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EDITORIALE

L’Eroica, fatica e sorrisi tra le colline del Chianti.

Eroica 2023 – Si ripete il rito magico degli eroi che volano sui pedali delle strade bianche, Grande successo quest’anno per il ciclismo su strade bianche de l’Eroica, che si è svolta il 30 settembre e 1 ottobre, nel cuore della Toscana più affascinante, con i suoi scenari di colline cosparse di vigne e cipressi, castelli e paesini in pietra.
L’emozione è tangibile da giorni nel centro di Gaiole in Chianti, interamente allestito per questa straordinaria XXVI edizione, conclusasi la scorsa domenica.

Nata nel 1997 da un’idea di Giancarlo Brocci, che, insieme ad altri 92 cacciatori di sentimenti ed emozioni, diede il via alla prima edizione di questo evento ciclistico, l’Eroica ci meraviglia ogni anno con i suoi percorsi impegnativi, i magnifici paesaggi e gli indimenticabili ristori.

L’idea iniziale fu quella di rievocare le imprese del ciclismo eroico di Bartali e Coppi, recuperando i valori di uno sport capace di insegnare i valori essenziali. Uno sport popolare e familiare, che non conosce confini e limiti di età, e privo di competizione. Appena si mette piede in questo grazioso borgo immerso nel verde delle colline Toscane, si inizia infatti a respirare un’atmosfera gioiosa, frizzante e completamente fuori dal tempo e dallo spazio.
Impossibile qui non innamorarsi de ciclismo e della sua storia. Per i non appassionati, l’Eroica è un evento, che gara non è poiché non c’è traccia di classifiche, che comprende percorsi di varie lunghezze e asperità. Il regolamento prevede l’uso di biciclette antecedenti al 1980 (addirittura anteguerra per le prime partenze del sabato), abbigliamento e accessori d’epoca, o fedeli riproduzioni. Ma soprattutto quello spirito di avventura, di scoperta, di solidarietà e di gusto per la fatica vera, che non deve appartenere solo al passato.

Che si scelga il percorso più lungo, quelli medi o i più brevi, si tratta comunque di una sfida in primis con sé stessi, poi con le strade, dure, sassose, bianche, sterrate, piene di curve, discese e soprattutto salite che mettono alla prova anche i più allenati. Non è raro vedere i ciclisti scendere e spingere le loro bici su per queste stradine cosparse di ghiaia, circondate dalle bellezze impareggiabili delle colline senesi. Così come non è raro vedere persone fermarsi a riparare una gomma forata, una catena uscita dalla sede, un dado perso, e tutti quegli imprevisti che possono capitare quando si  viaggia con mezzi e attrezzature ridotte all’essenziale. Eroici quindi gli oltre 8300 partecipanti che quest’anno sono saliti in sella, di cui ben 3133 sui percorsi più lunghi, in questo fine settimana dal clima estivo, in cui il bianco della strada abbaglia e la polvere
che si alza sotto le ruote copre tutto il resto e ci fa dimenticare il mondo intorno.

Ci si cala in un’altra epoca, fatta di cose semplici e belle, in cui la fatica è premiata dai sorrisi, dalla bellezza mozzafiato della natura che si scopre via via che si avanza sul cammino, e dalla bontà dei cibi locali. Perché non si tratta della ricostruzione di un’epoca ma di un tuffo nel passato, pedalando su una macchina del tempo che ci riporta a uno stile di vita diverso e ancora possibile. Niente gel, barrette e integratori quindi, ma solo cibi prelibati, locali, preparati e offerti a chi pedala dalle centinaia di volontari che partecipano ogni anno all’evento. Formaggi, frutta, salumi, pane e miele, olio e le buonissime zuppe toscane come la ribollita, la pappa al pomodoro o la passata di ceci.

C’è tanto buonumore nell’aria, “ci vorrebbe un misuratore di sorrisi – dice Brocci– per dare un’idea più diretta del successo dell’Eroica 2023”. Sorridono tutti, infatti, che siano in sella alle loro bici, o dietro le bancarelle del Mercatino Eroico a vendere abbigliamento e accessori, parti meccaniche o cibi nostrani, e sorridono le persone che affollano le strade,
per accompagnare qualcuno alla corsa, per fare acquisti o semplicemente per far parte di questa magia, che si ripete ogni anno e che continua a crescere e ad esportarsi in tutto il mondo. Perché non è una corsa in bici, ma un viaggio nel tempo che ci ricorda che la semplicità, il silenzio, la solidarietà e la lentezza, sono valori ancora possibili e che forse
anche un po’ più scomodi si può essere felici.

