GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Febbraio 2016 - page 2

Cina: missili su un’isola contesa

Asia/BreakingNews di

 

Il 14 febbraio scorso le immagini catturate da un satellite hanno mostrato la presenza di nuove installazioni di tipo militare su una piccola isola dell’arcipelago delle Paracels, nel Mar Cinese Meridionale, occupata dalla Cina e rivendicata dai suoi vicini, in particolare Taiwan e Vietnam. L’isola, un tempo denominata Woody sulle carte nautiche, venne annessa da Pechino nel 1956 con il nome di Yongxing.

Si tratta probabilmente di udue batterie HQ-9, capaci di armare otto missili terra aria-ciascuna, con un raggio di lancio che gli esperti stimano in circa 200 chilometri, in grado di colpire velivoli, missili da crociera e balistici. Il loro dispiegamento aggrava ulteriormente la tensione lungo le acque già agitate del Mar Cinese Meridionale, teatro da alcuni anni di una disputa territoriale su larga scala, con importanti risvolti politici, strategici ed economici, alla quale partecipano tutte le potenze della regione, Giappone compreso, e gli Stati Uniti, intenzionati a difendere  la propria libertà di navigazione militare e commerciale nell’area e a limitare le velleità espansionistiche di Pechino.

La rivelazione, diffusa ieri delle autorità di Taiwan, ha indispettito i cinesi che, in un primo momento, hanno tuonato contro le menzogne della propaganda filo-occidentale e, successivamente, hanno ribadito il proprio diritto ad installare armamenti di “auto-difesa” sulle isole abitate da personale civile e militare cinese, “secondo la legge internazionale”.

La preoccupazione maggiore, per gli americani ed i loro alleati nell’area, è che Pechino porti avanti un progetto unilaterale di militarizzazione nella regione, fortificando, ufficialmente a scopo difensivo, un numero sempre maggiore di isole e neo-isole artificiali, realizzate ex-novo dagli ingegneri cinesi attraverso massicce opere di drenaggio dei fondali sabbiosi, lì dove un tempo esistevano solo tratti semi-sommersi di barriera corallina.

L’isolotto di Yongxing in effetti già disponeva di una pista aerea e, nel novembre del 2015, i satelliti avevano catturato l’immagine di un jet militare cinese atterrato sull’avamposto. I missili terra area, secondo gli esperti interpellati dalla BBC, potrebbero essere un avvertimento rivolto al Vietnam, che continua a avanzare le proprie rivendicazioni sull’arcipelago, e agli Stati Uniti, dopo che, nel gennaio scorso, un incrociatore a stelle e strisce si era avvicinato alle coste dell’isola.

Per ora Pechino ha evitato di dispiegare installazioni militari sulle isole contese dell’arcipelago delle Spratly, molto lontano dalle acque territoriali cinesi  e incastonato tra Vietnam, Malesia e Filippine, che ne rivendicano a loro volta il possesso. Se l’escalation dovesse spingersi così a sud, quella cinese sarebbe percepita non più come una semplice provocazione ma come un atto ostile esplicito, con conseguenze difficili da prevedere.

La disputa relativa al Mar Cinese Meridionale è stata affrontata anche durante il vertice, appena conclusosi in California, tra gli Stati Uniti ed i paesi dell’ASEAN, l’organizzazione che riunisce gli stati del sud-est asiatico. Solo ieri il Presidente Obama, alla conclusione del meeting, aveva ribadito l’appello americano ad interrompere ogni ulteriore “ rivendicazione, nuova costruzione e militarizzazione”, riferendosi indirettamente alle attività cinesi nell’area. Obama ha anche affermato che gli USA continueranno “a volare, navigare ed operare ovunque sia consentito dalle leggi internazionali”, aggiungendo che gli Stati Uniti forniranno il loro supporto agli alleati nella regione perché possano fare altrettanto. Un supporto che è stato invocato esplicitamente, in modo abbastanza sorprendente, dal Primo Ministro Vietnamita durante il vertice. Il premier Nguyen Tan Dung si è rivolto direttamente a Obama per chiedere che gli USA abbiano “una voce più forte e mettano in campo azioni maggiormente funzionali ed efficaci”per ottenere l’interruzione di tutte le iniziative volte a cambiare lo status quo, riferendosi chiaramente ala Cina ed alle sue attività costruttive nell’arcipelago Spratly.

Lo scopo del vertice era quello di trovare nove soluzioni comuni per contrastare l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e preservare il diritto alla libera navigazione, interesse geopolitico prioritario per gli Stati Uniti in quella fetta di mondo. La scelta cinese di dispiegare di una batteria missilistica sull’isola di Yongxing in concomitanza con il vertice USA-ASEAN non è ovviamente casuale e tende a ribadire l’intenzione di Pechino di disporre come meglio crede dei territori sotto il suo controllo.

