Benin, viaggio in un paese in bilico

Reportage dal Benin di Loretta Doro

Quando si atterra all’aeroporto di Cotonou si respira subito l’Africa, non quella turistica proposta dai tour operator delle agenzie di viaggio, con spiagge bianche e animali da zoo, ma un paese povero e pieno di contraddizioni. La folata di aria calda ti invade e il tasso di umidità, che a volte può raggiungere anche il 95%, si fa sentire.

Il Benin così poco conosciuto e cosi sorprendentemente con qualcosa da dire. Bisogna avere uno spirito di adattamento e la volontà di immergersi e capire quella realtà, senza mediazioni e propaganda turistica, nulla da riportare agli amici come tipica attrattiva “africana”.

 

Il Benin conta circa 10 milioni di persone ed è posto nell’Africa Occidentale confinante con il Togo, il Burkina Faso, Niger e Nigeria, mentre a sud si affaccia sul Golfo di Guinea, rimanendo uno dei paesi più piccoli di quella zona d’Africa.

La lingua ufficiale è il francese ereditato da un lungo colonialismo di quella nazione, il dialetto più diffuso, soprattutto nei piccoli villaggi della savana, è il fon.

La religione di stato è il vudù che convive con quella cristiana, animista e musulmana

La Capitale amministrativa e sede del Parlamento è Porto Novo, invece Cotonou è la città maggiore, considerata la capitale dal punto di vista economico e sede del Capo dello Stato e del Governo

Il Benin è un paese molto povero, privo di materie prime, per questo poco appetibile dagli investitori alla conquista di business

E’ una Repubblica presidenziale e quando viene eletto il nuovo presidente rinnova tutti i funzionari e politici portando con se tutto un entourage personale composto da amici e parenti, ma continuando a stipendiare i precedenti.

La corruzione, almeno fino al 2015 vigeva ovunque, dal piccolo favore alla grande opera, i governanti non ne fanno un mistero, negli ultimi anni il presidente si è messo in affari con la Cina, che è succeduta alla Russia e precedentemente alla colonizzazione della Francia.

Strade

L’arteria principale che collega il porto di Cotonou e che serve anche il Togo e Burkina Faso, è da anni un cantiere aperto causando disagi enormi.

Gli appalti per la costruzione di strade, negli ultimi anni sono stati completamente in mano ai cinesi facendo morire le pochissime aziende locali. Come moneta di scambio veniva usato il pregiato legno di tek, una patrimonio naturale che rischiava di essere devastata da accordi governativi scapestrati. Tutta l’attrezzatura e macchinari erano di origine cinese e i beninesi venivano considerati solo braccia per lavorare. Il rifacimento stradale non è continuativo e ogni tanto si trova la strada interrotta costringendo gli automobilisti a fare delle deviazioni improvvisate, senza indicazione alcuna per ritornare sulla strada maestra , si è costretti passare all’interno di piccoli villaggi, dove spesso si viene taglieggiati a cambio di poter proseguire. Spesso si creano degli ingorghi incredibili dovuti a camion che non riescono a darsi strada in questi passaggi sterrati strettissimi, causando di frequente risse tra gli autisti. Il tempo che ci vuole per un certo tragitto può essere anche triplicato o di più dovuto a questa mancanza di organizzazione e regole. Ci si può imbattere in taglieggiamenti anche da parte di squadre di polizia statale. Tutto ciò sembra stia cambiando, da quando, nell’Aprile 2016 è stato eletto il nuovo Presidente, Talon Patrice , importante industriale del cotone, che ha bloccato con un decreto, in attesa di una legge specifica, il commercio del legno verso i paesi stranieri, compresa la Cina, con la quale ha troncato tutti i rapporti combattendo anche molta la corruzione. I beninesi però a causa di queste limitazioni di fatto stanno subendo una crisi economica per le molte attività commerciali chiuse e per mancati salari che, anche se erano miseri, permettevano loro di sopravvivere , ma fa ben sperare che ci sia una rinascita con regole più democratiche che portino un beneficio economico anche per i poveri.