Alzarsi con la luna ancora alta nel cielo per partire alle 4, salire su fino al castello di Brolio, una lunga fila di fiaccole accese nel freddo buio della notte, e pedalare, pedalare, in abiti caldi come coperte, sfiorare l’alba arrivando nella grandiosità di piazza del Campo che si apre dai vicoli stretti e scuri, e andare avanti con il sole che si alza sempre di più, fino a infiammare gli spiriti di alcuni di questi eroi che sembrano volare sulle salite fitte e dure di terra bianca e ghiaia, battute dalle mille ruote che già le hanno percorse. E qualcuno invece scende e spinge a mano la bicicletta, sempre col sorriso stampato sulla faccia, a nascondere le smorfie della fatica. E tutti si fermano meravigliati quando si aprono gli scorci magnifici delle crete senesi, dei colli cosparsi di vigneti con le case isolate, poggiate sulle cime e le righe disegnate dalle file di cipressi. La bellezza del territorio lascia senza fiato gli italiani e i tantissimi stranieri che quest’anno hanno preso parte all’evento. Si fermano i compagni per aiutare chi è in difficoltà, si guardano sfilare le biciclette bellissime e le maglie colorate con le scritte personalizzate, con le camere d’aria di ricambio incrociate sul petto, le calze alte, i cappellini coperti dai caschi, i pantaloni alla zuava, le trecce, le gonnelline che coprono i pantaloncini, e tanti, tanti baffi, anche finti, perché ormai fanno parte dei segni distintivi di questa manifestazione. A Gaiole, tra le
tante attività, anche una gara di eleganza e una di barba e baffi, ma sono tante le persone che si aggirano per le strade in abbigliamento e mezzi d’epoca. E poi ci sono le tappe, con
il checkpoint in cui far timbrare la partecipazione, le ciclofficine per le riparazioni e soprattutto i ristori. Le piazze si riempiono di biciclette, poggiate agli alberi, ai muri, a ogni
angolo o paletto. E dietro i banchi la gente del posto offre pietanze, frutta e vino rosso, per ridare forza ai pedalatori instancabili, fino alla prossima sosta. Nessuna fretta di ripartire, sono momenti di condivisione, in cui si sentono parlare tante lingue diverse, ma in cui gli sguardi e i sorrisi sono tutti uguali. Nacono incontri e amicizie, e gioiosi si arriva al traguardo, soli, mano nella mano, a squadre, in bici o sul tandem, stringendo le mani al pubblico dietro le transenne, o alzandole al cielo, passando sotto lo striscione.

Stanchi, con i crampi, sporchi di terra bianca, e con qualche parte meccanica persa per strada, ma felici e con la voglia di tornare di nuovo l’anno successivo a rivivere questa meravigliosa fatica. Edizione trionfale, il 2023 è stato l’anno dei record, dal numero degli iscritti (8316) alla percentuale di stranieri (oltre 3000), e di donne (889) partecipanti, fino al clima quasi estivo, che ha aggiunto il caldo alle altre mille difficoltà da affrontare, ma che ci ha regalato giornate splendide che resteranno stampate a vita nei nostri cuori. Magnifica l’organizzazione, con l’allestimento di aree campeggio, indicazioni e assistenza stradalichiare ed efficaci, eventi collaterali conviviali, che hanno contribuito a rendere semplice e fruibile ogni istante di queste giornate. Naturalmente il rovescio della medaglia, visto il crescente successo, è il rapido incedere del lato più commerciale dell’evento, diventato ormai un brand globale, portandosi dietro il merchandising, l’esportazione nei vari paesi del mondo, la folla che riempie le strade, i prezzi che volano alle stelle.

Ma il successo è più che meritato e si spera che in fondo siano i valori più veri e sinceri a vincere, mantenendo più autentica possibile la magia dell’Eroica (e di tutte le altre corse che ne seguono l’esempio) anche nei tantissimi anni a venire.

Le fotografie sono di Ginevra Baldassari e Giulio Paravani.

 

 

 

Una lettera al Direttore su un’idea di destra, liberale ma (oggi) impossibile (forse).

LETTERE by

Caro Direttore, 

Gentile Alessandro,

 

ormai diversi  giorni fa ho avuto la malsana idea di scrivere un post su Facebook, che aveva un solo soggetto, tante copule, ma nessun verbo. Era la mia idea, o il mio desiderio, di destra. 

Devo fare una precisazione: come sai non ho mai avuto tessere di partito. Quando le avrei volute, non ho mai fatto in tempo, perché poi il partito prescelto cambiava subito idea su qualche dossier per me importante, e quindi mi sono rassegnato. E questo è uno di quei periodi.  

