GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Gennaio 2015 - page 3

Centrafrica liberato l’ostaggio francese

Medio oriente – Africa di

L’educatrice  Claudia Priest , 67 anni , arrivata nella Repubblica Centroafricana  il 6 gennaio sarebbe dovuta restare due settimane a Bangui,  durante le quali avrebbe dovuto presentare i nuovi progetti e incontrare l’amministrazione locale  per la prima volta dopo la rivolta contro il presidente Francois Bozizè nel 2012.

Trascinata via in maniera brutale dalla sua auto dalle milizia Anti-balaka è stata tenuta prigioniera in condizioni difficili e ferita alla testa senza possibilità di assistenza medica.

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Non è il primo caso nell’area, già qualche giorno prima era stato rapito e poi rilasciato per due volte un dipendente delle Nazioni Unite, trattenuto nello stesso quartiere dove si crede sia stata trattenuta la cooperante francese.

Con queste operazioni i ribelli anti-balaka mirano a ottenere il rilascio del loro leader e aumentare le fila del loro esercito, una azione non pianificata ma realizzata come immediata ritorsione all’arresto.

Il vescovo di Bangui ha condotto in prima persona le delicate trattative con i ribelli e le autorità locali ed è riuscito a riportare in libertà la 67enne francese.

Il rapimento della cooperante francese si inserisce in un quadro ancora più complesso che comprende le prossime consultazioni che precedono il forum politico di Bangui che è stato previsto con l’intento di sollecitare una riconciliazione nazionale.

Nel frattempo le violenze delle due fazioni in lotta, gli islamisti Seleka e le cosidette milizie cristiane Anti- Balaka, sembrano non avere fine mettendo in serio dubbio la capacità della missione ONU che nonostante il dispiegamento di uomini e mezzi non riesce a mantenere il controllo delle zone di competenza.

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Tag: ostaggio francese

La minaccia terroristica interna alla sopravvivenza di Israele

Medio oriente – Africa di

E’ pacifico ormai interpretare il perenne conflitto in Medio Oriente come lo scontro tra uno Stato in espansione (Israele) ed un territorio in continua difesa (Gaza), nella parte del più debole. E’ indubbio, certamente, che un paragone tra i due governi (o come li si voglia definire l’uno in rapporto all’altro) non possa porsi. D’altra parte, però, senza negare la sofferenza cui gli abitanti della striscia sono sottoposti ed anzi, sottolineandone la paradossale ed incomprensibile inevitabilità, vale la pena girare intorno al tavolo e sedersi dall’altro capo.

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Mettiamo per un attimo il conflitto con la striscia di Gaza da parte. Israele sin dal momento della sua nascita ha dovuto fare i conti con vicini tutt’altro che amichevoli. Ha dovuto nel tempo e deve attualmente affrontare una minaccia terroristica di diversa provenienza e natura. Sebbene si tratti di terrorismo, esso è però caratterizzato da una pluralità di manifestazioni di cui il lancio di razzi o mortai dalla striscia di Gaza (spesso lanci alla cieca) rappresenta solo una parte e, come dimostrano le analisi ed i dati del Sommario Annuale 2013 sul terrorismo e le attività di contrasto, in alcuni periodi non rappresenta neanche la minaccia più grave. Israele deve fare i conti con dimostrazioni di ostilità che spesso sono condotte non dall’esterno verso l’interno dei suoi confini, ma con attacchi che nascono e si concludono nel suo territorio. In particolare nella città di Gerusalemme e nelle aree di Giudea e Samaria. Oltre a ciò, permane  il pericolo che la regione del vicino Sinai continui a rappresentare un focolaio incontrollato ove gruppi terroristici di matrice islamica fondamentalista possano trovare terreno fertile per accrescere la loro influenza ed aumentare dunque il rischio per la sicurezza d’Israele e non solo.

