscuglio di odori a volte insopportabile, la loro vita praticamente la svolgono in strada, senza una dimensione privata mettendo in condivisione e visione ogni aspetto delle esigenze quotidiane.

Il Vudù

Spesso lungo le strade secondarie si notano degli oggetti vicino a fuochi spenti e oggetti vari, come teste di cane o di pollo, bamboline di pezza, antiche maschere o semplicemente oggetti bruciati: sono i feticci rimasti da recenti riti vudù.

Il Vudù è nato in Benin, poi portato soprattutto in Brasile e Haiti attraverso gli schiavi. La si ritiene una delle religioni più antiche del mondo. La religione vuduista attuale combina elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale africano che era praticato nel Benin prima del colonialismo e concetti tratti dal Cattolicesimo. Il Vudù è praticato da circa 60 milioni di persone in tutto il mondo. A differenza di quanto si ritiene, il Vudù non è solo legato alla magia nera, ma è una religione a tutti gli effetti, dotato di dottrine morali e sociali oltre che di una complessa teologia.

Ogni anno il 10 Gennaio, si celebra la giornata mondiale del Vudù. E’ una grande festa, con canti e suoni con un folcloristico corteo che parte dal santuario del dio serpente, all’interno del quale vivono centinaia di pitoni venerati, sfamati e custoditi 24 ore al giorno con sacrale attenzione. È la spiaggia di Ouidah la meta finale ad accogliere i riti, celebrazioni, travestimenti etc.. dei devoti vuudisti che accorrono da tutto il mondo.

Sfruttamento dei bambini

Chi visita il Benin deve essere pronto a capire e assorbire senza chiedersi tanti perché. Un paese poverissimo e sfruttato dai potenti, ma a sua volta sfruttatore verso i più deboli, per esempio, puoi imbatterti in accompagnatori di ciechi. La cecità è molto diffusa  causata da infezioni non curate, malattie ereditarie, punture di insetti etc.. Molti adulti ciechi benestanti, sono assistiti in tutte le loro esigenze da parte di bambini, venduti dalle proprie famiglie per pochi soldi. Questi ragazzini, vengono trattati alla stregua di schiavi, molto spesso maltrattati. È normale vedere per strada ciechi accompagnati da bambini che, essendo stati acquistati in villaggi dispersi nella savana, non hanno nessuna cognizione di dove si trovano e come accade spesso quando tentano di fuggire, non riescono a trovare la strada di casa e vagano in città fra stenti e soprusi, stessa sorte destinata quando il “padrone” muore, perché non essendo più utili vengono abbandonati al loro destino.

Nel Benin è molto diffuso la vendita dei bambini.

La povertà è il motivo per cui i bambini vengono venduti e inviati al lavoro, è un modo per alleggerire il peso sul resto della famiglia.

Questo comportamento porta allo sfruttamento, abusi e privazioni a questi ragazzi senza colpe.

Ricordiamo che in Benin è normale che una coppia abbia 8/12 figli, e che le ragazze spesso diventano mamme a 12/13 anni.

I bambini vengono acquistati per ogni tipo di lavoro e tra i più pesanti troviamo quello dello spaccapietre. Numerosi piccoli manovali si trovano a lavorare con un martello, spesso enorme rispetto alle loro manine e fin dalle primi luci dell’alba spaccano colpiscono un grosso sasso, fino a renderlo a pezzettini di pochi centimetri, usati poi come materiale edile di costruzione. Si trovano dei veri e propri cantieri fatti da piccole capanne di paglia e i bambini stanno seduti sulla nuda terra, con davanti tante bacinelle da riempire, è una tristezza vedere i loro occhi rassegnati al loro futura privo di speranza. Lo stato del Benin sotto pressioni insistenti da parte di organi mondiali che denunciavano lo sfruttamento dei bambini, ha introdotto una legge che obbliga denunciare lo schiavismo e dichiarare la destinazione dei bambini lavoratori, ma di fatto non viene rispettata e quasi per disprezzo spesso i cartelli si trovano proprio davanti ai cantieri degli schiavisti dei spaccapietre .