Per gli americani ed i suoi alleati l’escalation militare, anche se su scala ridotta, ha il sapore della provocazione. Un ufficiale americano ha dichiarato ai microfoni della CNN che il dispiegamento dei missili, avvenuto  a vertice in corso, è stato “un’ulteriore dimostrazione del tentativo unilaterale della Cina di cambiare lo status quo” nel Mar Cinese Meridionale. Sulla stessa linea il Giappone, che per bocca del Segretario Capo di Gabinetto Yoshihide Suga ha bollato come inaccettabile l’iniziativa di Pechino.

La disputa sembra destinata ad inasprirsi, soprattutto se la Cina deciderà di procedere nella creazione di infrastrutture militari sulle isole sotto il suo controllo, spingendosi ancora più a sud. Un’altra variabile in gioco riguarda le risorse energetiche e minerarie che potrebbero nascondersi sotto i fondali corallini. Le indagini geologiche e le trivellazioni non sono ancora iniziate, almeno ufficialmente, ma la scoperta di giacimenti di petrolio o gas naturali potrebbe compromettere ulteriormente i rapporti tra le potenze che si affacciano su quella fetta di oceano.

 

Luca Marchesini

 

Chinese missiles on a disputed island

Asia @en/BreakingNews @en di

 

On 14 February, the images captured by a satellite, showed the presence of new military installations on a small island in the Paracels archipelago in the South China Sea, occupied by China and claimed by its neighbors, particularly Taiwan and Vietnam. The island, once known as Woody on nautical charts, was annexed by Beijing in 1956 under the name of Yongxing.

It is probably two HQ-9 batteries, able to arm eight surface-to-air missiles each, with a range which experts estimate at about 200 kilometers, capable of hitting aircraft, cruise missiles and ballistic. Their deployment further exacerbates the tension along the already troubled waters of the South China Sea, the theater for several years of a territorial dispute on a large scale, with major political, strategic and economic implications, in which all the powers of the region are involved, including Japan, and the United States, determined to defend its freedom of military and commercial shipping in the area and to limit the expansionist ambitions of Beijing.

The revelation, released yesterday by the Taiwanese authorities, has angered the Chinese who, at first, have thundered against the lies of the pro-Western propaganda, and subsequently reaffirmed their right to install weapons of “self-defense” on islands inhabited by Chinese civil and military personnel, “according to international law”.

The major concern for the Americans and their allies in the area, is that Beijing brings forward a unilateral project of militarization in the region, strengthening, officially for defensive purposes, a growing number of islands and neo-artificial islands, made ex- novo by Chinese engineers through massive drainage of the sandy ocean floor, there where once there were only semi-submerged sections of the reef.

The Yongxing island in fact already have an airstrip and, in November 2015, the satellites captured the image of a Chinese military jet landed on the outpost. The missiles deployment, according to experts interviewed by the BBC, may be a warning addressed to Vietnam, which continues to advance their claims on the archipelago, and to United States, after that, in January, an American missile destroyer sailed close to the island’s shores.

For now, Beijing has avoided to deploy military installations on the disputed islands of the Spratly archipelago, far away from the Chinese territorial waters and nestled between Vietnam, Malaysia and the Philippines, who are claiming themselves its possess. If the escalation would go so far south, Chinese action would be perceived not as a simple provocation but as an explicit act of hostility, with consequences difficult to predict.

The dispute on the South China Sea was also addressed during the summit just concluded in California, between the United States and the ASEAN countries, the organization of the Southeast Asia states. Just yesterday, President Obama, concluding  the meeting, reiterated the US call to stop any further “claim, new construction and militarization”, indirectly referring to Chinese activities in the area. Obama also said the US will continue ” will continue to fly, sail and operate wherever international law allows” adding that the United States will provide their support to allies in the region so that they can do the same. A support that has been explicitly called for by the Vietnamese Prime Minister during the summit. Prime Minister Nguyen Tan Dung has appealed directly to Obama to ask that the US has ” has a stronger voice and more practical and more efficient” to achieve the interruption of all initiatives aimed at changing the status quo, clearly referring to China and its constructive activities on the Spratly archipelago.

The purpose of the summit was to find new common solutions to counter Beijing’s expansionism in the South China Sea and preserve the right to free navigation, a primary geopolitical interest for the United States in that part of the world. China’s choice to deploy a missile battery on the island of Yongxing in conjunction with the US-ASEAN summit is obviously not random and tends to reiterate Beijing’s intention to dispose as they please of the territories under its control.