 

Il Benin ha proprio bisogno di regole e governabilità adeguata alle condizioni , a cominciare dalle strade nelle quali regna il caos più totale: non esistono diritti di precedenza, ne le più elementari regole di sicurezza, i mezzi sfrecciano in tutte le direzioni. A sinistra si trovano spesso dei camion lentissimi che vanno sorpassati sulla destra. A destra si vedono una moltitudine di moto, la maggior parte delle quali il guidatore indossa una casacca gialla che sta ad indicare il ruolo di moto-taxi chiamati Zemidjan. Ogni motorino può far salire anche 5-6 persone in modo molto precario senza la minima accortezza di protezione, solo il guidatore è obbligato a portare il casco , i passeggeri, compresi bambini molto piccoli in spalla alle madri che ad ogni curva ti viene l’istinto di correre a sorreggerli, non c’è nessuna regola . Di recente è stata destinata una corsia preferenziale, ma esiste solo nell’arteria principale delle due grandi città, le uniche strade asfaltate, tutte le altre sono sterrate con buche che sembrano crateri e segnaletica inesistente. Si vedono lungo le strade degli autocarri e camion che creano un scenario surreale, con dei carichi sporgenti fino all’inverosimile ed essendo molto datati sono spesso in avaria, dove si rompono rimangono anche per una settimana intera prima di venire spostati incuranti se quella sosta avvenga in mezzo alla careggiata e in luogo pericoloso per gli altri automobilisti. Lo smog è a livelli altissimi causato dalla grande concentrazione di veicoli lenti e molto vecchi che sputano dai tubi di scappamento del fumo nero e denso. Anche il suono dei clacson è assordante: ci sono svariati motivi per suonarlo; per salutare, per offendere, per sorpassare, per svoltare.. qualsiasi comunicazione tra autisti viene fatta con questo mezzo assordante, è estremamente difficile per chi non è abituato, guidare in mezzo a questo caos, sembra che in questo paese la regola sia non avere regole. Questo lo si può constatare guardando lungo le strade dove avvengono la maggior parte delle attività giornaliere degli abitanti ciò significa dormire, mangiare, cucinare, urinare, pettinarsi, vendere ogni tipo di oggetto e di alimento coperto da una coltre di sabbia e di insetti, per noi europei è proibitivo assaggiare qualsiasi cosa a loro commestibile tranne qualche banana appena colta, togliendone con molta cautela la buccia. Se si vuole intraprendere un viaggio in pullman ci si può recare nella grande piazza di Cotonou, con una stella rossa come monumento centrale, dove regna una grande confusione e senza indicazione alcuna è molto difficile per noi comuni europei, infatti ci si può trovare ad essere gli unici bianchi in mezzo a tutte persone di colore. L’autista parte quando una specie di controllore con un frustino in mano cerca di scacciare le persone che vogliono salire, significa che il pullman è esaurito, sembrano scene irreali, ma a guardarli in faccia e non vedendo nessun stupore, ma solo un disappunto di non poter salire, fa pensare che per loro sia “normale”. Il viaggio poi si rivela molto faticoso e folcloristico, con persone che ad ogni fermata salgono con dei cellulari per farti fare una telefonata a pagamento o delle donne con in testa enormi cestoni che vogliono venderti a tutti i costi, frutta e bibite dissetanti, si perché dopo qualche kilometro l’aria condizionata “sparisce” sostituita da umidità, odori e caldo. Per i viaggi medio lunghi sono previste anche fermate pipì-stop, dove uomini o donne indistintamente scendono e fanno i loro bisogni lungo la strada. Non ci sono limitazioni di comportamento per i passeggeri, si può mangiare, pregare, sentire la radio altissima che unito al caldo e ai dossi che sembrano dei valichi appuntiti che da un momento , pensi, faranno perdere qualche ruota, crea un disagio enorme. Però se si vuole cambiare mezzo di trasporto, si può optare per un taxi ! Autoveicoli fatiscenti spesso con dei copri sedili di finta pelliccia, naturalmente senza aria condizionata, con passeggeri a volontà, fatti salire appiccicati come sardine, con autisti esagitati, incuranti di qualsiasi minimo codice stradale e ti senti precariamente in mano alla provvidenza.

