Fisiologia di un partito politico: il caso del PD
I partiti presenti oggi in parlamento, non sono quelli che composero l’Assemblea Costituente né quelli che formarono il vecchio Arco Costituzionale. Solo il Partito Radicale ha ancora la sua identità. In un sistema che non ha le condizioni per un sistema bipartitico è inevitabile che si assista ad un continuo proliferare di nuove formazioni che spesso nascono sulle emotività del momento e, come naturale, possono andare a sostituire alcune vecchie realtà.
Tranne quelle che vogliono continuare a sopravvivere contro ogni logica. L’esempio più lampante di questa discrasia del sistema, che probabilmente impedisce una reale riforma, è l’attuale PD e della sua classe dirigente che sembra non voglia prenderne atto.
Nel 1991, quando venne decretata la fine del PCI, si registrarono, come era ovvio aspettarsi, profonde divergenze tra i superstiti del granitico blocco che per oltre 70 anni aveva rappresentato il contraltare alla DC e alle destre. Un partito monolite, dove vigevano spirito di corpo, disciplina, uniformità di pensiero e linee dure che sfocavano nel centralismo democratico di matrice addirittura leninista. Falce e martello, Mao, il Che e la convinzione più assoluta che esistessero solo coloro che, sulle note di Bella Ciao, potessero salvare il mondo dal capitalismo, dall’imperialismo, dal fascismo.
Al momento dello scioglimento, le ali più estremiste, fedeli alle vecchie idee, confluirono in Rifondazione Comunista che ha poi visto le sue divisioni e suddivisioni, ma tutte legate all’idea romantica e nostalgica del vecchio partitone e dei suoi simboli e lotte ormai anacronistiche. Anche quello che fu definito “La Cosa”, il nuovo soggetto ha attraversato diverse fasi: PDS, DS, Margherita, l’Unione fino all’attuale PD. Ha anche ottenuto un’importante vittoria elettorale, ma, e questo segnale non è stato colto, il successo arrivò con un premier che proveniva dalla DC. E il primo Governo Prodi cadde quando perse l’appoggio di Rifondazione; anche i successivi Governi di Sinistra hanno avuto i maggiori problemi dalle proprie maggioranze.
Non è possibile, sostenere che il PD sia l’erede del PCI nonostante alcuni vogliano insistere in tal senso muovendo da principi o valori mai venuti meno, e comunque mai messi in discussione, ad iniziare dalla Resistenza, invocato oltre settanta anni dopo per molti come valore fondante. Sarebbe stato più logico prendere atto delle contraddizioni che, già a suo tempo, avrebbero dovuto imporre la presa d’atto dell’anacronismo di un’idea e l’illogicità del volere per forza perseguirla, perdendo di vista la realtà e i nuovi contesti, sociali e politici da affrontare, fino ai risultati oggi evidenti.
Fin dalla sua origine la formazione politica che insiste a definirsi sinistra o centrosinistra, si è posta quale portatrice di ideali popolari; istanze sociali, pacifiste contro guerre ingiuste, egalitarismo antisistema e, comunque, posizioni anticapitaliste, ecologiste. Sempre e comunque antifasciste, contro un nemico che, non più incarnato dalla DC, venne identificato prima nel Berlusconismo e oggi nel governo di Lega e Cinque Stelle. Insomma, come per il vecchio PCI, l’importante era essere “contro.” L’unico elemento caratterizzante che è rimasto costante e che, anche oggi, si rivolge contro l’attuale governo. I leader dell’epoca, per rimanere attaccati all’ideologia da cui erano nati, oltre che per il timore di perdere la base, non capirono che era il momento di fare un passo decisivo e tagliare completamente con il passato.
Dalla sua nascita, per l’attuale PD sono passati Rosy Bindi che veniva dalla DC; Franco Marini, dalla CISL, addirittura Ciriaco De Mita già Primo Ministro del pentapartito. Si è addirittura alleato con SEL, portatrice di istanze non coerenti con l’ala cattolica del partito. I passaggi attraverso altre esperienze hanno lasciato i loro segni: dalla caduta di segretari e la candidatura di Francesco Rutelli, proveniente dai Radicali; la meteora Franceschini, gli insuccessi di Veltroni, Fassino e della bicamerale di D’Alema e, il clou, il fallimento di Bersani, candidato premier che, pur ottenendo una strana maggioranza, si vide immediatamente sostituito da Enrico Letta che lasciò (o aprì la strada) a Matteo Renzi.
Renzi, viceversa, che oggi è visto come il male assoluto, responsabile dell’ennesimo fallimento, poteva essere la svolta e lo sdoganamento di un partito che aveva ormai compiuto il proprio tempo, in una direzione socialdemocratica. Europea o laburista: il Tony Blair italiano. Il partito ha fatto il possibile e l’impossibile, riuscendoci, per impedirglielo.