For Americans and its allies a military escalation, although on a minor scale, has the flavor of provocation. A US official said to the microphones of CNN that the deployment of the missiles, which occurred during the summit, was a ” further demonstration of China’s attempt to unilaterally change the status quo” in the South China Sea. On the same line  is Japan, that by the mouth of Chief Cabinet Secretary Suga Yoshihide  has branded as unacceptable the initiative of Beijing.

The dispute looks set to exacerbate, especially if China decides to proceed with the creation of military infrastructure on the islands under its control, going further south. Another variable in play concerns the energy and mineral resources that could hide under coral beds. Geological surveys and drilling have not started yet, at least officially, but the discovery of oil or natural gas could further jeopardize the relations between the powers bordering on that slice of ocean.

 

Luca Marchesini

Regeni: Egyptian government hides the truth

BreakingNews @en di

Giulio Regeni murder mystery is continuing. The admission from three sources of Egyptian intelligence, that the 28 year old was arrested for his impertinent behavior and, above all, because he was suspected of being a spy due to his relationship with the Muslim Brotherhood and the Left Movement April 6, were denied today by the Egyptian Ministry of Interior which, on Mena news agency, repudiated “that Italian student was arrested before he was found dead on the outskirts of Cairo.”

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First of all, reliable data. The autopsy showed signs of torture on Regeni’s body, including seven broken ribs and signs of electrocution on genital area.

But, in the past 48 hours, it emerged a dichotomy between what is reported by international media as New York Times and Reuters and as Italian Corriere della Sera and Repubblica, and the Egyptian authorities interpretation. Beyond the denial, there is an ongoing attempt to deflect investigations.

Some witnesses, believed to be reliable at first, now clash with intelligence sources commentaries, separately and anonymously interviewed by New York Times, and with surveillance cameras which should have recorded the arrest on January 25.

As revealed by the three witnesses of the intelligence, Regeni’s growing interest about the Egyptian trade unions, opposed by President Al Sisi, would have persuaded local authorities to think that the Italian Ph.D was a spy.

According to Corriere della Sera, last December the University of Cambridge, near which was Regeni graduate student, would have asked him to step up research within trade unions and opposition movements. For this reason, the last weeks of his life should be marked by the attendance at meetings of such movements and the knowledge of trade union and Muslim Brotherhood members.

But what did really happen on January 25? Regeni’s Facebook chat denied that he was arrested by two policemen. Here, the Ph.D talks to his girlfriend and his professor after two hours compared with some witnesses report.

It’s evident that Regeni’s contacts have made the Egyptian intelligence suspicious before January 25, the day of his disappearance.
Giacomo Pratali

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Regeni e il depistaggio del governo egiziano

Continua ad infittirsi il giallo legato alla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni. L’ammissione da parte di tre fonti di intelligence egiziane, secondo cui il 28enne sarebbe stato arrestato per il suo comportamento impertinente nei confronti delle forze dell’ordine e, soprattutto, perché sospettato di essere una spia a causa dei suoi contatti con la Fratellanza Musulmana e il Movimento di Sinistra 6 Aprile, sono state smentite il 15 febbraio dal Ministero dell’Interno de Il Cairo che tramite, l’agenzia stampa Mena, nega “che il ragazzo sia stato imprigionato dall’autorità di sicurezza prima della sua morte”.

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Innanzitutto, i dati certi. L’autopsia ha evidenziato segni di tortura sul corpo di Regeni, tra cui sette costole rotte e scosse ai genitali.

Ma quello che è emerso nelle ultime 48 ore è una dicotomia tra quanto riportato dalle testate internazionali come New York Times e Reuters e italiane come Corriere della Sera e La Repubblica, e dalle autorità egiziane. Aldilà della smentita da parte del governo, è chiaro che in atto ci sia un tentativo di sviare le indagini.

Oltre a non chiarire le circostanze della scomparsa di Regeni, alcune testimonianze, ritenute attendibili in un primo momento, cozzano con quanto riferito sia dalle stesse fonti dell’intelligence, intervistate separatamente e in forma anonima dal New York Times, sia dalle riprese delle telecamere dei negozi che avrebbero ripreso l’arresto del 25 gennaio scorso.

Come rivelato dai tre testimoni dei servizi, l’interesse crescente di Giulio nei confronti delle attività sindacali egiziane, osteggiate dal presidente Al Sisi, avrebbero indotto le autorità locali a pensare che il ricercatore italiano fosse una spia.

