GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Donald Trump

Covid-19: una pedina fondamentale sulla scacchiera internazionale

Con “trappola di Tucidide” il grande storico attribuiva lo scoppio della guerra fra Atene e Sparta alla crescita della potenza ateniese, e alla paura che tale crescita causava nella rivale Sparta. Oggi mentre il mondo affronta una delle sue sfide più importanti, lo scenario internazionale ci pone di fronte alla possibilità che questa trappola scatti. Ancor prima dell’emergenza Covid-19, si scorgeva una fase storica in cui una potenza a lungo dominante -gli Stati Uniti- fronteggiava una potenza emergente -la Cina- e in molti, sullo scenario internazionale, temevano per gli effetti di questa competizione.

Un duello già visto

Quest’anno per l’economia globale sarà il peggiore degli ultimi cent’anni. Solo negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione nel mese di aprile è passato al 14,7%, il più alto dalla Grande Depressione, e sicuramente le continue pressioni tra Stati Uniti e Cina non porteranno a sviluppi migliori. Nel giro di pochi mesi gli umori dell’amministrazione americana verso Pechino si sono più volte capovolti. Prima le battaglie su Huawei, il 5g e lo spionaggio informatico che, ad un certo punto, sembravano risolte con una stretta di mano tra i due leader, ma con lo scoppio del contagio il Covid-19 è diventato una pedina fondamentale sulla scacchiera internazionale.

Il Coronavirus appare in Cina a “fine dicembre” e per il mese di gennaio si rivela un problema solo cinese. Trump e i suoi esperti non esternano preoccupazione, anzi per tutto il mese e quello successivo, Trump elogerà la Cina: il 24 gennaio sul suo profilo Twitter il Presidente statunitense scriveva: “China has been working very hard to contain the Coronavirus. The United States greatly appreciates their efforts and transparency. I twill out well. In particular, on behalf of the American People. I want to thank President Xi”. Non solo Trump ringraziava il Presidente Xì per il lavoro svolto, ma il 10 febbraio si congratulava anche con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per poi accusarla a metà aprile di aver “portato avanti la disinformazione della Cina riguardo al coronavirus” e decidere la sospensione degli aiuti per un periodo tra i 60 e i 90 giorni.

La comunicazione si fa sempre più difficile

Mentre l’epidemia cresce negli Stati Uniti, a inizio marzo gli infètti sono 1300 e i morti 36, Trump dichiara emergenza nazionale e il tono nei confronti di Pechino cambia. Il Covid-19 inizia e diventare il “virus cinese” mentre il portavoce del Ministro degli esteri cinese accusa “il virus potrebbe essere partito dagli Stati Uniti e portato a Wuhan dall’esercito statunitense, quando lo scorso ottobre più di 300 soldati americani si trovavano a Wuhan per il campionato mondiale di giochi militari”.

La battaglia si sposta sul controllo della narrazione della pandemia e la comunicazione diventa la chiave per decidere chi uscirà vincitore su scala mondiale. Iniziano le ripercussioni sui giornalisti. Il 19 febbraio Pechino espelle tre cronisti del “Wall street journal”, accusati di aver utilizzato un titolo dispregiativo “China is Real Sick Man of Asia”, a cui si accoderanno più tardi anche i giornalisti del New York Times e del Washington Post. D’altra parte, Washington risponde allontanando 60 inviati cinesi dei principali media filogovernativo.

Nel frattempo, le voci che il virus possa provenire dai laboratori di Wuhan, viene smentita il 17 marzo dalla rivista scientifica “Nature medicine”. Il Covid-19 è il risultato di un’evoluzione naturale, arrivata dal pipistrello, ma questo non ferma né la propaganda americana né il Presidente Trump che annuncia l’intervento dell’intelligence americana per investigare sulle origini del Covid-19, mentre la Cina rispedisce le accuse al mittente affermando che gli Stati Uniti spostano l’attenzione dei loro ritardi nell’agire contro il coronavirus.

Lo scontro comunicativo si rinvigorisce con le esternazioni del segretario di Stato americano, Mike Pompeo che domenica scorsa davanti all’Abc, affermava di avere enormi prove che il virus provenga dai laboratori di Wuhan. Posizione ritrattata parzialmente pochi giorni dopo, “ci sono solo delle evidenze ma non delle certezze” e riaccusa Pechino di mancata trasparenza nella fase iniziale del contagio e di continuare a essere “opaca” e a “negare l’accesso” alle informazioni.

