GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Maurizio Iacono - page 2

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Il manifesto di politica estera di Pechino

 

Mentre in Occidente ci auto illudiamo con una narrativa di “regime” unidirezionale e ingannevole che il conflitto ucraino rappresenti l’atto estremo dell’eterna lotta tra il Bene (noi Occidentali) e il Male (il resto del mondo che non la pensa come noi), non ci accorgiamo che la Cina sta ponendo le basi ideologiche del suo concetto di Ordine Mondiale in chiave dichiaratamente antioccidentale.

A un anno esatto di distanza dalla dichiarazione congiunta russo-cinese dove veniva affermato un nuovo paradigma del concetto di democrazia – uno Stato è democratico se si sente democratico – e una differente declinazione dell’idea dei diritti dell’individuo – finiscono dove inizia l’interesse dello Stato – la Cina ha emanato un nuovo documento particolarmente interessante.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica Cinese ha infatti emesso un documento intitolato “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”.

Se il titolo non fosse abbastanza esplicito da chiarire il contenuto, basta dare un’occhiata all’indice: dopo una breve, ma significativa, introduzione dove gli Stati Uniti sono presentati come il peggiore dei mali, seguono cinque capitoli dedicati a tutti quei settori dove gli USA impongono la loro egemonia politica, militare, economica, tecnologica, culturale.

Il fine che il documento si propone di conseguire è rappresentato dalle ultime due righe dell’introduzione dove si cita testualmente:

This report, by presenting the relevant facts seeks to expose the U.S. abuse of hegemony in the political, military, economic, finance, technological and cultural fields, and to draw greater international attention to the perils of the U.S. practises to world peace and stability and the well-being of all people.

Un incipit che farebbe sembrare dei principianti l’Imperatore Palpatine o il Signore dei Sith, i super cattivi galattici che impersonano il male assoluto nella saga di Star Wars.

Nel corso dei vari capitoli il documento spiega come gli USA impongano la loro egemonia nei differenti settori a detrimento del bene universale e della pace dei popoli.

Senza andare nel particolare di quelle che sono, in realtà, dichiarazioni di una propaganda che affonda le sue radici in una retorica derivante da una visione social-comunista da Libretto Rosso, è opportuno notare come alcuni argomenti, quasi accennanti casualmente, definiscano, invece, la visione cinese che propaganda un nuovo ordine mondiale.

Il primo di questi concetti riguarda l’accusa di aver fabbricato una falsa narrativa della “democrazia verso l’autoritarismo” per incitare all’allontanamento, alla divisione, alla rivalità e al confronto tra le varie nazioni. Anche l’idea USA della creazione di un “Summit per la democrazia” è un’iniziativa che viene aspramente criticata e accusata di causare la divisione nel mondo.

Il secondo concetto riguarda la sfera economico finanziaria, dove viene messo in discussione il sistema che regola la struttura globale ritenuto esclusivamente vantaggioso per il binomio USA – Occidente (probabilmente ci si dimentica due terzi del debito USA sono finanziati dalla Cina).

Il terzo elemento evidenzia un certo fastidio per il sistema di alleanze che gli USA hanno impostato nella gestione della loro visione diplomatico – strategica, percepito da Pechino come elemento coercitivo e destabilizzante perché escludente la sua partecipazione.

Il paragrafo finale delle conclusioni contiene una affermazione programmatica che invita le grandi nazioni a prendere l’iniziativa nel perseguire un Nuovo Modello di relazioni tra stato e stato basato sul dialogo e la partnership, e non il confronto e le alleanze; rimarca, inoltre, la posizione contraria della Cina verso qualsiasi forma di egemonia e di potere politico e sottolinea il rigetto di qualsiasi interferenza negli affari interni di altri paesi (concetti cari a Pechino per la risoluzione dei vari problemi come il Tibet, la minoranza uigura, Taiwan).

Non poteva mancare, a conclusione del tutto, l’invito agli USA a fare autocritica conducendo una seria introspezione al fine di esaminare con visione critica le loro malefatte, rifuggire dal loro comportamento arrogante e pregiudizievole e smettere di adottare comportamenti egemonici, prepotenti e bullizzanti!!!!!!  (“The United States must conduct serious soul-searching. It must critically examine what it has done, let go of its arrogance and prejudice, and quit its hegemonic, domineering and bullying practises”).

L’importanza del documento non risiede nelle affermazioni che vengono fatte o nella demonizzazione del comportamento degli Stati Uniti, ma nell’aspetto concettuale che esso si propone di realizzare.

Gli USA e i loro valori culturali (che in definitiva sono ampiamente condivisi dall’Occidente per intero) sono un pericolo per il mondo e contro questa visione la Cina si erge a baluardo proponendo un Nuovo Ordine.

Questo Nuovo Ordine non si basa sulla condivisione di quei concetti culturali e sociali che hanno ispirato l’Occidente come la democrazia, la libertà individuale, la libertà di espressione, la libertà di commercio e di movimento, ma un sistema dove tutti questi valori si fermano quando un superiore interesse da parte di un concetto di Stato astratto e imposto si inserisce e prevarica su tutto.

E la Cina, con estrema scaltrezza non propone sé stessa come elemento guida di questo nuovo sistema di relazioni internazionali, ma elenca i mali che il sistema occidentale, tiranneggiato dagli USA, comporta e produce, proponendolo all’attenzione del resto del mondo come il pericolo da cui è necessario e fondamentale difendersi.

Il problema da affrontare non è costituito dalla retorica da Libretto Rosso che la propaganda cinese usa o la veridicità o meno delle sue affermazioni, ma risiede nei concetti politici che la Cina intende veicolare per impostare una nuova concezione di valori culturali.

Il sistema proposto è un chiaro e mirato attacco contro gli USA che sono individuati come l’ostacolo principale verso un’egemonia cinese, mentre considera l’Europa come un sistema in completo decadimento, disunito e privo di peso politico, la cui insignificante importanza globale non costituisce alcun problema per l’affermazione del sistema cinese.

La forza di questa linea strategica che la Cina persegue da tempo, deriva, non tanto dall’efficacia della critica dei valori occidentali e dalla proposta di valori culturali alternativi, ma dalla nostra mancanza di visione globale del contesto internazionale, persi come siamo nella nostra piccola gabbia dorata dalla quale non vogliamo uscire.

Purtroppo, l’Europa non ha una visione strategica globale ma si dibatte tra vecchi rancori (il deuteragonismo franco-tedesco nel voler dominare l’Unione Europea), l’incapacità di uscire dal passato (la crisi ucraina ne è un esempio), la tendenza a rimanere ancorati a un orizzonte limitato (assenza della percezione del lato Sud dell’Europa e del mondo) e questo la porta a essere vulnerabile nei confronti dell’evoluzione che caratterizza lo scenario internazionale.