Insomma, egli sarebbe finito in un affare più grande di lui. Secondo il Corriere della Sera, nel mese di dicembre, l’Università di Cambridge, presso la quale Regeni era dottorando, avrebbe chiesto allo studente di intensificare le ricerche all’interno del sindacato e dei movimenti di opposizione al regime di Al Sisi. Per questo motivo, le ultime settimane di vita del ragazzo sarebbero state contraddistinte dalla partecipazioni alle riunioni di tali movimenti e alla conoscenza di personalità sia sindacali sia appartenenti alla Fratellanza Musulmana.

Questo il movente che ha probabilmente generato, nelle autorità egiziane, il sospetto che Regeni fosse una spia: “Dopotutto, chi viene in Egitto a studiare i movimenti sindacali?” ha rivelato un funzionario dell’intelligence.

In più, gli eventi strettamente legati alle ore che hanno riguardato la scomparsa dell’italiano. Come già scritto, alcune testimonianze, ritenute inizialmente credibili, secondo cui Regeni sarebbe stato portato via da due poliziotti, sono state smentite dalla chat di Facebook risalenti proprio al 25 gennaio. Qui, il ragazzo parla alla fidanzata e al professore due ore dopo la presunta cattura da parte della polizia.

Una cattura che probabilmente è avvenuta. Ma legata a tempistiche e a protagonisti differenti. E, soprattutto, con uno stile di vita che, con ogni probabilità, aveva messo i servizi segreti egiziani sulle tracce di Giulio Regeni ben prima del 25 gennaio, giorno della sua scomparsa.
Giacomo Pratali

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Libia: nuovo quartier generale del Daesh?

Medio oriente – Africa di

La lente d’ingrandimento puntata sulla Siria, divenuto terreno di scontro della rediviva guerra fredda tra USA e Russia, sta facendo il gioco dello Stato Islamico in Libia. Mentre Turchia e Arabia Saudita preparano l’intervento di terra in Medio Oriente, il quartier generale del Daesh si sta spostando. A dirlo, sono i numeri.

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Secondo le ultime rilevazioni statistiche, ci sarebbe un’inversione di tendenza rispetto al numero di militanti presenti in Siria e Iraq e in Libia. Nel primo caso, le stime parlano di 15-25 presenze, con un calo di 20-30 mila rispetto alle ultime variazioni. Nel secondo caso, invece, il numero totale, 5-6 mila, è ancora inferiore, ma l’aumento nell’ultimo anno si è aggirato attorno ai 2-3 mila.

Molteplici i possibili fattori dovuti a questa inversione di tendenza. Primo fra tutti i caduti di guerra a seguito dei raid nel Paese retto da Assad. Morti che hanno probabilmente causato diserzioni e la conseguente scelta, da parte dei foreign fighters di una meta meno a rischio, per il momento, come la Libia.

Numeri che portano a due riflessioni. Come rilanciato da molti analisti, la crescita numerica dell’Isis in Libia non avrà particolari ripercussioni sui possibili futuri attacchi terroristici in Europa. Quella attraverso la Siria rimane una rotta più sicura non solo per i rifugiati, ma anche per gli stessi jihadisti. E difficilmente i vertici del Califfato rischieranno i loro uomini addestrati attraverso la rotta meno sicura per raggiungere l’Europa, cioè quella attraverso il Mediterraneo meridionale.

Discorso contrario, invece, per quanto riguarda la radicalizzazione stessa del Califfato. I riflettori della comunità internazionale puntati sulla Siria, uniti alla cronica lentezza di un governo di unità nazionale a Tripoli, stanno rendendo la Libia la nuova roccaforte dello jihadismo.

A Sirte, dove ha sede il quartier generale. A Bengasi e in altri centri metropolitani del Paese, dove il Daesh, così come fatto in Siria e Iraq, sta concentrando le proprie forze.

I continui appelli lanciati nelle ultime settimane dalle varie autorità italiane affinché si formi al più presto un nuovo governo, sembrano essere caduti nel vuoto, al netto dell’apparente interesse mostrato, ad esempio, dal segretario di Stato USA John Kerry. Un interesse che, invece, dovrebbe essere reale.
Giacomo Pratali

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Nigeria: su Boko Haram ottimismo fuori luogo

Medio oriente – Africa di

L’ottimismo manifestato dal presidente Muhammadu Buhari dopo alcune vittorie riportate dall’esercito nigeriano contro Boko Haram stride con la realtà. Le atrocità nel villaggio di Dalori, dove l’incendio appiccato dai jihadisti ha provocato la morte di circa 90 persone, compresi bambini, e il recente raid a bordo di una motocicletta sempre in un villaggio dello Stato del Borno, dove sono morte 3 persone, segnalano che la guerra nel Nord-Est del Paese non è ancora finita.