Il Covid-19 e la leadership internazionale

Quello che oggi appare più evidente non sono solo le conseguenze del Covid-19 nel mondo ma anche il ruolo che esso ha assunto nella contrapposizione tra Stati Uniti e Cina. Quello che la storia ci dirà è che quel “rinoceronte grigio” (espressione coniata dall’analista politico americano Michele Wucker che si riferisce ai pericoli grandi e trascurati) è già in casa nostra ed ha subito un processo di fusione. Come i tentacoli di una piovra che si legano immediatamente a qualsiasi cosa, il Covid-19 è progressivamente diventato la nuova pedina da sfruttare per respingere l’ambizione della Cina di colmare il vuoto di leadership con gli Stati Uniti. E l’Europa? La sensazione è che l’Ue abbia bisogno di un processo rigenerativo per poter acquisire quel sentimento di unione tanto promosso quanto artificioso. Nell’attesa che questo processo possa presto manifestarsi, la speranza è quella di non restare intrappolati nello scontro tra Usa e Cina. La sensazione è che l’Ue non dovrà fronteggiare solo le gravi conseguenze che il Covid-19 lascerà, oltre a far fronte a questa pandemia che colpisce in maniera orizzontale ogni paese, l’Ue dovrà contrastare da un lato, il forte euroscetticismo presente nei propri confini e dall’altro, la prospettiva di una contrapposizione sempre più forte tra Cina e Usa. Dalle sue risposte dipenderà il suo futuro, la sua leadership internazionale e la sua indipendenza rispetto ai due principali contendenti a livello globale.

Conte e Trump si incontrano a Washington: Libia, immigrazione ed energia al centro del summit

Senza categoria di

Il 30 luglio 2018, il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, si è recato a Washington per un vertice con il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump. I due paesi, Italia e Stati Uniti, sono legati da una storica e profonda amicizia che viene rinnovata periodicamente attraverso tali incontri.

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Qual’è stato l’evento che vi ha colpito di più nel 2017?

BOOKREPORTER di

In questa puntata di bookreporter le risposte degli ascoltatori al nostro Domandone, ” Qual’è stato l’evento di politica internazionale che ti ha colpito di più nel 2017″, il commento degli eventi in corso, dalla crisi della Corea del Nord all’intifada a Gerusalemme, il cinema di Laura Laportella tra Star Wars e il mondo reale di ieri e di oggi. Buon Ascolto!!!

SE PYONGYANG AVVICINA PECHINO A WASHINGTON

Asia di

L’escalation dei toni nel Nordest Asia sta mettendo in allarme le cancellerie della regione e non solo. Il fragile equilibrio su sui si regge la pace nella penisola coreana è messo a dura prova su entrambi i lati. Trump ha minacciato da inviare un”armada” navale, mettendo sotto pressione Pyongyang nei giorni delle celebrazioni per il 105° anniversario della nascita di Kim Il-Sung, fondatore del paese. Kim Jong-Un, sul fronte opposto, ha rinnovato le sue minacce agli Stati Uniti e ai suoi alleati sudcoreani e giapponesi, dichiarandosi intenzionato ad utilizzare tutto il suo potenziale offensivo in caso di conflitto. Il dossier sul nucleare nordcoreano è dunque tornato di grave attualità, facendo alzare il livello di allarme della comunità internazionale.

Il progetto nucleare riveste per Pyongyang un valore assolutamente strategico in chiave di deterrenza contro le minacce esterne e per questo destina al proprio programma di ricerca circa 700 milioni di dollari ogni anno, per avanzare sul terreno tecnologico e dotarsi di vettori balistici a medio e lungo raggio su cui, un giorno, installare testate atomiche. I sei test nucleari fin ora condotti e i progressivi miglioramenti tecnici hanno permesso al regime di rafforzare la propria posizione nello scacchiere dei rapporti regionali e nel confronto con il grande nemico americano, con il quale, va ricordato, non è mai stato firmato un trattato di pace dopo la fine della guerra di Corea, nel 1951.