L’Occidente europeo si è fatto trascinare in un conflitto provocato da interessi che non gli appartengono e alimentato da vecchi rancori, dove una retorica ormai appartenente al passato vagheggia vittorie impossibili e imposizione di trattati di Versailles irrealistici (l’Ucraina sta vincendo su Facebook ma perde sul terreno!!!!!!). La nostra società annaspa in una crisi sempre più profonda e l’unica reazione è quella di chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un mondo in evoluzione e illuderci che la Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la rete 5G a basso costo, i finanziamenti ai progetti universitari, l’acquisto di proprietà ed esercizi commerciali da parte cinese, siano esclusivamente l’espressione di una benevola e innocua aspirazione a fare parte del nostro sistema e di interesse a condividere i nostri valori.

Non è così, e il documento del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese lo conferma senza ombra di dubbio.

Se non vogliamo essere schiacciati nel confronto per il Nuovo Ordine ed essere ridimensionati allo stato di colonie, dobbiamo aver il coraggio di guardare al di là del nostro piccolo orizzonte, utilizzare le capacità che l’Unione Europea ci consente di avere, se agiamo come un unico, solido, coeso organismo (lasciando perdere idiozie concettuali come i Paesi Frugali, quelli Virtuosi, i Quattro di Visegard e via dicendo) e quelle intrinseche che un istituzione di difesa collettiva e di integrazione come la NATO rende possibili, se trasforma la sua accezione di club in funzione anti Russia e si trasforma in un elemento di sviluppo dei valori e dei concetti condivisi da un Occidente unito e in grado di svolgere un ruolo da protagonista nel contesto internazionale.

I valori culturali che hanno disegnano e formato la nostra società sono senz’altro validi e meritano di essere proposti come un modello da seguire e da adottare e non dobbiamo vergognarci di sostenerli e di veicolarli, ma dobbiamo farlo senza l’arroganza che siano gli unici e che possano essere imposti come merce di scambio. Il modo migliore è dimostrare che la nostra società Occidentale non è decadente, immorale e pericolosa come la Cina la descrive ma, invece, rappresenta un modello i cui valori sono degni di essere accettati e condivisi anche dagli altri.

L’alternativa è di iniziare a imparare a usare le bacchette per mangiare!

Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!

I rapporti tra Iran e Azerbaigian sono sempre stati caratterizzati da un’accesa rivalità dovuta sia alla politica di potenza regionale di Teheran sia alle aspirazioni della minoranza azera in Iran di entrare a far parte di un Azerbaigian allargato.

Recentemente questo stato di tensione si è acuito a seguito dell’interesse iraniano di svolgere un ruolo più attivo nel decennale conflitto che investe il Nagorno-Karabakh. Il supporto che Teheran ha offerto all’Armenia ha scatenato una reazione decisa da parte di Baku che ha elevato il livello del confronto portando a un dispiegamento di forze da parte di entrambi i due Paesi lungo la linea di confine.

Tuttavia, se la possibilità di arrivare a uno scontro militare appare abbastanza remota, è opportuno sottolineare quali siano le premesse di questa nuova mossa di Teheran.

In primo luogo, questa escalation nei rapporti con Baku conferma la strategia iraniana di svolgere un ruolo importante, non solo nella regione mediorientale ma anche nel vicino Caucaso, nell’ottica di rafforzare e consolidare il ruolo di potenza regionale che rappresenta l’obiettivo del regime di Teheran.

In secondo luogo, dimostra che le recenti ondate di proteste interne, ritenute spesso in Occidente la premessa di una primavera iraniana, non hanno minimamente scalfitto la linea di politica estera perseguita dall’Iran, confermando la solidità dell’impianto statale del Paese.

Da ultimo, ma sicuramente di non minore rilevanza, questi recenti sviluppi dimostrano che è in atto un processo di ridefinizione degli equilibri regionali come conseguenza dell’andamento del conflitto in Ucraina.

La Russia pur continuando a essere la potenza protagonista dell’area caucasico-mediorientale, deve accettare come contropartita del supporto diretto o indiretto ricevuto nella gestione della crisi ucraina che sia la Turchia sia l’Iran possano svolgere un ruolo più incisivo nel perseguimento dei loro obiettivi geostrategici locali.

In tale scenario, infatti, Ankara cerca di risolvere i problemi legati alla componente militare del PKK che viene percepita come una minaccia costante alla sua integrità territoriale mentre Teheran vorrebbe eliminare la possibilità dell’espansione azera, considerata un probabile stimolo per pericolosi secessionismi nell’area settentrionale dell’Iran.

Ma il fattore più importante da valutare è che, lontano dall’essersi cristallizzato sulla crisi ucraina, lo scenario geopolitico mondiale continua a essere in continua evoluzione e che l’Occidente non lo percepisce.

Quanto avviene nella regione del Caucaso meridionale dovrebbe stimolare nell’Occidente una riflessione a più ampio spettro sulla gestione della crisi ucraina.

Ogni giorno la narrative che i nostri media ci propongono è quella dell’impossibilità di pervenire alla fine della crisi se non attraverso la sconfitta totale della Russia, il suo annichilimento politico, l’imposizione di un cambio di regime che, nella visione utopico-ipocrita dell’Occidente, preconizza la nascita di un sistema democratico, liberale, sottomesso e privo di identità nazionale.

La resa incondizionata, il ritiro oltre gli Urali, l’assunzione della piena e unica responsabilità del conflitto, il pagamento dei danni di guerra, e delle spese di ricostruzione, una nuova Norimberga, sono dei vaneggiamenti politici che fanno riferimento a un passato che non si ripeterà, semplicemente perché le condizioni e la situazione sono profondamente differenti.

Se questa narrative mediatica ha sviluppato un suo appeal che ha consentito di giustificare quelle che sono state in realtà le conseguenze di una valutazione geopolitica sbagliata, l’evoluzione del contesto mondiale ci deve spingere a un approccio al problema più pragmatico, più realista e meno intriso di morale spicciola, dove è imperativo porre fine a questa proxy war continuazione inutile della Guerra Fredda, con il conseguimento di una soluzione diplomatica bilanciata a beneficio di tutti: l’Ucraina, la Russia, l’Europa, gli Stati Uniti.

La domanda che i media occidentali dovrebbero fare è la seguente: è politicamente indispensabile che la crisi si concluda solo con una resa incondizionata e totale della Russia, come il mantra mediatico di Zelensky richiede in ogni apparizione pubblica del leader maximo dell’Ucraina, oppure non appare più opportuno (e diplomaticamente più corretto) ricercare una soluzione mediata che possa porre un termine al conflitto?

Fermo restando l’inaccettabilità del ricorso alla forza come risoluzione delle problematiche internazionali, siamo proprio sicuri che quanto sta avvenendo nell’Europa dell’Est sia solo il risultato di un delirio zarista – imperialista da parte di Putin e, magari, non sia invece la conseguenza di azioni politico-diplomatiche poco avvedute e di errori di valutazione geopolitica?

La visione dell’Occidente, nel corso della sua storia, è stata caratterizzata da un proselitismo con vocazione missionaria volta a propagandare i propri valori, sia nel campo religioso sia in quello culturale, nella convinzione assoluta che essi fossero non solo i migliori ma, anche, gli unici ai quali il genere umano dovesse aspirare per realizzarsi compiutamente.

Il punto non è quello di disquisire se il nostro sistema di valori sia realmente universale o meno, ma quello di chiederci se quello che noi, Occidente, consideriamo vero sia, realmente, ciò che gli altri percepiscono come realtà.