Altra premessa è che ho molti amici politici. Ma quelli più intimi, quelli con cui sono più in confidenza, sono di sinistra. Anche estrema. Parlo, ovviamente, di uomini che appartengono ad una sinistra colta, disposta all’ascolto, realmente democratica e non necessariamente radical chic. Anzi, queste poche righe le dedico a loro, in questi giorni così difficili per la nostra povera, amata e disperata Repubblica (Vi prego: non lasciate che la vostra filigrana rossa si faccia corrompere dalla nerissima ignoranza di politici che si sono formati su Wikipedia, o si sono laureati solo all’università della vita: il MIUR non riconosce questi percorsi formativi) . 

In questo post, insomma, scrivevo che avrei voluto “Una destra liberale, filoatlantica, filoisraeliana, europeista. 
Una destra compìta, elegante, non volgare, non cinica. 
Una destra che sia generosa con gli italiani, corretta con gli stranieri, che possa garantire “un sogno italiano” per tutti coloro che seguano un percorso virtuoso e civile. 
Una destra laica, che non dimentichi però la nostra profonda e radicata tradizione cristiana, senza bisogno di rinnegarla, né di esaltarla misticamente. 
Una destra inflessibile con qualsiasi criminale, straniero o connazionale. Non crudele, non parziale. 
Una destra che esporti i nostri colori e non il nostro odio.”

Non lo avessi mai fatto! Sia pubblicamente, che in privato, ho ricevuto complimenti, velate minacce, qualche tentativo di confutazione. Qualcuno mi ha dato del sionista, qualcuno dell’imperialista. Qualcuno mi ha detto che non sono di destra. Qualcuno mi ha fatto scoprire che esiste addirittura un mondo di pubblicazioni, di intellettuali e di think tank di destra che non si riconosce nei partiti attualmente in auge, e nemmeno in quelli in auge un po’ di tempo fa. 

Esiste insomma chi pensa che sostenere la NATO, ospitare basi militari straniere o alleate, sia una buona cosa. Non solo per questioni di filoatlantismo ma, molto più semplicemente, perché si ritiene intellettualmente vicino ad una sorta di militarismo, buono e non becero, che ama accostare alcuni principi quali la disciplina, l’ordine, i buoni costumi e l’efficienza – tipiche del mondo militare e dell’idea americana di “military” – alle idee di coerenza, di rettitudine, di pragmatismo. E, inoltre, non nascondiamoci dietro ad un dito: la presenza di militari stranieri in Italia, per il PIL di alcuni territori, costituisce una bella iniezione di moneta (pecunia non olet). Pensate alla miriade di stranieri che vivono a Bruxelles tra NATO, UE, agenzie ed altre organizzazioni intergovernative: riuscite ad immaginare quale sia l’indotto? Affitti, infrastrutture, ristoranti, cibo, consumi di ogni genere, etc.  E, inoltre, far parte della NATO o di altre organizzazioni militari simili non può che giovare all’Italia, che si è guadagnata nel tempo una straordinaria credibilità in campo politico-militare, purtroppo quasi nulla in altri settori.

Lasciamo perdere Gladio, Stay Behind ed altre cose, molto importanti per la nostra storia, su cui in passato ci siamo soffermati. Parliamo di oggi: se non fosse stato per la NATO, le nostre Forze Armate non avrebbero probabilmente accumulato un bagaglio esperienziale di prim’ordine  che molti Stati (non solo) neogiunti nell’Allenza ci invidiano. Oggi l’Italia riesce anche a modificare la dottrina delle operazioni NATO: si pensi, per esempio, al solo stability policing con cui il nostro Paese è riuscito ad introdurre nelle missioni di pace l’impiego di forze di polizia a statuto militare che – sul modello dei nostri Carabinieri – nelle aree di crisi durante o dopo un conflitto riescano ad interporsi tra le autorità militari e quelle civili, sostituiscano o affianchino le polizie dei paesi durante o dopo la crisi, addestrino le polizie civili e militari degli Stati che dopo un conflitto  ne facciano richiesta.

Io all’imperialismo americano non credo: anzi, meglio. Ci credo fermamente, ma non credo sia possibile pensare ad un’alternativa, per il nostro Paese, se parliamo di potere militare, politica militare, missioni internazionali ed altro. L’imperialismo c’è e basta. Dagli anni ’40 siamo stati sempre “accompagnati” dalla presenza americana. Di Sigonella ce n’è stata una sola, ed era per un motivo giustissimo. Ma lì il filo- o l’anti- atlantismo non c’entravano nulla: era una questione di sovranità, dal punto di vista prettamente politico, protocollare, giudiziario. 