Non è possibile verificare i proclami di Pyongyang e nessuno sa con certezza quando Kim potrà fare affidamento sulla bomba all’idrogeno o su un missile balistico capace di raggiungere le coste occidentali americane. Questa incertezza però gioca a favore del regime, che mostra i muscoli senza che il nemico riesca a capire con certezza se siano di carne o cartapesta.

La retorica nucleare è un importante strumento di controllo e affermazione anche sul fronte interno, perché permette a Kim di consolidare la propria autorità sia agli occhi della popolazione che dell’establishment burocratico-militare che nel paese detiene un ruolo ovviamente centrale. Quando è succeduto al padre, nel 2011, Kim era quasi sconosciuto in patria. Ha dovuto dunque fin da subito esasperare la sua retorica per costruirsi l’immagine di leader autorevole e determinato, facendo affidamento sulla potente macchina della propaganda e sull’epurazione sistematica degli avversari interni. Esempio paradigmatico fu l’eliminazione fisica di Jang Song-taek, zio del giovane leader che aveva scalato le gerarchie militari durante il regno di Kim Jong-il e che nei primi mesi dopo l’avvicendamento aveva svolto la funzione di reggente de-facto del regime.

Jang era inoltre diventato il referente privilegiato di Pechino,principale, se non unico, alleato della Corea del Nord. E, sul modello cinese, Jang voleva portare Pyongyang sulla strada delle riforme economiche e di una maggiore apertura verso l’esterno. Il peso specifico di Jang nel sistema di potere e il suo progetto di trasformare il paese, allontanandolo dal modello dinastico e personalistico in favore di una concezione più collegiale ispirata dall’esempio di Pechino, sono stati probabilmente alla origine della sua fine. Progressivamente marginalizzato dal nuovo leader, dopo il 2011, venne arrestato nel 2013 e ucciso insieme ad altri esponenti della sua cerchia.

Questa dimostrazione di forza, pur servendo come esempio nei confronti di altri possibili avversari interni, ha segnato l’inizio di una nuova fase di isolamento nel paese dal resto della comunità internazionale. I successivi test nucleari e la retorica aggressiva di Kim hanno provocato un sentimento di forte esasperazione nei confronti del regime di Pyongyang, anche in seno all’alleato cinese, tradizionalmente disponibile alla pazienza. Dopo l’esecuzione di Jang, Pechino ha perso il suo uomo di riferimento e non ha più trovato interlocutori affidabili a nord del 38° parallelo, perdendo in parte il suo ruolo di protettore e controllore del regime.

Se per lungo tempo La Corea del Nord è stata uno strumento di pressione sulla comunità internazionale ed uno stato cuscinetto frapposto tra Pechino e gli alleati asiatici degli Stati Uniti, oggi rischia di essere un fattore di rischio per gli interessi cinesi nella regione. Le intemperanze nordcoreane hanno avuto l’effetto di sprigionare la corsa agli armamenti nei paesi limitrofi, andando così ad alterare i tradizionali equilibri nel Pacifico e mettendo Pechino in una situazione di inedita difficoltà. La difesa a oltranza di Pyongyang potrebbe dunque essere ormai controproducente per la Cina, che potrebbe infine optare per una pragmatica convergenza con Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone.

Nel 2016, per la prima volta, la Cina ha aderito al sistema di sanzioni contro il governo nordcoreano, segnando una svolta importante. Pechino è infatti il primo partner commerciale di Pyongyang ed ospita un gran numero di conti correnti, società e compagnie che gestiscono le attività lecite e illecite del regime. Nel 2017 le importazioni di carbone dalla Corea del Nord scenderanno del 50%, con un danno economico stimato in circa 700 milioni di dollari, pari a tutto il budget per i programma di ricerca nel campo del nucleare.

Questo cambio di rotta non si traduce però in un appiattimento cinese sulle posizioni americane. Pechino non ha affatto apprezzato le esplicite minacce lanciate da Trump contro la Corea del Nord e, già in occasione del vertice bilaterale del marzo scorso in Florida, il presidente cinese Xi Jinping ha ribadito la necessità di trovare una soluzione diplomatica ed evitare una pericolosa escalation nella regione. Pechino non potrebbe comunque permettersi di rimanere spettatore passivo di fronte ad un’eventuale azione militare statunitense, che avrebbe ricadute dirette sulla propria sicurezza nazionale.