Mercati e piccolo commercio

L’attività di piccolo commercio è l’unica fonte di reddito per sopravvivere e qualsiasi prezzo va contrattato con molto veemenza

Si trova di tutto, dal cibo alla benzina, dai telefonini alle poltrone, praticamente ogni cosa. Ci sono anche dei mercati permanenti dove si può trovare tutto ciò che serve alla loro vita quotidiana, ma le strade sono un serpentone di bancarelle improvvisate con “commessi” di tutte le età dai bambini piccolissimi a vecchi, a donne che ad un certo punto si mettono a cucinare e a pettinare o far fare i propri bisogni ai bambini più piccoli, con un miscuglio di odori a volte insopportabile, la loro vita praticamente la svolgono in strada, senza una dimensione privata mettendo in condivisione e visione ogni aspetto delle esigenze quotidiane.

Il Vudù

Spesso lungo le strade secondarie si notano degli oggetti vicino a fuochi spenti e oggetti vari, come teste di cane o di pollo, bamboline di pezza, antiche maschere o semplicemente oggetti bruciati: sono i feticci rimasti da recenti riti vudù.

Il Vudù è nato in Benin, poi portato soprattutto in Brasile e Haiti attraverso gli schiavi. La si ritiene una delle religioni più antiche del mondo. La religione vuduista attuale combina elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale africano che era praticato nel Benin prima del colonialismo e concetti tratti dal Cattolicesimo. Il Vudù è praticato da circa 60 milioni di persone in tutto il mondo. A differenza di quanto si ritiene, il Vudù non è solo legato alla magia nera, ma è una religione a tutti gli effetti, dotato di dottrine morali e sociali oltre che di una complessa teologia.

Ogni anno il 10 Gennaio, si celebra la giornata mondiale del Vudù. E’ una grande festa, con canti e suoni con un folcloristico corteo che parte dal santuario del dio serpente, all’interno del quale vivono centinaia di pitoni venerati, sfamati e custoditi 24 ore al giorno con sacrale attenzione. È la spiaggia di Ouidah la meta finale ad accogliere i riti, celebrazioni, travestimenti etc.. dei devoti vuudisti che accorrono da tutto il mondo.

Sfruttamento dei bambini

Chi visita il Benin deve essere pronto a capire e assorbire senza chiedersi tanti perché. Un paese poverissimo e sfruttato dai potenti, ma a sua volta sfruttatore verso i più deboli, per esempio, puoi imbatterti in accompagnatori di ciechi. La cecità è molto diffusa  causata da infezioni non curate, malattie ereditarie, punture di insetti etc.. Molti adulti ciechi benestanti, sono assistiti in tutte le loro esigenze da parte di bambini, venduti dalle proprie famiglie per pochi soldi. Questi ragazzini, vengono trattati alla stregua di schiavi, molto spesso maltrattati. È normale vedere per strada ciechi accompagnati da bambini che, essendo stati acquistati in villaggi dispersi nella savana, non hanno nessuna cognizione di dove si trovano e come accade spesso quando tentano di fuggire, non riescono a trovare la strada di casa e vagano in città fra stenti e soprusi, stessa sorte destinata quando il “padrone” muore, perché non essendo più utili vengono abbandonati al loro destino.

Nel Benin è molto diffuso la vendita dei bambini.

La povertà è il motivo per cui i bambini vengono venduti e inviati al lavoro, è un modo per alleggerire il peso sul resto della famiglia.

Questo comportamento porta allo sfruttamento, abusi e privazioni a questi ragazzi senza colpe.

Ricordiamo che in Benin è normale che una coppia abbia 8/12 figli, e che le ragazze spesso diventano mamme a 12/13 anni.

I bambini vengono acquistati per ogni tipo di lavoro e tra i più pesanti troviamo quello dello spaccapietre. Numerosi piccoli manovali si trovano a lavorare con un martello, spesso enorme rispetto alle loro manine e fin dalle primi luci dell’alba spaccano colpiscono un grosso sasso, fino a renderlo a pezzettini di pochi centimetri, usati poi come materiale edile di costruzione. Si trovano dei veri e propri cantieri fatti da piccole capanne di paglia e i bambini stanno seduti sulla nuda terra, con davanti tante bacinelle da riempire, è una tristezza vedere i loro occhi rassegnati al loro futura privo di speranza. Lo stato del Benin sotto pressioni insistenti da parte di organi mondiali che denunciavano lo sfruttamento dei bambini, ha introdotto una legge che obbliga denunciare lo schiavismo e dichiarare la destinazione dei bambini lavoratori, ma di fatto non viene rispettata e quasi per disprezzo spesso i cartelli si trovano proprio davanti ai cantieri degli schiavisti dei spaccapietre .