Nella fattispecie, il nostro costrutto culturale e sociale ci ha portato a identificare il significato che noi diamo ad alcuni valori come assioma assoluto e universale, senza il minimo dubbio che questo significato sia condiviso anche dagli altri a cui noi imponiamo, come assoluti, questi valori.

Inoltre, i traumi profondi che il XX secolo ha inciso nella nostra coscienza collettiva ci hanno spinto a identificare la soluzione ideale per sconfiggere i nostri incubi nella creazione di alcune istituzioni internazionali, che, permeate di buoni propositi e basate sui valori culturali di una società occidentale ritenuta universale, ci hanno consentito di sviluppare una specie di eden in un mondo dove il conseguimento del benessere e della pace sono ancora obiettivi di un orizzonte lontano.

L’ONU, l’Unione Europea, la NATO sono l’espressione diretta della nostra aspirazione a una serenità e una sicurezza universale e incondizionata. Chiunque metta in discussione questo assioma deve essere condannato e va fermato per il bene universale.

Anche qui il punto non riguarda la valutazione di merito di queste organizzazioni, ma concerne il fatto di come queste organizzazioni siano viste e percepite da chi non ne fa parte.

Nel particolare, sia l’Unione Europea sia, soprattutto, la NATO sono considerate con sospetto e con paura dalla Russia nella cui matrice storico-culturale queste organizzazioni sono identificate come una minaccia alla propria indipendenza e alla propria sicurezza.

Quando la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha fatto emergere il problema del vuoto di potere nell’Est Europa la soluzione adottata è stata quella di inglobare i Paesi dell’Europa Orientale nella NATO e nell’Unione Europea nel tentativo di assimilare le nuove democrazie al contesto occidentale.

Ma questo processo non ha tenuto conto della percezione russa del problema, che si è manifestata nel momento in cui l’ombra della UE e della NATO si è proiettata sull’Ucraina (vertice NATO di Bucarest del 2008: Bucharest Summit Declaration – Issued by the Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council in Bucharest on 3 April 2008 – para 23. “NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO. We agreed today that these countries will become members of NATO…..”).

L’alternanza di governi pro Russia e pro USA che hanno caratterizzato la scena ucraina nel presente millennio, la difficoltà dei vari movimenti nazionalisti di accettare minoranze linguistico culturali di matrice russa in Ucraina e il tentativo di usare il Paese per conseguire obiettivi geostrategici da ambo le parti (Occidente e Russia) hanno avuto come conseguenza diretta l’acuirsi della crisi e il suo trasformarsi in conflitto.

Questo, nella narrativa occidentale, ha poi assunto la fisionomia di una crociata delle forze del bene dove un’Ucraina democratica e liberale difende la democrazia e la libertà dell’Europa minacciate dall’autocratismo zarista.

Purtroppo, la realtà è differente. La crisi ucraina è la conseguenza del concatenarsi di una serie di azioni diplomatico-politiche e di valutazioni geostrategiche superficiali, effettuate da parte di entrambe le parti in causa, dove gli interessi in gioco sono di carattere economico (l’Ucraina è un territorio enormemente ricco) e geopolitico (la percezione della sicurezza dei confini e il ruolo sulla scena mondiale). La Russia non attenta alla nostra democrazia e alla nostra libertà, che sono valori troppo radicati nella nostra cultura per essere minacciati da questa crisi.

La reale minaccia all’Europa siamo noi stessi quando abiuriamo ai nostri valori, quando non vogliamo vedere oltre la superficie, quando non ammettiamo una prospettiva differente dalla nostra, quando neghiamo la realtà perché mette in risalto i nostri errori. Questo è quello che sta accadendo nella gestione della crisi ucraina, vogliamo eliminare l’effetto perché non accettiamo la causa: Delenda Mosca!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

Il nuovo protagonismo della Turchia

 

 

Un anno fa la Turchia sembrava essere al margine della scena geopolitica internazionale, isolata diplomaticamente, aspramente criticata per la leadership di Erdogan, ininfluente nel complesso flusso delle relazioni che condizionano l’aerea mediorientale e mediterranea, priva di peso politico e quindi destinata ad assumere una posizione di paria internazionale.

Invece, nel corso dell’ultimo anno, la Turchia di Erdogan ha saputo cogliere le opportunità che si sono verificate a seguito dell’evoluzione che ha stravolto il quadro strategico europeo e scosso quello mondiale.

La crisi ucraina è stata immediatamente usata da Erdogan per inserire nuovamente da protagonista la Turchia al centro del contesto geopolitico.

L’essere contemporaneamente un Paese che è uno dei cardini del concetto strategico della NATO, la cerniera tra Europa e Asia, il guardiano storico degli accessi tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, l’ostico deuteragonista della Russia nella gestione delle crisi dell’aerea siriana e caucasica e il depositario di una tradizione diplomatica imperiale vecchia di quasi duemila anni ha consentito a Erdogan di avere una serie di atout diplomatiche di eccezionale importanza. Questo ha consentito alla Turchia di assumere un ruolo da protagonista nel contesto della crisi ucraina, contraddistinto da una calcolata ambiguità finalizzata a ottenere un riposizionamento di vertice nell’ambito del contesto internazionale.

Ma il risultato più importante per la Turchia non è rappresentato dal ruolo che ha assunto nel contesto della crisi ucraina, bensì dalla capacità immediata che ha dimostrato nello sfruttare le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha generato, riprendendo subito ad agire nello scenario dove si concretizzano gli interessi e gli obiettivi strategici immediati, ritenuti fondamentali per il conseguimento della visione di politica nazionale turca.

Nel particolare, si è assistito a un rinnovato impegno della Turchia nella ricerca di rendere stabile la situazione delle sue frontiere asiatiche: a oriente nella infinita disputa armeno azerbaigiana; ma soprattutto, a meridione, dove ha intrapreso una nuova serie di operazioni destinate a completare una zona cuscinetto libera dalla presenza dell’organizzazione militare curda del PKK.

La volontà di condurre operazioni militari lungo il confine meridionale non rappresenta una novità nella strategia turca in quanto, nel passato recente, attività di tale tipo sono state condotte ripetutamente, anche, se condizionate dalla presenza di contesti internazionali più restrittivi.

La crisi ucraina ha, però, mutato lo scenario consentendo alla Turchia di pianificare, con criteri concettuali differenti, una nuova operazione ad ampio raggio.

La realizzazione della nuova operazione, denominata Claw-Sword, è prevista attraverso lo sviluppo di varie fasi di cui alcune già in essere (uso di raid aerei e di artiglieria), ma si sostanzia nell’esecuzione della fase di terra quando le Forze Armate turche oltrepasseranno il confine per creare le premesse territoriali necessarie al conseguimento degli obiettivi definiti.

L’operazione è ampiamente sostenuta non solo dalla popolazione turca, ma ha ricevuto, anche, l’appoggio politico della coalizione anti – Erdogan, a dimostrazione di quanto sia sentito a livello nazionale il problema rappresentato dal PKK.