Israele: confesso di essere molto ignorante sull’eterna lotta tra il presunto bene ed il presunto male. La ragione sarà nel mezzo? Non so, non ho studiato abbastanza. Credo però che l’essere filoisraeliani, in qualche modo, sia una diretta derivazione del precedente corollario filoatlantico. In qualche modo le nostre radici sono giudaico-cristiane, anche per chi si professa ateo: la nostra società è impregnata di questo tipo di cultura e rifiutarla è da stupidi. In secondo luogo, Israele è un paese in continua lotta: sia essa una lotta contro un nemico militare o contro un nemico terrorista, comunque la si intenda le Forze Armate, le Forze di Polizia, i servizi segreti israeliani e la popolazione tutta vivono in perenne allerta, ed hanno sviluppato un sistema di azione e di reazione rapido ed efficace ed un sistema di intelligence tale per cui anche i bambini che passano per strada acquisiscono informazioni utili alle Autorità. Dal basso della mia ignoranza,  io mi sento filoisraeliano molto semplicemente perché il sistema “Israele” mi dà l’idea di qualcosa che funzioni. E, inoltre, credo che la destra radicale – filopalestinese – non dovrebbe lambire nemmeno lontanamente questi argomenti: sono questioni che in mano alle persone sbagliate possono diventare pericolose. 

L’Europa: altro tasto dolente. Come può dirsi pragmatico qualunque movimento politico, di destra o di sinistra, che pensi ad un’uscita dall’Europa o che voglia semplicemente fare ostruzionismo al processo di continua integrazione europea? L’Europa è tutto, è dovunque. Dovremmo amare le istituzioni europee come quelle nazionali. Dovremmo conoscerle meglio, dovremmo cercare di entrarci da veri protagonisti. Hai voglia a dire che siamo i fondatori. Noi in Europa non ci sappiamo più stare: le idee di tolleranza, di integrazione, di unità nella diversità, di cooperazione, di raggiungimento di obiettivi comuni ci hanno del tutto abbandonato. Succede a casa nostra, figurati in Europa. Gli Italiani che hanno fatto carriera nelle Istituzioni comunitarie ci sono arrivati molto spesso con le proprie gambe, senza endorsement della Farnesina, pagandosi gli studi ed i viaggi. Ho già scritto troppo sul perché in Europa, ormai, molti ridono di noi.  Un movimento di destra, che voglia bene al Paese, non può non cercare di migliorare la situazione italiana in Europa, non può non volere una maggiore affermazione della presenza e delle politiche italiane. Non si dovrebbe fare altro che cercare – aldilà di sistemare i conti e chiedere scusa ogni anno a Bruxelles – di entrare a gamba tesa nei dossier più caldi, che non sono solo economia ed immigrazione, ma anche difesa, politiche di vicinato, sicurezza interna. Un movimento di destra non dovrebbe mai girarsi dall’altra parte quando si parla d Europa, ma dovrebbe anzi andarsela proprio a cercare: più Europa vuol dire ricerca, progetti, partnership, soldi, fondi, appalti, stanziamenti. Proporre idee anti-europee è antidemocratico, antigiuridico, anacronistico. Chi afferma il contrario non capisce nulla e farebbe bene a tacere. La penso così, punto e basta. 

L’atteggiamento dei politici: ma si può vivere di slogan, di magliette colorate, di cubiste, di movimenti sguaiati? Oppure, parlando di quegli altri (non oso nemmeno nominarli), si può essere così invidiosi, antimeritocratici o, più semplicemente, cattivi? Si può essere così terribilmente, ignominiosamente, profondamente ignoranti? Può un politico sbagliare più volte i congiuntivi? Può un politico dire che le leggi devono essere vaghe? Può un politico credere alle sirene o alla terra piatta? O alle scie chimiche? Può un politico astenersi dal limare le sue espressioni dialettali più campaniliste? Può un politico non conoscere il significato di parole di uso comune? Può un politico non conoscere l’inglese nel 2020 (se non addirittura almeno un’altra lingua)?

Io la politica me la immagino “in giacca e cravatta”, e non solo (ma anche) in senso figurato, schifosamente borghese: è doveroso verso i luoghi istituzionali dove la politica si fa e verso i comuni cittadini che non godono degli stessi emolumenti e delle stesse prerogative. Un avversario politico si può contrastare anche con eleganza, con raffinatezza, con l’arte oratoria, con i periodi ipotetici e con un abbondante uso di figure retoriche, di pensiero e di parola. Oggi, un politico, specie se asseritamente di destra, dovrebbe commentare con ironia le accuse mossegli, ed argomentare con proprietà di linguaggio le sue ragioni, senza cedere a espressioni dialettali e gergali. In questo, i politici della sinistra moderata di oggi sono molto molto meglio. Inutile oggi guardare al passato. Basta solo dire che i movimenti liberali e liberal-conservatori, pur senza particolare seguito elettorale, hanno sempre goduto del riconoscimento generale quali persone di grande cultura, di chiaro spessore individuale, prima che politico. In parte, ancora oggi è così. 