 

 

SCHIAVI VERSO LE AMERICHE

In Benin quando si parla di sfruttamento non può non tornare alla mente la storia della tratta degli schiavi che venivano portati nelle piantagioni di cotone nel sud America.

Il Benin è stato uno dei paesi africani più coinvolto nella esportazione degli schiavi.

I regnanti trattavano con gli schiavisti e scambiavano con oggetti anche di poco valore la vita di un uomo( es: 4 persone per 1 pipa, 12 per un fucile….)   A Ouidah nel 2000 è stato eretto un monumento chiamato “La porta del non ritorno” proprio perché le persone catturate partivano da quella spiaggia per le Americhe, imbarcati nelle navi ammassati al limite della sopravvivenza e non facevano più ritorno. È un monumento molto eloquente, visto che da un lato si vedono di spalle due colonne di schiavi che vanno verso una nave, mentre dal lato opposto le due file si vedono di fronte, evidenziando lo sguardo di rassegnazione e le catene che li legano.

 

LE PALAFITTE DI GANVIE’

Nel Benin, più precisamente nel lago di Nakouè si trova una vera e propria città su palafitte che conta circa 30.000 abitanti, si tratta di Ganvié, che significa “La comunità di coloro che finalmente hanno trovato la pace”. Il villaggio è nato nel XVIII secolo, lo si può visitare contrattando un dei proprietari di piccole imbarcazioni che sono stati accorti nel capire l’attrattiva di questo luogo per un visitatore che si trova davanti ad una storia affascinante e la curiosità stimola ad approfondire e a vedere.

Le leggende raccontano che nel 1700 la tribù dei Tofinu cercava di sfuggire ad un gruppo di guerrieri, i Fon, che battevano i villaggi vicini alla ricerca di uomini da vendere come schiavi. Nella fuga si imbatterono in un lago vicino al mare, dove iniziarono a costruire le loro case: solo l’acqua poteva salvarli in quanto un tabù vietava ai Fon anche solo di sfiorarla. Da quel villaggio i Tofinu non si sono mai più spostati, e le poche capanne di allora sono proliferate a centinaia lungo diversi chilometri della costa. In questa città galleggiante, le condizione igienico-sanitarie sono allarmanti: si trova sporcizia ovunque e si vedono bambini frugare tra le immondizie assieme agli animali. gli indigeni che vivono la loro vita spostandosi da una palafitta all’altra con delle piccolissime imbarcazioni, anche solo per andare a trovare un amico in improvvisati bar o acquistare in altrettanti negozi galleggianti, nelle piccole porzioni di terra ferma convivono scrofe e bambini, sacchetti di plastica, tanti, segno del progresso , se ne vedono a grandi quantità in tutto il Benin dalle città ai paesini sperduti o in questi città galleggianti . Qui la vita sembra anche ben organizzata, ogni giorno molte donne con tanti piccoli figli attorno e sempre uno appeso alla schiena, percorrono circa 8 kilometri per andata e 8 per il ritorno, remando sopra piccole piroghe, per raggiungere il mercato permanente di Abomay dove possono comperare o barattare prodotti per la loro sopravvivenza. Sembra impossibile che così tante persone vivano in queste precarie condizioni. Gli uomini, anche in questa città galleggiante, come in tutto il Benin, generalmente non lavorano e spesso si possono vedere ubriachi appoggiati agli alberi o a dormire lungo le strade.

Visitando il Benin molte certezze sull’umano vacillano, ma la voglia di capire e di aiutare deve superare le proprie paure e ritrosie morali.

Un viaggio che fa riflettere e mette a dura prova la resistenza fisica e psicologica, ma ci si deve lasciare guidare da odori, sapori e colori di storia tutta da scoprire.