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È vero, dall’avvento del presidente Buhari nel 2015, la lotta a Boko Haram, in collaborazione con Camerun e Ciad, ha portato ad alcune battaglie vinte. L’attuale Capo di Stato infatti, a differenza del suo predecessore, il cristiano Jonathan Goodluck, viene proprio dal Nord della Nigeria ed è musulmano: fattori positivi nella lotta all’organizzazione fondamentalista.

Ma ben altri sono gli aspetti negativi. Alle vittorie e ai conseguenti, e momentanei, arretramenti di Boko Haram, non ha fatto seguito un’avanzata della Nigeria come Stato. Ovvero, a causa della mancanza di fondi, è venuta meno quella ricostruzione di case, scuole e chiese che si sarebbe potuto tradurre in una, seppur lenta, ricostruzione del tessuto sociale dello Stato del Borno.

A questo, si aggiunge l’eterna contrapposizione tra il Sud, cristiano, più ricco e sviluppato; e il Nord, musulmano, più povero e con meno infrastrutture. Una contrapposizione acuita dalle accuse fatte dalla popolazione del Nord-Est all’esercito nigeriano, accusato di rappresaglie e violazione dei diritti umani contro i civili mentre era impegnato a dare la caccia a Boko Haram.

Un malcontento su cui Boko Haram, sulla scia di quanto fatto dallo Stato Islamico in Siria e Iraq, ha fatto e fa leva per reclutare persone.

Non solo. L’ottimismo di Buhari, professato anche nel corso dell’incontro con il primo ministro italiano Renzi ad inizio febbraio, è rivelatore di una sottovalutazione dell’avversario. Un avversario che ha adottato una tattica ben precisa negli ultimi mesi. Scomparire quando è in difficoltà per poi riapparire quando le condizioni lo consentono e utilizzare con minor frequenza l’arma degli attacchi suicidi a favore dei raid.

Il tatticismo di Boko Haram unito alla ormai pluriennale guerra contro lo Stato nigeriano ci raccontano di una guerra in tutto e per tutto. Per questo motivo, alcune battaglie vinte dall’esercito, come scritto dal Financial Times, non possono fare pensare alla risoluzione del conflitto.

A testimonianza di questo, in un’intervista di Vicenews apparsa sulla HBO, un comandante di Boko Haram, rimasto anonimo, ha affermato: “Io sono dove sono le studentesse rapite nell’aprile 2015. Vuoi sapere dove si trovano? Esse non sono con noi. Se otterremo ciò che chiediamo, verranno rilasciate”. Parole di sfide, parole che chiariscono che è Boko Haram ad avere ancora il coltello dalla parte del manico nella guerra contro la Nigeria.
Giacomo Pratali

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Nigeria: Boko Haram is alive and kicking

Senza categoria di

President Muhammadu Buhari’s optimism after a few victories against Boko Haram rebels is not realistic. Atrocities in the village of Dalori, where jihadists set fire causing about 90 killed, including children, and the recent attack on a hamlet in Borno State, where three people died, report that the war in the North-East of the country is not over yet.

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Since his assignment in 2015, Buhari, in collaboration with Cameroon and Chad, defeated several times Boko Haram troops. Indeed, unlike his predecessor, the Christian Jonathan Goodluck, he’s Muslim and comes from northern Nigeria: so, it’s a crucial factor in the fight against Islamist organization.

However, there are many negative causes. These victories did not go with an improvement of Nigeria as State. Because of lack of funds, the homes, schools and churches restoration didn’t happen. Consequently, the reconstruction of social fabric failed.

All this in a context of permanent opposition between the South, Christian, richer and more developed; and the North, Muslim, poorer and with less infrastructure. A contrast worsened in the last year by the charges of human rights abuses against civilians to Nigerian army, while it was hunting down Boko Haram in Borno State.

A discontent used by Boko Haram, as Islamic State in Syria and Iraq, to recruit people.

Buhari’s optimism discloses an underestimation of the opponent. An opponent which took a specify military tactic in recent months. It disappears when it has difficulties and reappears when conditions allow. And it resorts more to raids than suicide attacks.

The tactics of Boko Haram combined with now long-standing war against the Nigerian state tell us about a real war. For this reason, as written by Financial Times, a few victories do not mean the end of this war.