La finestra temporale scelta per condurre ClawSword è stata attentamente studiata e si basa sulle seguenti premesse:

–    la crisi ucraina, oltre a limitare l’azione politica di Mosca, ha indebolito il dispositivo militare russo schierato in Siria;

–    la Turchia, come detto, ha adottato un’azione diplomatica di ampia visione geopolitica che ha rafforzato le sue credenziali nell’area;

–    lo sviluppo di un generale riavvicinamento diplomatico ai Paesi dell’area mediorientale ha ridotto l’ostilità contro la conduzione di operazioni anti PKK;

–    l’escalation delle provocazioni che l’Iran ha messo in atto contro la presenza e gli interessi USA in Siria ed Iraq creano le premesse per un nuovo maggiore interesse del ruolo che la Turchia può svolgere (lotta all’ISIS, protezione del Nord dell’Iraq e risoluzione del conflitto siriano);

–    ultimo, ma non meno importante fattore, l’approssimarsi nel 2023 delle elezioni in Turchia.

Dal punto di vista della pianificazione dell’attività, quindi, sono stati fatti i seguenti passi.

Innanzitutto, sono stati identificati tre obiettivi: creare la zona cuscinetto libera dalla presenza del PKK mirante all’espulsione dalle aree di Manbij e Tel Rifaat delle forze del YPG (People’s Defence Units frangia siriana del PKK); stabilire le condizioni per un regolare ritorno dei profughi siriani; aumentare l’influenza turca nella gestione degli accordi politici che saranno adottati alla fine della guerra in Siria.

Successivamente è seguita una preparazione diplomatico-politica estremamente articolata, volta ad assicurare non il consenso all’operazione, ma la ragionevole certezza della mancanza di reazioni particolarmente ostili.

In tale quado di situazione l’azione diplomatica di Erdogan si è sviluppata su più piani.

A livello globale la strategia turca si è concretizzata sia nella partecipazione a forum internazionali (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, OSCE) dove, oltre a identificarsi come uno degli elementi cardine per la stabilità nella regione mediorientale, ha proposto il ruolo di mediatore tra la Russia e l’Occidente, sia nel riavvicinamento diplomatico verso attori fondamentali del contesto mediorientale (Israele, Siria e Paesi del Golfo).

Nello scenario di riferimento specifico, invece, gli obiettivi e il concetto operativo della nuova fase delle operazioni sono stati ampiamente illustrati e spiegati sia agli USA sia alla Russia, esponendo chiaramente quelle che saranno le limitazioni che le operazioni avranno al fine di non andare a collidere con gli interessi e le posizioni delle due Potenze nell’area.

In tale quadro di situazione, la valutazione operativa sulle condizioni di successo politico dell’operazione si è basata su due elementi cardine:

–    data la reale incapacità pratica dei due Paesi nel poter fermare le operazioni, quando verrà dato inizio alla fase terrestre la reazione internazionale sarà basata sull’attuazione di una pressione diplomatico-politica blanda, alla quale la Turchia si è preparata;

–    la conduzione delle operazioni non incide direttamente sugli obiettivi USA (guerra all’ISIS) e Russia (supporto alla Siria).

Le sanzioni con le quali gli USA potrebbero mettere pressione su Ankara avrebbero, però, alcuni effetti collaterali quali quello d’inasprire il sentimento anti USA nell’area, di rendere meno collaborativa la Turchia nella risoluzione del conflitto in Ucraina e soprattutto di spingere Ankara a osteggiare l’allargamento della NATO.

Così come è stata pianificata Claw-Sword riuscirebbe, quindi, a conseguire una serie di obiettivi di importanza critica sia per la posizione turca sia, soprattutto, per raggiungere un consolidamento della situazione in Siria che possa portare alla conclusione del conflitto

Innanzitutto, le operazioni anti ISIS non subirebbero alcun danno. Anche se l’YPG inizialmente potrebbe sospendere le sue attività di cooperazione, comunque, sarebbe una soluzione temporanea in quanto il supporto politico degli USA alla fazione anti Assad delle Syrian Democratic Forces (SDF) è condizionato dalla disponibilità proprio dell’YPG in funzione anti ISIS.

In secondo luogo, Turchia e USA sono i due attori diplomatici che possono influire nell’esercitare qualche pressione sulla Siria per addivenire ad una soluzione del conflitto. Una rinnovata unicità di visione geostrategica dove l’accettazione USA della permanenza di Assad alla leadership del Paese e la diminuita percezione di minaccia dei propri confini da parte dell’YGP attraverso un’operazione ben pianificata ed eseguita in modo calibrato senza danneggiare l’SDF e le operazioni anti ISIS, possono creare quelle sinergie che sino ad ora sono rimaste inespresse.

Infine, il conseguimento del successo dell’operazione Claw-Sword consentirebbe di rafforzare ulteriormente la posizione negoziale e il peso diplomatico della Turchia nell’ambito della questione siriana con risvolti positivi nei confronti degli altri due attori protagonisti. Nel particolare, nei confronti, della Russia, quale elemento di pressioni su Assad per convenire ad una soluzione del conflitto, ma soprattutto nei confronti dell’Iran riducendo l’influenza che lo stato islamico esercita sia nel frammentato scenario siriano sia nel nord dell’Iraq.

In conclusione, Erdogan ha, nuovamente, dimostrato, non solo, la vitalità politica e diplomatica della sua visione strategica nazionale, ma ha confermato come le variazioni dello scenario geopolitico mondiale debbano essere considerate come opportunità da cogliere in quanto, se abilmente sfruttate, sono in grado di ribaltare situazioni dall’aspetto negativo e proporsi come condizioni di successo.

Per fare questo, ovviamente, occorre sia avere le capacità di gestire il dominio geopolitico e diplomatico, ma, soprattutto, occorre avere una visione geostrategica nazionale che fissi scopi, obiettivi e risorse da utilizzare per poterli conseguire.

La Turchia ed Erdogan hanno queste capacità e le usano senza farsi distrarre da utopistiche e inconcludenti visioni moralistico-demagogiche, mentre gli altri (leggi l’Europa) rimangono alla finestra a guardare, prigionieri dell’illusione di un brillante passato che nessuna operazione di rianimazione diplomatica può riportare ai fasti di un tempo.

La crisi ucraina: informazione o propaganda?

 

La cronaca e l’esame analitico di come si stia sviluppando il conflitto in atto in Ucraina sono offuscate da quella che sembra essere l’unica cosa che abbia importanza nell’ambito di questa tragedia: la propaganda.

Il circuito mediatico nazionale e soprattutto internazionale non produce informazione oggettiva, seria, imparziale, ma è concentrato nel veicolare una serie di messaggi che hanno il fine di orientare l’opinione in senso unidirezionale, facendo leva su temi e aspetti ai quali il nostro mondo di occidentali risulta essere particolarmente sensibile.

Questo sistema di propaganda comporta una serie di conseguenze negative che anestetizzando il nostro senso analitico, ci spingono a ragionare servendoci di concetti stereotipati, ci allontanano da una comprensione globale del mondo che ci circonda e ci rendono difficile esaminare oggettivamente la situazione. Quali sono, quindi, i risultati di questo approccio sistematico?