Per motivi di brevità salterò un’obbligatoria riflessione sulla questione “immigrazione”, su cui mi concentrerò un’altra volta. Ma non posso non soffermarmi sulla laicità.  La laicità dello Stato è sacra. Lo dice la Costituzione, lo hanno affermato anche il Legislatore e la giurisprudenza, più volte. La religione di Stato non esiste e tutti i culti sono ammessi liberamente, fatti salvi quelli contrari al buon costume, all’ordine pubblico. Ma c’è un ma: oggi non possiamo prescindere da una profonda cultura cristiana che ha pervaso il nostro Paese da sempre. Non si può far finta che il Vaticano non ci sia stato e non ci sia e non si può negare che la nostra società sia cresciuta e progredita di pari passo con il cristianesimo cattolico. Il fatto che alcuni temi bioetici, per esempio, in Italia vengano trattati con particolare ritardo rispetto agli altri Paesi non è solo “colpa” del Vaticano: siamo un Paese a maggioranza cattolica e, pertanto è inevitabile, ovvio, e giustissimo che al dibattito culturale e politico partecipino i cattolici. Ognuno con le proprie idee, che possiamo ritenere più o meno evolute e progressiste, può e deve dire la sua e, in termini molto semplificati, la maggioranza vince. Non credo sia necessario dibattere a lungo sulla questione: in altri Paesi il problema della laicità non è nemmeno sfiorato. Ognuno fa quello che vuole, perché, semplicemente, ognuno vive liberamente la sua idea di famiglia, di fine vita, di fedeltà, di sessualità. Chi viola il rispetto dell’altrui libertà non la fa franca. Parlo di violazioni, non di semplici opinioni dissenzienti.  E parlo di votazioni, che esprimono gli esiti di un dibattito culturale. In Italia ci sono i cattolici, ed è giusto che il dibattito culturale e politico sia tutto italiano, e in considerevole parte, anche ispirato da principi cattolici: sul divorzio, l’aborto, le unioni civili, il fine vita…. il (deprecabilissimo e abominevole) fenomeno della maternità surrogata. 

Dico tutto questo nella ferma convinzione che, comunque, ciascuno deve e può essere libero di professare la fede e l’orientamento sessuale che vuole. Credo, al riguardo, che le cose importanti siano due: la coerenza ed il rispetto. Se si è coerenti con sé stessi e con gli altri, si reca prestigio anche alla propria idea di fede o alla propria (presunta) “diversità”. Se si predica bene e si razzola male, si finisce col generare incomprensioni, attacchi, defaillance o, peggio, nefandezze di ogni tipo. Se si manca di rispetto a chi è diverso da noi, si va contro ogni più sano principio di democrazia, di diritto naturale, di tolleranza e probabilmente, si contravviene alla stessa fede, che dovrebbe insegnare ad amare gli altri così come sono, mentre noi dovremmo fare di tutto per migliorarci secondo i dettami che volontariamente ci siamo autoimposti. Personalmente, io credo e sono cattolico.

Non entro nel merito di altre considerazioni spirituali, che sono solo mie: certo, come altri, spesso anche io faccio fatica a percepire un messaggio evangelico così come alcuni prelati di oggi lo trasmettono; ma la Chiesa di oggi è in continua evoluzione, e con essa la sua dottrina. E questo per me è un bene.  Quando penso alla Chiesa – tralasciando, come detto, concetti del tutto personali, religiosi, intimi – mi sento parte di una comunità, anche di quella veramente italiana e cattolica, e sento che sto contribuendo al perpetuarsi di una tradizione, propria degli italiani, che è davvero meritevole di tutela. Questo, è il mio modo di vedere le cose in questo ambito. Rispetto chi la pensa in maniera diversa, ma questo è il mio sentire. Questo intendo per laicità e la destra italiana e laica di cui parlo, secondo me dovrebbe essere così. Cattolica  – #guaiachicitocca – ma rispettosa delle altre fedi.  

Mi fermo qui, per oggi, ma credo di aver messo un bel po’ di carne al fuoco per un importante dibattito culturale.

Nelle more di un mio prossimo intervento, che chissà quando riuscirò a scrivere, lancio un sfida su  questo giornale, che viene letto da chi non la pensa come me, ma anche da chi la pensa come me, anche se non su tutto. 