As evidence of this, in an interview Vicenews on HBO, a Boko Haram commander told about more than 200 Chibok girls abducted on April 15, 2014: “I know where they are. You want to know where they are? They are not with us. If we can get what we want, we know where they are, we will get them.” Challenging words which explain how Boko Haram is alive and kicking.
Giacomo Pratali

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Posticipato contratto Eurofighter Italia-Kuwait

Difesa/Medio oriente – Africa di

 

Era prevista per il 31 gennaio la firma dell’accordo tra Italia e Kuwait per la fornitura di 28 Eurofighter al paese arabo. Secondo fonti interne del Ministero della Difesa, il Kuwait avrebbe rimandato la conclusione dell’accordo a causa di “ritardi procedurali”. Nessuna indiscrezione circa la data del nuovo incontro.

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Il contratto segue un memorandum of understanding siglato dal ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti e il corrispettivo kuwaitiano Khaled al-Jarrah al-Sabah nel settembre 2015. In base al documento, il Kuwait si impegna all’acquisto di 28 Eurofighter Typhoon (22 modelli monoposto e 6 biposto) per un valore complessivo di circa 8 miliardi di euro. Arco temporale previsto 20 anni.

Il consorzio Eurofighter nasce dal lavoro delle industrie aerospaziali di quattro paesi europei: Germania e Spagna (Airbus), Gran Bretagna (BAE System) e Italia (Finmeccanica). Ma è proprio l’industria italiana ad assicurarsi il contratto con il Kuwait. Circa il 50% della commessa sarà, infatti, appannaggio di Finmeccanica, che si occuperà non solo di progettare, sviluppare e produrre il velivolo (Alenia Aermacchi), ma ne curerà anche l’avionica e l’elettronica di bordo, tramite la Selex ES.

L’accordo siglato con Finmeccanica conclude una negoziazione iniziata nel 2010, in seguito alla decisione del Kuwait di rimodernare la flotta di F-18 Hornet in dotazione alle proprie forze aeree. Inizialmente, la scelta era ricaduta sui nuovi F-18 Super Hornet di produzione statunitense; tuttavia, continui ritardi da parte degli USA nell’approvazione dell’acquisizione avevano indotto l’emirato ad optare per il programma Eurofighter. Scelta che, molto probabilmente, nasconde anche considerazioni di natura strategico-militare.

L’F-18 è un caccia da combattimento multiruolo, supersonico e bimotore, capace di trasportare bombe per combattimenti aria-aria e aria-terra. Nonostante venga impiegato per molteplici utilizzi (ricognizione aerea, supporto aereo ravvicinato, interdizione e scorta), l’F-18 si caratterizza principalmente come cacciabombardiere ed è stato introdotto nelle capacità del Kuwait dopo la guerra del Golfo.

L’Eurofighter, seppur presenti alcuni caratteri simili all’F-18 (multiruolo e bimotore), si afferma primariamente come caccia intercettore e da superiorità aerea. Più veloce e maneggevole, il velivolo è dotato di radar a scansione elettronica e avanzati sensori di navigazione, scoperta e attacco. Armamenti tecnologicamente avanzati, pensati prevalentemente per i combattimenti aria-aria, completano il profilo dell’aviogetto, che ha già dimostrato il proprio valore in diversi teatri operativi, come la Libia o i paesi baltici.

La scelta del governo kuwaitiano di puntare sugli Eurofighter sembra rispecchiare una strategia nazionale volta a rafforzare le capacità difensive delle forze armate piuttosto che puntare sugli armamenti offensivi. 28 caccia da superiorità aerea garantirebbero una maggiore sicurezza nei cieli kuwaitiani, data la capacità di intercettare velivoli nemici o illegalmente presenti nello spazio aereo del paese. Velocità e manovrabilità elevate rendono gli Eurofighter i candidati ideali per intervenire in caso di minacce imminenti provenienti dai paesi limitrofi. Considerando la posizione geografica del Kuwait e il livello di insicurezza che caratterizza il Medio Oriente oggi, la scelta di Kuwait City non sembra così inopportuna.

La fretta del governo kuwaitiano nel voler raggiungere un accordo con gli USA prima, con l’Italia poi, fa trapelare un senso di incertezza e la necessità di voler potenziare i propri armamenti nell’ottica di un peggioramento del contesto regionale. Dopo i rinvii degli ultimi mesi legati alle disposizioni circa l’addestramento dei piloti (il Kuwait ha accettato di formare i piloti in Italia e non in Inghilterra, come inizialmente richiesto), l’ultimo ostacolo da superare è l’approvazione della corte dei conti del Kuwait, che pare non abbia avuto sufficiente tempo per esaminare nel dettaglio i termini finali dell’accordo (Best and Final Offer, BAFO). Come ha sottolineato il ministro Pinotti, in un incontro tenutosi mercoledì scorso a Roma il ministro della Difesa del Kuwait ha ribadito la volontà di firmare l’accordo con l’Italia nel più breve tempo possibile.