Innanzitutto, accettando a priori quello che viene presentato non siamo costretti a valutare nel merito se ciò che è riportato sia effettivamente vero. Ci accontentiamo di ciò che vien detto perché colpisce direttamente il nostro atteggiamento culturale, rafforzando la nostra convinzione di universalità dello stile di vita occidentale, individuando il male nel nostro avversario soltanto.

In secondo luogo, l’identificazione di un nemico, alle cui azioni (reali o presunte) possano essere accreditati i nostri problemi, ci deresponsabilizza facendoci dimenticare che il conflitto ha solo posto in evidenza la crisi nella quale adesso annaspiamo (necessità di risorse energetiche alternative, sistema economico in affanno, mancanza di visione geopolitica).

In terzo luogo, la focalizzazione sullo scenario a noi prossimo ci nega la percezione di un mondo in continua evoluzione, creando l’illusione che la sconfitta del demone russo sia la priorità del resto dell’universo geopolitico e negando l’esistenza di ulteriori aree e situazioni di crisi che sviluppano conseguenze devastanti per il rispetto di quei concetti che permeano la nostra cultura occidentale e che sono immensamente più difficili e costose da contrastare rispetto alla situazione che si è sviluppata in Ucraina.

L’Occidente ha sempre fatto un vanto culturale dei progressi raggiunti nel favorire la libera espressione delle proprie idee e la caratteristica di avere nel suo DNA culturale il concetto di libera stampa. Quindi, perché l’informazione si è trasformata in propaganda?

Partiamo dalla definizione dei due termini, così come riportati dall’Enciclopedia Treccani

Per informazione si intende una

notizia, dato o elemento che consente di avere conoscenza più o meno esatta di fatti, situazioni, modi di essere.

Nel campo dei media tale concetto si basa sul rispetto di due cardini che sono l’oggettività e l’obiettività.

La propaganda, invece, risulta definita come una

azione che tende a influire sull’opinione pubblica e i mezzi con cui viene svolta. È un tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto.

Come detto, il criterio concettuale che differenzia l’informazione dalla propaganda è che i principi di oggettività e di obiettività che caratterizzano l’informazione sono, invece, totalmente assenti nella propaganda.

L’assenza dei due principi enunciati, che devono caratterizzare l’informazione, deriva da un insieme complesso di cause che si sono verificate nel corso degli ultimi trent’anni e che hanno modificato la nostra capacità di analisi critica rendendola sempre meno autonoma e sempre più influenzabile da fattori esterni, che ci hanno fatto accettare la propaganda come la vera informazione.

La fine del bipolarismo Est – Ovest ha comportato la convinzione che il mondo si fosse avviato verso l’adozione di una universalità di pensiero dove la declinazione di concetti fondamentali come democrazia, diritti, libertà avesse un’unica accezione: quella di un Occidente vittorioso che, con la caduta del muro di Berlino, si era finalmente liberato dell’incubo ideologico-politico che aveva generato le due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda, ponendo fine al periodo più oscuro della storia dell’Europa.

Questa convinzione ha avuto come conseguenza l’impostazione di una narrativa mediatica volta a sopprimere ed eliminare qualsiasi elemento che potesse mettere in dubbio la realtà di questa nuova Età dell’Oro, dove libertà e democrazia erano oramai divenuti patrimonio dell’intera umanità.

La caduta di un mondo diviso tra due blocchi contrapposti ha, di conseguenza, comportato una globalizzazione dei mercati con una espansione mondiale inimmaginabile nella Guerra Fredda che hanno rinforzato in noi il convincimento che anche il nostro sistema di economia fosse l’unico, il migliore quello cui tutte le altre Nazioni aspirassero.

Il nostro sistema di valori può essere ritenuto come un insieme di principi valido e moralmente corretto e abbiamo, quindi, il diritto di sostenerlo, ma quando il concetto di universalità dei nostri principi culturali ha iniziato a essere ridimensionato dalla realtà di un mondo geopolitico dove, purtroppo per noi, sono presenti visioni differenti, invece di accettare il dato di fatto e riconsiderare il nostro approccio alla divulgazione del nostro sistema culturale, abbiamo iniziato una narrativa dove obiettività e oggettività sono state sempre più assenti, trasformando il nostro impianto mediatico da mezzo di informazione a strumento di propaganda di una visione unica e non discutibile di cultura.

Anche l’affievolirsi delle ideologie che avevano contraddistinto e formato il mondo nel XX secolo ha contribuito a modificare l’azione dei media, che si è trasformata nella cassa di risonanza di una narrativa sostenitrice di una supposta verità comportamentale politicamente corretta, basata sulla demonizzazione aprioristica dell’altro in quanto esponente di un pensiero diverso da quello proprio, considerato l’unico corretto e giusto.

Non meno importante per comprendere come l’informazione sia divenuta propaganda risulta essere l’uso improprio che si è fatto degli strumenti della comunicazione. La tecnologia ha mutato la capacità di presentare un fatto in modo obiettivo e oggettivo consentendo la presentazione di qualsiasi fatto stesso come una verità assoluta e incontrovertibile attraverso la manipolazione delle immagini e delle parole.

Non solo la rappresentazione della realtà cambia ad ogni inquadratura, ma anche il lessico è stato adattato e trasformato rendendolo idoneo a supportare una visione della realtà orientata verso la propaganda e lontana dall’informazione, sancendo, di fatto, il trionfo del cosiddetto opinionismo.

Ritornando al punto di partenza, la situazione mediatica che viviamo con il conflitto ucraino è quella di essere divenuti l’oggetto di una propaganda estrema e articolata, dove le notizie che riceviamo sono commisurate per colpire il nostro inconscio di Occidentali pacifici, rispettosi dei diritti, democratici e con una coscienza umanitaria sensibilissima, ma disposti a un impegno personale e una partecipazione diretta ridotti al minimo, se non del tutto assenti.

La realtà è filtrata e veicolata attraverso i canali ai quali siamo più sensibili in modo da evocare scenari e situazioni apocalittici. Ci viene presentato un paese immerso nel freddo, nel gelo e nel buio che lotta per difendere la nostra democrazia e la nostra libertà, dove, però,  il suo Presidente si rivolge all’ONU per avere più armi – non certo per chiedere a quell’organismo di svolgere il suo compito istituzionale e riportare la pace e l’ordine.

La ricerca di una soluzione diplomatica del conflitto, che ponga fine alla tragedia delle popolazioni coinvolte, non è sostenuta dai media che, invece, sottolineano favorevolmente l’ostinazione con la quale l’Occidente spinge l’Ucraina a reclamare una capitolazione senza condizioni dell’avversario russo.

Incolpiamo altri Paesi di fornire armi e supporto alla Russia, incuranti del fatto che la tecnologia per fare quelle armi l’abbiamo fornita noi a loro in un passato abbastanza recente, da essere quasi considerato presente, mentre continuiamo fornire un supporto militare fondamentale che non ha altro risultato che alimentare l’illusoria idea di una vittoria epocale che non ci sarà.

Condanniamo come crimini contro l’umanità qualsiasi azione invocando tribunali internazionali che noi stessi non accettiamo e ai cui sviluppi non partecipiamo (uno su tutti la Corte Penale Internazionale che USA e Cina non riconoscono), come se questo potesse automaticamente risolvere il problema alla base di questo conflitto, evitando di rivedere una condotta geostrategica ipocrita e spregiudicata.