Quando ha avuto la possibilità di prendere le redini del paese, si è rivelato inconsistente, vittima delle sue radici e di una connaturata incapacità a gestire il Potere o, forse, è mancata una vera leadership. Può trarsi da ciò una lezione per i prossimi leader politici (non solo del PD, sempre che sopravviva), o fare finta di nulla, perché ogni colpa è, sempre e comunque, di qualcun altro. A tutta la dirigenza della sinistra, non sono mai mancati i colpevoli da esecrare e indicare al risentimento laico, democratico e antifascista. Dalla CIA a Berlusconi, da Licio Gelli a Gladio, dal CT della nazionale al barista sotto casa. Guardare la realtà e prendere atto che si è sbagliato più di qualcosa o tutto ciò che si poteva sbagliare, questo no, sarebbe roba da opportunismo di destra o deviazionismo di sinistra, come insegnava quello… sì, quello… quello coi baffi! Non D’Alema, no, lui è baffettino, quello giusto era, sì, sì: BAFFONE!!!
Qual è l’errore di fondo del PD? Su tutti quello di considerarsi infallibile come il vecchio PCI che, in quanto tale, non poteva sbagliare. Semmai solo alcuni compagni sbagliavano. Ma anche l’errore di voler sopravvivere a tutti i costi; non capire che era il momento di staccare la spina al vecchio molosso sdentato, specialmente dopo il crollo del muro di Berlino, del blocco sovietico, del Patto di Varsavia. Semplicemente, prendere atto che il comunismo aveva fallito o forse esaurito il proprio corso. A meno che non si voglia considerare un successo la Corea del Nord.
Fuori dall’Italia i partiti si sono adattati ai nuovi scenari, proponendo figure e leader in grado di affrontare i momenti: lo stesso Trump ne è un esempio.
I partiti politici sono figli della loro epoca, e volerli portare oltre la loro durata fisiologica in presenza di nuove situazioni per i quali non erano nati, è inutile. DC; PSI, Liberali e Repubblicani hanno chiuso. Il PD ha preteso di trasformarsi modellandosi sulla pelle del capopopolo del momento. Riuscirà il nuovo segretario del PD a imparare dagli errori del passato? Alla sua prima prova elettorale in Basilicata il risultato non è stata una vittoria e, certamente, una parte dei voti derivano dalla presa d’atto del fallimento dei Cinque Stelle, ma il percorso è lungo e Zingaretti sembra più vicino alla vecchia base del partito che non alle istanze che chiamano al cambiamento.
Oggi non esistono possibilità di sopravvivere per partiti che muovono solo su basi ideologiche o demagogiche. Possono sopravvivere una stagione, salvo adattarsi, ma voler restare attaccati a qualcosa ormai superato, è un suicidio politico che fa perdere credibilità alla sua classe dirigente.
Conseguenza di questo immobilismo è la nascita di movimenti di reazione. I Cinque Stelle e la Lega ne sono stati l’esempio. Anche il fascismo nacque su basi di reazione così come i movimenti di Masaniello e Cola di Rienzo. La loro durata dipende dalla data di scadenza del leader o dalla persistenza delle condizioni che ne avevano determinato la nascita. A meno che non sappiano cambiare. La Lega lo ha fatto e Salvini ne sta allargando la base elettorale, peraltro su basi demagogiche e populiste. Forza Italia sembra ci stia provando.
Lasciando agli storici le valutazioni del passato, prendiamo atto della fine di un partito nato e sopravvissuto senza una logica ispiratrice, se non l’illogicità di non voler morire, andando contro leggi di natura applicabili anche alla politica. Costruire impone nuove fondamenta; gli edifici nati su basi nuove e tecnologie avanzate, e che non siano continui restauri di costruzioni danneggiate, hanno maggiori possibilità di durare nel tempo. Il PD non lo ha fatto, e ne sta pagando le conseguenze.
Prima di chiudere, un pro memoria rivolto ai futuri ideologi: gli elettori di oggi conoscono gli immigrati di colore e ne hanno, a torto o a ragione, una paura fottuta, specialmente di quelli che vogliono radicalizzare la loro religione. Lenin non ne ha mai visto uno, e Stalin probabilmente li avrebbe trattati come migliaia di altri che fece incarcerare o deportare a causa delle loro idee o razza. E Marx avrebbe scritto oggi “Il Capitale”? O sono più utili le teorie di Milton Fridman e Thomas Sowell? In un dibattito politico ha più senso ascoltare le ragioni altrui o zittire chi la pensa diversamente pensando di risolvere il problema tacciandolo di fascismo? Proprio il non ascoltare ha condotto a questa situazione.
Gianni Dell’Aiuto