 

 

Loretta Doro

 

 

 

Nuovi bombardamenti anti-IS della coalizione internazionale in Siria e Iraq

Asia di

Continuano gli attacchi aerei da parte della coalizione internazionale a guida statunitense sui territori siriani e iracheni controllati controllati dall’autoproclamato Stato Islamico (IS). Ad aggiornare sulle ultime operazioni un comunicato ufficiale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

Particolarmente proficui i bombardamenti della giornata di sabato 13 agosto – come tutte le altre operazioni, inseriti all’interno dell’operazione “Inherent Resolve”, che ha come obiettivo la definitiva neutralizzazione di IS in Siria e Iraq.

Quattro di essi sono stati condotti in Siria, nelle zone di Abu Kamal, Dayr Az Zawr e Manbij: particolarmente colpito il giro petrolifero del gruppo terroristico nel paese di Assad. Il grosso delle operazioni aeree – ben dieci bombardamenti – sono state tuttavia condotte in Iraq, dove più le forze di terra sono state coadiuvate dal supporto dei velivoli della coalizione internazionale nella loro avanzata.

Bombe su quattro zone di guerra come Mosul, Qayyarah, Ramadi e Sinjar, nonchè nei pressi della capitale Baghdad, dove nelle ultime settimane IS ha intensificato le sue operazioni terroristiche. Neutralizzate molti veicoli e infrastrutture dell’organizzazione facente capo ad Abu Bakr al-Baghdadi, tra cui torri di comunicazione nei dintorni di Baghdad, alcune autobomba, postazioni tattiche per cecchini, mortai, punti di osservazione e centri di comando.

Nell’ambito dell’operazione “Inherent Resolve”, dunque, il fronte aereo continua ad essere fondamentale – e a dare risultati importanti – nella guerra contro IS in Siria e Iraq. Il Dipartimento della Difesa statunitense ha specificato i paesi facenti parte della coalizione internazionale che agisce contro Daesh con operazioni aeree: Stati Uniti, Australia, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda e Regno Unito in Iraq; Stati Uniti, Australia, Bahrain, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito in Siria. L’Italia non ha preso parte ad alcuno di questi bombardamenti.

di Federico Trastulli

Kurdistan iracheno, l’Italia promuove il diritto allo studio

Asia di

Garantire il diritto allo studio, e soprattutto un posto dove poterlo esercitare, ai giovani rifugiati siriani presso Sulaimainia, nel Kurdistan iracheno. Questo l’obiettivo raggiunto dall’organizzazione “Un ponte per…” all’interno del progetto “Taleem Lil-Jamie – Educazione per tutti”, finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). Il risultato è un centro educativo dove insegnanti e studenti tra i rifugiati siriani del campo curdo di Arbat – in totale oltre 6000 persone in fuga dalla guerra, più di 1000 i minori – potranno esercitare le loro attività.

Presso il centro, si legge nel comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri, saranno proposte numerose “attività educative non formali come sport, circo, musica e teatro. Tra le altre iniziative previste dal progetto, anche l’affitto di 6 microbus per consentire a circa 200 bambini di frequentare le scuole, spesso molto distanti dai luoghi in cui hanno trovato rifugio” – iniziativa, quest’ultima, che ha come obiettivo quello di agevolare i tanti bambini siriani accolti (tra gli oltre 30000 rifugiati totali) nel governorato di Sulaimainia a raggiungere le sole sei strutture scolastiche dichiaratesi disponibili a ricevere i piccoli studenti. Previsti, inoltre, corsi di formazione rivolti agli insegnanti per il supporto psicosociale a bambini con traumi derivati dall’esperienza della guerra nell’ambito dello svolgimento delle attività di insegnamento.

Ad inizio mese, il 2 agosto, la cerimonia di inaugurazione del centro educativo, alla quale hanno preso parte il console italiano nel Kurdistan iracheno Alessandra Di Pippo e altre 60 persone circa, tra cui rappresentanti di ONG, organizzazioni operanti sul campo o a Sulaimainia, rappresentanti del Consiglio Provinciale e del Direttorato dell’Educazione del Kurdistan iracheno, nonchè membri dell’organizzazione locale “Al Mesalla” – uno degli storici partner di “Un ponte per…”. Ultimo in ordine di tempo nel longevo periodo di attività dell’associazione, il centro progettato e costruito nel campo di Arbat da “Un ponte per…”, finanziato dall’AICS, consentirà ai profughi siriani dell’affollatissimo campo curdo – inaugurato ad agosto 2013 – di riguadagnare il loro diritto allo studio dopo il dramma della guerra.