Nello specifico, Giudea e Samaria hanno visto nel 2013 un forte incremento degli attacchi terroristici, più che raddoppiati rispetto all’anno precedente, caratterizzati da lanci di granate o esplosioni di ordigni improvvisati. L’area di Gerusalemme, al contrario, ha visto un calo di attacchi. Le minacce si riferiscono ad una serie di tipologie di azioni ostili che vanno dal lancio di granate all’uso di veicoli, dal lancio di razzi ad omicidi condotti con uso di armi alla deflagrazione di ordigni improvvisati inesplosi (IED). La possibilità che alcuni gruppi appartenenti alla cosiddetta jihad islamica globale mantengano il controllo di parte dell’area della penisola del Sinai, ha inoltre spinto le autorità israeliane a cooperare con quelle egiziane al fine di ridurre la pericolosità di queste organizzazioni terroristiche, tanto che negli ultimi anni si è potuto notare una diminuzione degli attacchi provenienti da queste regioni. Il problema è infatti a doppio filo anche egiziano, poichè l’attuale governo di Al Sisi affronta gli stessi disagi: tunnel sotterranei, disordini, minaccia allo Stato, conflitti localizzati. Fortunatamente, alla riduzione degli attacchi è corrisposta una riduzione del numero delle vittime.

Un ulteriore rischio per Israele è rappresentato (con potenziali critiche ripercussioni in scala temporale) dagli arabi israeliani che abbandonano la loro terra per recarsi a combattere all’esterno. Questo esodo, sebbene ridotto, dal punto di vista di Israele è visto a ragione come possibile minaccia in quanto questi individui si recano in territori stranieri (ad esempio in Siria) per essere coinvolti in conflitti o movimenti di vario genere. Ciò implica un attivismo che spesso giunge fino al combattimento armato, che presume tra l’altro un addestramento di tipo militare. Il pericolo (come prova l’arresto di Yusef Higla nel 2013) è che questi soggetti mantengano contatti con organizzazioni o elementi  coinvolti in attività ostili ad Israele e, che possano essere poi utilizzati per condurre attacchi di varia forma contro il governo israeliano o i suoi abitanti. A questo spesso poco citato argomento,  si aggiunge il rischio politico sociale proveniente dalle ali estreme della destra e della sinistra in seno al menage politico interno, ma che si trasformano in attacchi mirati da parte di radicali contro specifici settori della popolazione (attacchi a persone quali accoltellamenti ed alle proprietà, come incendi dolosi).

Una realtà, dunque, lontana da quella che spesso ci viene proposta. Israele è al centro di numerosi possibili attacchi condotti da altrettanto numerosi soggetti singoli o organizzati i cui obiettivi sono spesso civili (nelle strutture e nelle persone che ne sono coinvolte). E’ chiaro che, in una situazione in cui ad una forte minaccia per così dire interna si aggiungono uno o più conflitti esterni (entrambi in buona parte riconducibili alla stessa matrice di rivalità storico religiosa), quel forte Stato che risponde al lancio di razzi con invasioni militari assume un aspetto più realistico, meno eroico e soprattutto più in preda ad una situazione di costante stress ed allarme. Sotto un ulteriore punto di vista, allargando la nostra visione all’area regionale in cui esso è inserito, l’esistenza stessa di Israele, poi, apparrebbe sotto tutt’altro punto di vista qualora si evidenziasse il ruolo di cuscinetto per nulla scontato che esso svolge nell’area medio orientale. Le preoccupazioni israeliane sull’esistenza di gruppi terroristi fondamentalisti ai suoi confini o al suo interno è una preoccupazione che, qualora venisse a mancare l’impegno israeliano, peserebbe interamente su parte degli stati con esso ora confinanti.

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EMERGENCY – Contro Ebola forse ci siamo

Medio oriente – Africa di

Gino strada con un post su Facebook annuncia una grande buona notizia, diminuiscono i nuovi casi di infezione in Sierra Leone – «Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti” – ha commentato il fondatore di Emergency.

10915304_10152539837076367_4754568819001755211_nUna buona notizia che sembra non trovare spazio sui media anche dopo mesi e mesi di terrore incontrollato, le buone notizie non vendono.

La lotta all’epidemia non ha avuto un attimo di tregua soprattutto da parte delle ONG che sul territorio sono stati in prima fila spesso con perdite umane o gravi situazioni di contagio fortunatamente per Emergency risolte positivamente ma che in altri casi hanno decretato il decesso di missionari e volontari.

“Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti- continua Strada nel suo Post – in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto lettoLa situazione in Sierra Leone è da anni critica e soprattutto in questo perido la mancanza di infrastrutture ha permesso il dilagare della malattia, l’incapacità del governo centrale di gestire l’emergenza è stata di fatto compensata dall’enorme sforzo delle ONG e prima tra tutti di Emergency.

“ Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garan

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tire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi

Dopo tutto questo lavoro e i risultati ottenuti Gino Strada conferma pienamente quanto ha detto qualche mese fa che ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency. ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure.”

 

Un lavoro eccezionale che merita di essere sostenuto.

 

Alessandro Conte

Centrafrica: Continua la missione EURFOR RCA

Medio oriente – Africa di

Mantengono la posizione i militari della forza multinazionale europea a Bangui.

I genieri alpini della missione europea EUFOR-RCA hanno ripristinato un’importante strada di Bangui, nell’ambito dei progetti volti a migliorare la circolazione e la sicurezza nei diversi quartieri della capitale centrafricana.

I lavori di ripristino sono terminati ieri con la posa di una passerella metallica fabbricata dai tecnici militari italiani, che ha consentito la riapertura definitiva di una strada che – dopo un lungo periodo di interruzione dovuto al conflitto  – faciliterà i collegamenti con il 3° distretto di Bangui e consentirà tra l’altro di

raggiungere più facilmente il centro e i luoghi di culto, oltre a permettere il pattugliamento della zona da parte delle forze locali e internazionali.

Il progetto realizzato dal 2° reggimento genio di Trento è stato promosso – oltre che dalla missione militare dell’Unione Europea – anche dall’Ambasciata francese nella Repubblica Centrafricana, nel quadro di una serie di iniziative di riconciliazione inter-confessionale.

All’inaugurazione della strada hanno partecipato il generale Jean-Marc Bacquet – comandante di EUFOR RCA a Bangui – l’Ambasciatore Charles Malinas e i rappresentanti del 3° e del 5° distretto della capitale, rispettivamente a prevalenza musulmana e cristiana.

Nelle prossime settimane i genieri alpini della brigata Julia completeranno la costruzione di un ponte militare di 24 metri che collegherà tre quartieri di Bangui. Il progetto sarà realizzato grazie a un’importante partnership europea: la Repubblica Ceca ha fornito la struttura modulare di fabbricazione polacca, la Svezia ha curato il trasporto mentre la Germania esercita insieme a un team di Praga la supervisione tecnica dei lavori affidati ai militari italiani.

L’Occidente e i sui confini sensibili

Ottobre 2014, i notiziari albanesi danno risalto a una notizia in particolare: 76 cittadini siriani sono stati fermati in territorio albanese, al confine con la Grecia. Provati dalla traversata notturna dei monti che separano i due paesi, chiariscono di provenire “dalla guerra in Siria” e chiedono asilo politico allo Stato albanese. Erano stati avvistati mentre camminavano in colonna e, una volta fermati, hanno chiarito la loro provenienza senza indugi. Stessa sorte, ma con delle zone d’ombra fitte abbastanza da far sollevare un groviglio di ipotesi è stata riservata a 24 cittadini siriani, fermati mentre attraversavano il paese a bordo di mezzi a pagamento. Erano diretti in Montenegro e da lì, non è dato sapere.

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Del primo gruppo, intervistato dalla tv albanese Top Channel, ne parla Ahmed, un profugo palestinese, che dal campo profughi in Siria è dovuto scappare di nuovo con moglie e figli. “ Abbiamo camminato per circa un mese. Dalla Turchia, alla Grecia e infine qui in Albania”, spiega, “ camminavamo perché non avevamo scelta. Non abbiamo denaro e non possiamo pagare nessuno che ci aiuti”. Non hanno progetti o paesi di riferimento che vorrebbero raggiungere, vorrebbero soltanto mettersi in sicurezza e assicurare le famiglie da guerra e miseria.

A dicembre 2014, i media albanesi parlano di cittadini siriani, richiedenti asilo, scappati dai centri di permanenza. Voci non ufficiali parlano di condizioni difficili a cui erano costretti, ma le autorità negano ogni noncuranza o mancanza di adeguate condizioni di vita all’interno dei centri.

Alla stregua delle stragi di Parigi che stanno costringendo l’intelligence dei paesi europei a dichiarare allerta n.10 in Francia, in Italia n.7, i quesiti si moltiplicano.