Posto che una destra così come l’ho disegnata è verosimilmente impossibile, e posto che – comunque – bisogna tendere sempre a migliorare sé stessi e le proprie idee – non sarebbe realmente l’ora di scrivere un manifesto (non dico politico, ma almeno culturale) per una vera destra moderna e liberal-conservatrice? Una destra che non urli? Una destra in giacca e cravatta? Borghese, europeista, filoatlantica, laica e filoistraeliana? 

Una destra che esporti i nostri colori e non il nostro odio? Pensiamoci. 

 

Domenico Martinelli

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18 anni di missione in Afghanistan, a Roma si onorano i caduti.

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A Roma splende il sole il 1 marzo del 2019 mentre la sala della Protomoteca del Campidoglio si riempie di ospiti. Promotrice dell’iniziativa e moderatrice del dibattito del convegno Chiara Giannini e le associazioni dei parenti dei caduti che hanno organizzato questo evento per ricordare David Tobini e tutti i caduti in 18 anni di missione di “pace” in Afghanistan. Keep Reading

Radical chic è bello, il caso Nanni Moretti

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La definizione Radical chic, non è un neologismo offensivo o una terminologia da tirare fuori dal cassetto per bollare atteggiamenti e opinioni altrui con uno stigma negativo. Radical chic è un’espressione creata nel 1970 dal giornalista Tom Wolfe per indicare gli appartenenti ad ambienti dell’alta società, celebrità, membri di élite culturali, che aderivanoxalle cause radicali che alla fine degli anni 60 agitavano il contesto sociale. Il loro coinvolgimento era peraltro poco convinto, basato sulla necessità di seguire la moda, per motivi di immagine, esibizionismo, accreditarsi con gli attivisti, ma anche per una semplice visibilità o crearsi una base politica.

Tom Wolfe, scomparso pochi mesi fa, usò il termine per la prima volta in senso satirico nei confronti del compositore Leonard Bernstein che raccoglieva fondi per la causa delle Black Panters. Un’incongruità considerate le diverse posizioni e obiettivi perseguiti. Wolfe voleva mettere in ridicolo questi controsensi, in particolare quelli di chi xxxsosteneva il radicalismo di sinistra solo per scopi mondani o spirito di contestazione (contraddizione) fine a se stesso, ma sempre senza autentiche convinzioni politiche.

In Italia il termine venne ripreso da Indro Montanelli che, nel 1972, nella sua “Lettera a Camilla” in cui l’arguto toscano polemizzava apparentemente contro Camilla Cederna (ma non era lei la vera destinataria)quale ideale rappresentante dell’italico “magma radical-chic“, superficiale e incosciente che fu culla degli anni di piombo.

In Francia e Brasile i radical chic sono la “Sinistra al caviale”, in Inghilterra la “Sinistra champagne” e in Germania Toskana-Fraktiona causa delle villeggiature in Toscana da parte di politici e intellettuali di sinistra. Sono stati definiti comunisti in cachemire e, comunque, appartengono a classi sociali che poco hanno in comune con quelle che lottano in piazza. Tuttavia non perdono occasione per ribadire le loro posizioni e convinzioni.

Ultimo in ordine di tempo Nanni Moretti che, presentando il suo ultimo documentario, ha paragonato Matteo Salvini a Pinochet. In un’intervista al Venerdì di Repubblica ha dichiarato che, dopo la nomina a ministro del leader leghista, ha capito perché aveva girato il documentario sul golpe cileno (ma non lo sapeva il perché mentre lo stava girando?).

Il regista di film molto apprezzati da un pubblico (appunto) elitario e di nicchia, da sempre vicino a posizioni di sinistra, è andato oltre i limiti del buon senso nel paragonare un dittatore giunto al potere con un colpo di stato e che ha mantenuto quel potere con violenze, omicidi e torture, ad un leader di partito che, oltre ad avere trovato una legittimazione in sede elettorale, sembra godere oggi del favore della maggioranza degli italiani.

Fermo da sempre sulle sue posizioni, Moretti è intervenuto ancora una volta su temi politici dopo essere stato uno dei leader del movimento dei girotondi, una delle iniziative della sinistra, all’epoca contro il governo Berlusconi, miseramente fallita e quasi dimenticata: come nel gioco per bambini sembra che siano finiti tutti giù per terra.

Moretti, probabilmente anche per cercare nuova visibilità o riaccreditarsi presso il popolo deluso della sinistra, ha lanciato il suo messaggio con lo stile di quello rivolto a Massimo D’Alema nel film Aprile: il celebre “Di qualcosa di sinistra”. Il regista ha poi continuato nella sua intervista chiedendosi che cosa faccia la sinistra.