La leva economico-commerciale potrebbe permettere alla Cina di rafforzare nuovamente la propria influenza sulle élite militari e burocratiche nordcoreane, che basano il proprio benessere sulla possibilità di fare affari con il potente vicino. Sarà però necessario individuare nuovi referenti a Pyongyang, per poter tornare ad influenzare la politica del regime e gestire al meglio, nell’eventualità di una caduta dell’attuale leadership, la fase di transizione. Una recuperata influenza permetterebbe inoltre alla Cina di ottenere una nuova moneta di scambio nei rapporti con l’amministrazione  Trump, in una fase storica delicata per i rapporti tra i due giganti globali.

La necessità di limitare l’imprevedibilità del regime di Kim Jong-Un potrebbe essere il terreno comune su cui ridefinire i confini del rapporto tra Cina e Stati Uniti. Un ruolo più assertivo di Pechino nei confronti del regime potrebbe essere dunque il frutto di un accordo tra le due sponde del Pacifico, con una possibile marginalizzazione del ruolo giocato da Giappone e Corea del Sud nella determinazione di una nuova strategia.

Tokio e Seul si troverebbero in prima linea, in un eventuale conflitto armato con Pyongyang.  Se però il Giappone sembra disponibile ad appoggiare l’approccio muscolare dell’amministrazione Trump, Seul continua a spingere per la ricerca di soluzioni pacifiche e diplomatiche. Nel mezzo di una crisi politica che ha portato alle dimissioni dell’ex-presidente Park, la Corea del sud rischia di ritrovarsi senza un governo forte nel momento in cui si prenderanno decisioni cruciali, con ricadute dirette sulla sua sicurezza.

Trump bombarda la Siria: 59 missili su una base militare di Assad

Difesa/Varie di

Gli Stati Uniti hanno dato il via ad una pesante offensiva nei confronti del regime di Assad. Sono stati ben cinquantanove i missili Tomahawk lanciati su una base militare siriana a Damasco, secondo le fonti siriane sarebbero circa 15 le vittime tra cui alcuni civili.  La dichiarazione di intenti da parte del Governo Trump secondo le fonti più accreditate è quello di una ritorsione e di una risposta violenta all’attacco con le armi chimiche di martedì a Idrib dove sono morti in atroci sofferenze molte persone e bambini. Gli Stati Uniti hanno agito da soli, l’Alleanza Atlantica in una nota stampa rende noto l’intento da parte degli americani quello di rispondere con un duro colpo al regime siriano a causa del ripetuto utilizzo di armi chimiche. Questa situazione però crea un quadro complesso che in parte potrebbe compromettere le relazioni della Casa Bianca con il Kremlino.

Come è noto Putin è un sostenitore di Assad di conseguenza ha definito l’attacco USA un vero e proprio attacco alla Siria e questo procedimento sta andando a creare delle frizioni molto importanti tra le due potenze. Ci sarebbe infatti una fregata russa che avrebbe già oltrepassato lo stretto del Bosforo in direzione delle navi a stelle e strisce che hanno lanciato i missili nelle prime ore del mattino di questo 7 aprile 2017. Per quanto riguarda le posizioni dell’Unione Europea, così come l’Italia, si schiera  con l’atteggiamento offensivo degli Stati Uniti perché “risposta a crimini di guerra”, ma purché resti una tantum.
Molte sono le critiche che invece sono rivolte alle Nazioni Unite, non sta risultando un organo al momento incisivo al fine della risoluzione del conflitto, tanto che ci sono degli attori di questo panorama geopolitico che lo definiscono “inutile”.


La situazione al momento è quella, ancora una volta di una polveriera che sembra pronta ad esplodere da un momento all’altro con degli equilibri che non sono ben chiari. I rischi che questa manovra di indebolimento di Assad possa agevolare lo Stato Islamico nel conflitto siriano non sono ancora quantificabili, al momento non sembra che ci si debbano aspettare nuove azioni offensive da parte degli Stati Uniti, quello che resta poco chiaro è se questa azione è veramente solo una reazione di “pancia” del presidente Trump e dei suoi generali, o parte di una strategia più complessa. Quello che possiamo immaginare è innanzitutto una dimostrazione di forza, di una linea  dura e ben precisa, in rottura con la precedente linea più prudente di Obama. Per The Donald questo attacco è una dichiarazione della potenza degli Stati Uniti che ovviamente non piace molto alla Russia. Stanno seguendo delle ore molto delicate in cui ci sono dei meccanismi precari che potrebbero incrinarsi, un aspetto molto importante però, che può rassicurare il panorama internazionale, è quella che le vie diplomatiche di Russia e USA sono ancora aperte, è stata confermata infatti la visita del Segretario di Stato americano Rex Tillerson a Mosca previsto tra pochi giorni.