Ormai è abbastanza chiaro che gran parte degli autori e ideatori degli attacchi terroristici in Occidente hanno potuto viaggiare in modalità A/R per prendere contatti, indottrinarsi, addestrasi alla guerra e fare rientro in Europa per portare a termine le stragi ideate. E’ notizia di oggi che è stato scovato in Grecia un esponente dell’ISIS che coordinava il reclutamento di aspiranti terroristi in Europa, pronti a replicare il terrore dei primi giorni sanguinosi di questo mese di inizio anno. Tal Abdelamid Abaoud, o meglio conosciuto come Abu Soussi, cittadino belga (!), originario del quartiere Molenbeek a Bruxelles.

Dunque, la mappa pare consolidata. V’è una rete di confini sensibili che rendono friabile l’entrata nei grandi paesi europei. Dalla Siria, in Turchia, in Grecia, Albania, Montenegro o Kossovo, via mare verso l’Italia (anche se dimostrato fin troppo bene dai fatti che l’allerta profughi nelle coste siciliane è molto inferiore ai movimenti migratori via terra) o altrimenti verso Germania, Francia o Belgio.

Oltre a un mero fattore geografico favorevole agli scambi e per questo conteso nei secoli, le ragioni della traversata “agevolata” dei profughi, uomini, donne e bambini, ma con la alta probabilità di militanti di Isis o Al Qaeda al loro interno, vanno ricondotte anche alla  malagestione dei paesi di confine da parte delle grandi potenze.

Con uno sguardo al passato, nella guerra di Bosnia, 1992-1995, USA, Arabia Saudita, Turchia e Unione Europea si schierarono con i mussulmani bosniaci nel conflitto contro i serbi. In palio c’erano l’allargamento a est della Nato e il controllo di un’area geografica strategicamente utile per il passaggio degli oleodotti che portano gas e petrolio dall’Asia Centrale all’Europa, senza passare per l’Ucraina, fino a ieri legata alla Russia. Tra i mussulmani sostenuti dall’Occidente e dai suoi alleati, militavano anche migliaia mujaheddin provenienti dall’Asia e dall’Africa Settentrionale, che porteranno il radicalismo islamico nei Balcani, prima in Bosnia e in seguito  anche in Kossovo.  Il 3% della popolazione bosniaca oggi si dichiara wahabita e varie operazioni di antiterrorismo hanno portato a centinai di arresti in Bosnia e Kossovo. L’Al Qaeda spagnola (responsabile degli attentati di Madrid) era composta di mujaheddin addestrati nei campi presso Zenica.

La medesima riflessione si estende alla posizione dei paesi del Caucaso: dall’Afghanistan, dove il ritiro delle forze internazionali non ha manifestamente contribuito alla stabilità dell’area o semplicemente a limitare il numero di vittime civili di guerra, affatto limitato; alla Cecenia e i suoi trascorsi di sangue, nonché Daghestan, Ossezia Settentrionale e così via.

Solo apparentemente in secondo piano pare sia collocato il conflitto in Libia, paese in balia della totale incontrollabilità e della guerra interna tra islamisti radicali. Dall’attacco di USA, Francia e Gran Bretagna nell’estate del 2011 con conseguente morte di Gheddafi, la situazione va irrimediabilmente peggiorando. Se non ne sentiamo parlare o non ne leggiamo, non significa che non esiste.

Quando ci chiediamo chi sono, da dove vengono, chi li finanzia, domanda, in verità spesso omessa dai media mainstream, ma anche evitata con acrobazie lessicali magistrali dalla politica, chiediamoci anche perché vengono in Occidente; perché da qui partono, fanno propria quella guerra e tornano per punirci? Perché continuiamo a destabilizzare tutto intorno a noi? Le domande non sono mai indiscrete, le risposte a volte lo sono (cit.), ma non facciamoci crollare i diritti addosso, non scontiamoli a beni ereditati con beneficio d’inventario.

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Siria: liberate Greta Ramelli e Vanessa Marzullo

EUROPA/Medio oriente – Africa di

“Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere, torneranno presto in Italia”. Questo il tweet di Palazzo Chigi che, poco dopo le ore 18 del 15 gennaio, ha annunciato la liberazione delle due volontarie italiane rapite in Siria dal gruppo Jabhat al Nusra il 31 luglio 2014. Secondo indiscrezioni non ancora confermate, il Governo italiano avrebbe pagato un riscatto di 12 milioni di dollari. Le donne partiranno alla volta della Turchia il 16 gennaio.