di Federico Trastulli

OIR Campaign Reached Turning Point in Ramadi, Commander Says

Defence di

By Terri Moon Cronk, US Defense Media Activity

WASHINGTON, Aug. 10, 2016 — The Iraqi security forces’ liberation of Ramadi from Islamic State of Iraq and the Levant control marked the turning point in Operation Inherent Resolve’s fight against ISIL, OIR Commander Army Lt. Gen. Sean MacFarland told reporters today.

In his final Pentagon press briefing via Skype from Baghdad, MacFarland shared his counter-ISIL campaign observations from the past 11 months while he was commander. Army Lt. Gen. Stephen J. Townsend, commander of 18th Airborne Corps, soon takes the OIR reins.

MacFarland said the campaign to defeat ISIL was in a stalemate a year ago and some wondered if the U.S.-led coalition should take a more direct role than training, equipping, advising and assisting indigenous forces. “Others questioned whether the Kurds would cooperate with Arab forces to fight [ISIL] beyond their own traditional region,” he said.

Deeds Versus Words

And since then, the questions were answered by deeds rather than words, McFarland said, adding, “In some ways, the progress against [ISIL] in Iraq and Syria has been remarkable. We modified the type and level of support we provided over the course of the past year, but we have not fundamentally altered the paradigm of train and equip, advise and assist.”

That approach is paying off as ISIL is in retreat on all fronts, he said, noting, “The ISF proved that they can conduct complex and decisive operations.”

Paraphrasing Winston Churchill, McFarland said, “The liberation of Ramadi was the end of the beginning of the campaign against [ISIL]. The beginning of the end will be the liberation of Mosul, Iraq’s second-largest city. Once it is recaptured, the enemy in Iraq will be reduced to scattered pockets of resistance and that is now our focus.”

Lessons Learned

And it was the recapture of Ramadi by the ISF that taught important lessons about “how to train and equip the ISF for urban combat, which will pay dividends as we prepare for the battle of Mosul,” the general said. “We’ve shifted away from counterinsurgency toward combined arms maneuver training, teaching the Iraqis how to integrate infantry, armor, artillery, engineers, aviation and other combat multipliers to achieve an overwhelming advantage at the right place and time on the battlefield.”

MacFarland outlined statistics. He said, individually, the coalition has trained more than 13,500 Iraqi security forces including more than 4,000 Iraqi soldiers, 1,500 counterterrorism service soldiers, 6,000 Peshmerga, nearly 1,000 federal police and 300 border guards.

The ISF has subsequently liberated almost a quarter of a million civilians in Iraq, he said, noting that stepped-up training was added to police training and recruiting travel forces, which added 5,000 trained local police and more than 20,000 tribal fighters enrolled.

“These men will be key to holding the gains and we’ve already achieved in protecting these newly liberated Iraqis, soon to be joined by over a million additional citizens of Mosul,” MacFarland said. “While the forces on the Mara line have indeed held against [ISIL] advances, they’ve even made some progress south of the Turkish border.

Syrian Progress

160810-D-ZZ999-666In Syria, the general said, the Syrian Democratic Forces have made significant progress by pushing ISIL out of the numerous towns such as Shaddadi, Hasakah and Tishreen. “And soon [the SDF] will finish the fight in the important city of Manbij,” he said.

Retaking Manbij will set the stage for the eventual attack to seize Raqqah, McFarland said, adding retaking ISIL-controlled Raqqah will “mark the beginning of the end for [ISIL] in Syria.”

“During these operations, coalition aircraft have conducted about 50,000 sorties against [ISIL] in the past year,” he said. “During those sorties we’ve dropped more than 30,000 munitions on the enemy with approximately two-thirds of those in Iraq and about one-third in Syria. Our artillery has conducted more than 700 fire missions.”