Perché Shinzo Abe renderà omaggio alle vittime di Pearl Harbour

AMERICHE/Asia di

L’alleanza tra Usa e Giappone sembra destinata a rafforzarsi ulteriormente nel prossimo futuro. Il primo segnale era stato l’incontro “franco e cordiale” tra il presidente eletto Trump ed il premier nipponico Shinzo Abe dello scorso 17 novembre, primo meeting informale per l’amministrazione entrante con un capo di governo straniero. Il secondo passo, ben più significativo sul piano simbolico e politico, è l’annuncio della visita di Abe a Pearl Harbour, in concomitanza con le celebrazioni in memoria dell’attacco aereo giapponese sul porto statunitense delle Hawaii, che causò 2400 vittime e spinse gli Usa ad entrare in guerra 75 anni fa, il 7 dicembre del 1941.

La visita, programmata per la fine di Dicembre, si preannuncia come un gesto di portata storica che punta a rafforzare il legame tra i due paesi e ad inaugurare un nuova fase nelle relazioni bilaterali tra le sponde del pacifico. Gli aspetti più concreti e terreni riguardano la necessità giapponese di ridurre le incertezze riguardanti la futura politica statunitense nei confronti del Sol Levante, alimentate dalla sregolata campagna presidenziale di Trump che, tra le altre cose, aveva esortato Tokio a contribuire maggiormente alle spese per le basi militari americane sul suolo giapponese.

La visita culminerà con un incontro al vertice tra il premier nipponico ed il presidente uscente Obama, i prossimi 26 e 27 dicembre, recapitando un chiaro messaggio alla nuova amministrazione: l’alleanza funziona così com’è e non deve essere messa in discussione. Obama e Abe hanno infatti contribuito in modo convinto, in diverse occasioni, a cementare la cooperazione strategica tra i rispettivi paesi. Nel 2015 le linee guida di difesa comune sono state aggiornate e le Forze di Auto-Difesa giapponesi sono state autorizzate ad intervenire a fianco dell’esercito americano nell’ambito di un limitato numero di scenari.

Trump, invece, non è stato tenero con il Giappone durante la recente campagna presidenziale. Dopo aver chiesto più soldi per continuare a garantire la presenza delle basi militari americane nell’arcipelago, il candidato Trump aveva criticato Obama per aver fatto visita ad Hiroshima, nel ruolo di primo presidente americano a rendere omaggio alle vittime del bombardamento nucleare che pose fine alla guerra mondiale nel Pacifico. Secondo Trump, in quell’occasione Obama avrebbe dovuto ricordare anche le vittime dell’attacco giapponese a Pearl Harbour dove “migliaia di vite americane sono andate perdute”.

La prossima visita di Abe servirebbe dunque a compensare il gesto di apertura di Obama e a offrire alla nuova amministrazione l’immagine di un Giappone disposto a guardare al passato con occhi diversi. Secondo l’analista Kent Calder della John Hopkins University, la visita di Abe renderà l’alleanza col Giappone più digeribile per i sostenitori di Trump, facilitando le relazioni future.

Sul fronte nipponico, Abe è sempre sembrato disposto a mettere in discussione quella pagina della storia nazionale, riconoscendo almeno in parte le responsabilità del suo paese. Durante una sessione congiunta del Congresso, lo scorso anno, il primo ministro del Sol Levante ha fatto espresso riferimento, per la prima volta, all’attacco di Pearl Harbour, pur senza offrire scuse ufficiali. Anche in previsione della visita di fine dicembre, la questione delle scuse rimarrà sospesa. Abe intende portare “conforto” alle vittime dell’attacco giapponese di 75 anni fa e rendere omaggio alla loro memoria, ma non è lecito attendersi l’uso di un linguaggio diretto che possa essere letto in patria come la formulazione di scuse pubbliche nei confronti del nemico di allora.