Il silenzio post sequestro, le indiscrezioni rimbalzate circa la loro sorte durante l’autunno e il videomessaggio pubblicato su YouTube il 31 dicembre 2014 avevano fatto presagire il peggio per le due ragazze, andate in Siria sotto l’insegna della Ong ‘Horryaty” per aiutare la popolazione siriana. Il vicepresidente del Copasir Giuseppe Esposito (Ncd-Udc) ha parlato di “vittoria della nostra intelligence”, mentre la Camera dei Deputati, riunita in seduta, ha applaudito alla notizia della liberazione. Reazione di segno opposto, invece, da parte di account di persone appartenenti all’Isis che si sono scagliati contro al Nusra rea, a loro parere, di avere rilasciato gli ostaggi.

Giacomo Pratali

 

[youtube]http://youtu.be/N-6DLFYxz5w[/youtube]

 

Parlamento Europeo: “Sì al rimpatrio dei due marò”

BreakingNews/EUROPA di

Con una larghissima maggioranza, il Parlamento Europeo ha approvato, il 15 gennaio 2014, la risoluzione sul rimpatrio e il cambio di giurisdizione per i marò, detenuti in India da tre anni: “Si auspica – si legge nel documento finale – che la competenza giurisdizionale sia attrbiuta alle autorità italiane e/o ad un arbitraggio internazionale”. L’organo legislativo di Strasburgo ha, tuttavia, ribadito di “preoccupazione per la detenzione senza capi d’accusa”.

Un cambio di passo importante a livello internazionale, forse un po’ tardivo, visto che la controversia sui fucilieri di Marina era stata portata all’attenzione dell’Unione Europea già nel 2013 dal ministro degli Esteri Emma Bonino. Un cambio di passo che, però, segna un probabile cambiamento nei rapporti tra i governi di Roma e New Delhi per la risoluzione della controversia.

E, in questo senso, un importante segnale di un attivo dialogo sotto banco tra le due amministrazione è senz’altro la decisione presa dalla Corte Suprema indiana di prolungare di tre mesi, per motivi di salute, la permanenza in Italia di Massimiliano La Torre, colpito da ischemia a fine agosto e operato per una malformazione cardiaca a Milano il 5 gennaio 2014. Un ammorbidimento della linea dura finora tenuta dall’India che potrebbe andare nella direzione del rimpatrio dell’altro fuciliere sotto processo, Salvatore Girone.

Giacomo Pratali

Bozoum, il villaggio dove i cristiani aiutano i fratelli musulmani

Medio oriente – Africa di

In quell’angolo del continente africano dal 1960 non c’è stata pace duratura, gli scontri etnici hanno lasciato ferite insanabili nella società e nello spirito della popolazione.

Padre Aurelio gestisce la missione cattolica di Bozoum dal 1992 e ha visto crescere al comunità cristiana  giorno dopo giorno tra le mille avversità della guerriglia.

Sono riuscito a mettermi in contatto con lui non appena rientrato alla missione dal suo ultimo viaggio in Europa.

Padre Aurelio, da quanto tempo si dedica alla missione di BOZOUM?

Bozoum è il primo amore… Sono arrivato qui la prima volta nel 1982, subito dopo la maturità. Ero già  frate, ed ho vissuto qui un anno molto intenso (niente telefono, niente radio…) ed è lì che mi sono innamorato dell’Africa e del centrafrica in particolare.

Sono tornato in Centrafrica dopo aver finito gli studi, nel 1992. E da allora sono qui: prima a Bouar, e dal 2003 (appena dopo l’ennesima guerra) qui a Bozoum, piccola città a circa 400 km a Nord di Bangui, la capitale.

Nel 2003 si trattava di ricostruire la Missione e la città, dopo i saccheggi causati dalle milizie ciadiane di Bozize e poi da quelle congolesi di Pierre Bemba. Ricostruzione di strutture, riapertura delle scuole e, soprattutto e più importante, ricostruzione della voglia di vivere e ricominciare.

In questi anni siamo sempre vissuti in situazioni piuttosto difficili: tra il 2003 e il 2008 c’erano bande di banditi, e poi bande di ribelli. E nel 2012 l’inizio della guerra scatenata dai ribelli (in parte ciadiani e sudanesi) della Seleka. E a fine 2013 la reazione degli antibalaka.