MacFarland estimated that in the past 11 months, 25,000 enemy fighters have been killed, and when added to the 20,000 estimated killed prior to his arrival. That’s 45,000 enemies taken off the battlefield.

“There’s no question that our strikes have enabled the liberation of more than 25,000 total square kilometers from [ISIL],” he said. “That’s nearly half of what the enemy once controlled in Iraq and 20 percent of what they once controlled in Syria.”

In Syria, the U.S.-led coalition has also conducted “more than 200 strikes against oil and natural gas activities of the enemy, destroying more than 640 of their tanker trucks, but more importantly, a number of critical facilities such as gas oil separation plan critical nodes, which reduce their oil revenue stream by perhaps 50 percent,” MacFarland said, noting vigorous attacks on enemy leadership, command and control and weapons manufacturing capability.

“Military success in Iraq and Syria will not necessarily mean the end of [ISIL],” McFarland said. “We can expect the enemy to adapt, to morph into a true insurgent force and terrorist organization capable of horrific attacks like the one here on July 3 in Baghdad and those others we’ve seen around the world.”

Molenbeek, il cuore islamico del Belgio

EUROPA di

“Sono mussulmano ma non condivido ciò che fa Daesh. La gente, soprattutto nella periferia di Bruxelles, non conosce bene l’Islam. E spesso è indotta a credere a tutte le bugie dei media riguardo la mia religione”. A dirlo è Muhammad, giovane venditore ambulante di Molenbeek, comune della regione di Bruxelles ad altissima densità islamica. La barba nera gli copre il mento, non avrà più di vent’anni. Passa la sua giornata vendendo dolci per le strade del quartiere, qui conosce quasi tutti. Gli diciamo che siamo della stampa, e lui sorride beffardo. Ma è uno dei pochi residenti che accetta di parlarci. I giornalisti non sono ben visti dalla pocasa abdeslam 2polazione di Molenbeek. A maggior ragione dopo gli attentati del Bataclan, il 13 novembre 2015, e quelli di Bruxelles, nel marzo 2016, che hanno puntato per settimane i riflettori mediatici su quello che è ritenuto il focolaio del fondamentalismo islamico in Europa. Perché proprio a Molenbeek, tra i palazzoni grigi di edilizia popolare degli anni ’80 che si alternano a costruzioni più eleganti di metà Novecento, sono nati e cresciuti Abdelhamid Abaaoud e i fratelli Abdeslam, parte del commando del Bataclan.

Al mercato multiculturale di Place Communale

E’ venerdì. La Place Communale, sede del municipio, straborda di bancarelle: è il giorno del mercato dove, settimanalmente, si riunisce la cittadinanza. Davanti ai nostri occhi si presenta uno scenario visto e rivisto, tante volte, ma mai in Europa. Non sembra di essere in Belgio, ma di viaggiare in un suk mediorientale. I colori, gli odori, persino le parole ti confondono, all’interno di un turbinio di gente che si muove, quasi all’unisono. Farsi largo tra venditori, clienti, furgoni e banconi risulta difficile. Un intero tratto di Rue de Fiandre, la strada che porta dalla piazza del municipio sino alla chiesa di Sint-Jans, è bloccata dai banconi ricolmi di frutta e verdura. Il mercato è frequentato principalmente da donne, tutte o quasi hanno il capo coperto dall’ hijab. Alla vista della telecamera girano il volto, stizzite. Si vedono pochissimi agenti di polizia in giro. Tra i banchi s’alzano ripetitivi i richiami dei venditori a volte in francese, altre in arabo, che si mescolano alla musica orientaleggiante. “Sono canti di pace”, ironizza un commerciante. Molti venditori, anche se non mussulmani o di origine magrebina, col tempo si sono dovuti adattare alle richieste della maggior parte dei clienti: cibo halal e abiti tradizionalmente in uso tra nordafricani è la merce più venduta. Oltre agli immancabili vestiti “all’occidentale”, che vanno così di moda tra i rappers provetti della periferia. Le statistiche confermano ciò che scriviamo: su undici milioni di abitanti in Belgio, il 7/8% sono di religione islamica (circa 700mila individui), molti dei quali di origine magrebina e di seconda generazione, e quindi con doppia cittadinanza. Tutti loro sono distribuiti in maniera difforme sul territorio, infatti il 23% della popolazione mussulmana si trova a Bruxelles e si divide principalmente tra Molenbeek e Schaerbeek, due dei diciannove municipi che circondano la capitale belga. A Molenbeek, ad esempio, su 80mila abitanti, più di 6 mila sono di origine marocchina.