Moretti può chiederselo tranquillamente e cercare una risposta, perché lui è lo specchio della sinistra italiana: una élite radical chic, prigioniera del suo passato, senza progetti per il futuro e che vive un presente fatto solo di dubbi e indecisioni.

Moretti in tutta la sua opera ha lanciato sicuramente un messaggio che sintetizza perfettamente questa situazione. Quale è questo messaggio? Immaginiamo la sua faccia che si guarda allo specchio e, con calma, con voce ferma, così recita; “Io sono comunista. (pausa) Cazzo e ora?” Sipario.

Un messaggio che raccoglie quarant’anni di carriera che possono sintetizzarsi in un telegramma.

Giovanni Lattanzio, un giovane che sorrideva alla vita

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Una commemorazione veramente toccante, quella tenutasi il 23 Novembre 2018 presso l’Istituto tecnico Di Vittorio – Lattanzio di Roma, ma anche formativa per l’enorme numero di studenti presenti e soprattutto partecipanti. Cercare di affrontare il problema del bullismo cogliendo l’occasione del 40° anno dalla morte di Giovanni Lattanzio, ma in particolare organizzare in maniera pressoché perfetta l’evento, non era cosa semplice, un plauso quindi deve andare a chi ha voluto fortemente questa giornata volta a trasmettere ai ragazzi un messaggio forte che è quello che la morte di Giovanni non deve essere considerata inutile, inspiegabile, impunita purtroppo si, ma inutile non può e non dovrà mai essere. Incredibile come, dopo 40 anni, sia ancora sentita e partecipata questa vicenda.

E così che l’aula 50 dell’istituto si riempie all’inverosimile, tantissimi studenti che la gremiscono e rimangono presenti fin all’ultimo minuto delle oltre 2 ore della cerimonia.

Ospiti d’onore, ovviamente la famiglia di “Gianni” come lo chiamavano i più stretti, la mamma Enrica, il papà Antonio, la sorella Marisa ed il fratello Luca con la moglie, tutti segnati dal dolore che dopo 40 anni rimane fresco e presente come non fosse passato un giorno. Determinati nel trasmettere ai ragazzi la loro esperienza e raccontare chi era il loro caro e quanto sia stato incomprensibile ed infame quel gesto di cui ancora oggi se ne cerca l’autore ed il motivo, ancora più fermi nella ricerca della verità per porre le tante domande ancora senza risposta che avrebbero da fare. 

La promotrice, prof. Teresa Maria Anna Squitti, aprè introducendo gli altri coorganizzatori, il direttore dell’istituto Claudio Dore e l’ex preside e docente della VB, classe di Gianni, Biagio Vallefuoco. Entrambi si presentano con testimonianze dirette ed indirette raccontando la storia della scuola che vedeva le V di quell’anno le primissime V a dare gli esami di maturità, come sia cambiata la scuola da quegli anni e come sia stato difficile il percorso per poterla intitolare a nome di uno “semplice” studente.

La prof. Squitti che oltre a ringraziare per la collaborazione anche l’altra sua collega, la prof. Giordano, fa da moderatore dell’evento e comincia a chiamare i ragazzi che frequentano la scuola di oggi e che fanno parte del laboratorio teatrale dell’istituto.

Tantissimi, delle classi V ma anche di II, sfilano ad uno ad uno recitando poesie o brani scritti da loro e dedicati a Gianni, così, come se fosse un loro compagno di oggi, in fondo la sua vita si è fermata a soli 17 anni, la loro età, allora lo chiamano, ci parlano, gli raccontano la loro giornata o gli chiedono semplicemente come va, come ad aspettarsi una risposta, come una chiacchierata tra amici. Loro frequentano la scuola che porta il suo nome, lo sanno che era uno come loro, se ne rendono conto anche guardando le foto di lui assieme ai suoi amici nella vita di tutti i giorni e che scorrono proiettate sul telo dell’aula. Ne conoscono in parte la storia ed oggi attendono di ascoltare la storia nella sua completezza, da chi questa storia l’ha vissuta in prima persona. Ma prima di questo, un intervento interessante è quello del dott. Tommaso Scandale, neuropsichiatra infantile che affronta il tema del bullismo nelle sue forme, trasformate si nel tempo, ma ispirate dagli stessi principi. Scandale, spiega anche ai ragazzi quali possono essere le cause scatenanti della storia che ha visto protagonista Gianni, come cercare di non farsi influenzare e come eventualmente cercare di porre rimedio a situazioni limite. Seguono gli interventi del giornalista Lorenzo Gramaccioni che 4 anni fa scrisse la sua intervista impossibile fatta a Gianni e dell’assessore alla cultura del V municipio Maria Teresa Brunetti. Ma come dicevamo, la parte più commovente è sicuramente stata quella che ha visto protagonisti i ragazzi della scuola, che con i loro scritti e accompagnati dal chitarrista Stefano Barbati, sono riusciti ad arrivare al cuore dei presenti, diversi in lacrime, soprattutto i compagni di classe di Gianni, anche loro intervenuti numerosi all’evento che hanno poi voluto omaggiare i familiari con delle dediche scritte ed un mazzo di fiori. Una bandiera italiana, tirata per i lembi, da uno studente di quinta del 2018 e da un “ragazzo” di quinta del 1978, scopre una targa affissa all’ingresso della scuola come dedica ad “un giovane che sorrideva alla vita”, atto conclusivo di una giornata che rimarrà nella memoria dei presenti e speriamo per chi seguirà, perché la vita è una e va vissuta ma soprattutto, non deve essere negata.