Applichiamo due pesi e due misure a seconda della nostra convenienza concentrandociologata e monotonamente uniformata, ma sicuramente incapace di esprimere un concetto di cultura adeguato alla storia millenaria dell’Occidente.

La diplomazia che non si vuole

Nei giorni scorsi la firma di una tregua ha consentito l’inizio dei negoziati di pace che hanno posto termine alla guerra civile che ha visto fronteggiarsi per oltre due anni il Governo Etiope e i separatisti del Tigrai. Questa guerra, segnata da eccessi di violenza e crimini da ambo le parti, ha causato più di 500.000 morti, provocato oltre due milioni di profughi e ha distrutto il tessuto sociale di un’intera regione.

Le ragioni del conflitto, che costituiva una seria minaccia per la fragile stabilità dell’intera regione del Corno d’Africa, sembravano insanabili ma, alla fine, dopo difficili negoziati condotti sotto l’egida USA, la diplomazia ha imposto una tregua, consentendo le premesse per raggiungere la pace.

Certamente l’Etiopia non è alle porte di casa nostra e risulta lontana, non soltanto geograficamente, ma anche dal punto di vista della nostra percezione di pericolo. Il conflitto che ha interessato la regione africana ha molte similitudini con quello che si sta svolgendo in Ucraina: è motivato da odio e rancori che si perdono nel tempo, ha prodotto un elevato numeri di morti e un enorme flusso di profughi, ha causato la distruzione di numerosissime strutture civili, è stato condizionato da un’estrema violenza. Tuttavia, è terminato con una soluzione diplomatica perseguita con razionalità e realismo che, alla fine, ha consentito di individuare e raggiungere una situazione di mediazione vantaggiosa per entrambe le parti.

La situazione in Ucraina, invece, sembra essere priva di una apparente via d’uscita che ponga termine al conflitto. Ma davvero non esiste una via diplomatica per poter porre fine a questa crisi? Quali sono, in realtà, gli ostacoli che si frappongono alla risoluzione del conflitto?

Le ragioni del perché sussiste questo stallo diplomatico sono molteplici e di differente natura.

Innanzitutto, il conflitto in Ucraina ha da subito assunto il ruolo di protagonista dei nostri media e ci è stato descritto come la rappresentazione della sfida ultima tra il bene e il male, contribuendo a creare un’impostazione mentale dell’opinione pubblica particolare e unidirezionale.

La narrazione di quanto accade ha anestetizzato la nostra capacità di guardare oltre l’orizzonte limitato del nostro microcosmo europeo, cancellando ogni altro riferimento a ciò che avviene nel contesto internazionale, facendoci dimenticare che, purtroppo, esistono altre situazioni di crisi, ugualmente drammatiche e pericolose, dove sono coinvolti quei valori di cui ci sentiamo i difensori e i portatori. Di conseguenza, non siamo in grado di realizzare che la difesa della democrazia e della libertà non si giocano sostenendo a spada tratta l’Ucraina acriticamente e senza realismo politico.

L’unidirezionalità con la quale l’opinione pubblica occidentale descrive il conflitto ci impedisce di accettare l’adozione di una azione diplomatica che si basi sul perseguimento di fattori oggettivi e realistici. Sicuramente e senza nessuna scusante il ricorso della Russia alle armi è da condannare a priori, ma questo non implica che non si debba comunque ricercare una soluzione diplomatica che possa mettere termine al conflitto.

In secondo luogo, la dinamica propagandistica adottata dalle due parti, riguardo alle eventuali possibili soluzioni, le ha spinte in un tunnel cieco, sclerotizzando la narrazione del conflitto su posizioni diametralmente opposte condizionate da premesse di base del tutto irrealistiche e irrazionali.

Da una parte, infatti, l’Ucraina (e i suoi sponsor – USA ed Europa) insiste per avere una situazione che riporti il confine a quello che era prima del 2014, chiedendo un ritiro completo e incondizionato della Russia entro i territori e i confini che esistevano prima della annessione della Crimea.

Dall’altra parte, la Russia insiste nel suo progetto relativo alla creazione di una serie di entità statali solo da lei riconosciute che possano creare una fascia cuscinetto lungo la frontiera tra la Russia e l’Ucraina, al fine di separare il territorio russo dalla compagine dell’Europa e della NATO, assicurando quel minimo di protezione che consenta a Mosca di non sentirsi completamente accerchiata da quelli che considerano essere i suoi nemici di sempre.

Entrambe le posizioni non possono realisticamente essere conseguite.

La Russia, anche se sulla difensiva dal punto di vista militare, rimane una potenza solida con un proprio progetto strategico connesso ai suoi interessi nazionali. E’ sicuramente provata dalle sanzioni ma non è piegata, ha ancori enormi risorse economiche e non è stata isolata nel contesto internazionale. Putin ha coinvolto la Russia e il suo orgoglio di grande potenza in una situazione dalla quale non può uscire a mani vuote. Una resa incondizionata stile Seconda Guerra Mondiale non è assolutamente una soluzione che possa essere accettata dalla Russia.

L’Ucraina definendo quale condizione per il termine del conflitto la restaurazione dei confini ante 2014, impone una condizione di difficile accettazione in quanto disconoscerebbe sia la situazione particolare delle regioni di confine contese, negando che esista un problema con le minoranze russe presenti (vedasi il Protocollo di Minsk), sia l’eccezionale situazione della Crimea che affonda le sue radici nel complicato processo che è seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

In sintesi, l’epoca delle vittorie definitive e delle rese incondizionate appartiene al passato e, quindi l’Occidente deve interrompere la politica di alimentare il conflitto militarmente, usando, invece, la diplomazia per accettare la situazione reale e lavorare per raggiungere una soluzione mediata che ridimensioni le due opposte visioni e consenta di comporre la crisi in atto, soluzione, tra l’altro sostenuta, sin dall’inizio, da uno dei più grandi diplomatici del nostro tempo: Henry Kissinger!

Infine, c’è un altro aspetto critico da considerare per mettere a fuoco con precisione la crisi della diplomazia in relazione al conflitto ucraino.

Il vero end state della crisi non è rappresentato dalla difesa della libertà e della democrazia messe in pericolo dalle aspirazioni zaristico-sovietiche di Putin, come la propaganda occidentale sbandiera ipocritamente.

Ciò che realmente interessa all’Occidente non è tanto la liberazione dell’Ucraina ma la eliminazione del presidente russo, ritenuto una personalità ingombrante, pericolosa e scomoda, soprattutto per la determinazione con la quale persegue il suo obiettivo di riportare la Russia ad essere un paese geopoliticamente importante e determinante nel contesto delle relazioni internazionali.

In tale quadro di situazione gli interessi USA sono quelli di eliminare la spina nel fianco rappresentata da una Russia forte e potente quale ulteriore possibile avversario nella contesa vitale con Pechino. Quelli dell’Unione Europea di disporre di una Russia docile e democraticamente inoffensiva sulla quale dirottare le proprie attenzioni di mercato.