La falle nel sistema di sicurezza statale: il caso Belgio

mercato 5Le strade strette del mercato sono transennate per impedire il passaggio alle macchine non autorizzate. O almeno così dovrebbe essere, secondo quanto ci dicono dei passanti. Eppure la polizia locale, che controlla l’accesso alle strade, non sembra fare molta distinzione tra veicoli che possono e non possono varcare le barriere. Qualche chiacchera con l’autista e poi lo lasciano passare indisturbato. Così una, due, tre volte, davanti ai nostri occhi. “Molti di loro, soprattutto i venditori, li conosciamo da parecchio, ma è difficile gestire situazioni con così tante persone come il mercato rionale”, ci dicono gli agenti, invitandoci a non riprenderli. La polizia a Molenbeek non è ben vista dalla popolazione. Le falle nella sicurezza belga, a detta degli analisti, hanno garantito vita facile alla proliferazione del terrorismo. Sfociata, poi, negli attentati di Parigi e Bruxelles. Tra polizia locale e federale, ad esempio, non esiste una gerarchia. Infatti, le autorità di polizia locale non sono subordinate a quella federale, sono solo tenute ad inviare regolarmente, e in periodi prestabiliti, a quest’ultima un dossier sulle proprie attività. Tutto ciò crea un problema di coordinamento tra le forze di sicurezza in campo, oltre ad evidenti problemi di comunicazione all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato. Tra il 1998 e il 2001, attraverso una riforma, il governo belga ha provato a migliorare i rapporti tra le varie forze di polizia. Così la polizia municipale, la gendarmeria e la polizia giudiziaria sono confluite in una struttura bipartita, composta da polizia locale e federale. Entrambe con competenze differenti. La prima gestita a livello locale dal sindaco, con funzioni di primo intervento. La seconda, a coordinamento statale, con compiti di sicurezza nazionale e prevenzione di reati gravi, tra cui il terrorismo. E questa struttura è ancora oggi in vigore. Appianatosi apparentemente il conflitto tra valloni e fiamminghi, oggi le forze di polizia belga devono fare i conti con forti tensioni sociali che esplodono quotidianamente nei quartieri e municipi multietnici di Bruxelles. Complici, naturalmente, la disoccupazione e l’alto tasso di criminalità. A confermarlo è Annalisa Gadaleta, barese, assessore all’Immigrazione del Comune di Molenbeek “ Ci sono stati casi, in questa zona di Bruxelles, di relazioni tese tra polizia e popolazione – ci dice, accogliendoci nell’elegante atrio del municipio – dovute anche ad un particolare modo di agire della polizia locale che, se deve fare dei controlli ad un magrebino o ad un belga, preferisce perquisire il primo. Su questo versante, il lavoro del comune è importante per far capire alla popolazione che la polizia è presente per garantire la loro sicurezza. Allo stesso tempo, dato che il comune coordina la polizia locale, dobbiamo fare in modo che essa sia autocritica sui propri atteggiamenti errati”

Queste tensioni si respirano da decenni alle porte della capitale belga. Molenbeek su tutte. Il comune è uno dei più colpiti dalla disoccupazione e dalla mancanza di investimenti negli ultimi quarant’anni. Il colpo di grazia è arrivato poi con l’amministrazione del socialista Philippe Moureaux, durata vent’anni dal 1992 al 2012. Il mandato di Moureaux è stato segnato dal primato della multiculturalità nella vita politica comunale: da lui sono stati nominati i primi assessori di origine nordafricana. Durante le legislature sono state promosse politiche di lottizzazione e assistenzialismo, oltre che l’assegnazione di case popolari a famiglie di origine straniera. Questo modello sociale e politico si è rivelato, però, instabile “e la generosità delle casse comunali non ha contribuito a risolvere i problemi sociali e di degrado dell’ex quartiere di Bruxelles”, come ammesso da Hans Vandecandelaere nel saggio In Molenbeek (Berchem, 2014).