Quell’anno, quei giorni, quel giorno

4 anni passati assieme, 4 anni di amicizia resa sempre più forte dal tempo. Compagni di banco, compagni di studio, e alla fine anche compagni di divertimento, dal Giovanni XXIII, istituto tecnico industriale in quel di Tor Sapienza, all’ex XVI ITIS, oggi purtroppo, ITI Giovanni Lattanzio.

Purtroppo, non per la dedica, fortemente voluta, dagli alunni della scuola e soprattutto dagli allievi e professori della sua classe, ma perché questo significava e significa che Gianni non c’è più. Gianni non ha avuto la possibilità di vivere una vita come tutti noi, una vita fatta di difficoltà, di sudore, ma anche di soddisfazioni e piaceri, di sconfitte e vittorie insomma, una vita. Ne è stato privato, con violenza, arroganza, presunzione di onnipotenza. Erano anni difficili, soprattutto il 78, anno di fermenti politici e non, l’anno dei tre papi, ma anche il più buio tra gli anni di piombo, il più nero per la democrazia del nostro paese, dall’uccisione di Peppino Impastato, vittima eccellente di mafia, al rapimento e uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse.

Le pistole e le contestazioni violente in piazza, gli attentati e le uccisioni erano loro malgrado, protagoniste dei telegiornali di tutti i giorni. Le scuole ed i ragazzi di quel periodo non erano esenti dalle influenze del violento clima socio politico che si respirava, la contestazione non era lontana anzi, era ancora fortemente presente nelle scuole e nelle periferie della città l’atmosfera era quella del far west, dove chiunque in possesso di un arma, si sentiva il diritto di brandirla alla prima occasione, magari non per usarla ma per dimostrare chi era l’animale alfa del branco. E’ così che una mattina di Settembre del 1978, per un banale incidente, “una pestata di piede” su un bus affollato, che in una società civile si concluderebbe con un “mi scusi”, “ ma no, non si preoccupi, può accadere”, si scatena una discussione il cui epilogo è di una violenza inaudita, inspiegabile o meglio, spiegabilissima, perché la mano è quella di un delinquentello, di un balordo, che per farsi grande di fronte al suo amico e magari incoraggiato dallo stesso, estrae una arma e fa fuoco. Accidentale o meno che sia, l’arma non doveva essere in quelle mani, a disposizione del branco a disposizione di due “vermi”. 

Gianni non doveva essere su quell’autobus quella mattina, doveva rimanere a casa per un piccolo problema di salute, ma c’era un’interrogazione e decise di non rinunciare ad essere presente, il fato, maledetto fato. Vista l’atmosfera di quel periodo le prime ipotesi che si fecero erano quelle che l’accaduto fosse legato ad un movente politico poi si cerco la motivazione in un regolamento di conti fra bande, ma non era nulla di tutto questo, Gianni ha avuto solo la sfortuna di incontrare sulla strada della sua vita, due nullità, capaci di farsi forza solo attraverso l’esibizione di un arma, in somma due “Bulli da strapazzo”, nemmeno capaci di capire qual’è il limite oltre il quale non si dovrebbe mai andare.

Bullo poi per cosa? Per dimostrare a chi? Se hanno una coscienza, lui e il suo compare, avranno portato questa pesante macchia per il resto dei loro giorni ma magari non ce l’hanno mai avuta una coscienza e si saranno anche vantati di aver stroncato una vita, una vita che era proiettata al futuro, piena di speranze e di progetti di un tranquillo e “normale” ragazzo di periferia.

Ciao giovane che sorridevi alla vita!

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Gianni Dell'Aiuto
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