Sul fronte americano, la visita di Abe potrebbe urtare i sentimenti dei reduci e dei parenti delle vittime, una preoccupazione cui l’amministrazione entrante è certamente molto sensibile. Anche Josh Earnest, l’attuale Press Secretary della Casa Bianca, non esclude che la visita giapponese possa amareggiare le vittime dell’attacco, anche a distanza di così tanto tempo. Earnest si dice però fiducioso che in molti metteranno da parte la propria dose di amarezza, riconoscendo la portata storica dell’evento.

La visita si prospetta dunque come un successo per Obama, che cerca di consolidare la propria legacy con una vittoria simbolica e diplomatica nel momento in cui le sue principali conquiste sul fronte internazionale, l’accordo sul nucleare iraniano e il riavvicinamento tra Washington e La Havana, rischiano di essere travolti dall’onda della nuova amministrazione Trump.

A raccoglierne i frutti migliori sarà però Shinzo Abe. La visita servirà al primo ministro per scrollarsi di dosso l’etichetta del revisionista storico, che lo accompagna dal momento della sua elezione e che ne offusca l’immagine in patria e sopratutto all’estero. Fumiaky Kubo, uno storico interpellato dal Japan Time, sostiene che Abe, nonostante la cattiva fama, abbia fatto “più progressi nel percorso di riconciliazione bellica di qualunque altro primo ministro. Questo potrebbe essere un modello di riconciliazione su cui entrambe le parti potrebbero basare i propri sforzi”.

Nel momento in cui il TPP (Partenariato Trans Pacifico) sembra destinato al fallimento e la disputa territoriale sulle isole tra Kamcatka e Hokkaido che contrappone il Giappone alla Russia è ferma su un binario morto, un rafforzamento della partnership con gli USA potrebbe essere quello di cui Abe ha bisogno per rilanciare la sua azione di governo sul teatro internazionale. Anche a costo di annacquare la verve nazionalistica che lo ha sempre caratterizzato.

Gli Stati Uniti cambiano direzione sotto la Presidenza Trump

AMERICHE di

L’8 di novembre il popolo statunitense ha eletto il repubblicano Donald Trump come prossimo Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, i risultati elettorali hanno preso alla sprovvista quasi tutti. La vittoria di Donald Trump è stata assolutamente inaspettata, soprattutto perché i sondaggi avevano previsto il successo di Hillary Clinton. In ogni caso, i risultati elettorali mostrano un Paese profondamente diviso tra due opposte visioni dell’America e opposte idee sul ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero svolgere sul piano delle relazioni internazionali. Per comprendere perché gli statunitensi hanno eletto Donald Trump a dispetto delle previsioni, sarà utile esaminare le sue proposte di politica interna oltre a quelle di politica estera.

La politica interna di Donald Trump può essere sintetizzata nello slogan “Make America great again”. Trump ha svolto la sua campagna elettorale concentrandosi sulla classe lavoratrice ed enfatizzando l’idea che l’America abbia un grande potenziale che non è stato a pieno utilizzato fin’ora. Secondo Trump, le ragioni di tale situazione sono da riscontrarsi nell’eccessivo sviluppo dell’economia finanziaria a scapito di quella reale. L’economia reale sostiene la crescita economica e rende possibile un miglioramento del benessere, mentre l’economia finanziaria è considerata responsabile della bolla immobiliare, che è esplosa nel 2007. Trump si è riferito ai suoi sostenitori definendoli un grande movimento, volenteroso di cambiare l’America. La sua retorica è stata considerata come populismo da gran parte del Paese, tuttavia la maggioranza ha visto in essa un modo per sentirsi in potere di cambiare le sorti dell’America. Secondo alcuni esperti, i votanti hanno preso posizione contro l’establishment. Il rifiuto della classe politica tradizionale non è un fenomeno isolato nello scenario internazionale come abbiamo potuto osservare in occasione del referendum sulla Brexit, oltre che nei recenti risultati elettorali in diversi Paesi europei. I principali strumenti per ridare grandezza all’America, secondo Trump, sono i tagli alle tasse per le imprese, misure più restrittive sull’immigrazione e leggi inflessibili contro criminali e terroristi. Il taglio delle tasse è pensato per sostenere la crescita economica aiutando le imprese a restare negli Stati Uniti invece di delocalizzare la produzione all’estero. La posizione di Trump sull’immigrazione è stata largamente criticata, poiché ha proposto di costruire un muro al confine con il Messico e di espellere tutti gli stranieri irregolari che risiedono negli Stati Uniti. Infine, la sua posizione sui criminali ed i terroristi è stata considerata razzista da gran parte dei cittadini americani. In particolare, Trump ha proposto di introdurre leggi stringenti e rafforzare i poteri della polizia per risolvere il problema della conflittualità razziale negli USA. Tuttavia, questo tipo di misure preoccupa la popolazione afroamericana che è stata protagonista di numerose proteste durante l’ultimo anno poiché si sente discriminata dalla polizia. La durezza della posizione di Donald Trump in merito alla questione razziale potrebbe portare ad incrementare la conflittualità già esistente tra il governo e le comunità afroamericane.