Verso il nascondiglio di Salah

mercato 11Superato il mercato ci inoltriamo nelle viuzze del quartiere. E’ mezzogiorno, il sole picchia forte. Alto, si riflette nelle pozzanghere: ha smesso da poco di piovere. Il caldo torna a farsi sentire, ricordandoci che l’estate è da poco iniziata. 650 metri separano il municipio da Rue des Quatre-vents, dove al numero 79 si è nascosto per quattro mesi Salah Abdeslam, il super ricercato attentatore del Bataclan. Facciamo qualche domanda ai vicini, ai negozianti della zona. Nessuno vuole risponderci. Nessuno ha mai visto Salah. “Ora basta. Noi qui vogliamo vivere tranquilli, non ne vogliamo più sapere di questa storia”, sbotta una signora di origine centroafricana, titolare di una farmacia all’angolo del nascondiglio di Salah. Per mesi, forse anni, a Molembeek si è sviluppata una cellula terroristica con a capo Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentatori di Pargi, morto il 18 novembre a Saint-Denis durante uno scontro a fuoco con la polizia francese. “Le persone arrestate a Molenbeek dipendevano tutte da Abaaoud – ci spiega ancora Annalisa Gadaleta – che è nato e cresciuto a Molenbeek, per partire poi in Siria. In seguito è tornato in Belgio per rapire suo fratello di 13 anni, portando anche lui in Medioriente. In quell’occasione mi chiedo come sia stato possibile per le forze di sicurezza non accorgersi di nulla, di un pregiudicato che fa avanti e dietro dal Medioriente. L’intero gruppo di Molenbeek era composto da ex criminali già conosciuti dalla polizia, gente chi qui ha fatto la scuola. Gli stessi Abaaoud e Salah Abdeslam erano stati insieme in prigione nel 2010 per rapina. Tutto ciò è strettamente connesso al tema della radicalizzazione. E devo ammettere che da Molenbeek continuano tutt’ora a partire diverse persone per la Siria”.

“Il 18 marzo, giorno dell’arresto di Salah – continua l’assessore – ci trovavamo tutti nella scuola elementare del quartiere, nei pressi dell’abitazione del terrorista, che era stata scelta dalle forze speciali polizia 5come base per l’irruzione. In quell’occasione c’erano a scuola ancora una sessantina di bambini. Erano, credetemi, momenti drammatici perché ci trovavamo confinati nella scuola, con i bimbi sotto sorveglianza dei militari. C’erano le forze anti-sommossa tutte intorno. Ad un certo punto abbiamo sentito gli spari, i bambini si sono spaventati. Ecco, sembrava di essere in guerra”. Una guerra, quella che combattuta a Molenbeek, non ancora terminata.

Il ruolo delle moschee a Molenbeek

Riguardo la proliferazione del fondamentalismo, soprattutto di matrice wahhabita, è emblematico il ruolo che le moschee giocano sul territorio comunale. “L’influenza delle moschee sui giovani è limitata- dichiara l’assessore Gadaleta – posso affermare che nessun caso di radicalizzazione è avvenuto all’interno di moschee di Molembeek. Il comune ha un dialogo interessante con le istituzioni islamiche e le moschee, li incontriamo regolarmente, e lo scorso maggio, abbiamo promosso l’iniziativa “Moschee a porte aperte” per far vedere alla gente come funzionano questi luoghi di culto e soprattutto quanto sono importanti per il municipio. Eppure, continuano ad esserci moschee che è difficile raggiungere perché ci sono imam che non parlano né francese né fiammingo, quindi il dialogo con le istituzioni diventa difficilissimo”.

di Fabrizio Ciannamea

 

Redazione
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