Da canto suo, il Belpaese ha tutti motivi per tenersi stretto un simile impegno. In primo luogo, una commessa con un paese mediorientale della durata di 20 anni permette all’Italia di consolidare la propria presenza in un’area strategica e ricca di opportunità commerciali. Secondo, il contratto dona a Finmeccanica uno slancio economico non indifferente. Come sottolinea il generale Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, “la ​commessa è importante soprattutto perché consente di mantenere attive linee di produzione che invece nel tempo sarebbero andate in dismissione, consentendo di mantenere inalterati posti di lavoro e capacità di know how”. Infine, il ruolo guida giocato dall’Italia in questa sede può permettere al nostro paese da un lato di riguadagnare peso nel consorzio Eurofighter, dall’altro di sfruttare una ritrovata fiducia nelle proprie capacità per rivedere la propria posizione nei giochi internazionali.

 

Paola Fratantoni

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Kuwait delays the Eurofighter deal

Innovation di

 

A contract for 28 Eurofighter aircraft was to sign on 31st January between Italy and Kuwait. As an Italian Ministry of Defence source referred, the signature was delayed for “procedural reasons”. No leak about next meeting.

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The contract follows a memorandum of understanding signed between the Italian Minister of Defence Roberta Pinotti and the Kuwaiti colleague Khaled al-Jarrah al-Sabah in September 2015. According to the document, Kuwait has ordered 28 Eurofighter Typhoon (22 single-seat and 6 twin-seat) for a total value of 8.7 billion dollars. Announced deadline in 20 years.

The Eurofighter Consortium is driven by aerospace and defence industries of four European countries: Germany and Spain (Airbus), United Kingdom (BAE System) and Italy (Finmeccanica). But it’s the Italian company to grab the contract with Kuwait. Over 50% of the value of the deal will be earned by Finmeccanica, which will provide the design, development and production of the aircraft (Alenia Aermacchi) but also the on-board electronic systems (Selex ES).

The deal signed with Finmeccanica ends a negotiation begun in 2010, after Kuwait decision to replace the existing fleet of F-18 Hornet held by its air force. Initially, the choice fell on a new fleet of F-18 Super Hornet produced by the United States. However, repeated delays in the acquisition induced the emirate to opt for the Eurofighter programme. It is likely this choice also hides military and strategic considerations.

The F-18 is a swing-role, twin-engine and supersonic fighter, able to carry air-to-air and air-to-land weaponry. Though employed for several tasks (aerial recognition, close air support, interdiction and fighter escort), the F-18 is mainly a fighter-bomber and was introduced in Kuwaiti armed forces after the Gulf War.

Despite sharing similar features with the F-18 (both are twin-engine and multi-role aircraft), the Eurofighter Typhoon is primarily an air interdiction and air superiority fighter. Faster and more manoeuvrable, the aircraft is provided with electronically scanned array radar and advanced navigation, discovery and attack sensors. Technologically advanced munitions, mainly designed for air-to-air combat, complete the technical specifications of the aircraft, which has already shown its value in different operational theatres, such as Libya or the Baltic States.

Al-Shabab’s choice to rely on Eurofighter seems to reflect a national strategy aimed to strengthening the defensive military capabilities rather than the offensive ones. Twenty-eight air-superiority fighter jets will ensure greater safety in Kuwaiti skies, given their ability to intercept enemy aircraft or planes illegally entering Kuwait’s air space. Indeed, high speed and manoeuvrability make the Eurofighter the ideal candidate to intervene, should an imminent threat from neighbouring countries arise. Considering Kuwait geographical position and the level of insecurity that characterises the Middle East, Kuwaiti decision does not sound that inappropriate.

Kuwait’s urgency in reaching a deal first with the US, then with Italy, shows a feeling of uncertainty and the necessity to strengthen its military assets, in the view of a deterioration in the regional environment. After latest delays due to caveats about pilots’ training (Kuwait has agreed to train its pilots in Italy and not in the UK as initially requested), last obstacle is the approval from the Audit Court of Kuwait, which –apparently- didn’t have enough time to evaluate the final terms of the deal (Best and Final Offer, BAFO). As Minister Pinotti highlighted, during Wednesday meeting in Rome the Kuwaiti Minister of Defence has reiterated the willingness to sign the deal as soon as possible.

On its side, Italy has all the reasons to hold on such a commitment. First, a 20-year contract with a Middle Eastern country gives Italy the chance to reinforce its presence in a key strategic area, rich of commercial opportunities. Secondly, the contract gives Finmeccanica a significant economic momentum. As gen. Tricarico, former Chief of the Italian Air Force, states, “the contract is particularly important because it allows maintaining production lines -which would have fallen into disuse over years-, thus allowing also keeping jobs and know-how skills”. Finally, Italy’s leading role in the deal will have a two-fold benefit on our country: on one hand, it will allow Italy to gain weight within the Eurofighter consortium; on the other, a renewed confidence in its capabilities could lead Italy to rethink its position in the international affairs.