 

 

SCHIAVI VERSO LE AMERICHE

In Benin quando si parla di sfruttamento non può non tornare alla mente la storia della tratta degli schiavi che venivano portati nelle piantagioni di cotone nel sud America.

Il Benin è stato uno dei paesi africani più coinvolto nella esportazione degli schiavi.

I regnanti trattavano con gli schiavisti e scambiavano con oggetti anche di poco valore la vita di un uomo( es: 4 persone per 1 pipa, 12 per un fucile….)   A Ouidah nel 2000 è stato eretto un monumento chiamato “La porta del non ritorno” proprio perché le persone catturate partivano da quella spiaggia per le Americhe, imbarcati nelle navi ammassati al limite della sopravvivenza e non facevano più ritorno. È un monumento molto eloquente, visto che da un lato si vedono di spalle due colonne di schiavi che vanno verso una nave, mentre dal lato opposto le due file si vedono di fronte, evidenziando lo sguardo di rassegnazione e le catene che li legano.

 

LE PALAFITTE DI GANVIE’

Nel Benin, più precisamente nel lago di Nakouè si trova una vera e propria città su palafitte che conta circa 30.000 abitanti, si tratta di Ganvié, che significa “La comunità di coloro che finalmente hanno trovato la pace”. Il villaggio è nato nel XVIII secolo, lo si può visitare contrattando un dei proprietari di piccole imbarcazioni che sono stati accorti nel capire l’attrattiva di questo luogo per un visitatore che si trova davanti ad una storia affascinante e la curiosità stimola ad approfondire e a vedere.

Le leggende raccontano che nel 1700 la tribù dei Tofinu cercava di sfuggire ad un gruppo di guerrieri, i Fon, che battevano i villaggi vicini alla ricerca di uomini da vendere come schiavi. Nella fuga si imbatterono in un lago vicino al mare, dove iniziarono a costruire le loro case: solo l’acqua poteva salvarli in quanto un tabù vietava ai Fon anche solo di sfiorarla. Da quel villaggio i Tofinu non si sono mai più spostati, e le poche capanne di allora sono proliferate a centinaia lungo diversi chilometri della costa. In questa città galleggiante, le condizione igienico-sanitarie sono allarmanti: si trova sporcizia ovunque e si vedono bambini frugare tra le immondizie assieme agli animali. gli indigeni che vivono la loro vita spostandosi da una palafitta all’altra con delle piccolissime imbarcazioni, anche solo per andare a trovare un amico in improvvisati bar o acquistare in altrettanti negozi galleggianti, nelle piccole porzioni di terra ferma convivono scrofe e bambini, sacchetti di plastica, tanti, segno del progresso , se ne vedono a grandi quantità in tutto il Benin dalle città ai paesini sperduti o in questi città galleggianti . Qui la vita sembra anche ben organizzata, ogni giorno molte donne con tanti piccoli figli attorno e sempre uno appeso alla schiena, percorrono circa 8 kilometri per andata e 8 per il ritorno, remando sopra piccole piroghe, per raggiungere il mercato permanente di Abomay dove possono comperare o barattare prodotti per la loro sopravvivenza. Sembra impossibile che così tante persone vivano in queste precarie condizioni. Gli uomini, anche in questa città galleggiante, come in tutto il Benin, generalmente non lavorano e spesso si possono vedere ubriachi appoggiati agli alberi o a dormire lungo le strade.

Visitando il Benin molte certezze sull’umano vacillano, ma la voglia di capire e di aiutare deve superare le proprie paure e ritrosie morali.

Un viaggio che fa riflettere e mette a dura prova la resistenza fisica e psicologica, ma ci si deve lasciare guidare da odori, sapori e colori di storia tutta da scoprire.

 

 

Loretta Doro

 

 

 

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