Passiamo ora ad analizzare la politica estera di Donald Trump. Il suo progetto può essere identificato nell’espressione “isolazionismo”. Per quanto riguarda le relazioni economiche con altri Paesi, Trump vorrebbe introdurre misure protezionistiche, poiché ritiene che i problemi economici degli USA siano principalmente dovuti al processo di globalizzazione. Non si tratta di una posizione isolata se pensiamo al Regno Unito che probabilmente negozierà l’uscita dal Mercato Unico Europeo. L’idea di focalizzarsi sui problemi interni degli USA, piuttosto che realizzare interventi militari in tutto il mondo, è l’argomento di politica estera che ha convinto maggiormente gli elettori. Gli statunitensi non comprendono le ragioni del consistente coinvolgimento degli USA in Medio Oriente come in altre parti del mondo, anche perché non percepiscono alcun vantaggio diretto da tali operazioni. Trump ha sostenuto, durante la sua campagna, che gli USA dovrebbero spendere meno soldi nel finanziare la NATO e gli interventi all’estero, concedendo maggiore indipendenza militare ai loro alleati ed usando il denaro per migliorare lo standard di vita americano. Tale isolazionismo in politica estera porta ad alcune importanti conseguenze. In primo luogo, le relazioni con l’UE cambieranno, in campo militare ma anche nel settore economico. Infatti, Trump ha espresso la sua opposizione al Trattato di Partenariato Transatlantico sul commercio e gli investimenti, che dovrebbe essere firmato tra l’UE e gli USA. Ciò nonostante, il più importante cambio nelle relazioni internazionali sarebbe dato da un mutamento di attitudine verso la Russia. Dal canto suo, il Presidente Putin ha subito espresso la sua volontà di ripristinare relazioni amichevoli con gli Stati Uniti. La principale conseguenza di una riconciliazione tra gli USA e la Russia sarebbe un possibile accordo sulle crisi in Siria ed in Ucraina. La stabilizzazione del Medio Oriente, oltre alla soluzione della crisi in Ucraina, allontanerebbe la minaccia di uno scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. D’altro canto, le future relazioni con la Cina sono incerte. Trump ha fatto alcune dichiarazioni contro la strategia economica cinese ed ha espresso la volontà di essere più economicamente indipendente dalla Cina. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che la Cina possiede la maggior parte del debito statunitense. Un altro aspetto della politica estera di Trump, in grado di influenzare tutto il mondo, è la scelta di rispettare o meno l’accordo sul cambio climatico negoziato a Parigi lo scorso anno ed entrato in vigore pochi giorni fa. Infine, non è chiaro se Trump proseguirà nella riconciliazione con l’Iran e se rispetterà l’accordo sul nucleare concluso lo scorso anno con tale Paese.

In conclusione, è ancora troppo presto per fare previsioni su come gli Stati Uniti e le loro relazioni con il resto del mondo cambieranno. La questione dipende fondamentalmente dal fatto che Trump  rispetti o meno il programma elettorale. Secondo le sue prime dichiarazioni, tuttavia, sembra che l’intenzione sia quella di moderare alcuni punti controversi del programma elettorale (si veda la posizione sulla questione razziale, sugli omosessuali e sui musulmani). Trump ha annunciato la volontà di collaborare con l’amministrazione Obama per preservare le maggiori conquiste ottenute negli ultimi 8 anni. Obama, da parte sua, ha manifestato il proprio sostegno al nuovo Presidente ed ha dichiarato che farà tutto il necessario per aiutarlo a svolgere in modo soddisfacente il proprio mandato.

Elena Saroni
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