 

Paola Fratantoni

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Assassinio Regeni: passo falso di Al Sisi?

Come migliaia di attivisti locali. Come i militanti della Fratellanza Musulmana. Giulio Regeni, lo studente italiano di 28 anni trovato morto sulla strada dal Cairo ad Alessandria, potrebbe essere una delle tante vittime, stavolta straniera, del regime di Al Sisi.

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Dopo essere scomparso il 28 gennaio ed essere stato ritrovato morto il 3 febbraio, la prima ipotesi avanzata dalle autorità locali è stata quella dell’incidente. Un’ipotesi ritenuta inverosimile fino dal primo istante, visti i segni delle violenze sul corpo del giovane ragazzo. Sospetti, adesso,che si concentrato sulla polizia locale e un movente riconducibile alla rete di contatti intrecciata da Regeni negli ultimi mesi di vita.

La salma tornerà in Italia sabato 6 febbraio, dove verrà sottoposta ad una nuova autopsia. Intanto, gli inquirenti italiani stanno collaborando con quelli egiziani, anche se il rischio di uno sviamento delle indagini è alto, come si evince dalla notizia dell’arresto da parte delle autorità locali di due sospettati, poi smentito dalla Farnesina.

“A quanto risulta dalle cose che ho sentito sia dall’Ambasciata sia dagli investigatori italiani, siamo lontani dalla verità”, ha affermato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

Originario di un piccolo paese del Friuli, dottorando di Cambridge, Regeni stava scrivendo la sua tesi sull’economia egiziana presso l’American University. Interessato al Medio Oriente e agli sviluppi socio-economici delle rivolte degli ultimi anni, era venuto in contatto con le organizzazioni
locali e aveva probabilmente partecipato ad alcune riunioni sindacali negli ultimi mesi.

Sull’agenzia di stampa locale Nena News, vicina alle posizione antiregime, su Il Manifesto, Regeni aveva scritto diversi articoli in cui parlava proprio delle forme di repressione portate avanti dal regime contro ogni manifestazione di dissenso. Ed è proprio questa attività ad avere portato i servizi egiziani sulle sue tracce.

Per questo motivo, l’italiano sarebbe stato catturato con l’intento di fargli confessare tutta la lista di nomi che gli avevano fornito le informazioni poi riportate negli articoli pubblicati. I segni della tortura rinvenuti sul corpo spingono gli inquirenti italiani ad ipotizzare che Regeni non abbia voluto collaborare con le autorità egiziane e, per questo motivo, sia stato ucciso.

Una circostanza simile a quella che ha riguardato molti altri attivisti egiziani. E conosciuta, in parte, dall’opinione pubblica occidentale, ma messa in ombra dalle violenze più mediatiche del Daesh nei Paesi vicini. Una forma di caccia al dissenso che adesso ha colpito uno studente italiano e che quindi rischia di mettere a repentaglio i rapporti tra Roma e Il Cairo.

Rapporti intrecciati su due fronti. Quello energetico, con la presenza di Eni nel Paese nordafricano. Quello geopolitico, con l’Egitto già impegnato nei raid in Libia contro le truppe del governo di Tripoli, e in difesa dell’esecutivo di Tobruk, e possibile alleato nella ormai prossima missione internazionale che potrebbe vedere proprio l’Italia a capo della coalizione ONU.

Un Egitto in cui la Primavera Araba del 2011, le rivolte di piazza, la caduta di Mubarak e l’ascesa e la destituzione di Morsi sembrano essere state risucchiate dall’avvento di Al Sisi, sostenuto tra l’altro da Arabia Saudita e Turchia, e dal ritorno ad un regime simile a quello in vigore fino a quattro anni fa. Le leggi contro il dissenso, le elezioni farsa e la persecuzione contro la Fratellanza Musulmana, in cui spicca la condanna a morte di Morsi, e la dimostrazione di potenza con l’apertura del secondo transito nel Canale di Suez, pongono l’Occidente di fronte ad un difficile bivio.

Al netto della stretta contro il Daesh in Medio Oriente e in Nord Africa da parte dell’Occidente, al netto degli interessi economici, la morte di Regeni rischia di mettere in discussione i rapporti con l’Egitto. Ma soprattutto suscita una domanda: possono Europa e Stati Uniti scendere a patti con un regime dittatoriale come quello di Al Sisi?
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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