Quelli dell’Est Europa, invece, di avere la soddisfazione di vedere umiliato il nemico atavico di sempre verso il quale gli odi e i rancori di un passato remoto e presente sono ancora vivi e accesi.

In sintesi, si sta usando l’Ucraina per cercare di ridimensionare la Russia al fine di eliminare un elemento geopoliticamente scomodo per il mondo occidentale nel confronto che oppone l’Occidente alla crescente potenza della Cina nel quadro dello scontro culturale economico finanziario, e forse militare, finalizzato alla costruzione e al mantenimento di un ordine mondiale basato sui principi e sulle specifiche culturali di cui l’Occidente ritiene di essere il depositario e il difensore.

Per concludere, le posizioni formali dei due campi sono opposte e ugualmente irrealistiche, ma non per questo non è impossibile individuare un accordo.

La soluzione diplomatica è possibile solo se essa può trovare una serie di condizioni cheato a quella che sarebbe, quindi, una sfida caratterizzata da quei valori di democrazia e di rispetto delle libertà che l’Occidente vuole proporre, sostenere e realizzare.

L’impasse

Mentre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite si consumava la rappresentazione tragicomica della inanità di questo consesso mondiale, retaggio di un mondo che non esiste più, roboante nei suoi propositi, elefantiaco nella miriade delle sue diramazioni, economicamente fallimentare, ma, soprattutto, impotente nella risoluzione dei conflitti che coinvolgono gli stessi Paesi che ne fanno parte e che era stato deputato a evitare, il Presidente Putin in un discorso alla Nazione ha dato inizio a un nuovo capitolo del conflitto che oppone la Russia all’Occidente (rappresentato sul campo dal suo campione del momento, l’Ucraina). Leggi Tutto

Esiste un nuovo ordine mondiale

I conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.

Queste ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni. E l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!

Pur condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse biblica di matrice autoritaria.

Quello che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale (la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata nell’angusto ambito euroasiatico. In stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!!!!!!).

Ovviamente la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina, ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai più).

Dall’altra parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.

Questo ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.

Di contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile necessità di difendere la Grande Madre Patria da un nuovo attacco da parte del perverso liberalismo occidentale, che vuole privare la Russia del suo ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e diritti individuali.

Allargando la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due livelli differenti: nello scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini; nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben precisi obiettivi.

Oltre agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.

Se ci svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti da quelli propagandistici del Davide difensore della democrazia contro il Golia neo-zarista e che la situazione stimola problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente

Il primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo del sistema globale delle relazioni internazionali.

Dopo l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se non esistesse. Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di democrazia, di diritti individuali e di libertà. Ciò che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare un nodo gordiano: l’imposizione della nostra visione morale collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che non si identifica nella visione da noi proposta.

Se consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

Il secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla qualità della nostra vita. Anche qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema. La vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la gravità della situazione.

Senza dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro continente). Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere per poter sopravvivere. Per tutti un esempio: la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con vettori su ruota a combustibile fossile.

Il terzo aspetto discende direttamente dal precedente. Energia significa economia.

Senza energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato libero che l’Occidente sostiene.

Inoltre, il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per svilupparsi. Tutta la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi. La tecnologia che l’Occidente sviluppa è prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico commerciali!).

La stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico. La ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una politica morale. I concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti quale conditio sine qua non.

L’ultimo aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.

La UE rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).

Eppure, continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena internazionale.

Se non fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre sanzioni economiche al suo migliore cliente!

Infatti, l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi principi. L’allargamento incondizionato basato esclusivamente sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del progetto: la condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.

Senza voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il suo riferimento all’interno del sistema comunitario.

Se invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo chiamarla Unione Euroasiatica.

In conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole utopia del dopo guerra fredda.

Obtorto collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale, progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato; è diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.

L’Occidente deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.

Tuttavia, per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori, cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche l’assunzione dei doveri; il sostegno delle libertà dell’individuo, ma anche il suo rispetto della comunità; la democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità civile dei cittadini stessi.

Una nuova NATO dopo Madrid?

Il vertice della NATO di Madrid, appena concluso, e la recentissima formalizzazione dell’ingresso di due nuovi membri nell’ambito dell’Alleanza sono stati presentati come un’altra risposta forte e decisa che il mondo occidentale ha voluto dare alla Russia. Il vertice ha inteso trasmettere l’immagine di una Alleanza compatta e determinata che si considera il baluardo della libertà e della democrazia contro il quale è destinata a infrangersi qualsiasi velleità di ricostituire un nuovo impero russo in Europa.

Un segnale importante che è stato, inoltre, esteso – peraltro in forma meno incisiva – anche nei confronti dell’altro autoritarismo che minaccia il mondo: la Cina, definita come l’avversario del prossimo futuro.

Se non ci limitiamo a un esame superficiale e spingiamo l’analisi oltre l’involucro mediatico delle dichiarazioni programmatiche e formali che contraddistinguono ogni vertice diplomatico politico ad alto livello, ci possono essere ulteriori chiavi di lettura che si prestano a valutare i risultati del vertice di Madrid.

In tale contesto possono essere fatte due osservazioni tra loro interdipendenti.

La prima riguarda il documento cardine che stabilisce la rotta che la NATO intende seguire. Si tratta del Concetto Strategico, cioè il documento programmatico che stabilisce e delinea le linee d’azione dell’Alleanza per i prossimi anni, approvato dal vertice di Madrid.

Leggendo il testo, se analizziamo i contenuti, questi ci riportano, senza dirlo esplicitamente, indietro di 30 anni, delineando lo scenario della Guerra Fredda. Una Guerra Fredda 2.0, invero, ma dove l’avversario è sempre lo stesso, anche se con un nome differente; dove le Nazioni europee (dell’EST!) si ritengono minacciate dall’essere fagocitate da un impero che non è più portatore di una ideologia politica, ma che è ugualmente visto come il nemico, l’unico e il solo, che incarna il pericolo per la democrazia e la libertà; dove, è bene sottolinearlo, la caratura degli esponenti politici che guidano l’Occidente non è certo paragonabile a quelli che hanno gestito la prima Guerra Fredda! Il resto del contesto geopolitico internazionale non è considerato quasi non esistesse.

Per arginare questa marea che è sul punto di dilagare in Europa il rimedio è sempre lo stesso: una rivisitazione della struttura della NATO, più uomini, più strutture, più tecnologia, più mezzi per rendere la NATO sempre più efficiente e dotarla di un nuovo credibile importante strumento di dissuasione. Il progetto di mettere in campo una NATO Response Force (NRF) di 300.000 unità, come prova della rinnovata volontà di dimostrare la coesione e la determinazione a reagire dell’Alleanza, ha il sapore di una boutade di altri tempi (Otto milioni di baionette!!!!). Se a malapena, e solo sulla carta, ogni anno si appronta una NRF di 40.000 unità, l’incremento sbandierato sembra apparire, esclusivamente un bluff propagandistico.

Il punto critico del Concetto Strategico risiede nella mancanza di una visione che sottintenda una prospettiva geopolitica ampia e coerente con lo sviluppo del contesto internazionale. Il nuovo ordine mondiale che si sta delineando, e che sembra che l’Occidente non voglia vedere, ha abbandonato il confronto Est vs Ovest; non esiste più una contrapposizione tra blocchi monolitici i cui interessi sono limitati al possesso fisico di una porzione di territorio (per quanto grande che essa possa apparire ai nostri occhi di occidentali); non ci sono più Triplici Intese o Entente Cordiale, gli Stati si accordano in base a esigenze specifiche fondate sul perseguimento di obiettivi politici che variano da regione a regione. Non esiste più un sistema di equilibrio di potenze che possa essere gestito dal di fuori con un attore geopolitico la cui azione, volta per volta, possa riportare l’ago della bilancia al centro.

Tutto questo l’Alleanza sembra non averlo percepito! Il nuovo Concetto rimanda a un tempo passato, dove possiamo cullarci in una situazione nota, chiara, ben definita e priva di incognite: il nemico è la Russia che vuole invadere l’Europa per ricostituire il suo impero (zarista o post-sovietico sono solo sfumature).

L’Alleanza con il vertice di Madrid ha perso un’occasione storica, quella di trasformare una organizzazione dalle potenzialità immense e unica nel suo genere da strumento vincolato a una geopolitica provinciale e fuori dal tempo, a mezzo strategico per proiettare il mondo occidentale e la sua visione culturale basata sui valori della democrazia e della libertà, quale protagonista nella costruzione di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali.

La seconda osservazione riguarda un concetto che gli esiti del vertice hanno sancito e cioè che il baricentro politico dell’Alleanza si è spostato ad Est!

Sono i Paesi ex sovietici che oramai dettano le linee guida dell’Alleanza. La nuova frontiera della NATO è costituita dal cordone di Paesi che dal Baltico si estendono sino al Mar Nero.

Sono loro che hanno riportato indietro le lancette del tempo, vincolando la vision atlantica allo scacchiere di Nord – Est, entusiasticamente sostenuti dal settore nordeuropeo dell’Alleanza poco desideroso di ampliare la sua prospettiva geopolitica oltre il giardino di casa.

L’appartenenza all’Alleanza è stata intesa da questi Paesi come il mezzo di ricevere assistenza e protezione contro l’avversario storico di sempre, nei confronti del quale i rancori, gli attriti le rivendicazioni e il sentimento di rivalsa non si sono mai sopiti e che adesso trovano motivo di essere rispolverati e usati come elemento di pressione.

Questo spostamento del baricentro è stato reso possibile da due fattori.

Il primo riguarda il rapporto privilegiato che è stato stabilito tra questi Paesi e gli Stati Uniti. Il deteriorarsi dei rapporti euroatlantici degli ultimi vent’anni ha creato una serie di tensioni che ha visto un’Europa occidentale sempre meno coesa e sempre più recalcitrante nell’aderire alla linea politica USA, cosa che ha determinato per l’alleato americano la necessità di gravitare sul settore orientale dell’Europa: sicurezza in cambio di adesione incondizionata alla linea politica americana.

Agli occhi degli Stati Uniti la costituzione di una cintura di sicurezza dal Baltico al Mar Nero costituita da Paesi non ribelli e senza pretese di politiche autonome, che possa imbrigliare la Russia in Europa, ha costituito l’elemento fondamentale per risparmiare risorse ed energie da indirizzare verso la gestione degli altri scacchieri mondiali. La necessità del Regno Unito di ritagliarsi un nuovo ruolo in Europa dopo la Brexit dall’Occidente ha offerto, poi, l’occasione di usufruire di un sicuro alleato quale demoltiplicatore per la gestione del concetto di sicurezza contro l’Orso Russo.

Il secondo fattore, intimamente connesso al primo è stata l’assoluta mancanza di coesione strategica che i Paesi occidentali hanno dimostrato, e che si è tradotta nella traslazione del baricentro verso Est.

Nulla di nuovo, il fenomeno è lo stesso che si è prodotto nell’Unione Europea dove, purtroppo, stiamo assistendo a una mutazione dell’asse portante del concetto culturale che ha dato vita all’Unione Europea. I nuovi Paesi che sono stati accolti e inseriti nell’Unione dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica si sono certamente impegnati per modificare e rendere compatibile il loro impianto economico finanziario ai requisiti di ingresso nella comunità europea e ne hanno tratto i benefici che a essa erano legati. Ma non hanno cambiato il loro impianto culturale, sociale e politico che sono rimasti dissimili da quelli occidentali. Libertà, democrazia, trasparenza, stato di diritto sono concetti che ad Est dell’allineamento Amburgo – Trieste ancora vengono declinati in modo differente da come invece, li intendiamo a Ovest di tale allineamento.

La miopia geopolitica dell’Alleanza unita a una certa pigrizia degli Alleati del fianco Sud nel prospettare un’alternativa ragionata alla nuova Guerra Fredda verso Est, stanno privando la NATO della possibilità di esprimere le sue capacità in scacchieri diversi da quello orientale ma che sono altrettanto importanti, pericolosi e critici per la posizione che l’Europa potrà avere nel futuro immediato.

Trascurare Africa e Medio Oriente è un errore di prospettiva colossale che limita e riduce le nostre chances occidentali di proporci come una valida alternativa culturale ed economica e come garanzia di stabilità e sicurezza nei confronti del polo rappresentato da Russia e Cina.

Non si tiene assolutamente conto che la Russia non esprime il suo disegno di grande potenza solo nei confronti dei suoi ex satelliti nell’Europa orientale, ma è presente sempre con maggior peso nel Mediterraneo, in Libia (grazie al “capolavoro” franco – inglese dell’eliminazione di Gheddafi), in tutto il Medio Oriente, dalla Siria sino all’Afghanistan. E a seguire, anche la Cina si sta consolidando in questi scacchieri, sia economicamente ma anche con le prime installazioni militari.

L’assenza di una prospettiva strategica a 360° e la cristallizzazione delle risorse e dell’impegno dell’Alleanza in senso unidirezionale verso Est rappresentano un fattore di debolezza intrinseco dell’Alleanza stessa che evidenzia come sia preminente l’interesse particolare di alcuni dei suoi membri ma non quello generale di tutti, avvalorando implicitamente una contrapposizione diretta verso la Russia stessa, che risulta essere oltre che pericolosa, anche, estremamente limitante.

Al di là del sottolineare una volontà condivisa nel non tollerare violazioni eclatanti del diritto internazionale come quelle commesse dalla Russia nel condurre il conflitto in Ucraina, il vertice dell’Alleanza non è stato in grado di generare una vision geostrategica all’altezza delle sue potenzialità e in linea con l’intrinseco valore geopolitico che il consesso dei Paesi occidentali è in grado di esprimere. Ci stiamo rituffando in una specie di Guerra Fredda per dare soddisfazione ai rancori mal sopiti del nostro Est europeo, perdendo di vista che la NATO costituisce l’unica organizzazione valida e utile per dare forma e consistenza al ruolo che l’Europa e l’Occidente che condivide i nostri valori, potranno svolgere nel nuovo sistema delle relazioni internazionali che sta prendendo forma adesso.

Maurizio Iacono
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