Tra queste difficoltà, c’è sempre stata la volontà di aiutare la gente a non aver paura, a credere nella propria dignità (più forte e più potente delle armi) e a cercare sempre di dialogare perchè ci fosse una consapevolezza delle proprie responsabilità, e un’apertura verso una risoluzione pacifica dei conflitti.

Proprio in questi giorni, il 13 gennaio, abbiamo ricordato l’anniversario della partenza della Seleka da Bozoum: una delle prime città ad essere liberate, e questo proprio grazie al dialogo (anche se non sono mancati momenti di paura…).

Quali sono le attività più importanti che riuscite a realizzare alla missione?

La prima è la Parrocchia: Bozoum è una missione nata nel 1927, una delle prime fuori da Bangui. C’è una comunità cristiana molto giovane. Ogni anno ci sono circa un centinaio di battesimi di giovani e adulti. Ci sono poi 35 villaggi che seguiamo regolarmente.

Le attività portate avanti dalla missione comprendono la scolarizzazione con una struttura che ospita i bambini dall’asilo al liceo, sono circa 1.200 gli alunni dei vari gradi che frequentano le aule della missione.

Oltre agli studi la missione pensa anche al sostegno agli orfani che si può ben immaginare molti vista l’impossibilità di una pacificazione del paese che ancora oggi subisce attacchi e violenze dalle varie fazioni.

Nell’ambito dell’agricoltura – continua Padre Aurelio –  seguiamo circa 400 cooperative agricole, per oltre 20 mila membri, con formazioni tecniche sulle coltivazioni ma anche sulla gestione economica del lavoro agricolo. Ogni anno organizziamo una Fiera Agricola (quest’anno sarà il 31 gennaio e il 1° febbraio 2015), che ha come obiettivi l’esposizione dei prodotti e la vendita (nel 2013, il giro d’affari era stato di quasi 90 mila euro, in un paese con un reddito annuo di circa 400 dollari pro capite…).

DSCN2840Molto importante anche l’attenzione che Padre Aurelio con la missione ha verso temi legati alla Giustizia e la pace un tema molto interessante e concreto. Si passa dalla lotta contro la corruzione, la stregoneria, il malgoverno – ci racconta il missionario – per poi volare alto con il lavoro di mediazione e di dialogo con ribelli di vari colori, e le comunità musulmana e cristiana…

Un tema molto interessante che viene sviluppato attraverso l’opera missionaria è la Microfinanza, ovvero la cessione di prestiti di piccoli importi che servono a chi non ha garanzie a poter avviare una attività. Da qualche anno – racconta Padre Aurelio –  abbiamo aperto una Cassa di risparmio, che attualmente ha 4 sportelli, che serve a mettere in sicurezza il risparmio, e ad erogare piccoli crediti

Sono tante le difficoltà che si incontrano in questi territori come lo stesso missionario testimonia “Si passa dalla temperatura (adesso, stagione secca, si varia tra i 10° di notte, e i 38 di giorno), alle piogge (per 8 mesi circa), alla mancanza di una rete elettrica (ogni sera accendiamo un gruppo elettrogeno per circa 3 ore…), alla salute (malaria spesso, e più volte a rischio vita… e nessun ospedale degno di questo nome a meno di 90 km)…Difficoltà anche dalla situazione fragile del paese: non saprei dire, in 23 anni, quanti colpi di stato e quante guerre ci sono state..”

A queste difficolta ambientali si sommano quelle della violenza e della guerriglia ,anche se tutti cercano di trovare e spingere le parti ad una tregua .

A Bozoum a situazione è abbastanza tranquilla, grazie al lavoro di mediazione compiuto da dicembre 2013. I fatti di violenza sono diminuiti, le scuole sono aperte, e si cerca di ridare speranza  a chi ha perso tutto – racconta Padre Aurelio – Siamo riusciti a riaprire tutte le scuole. A Bozoum, caso unico, le scuole hanno funzionato sia nel 2013-14 che in quest’anno, aprendo a settembre (mentre nel resto del paese hanno iniziato i corsi alla fine di novembre, e neanche dappertutto): 70 scuole aperte, e oltre 15 mila bambini a scuola nelle elementari. Ma parte del paese è sotto dominio della Seleka, e comunque l’amministrazione è ancora assente.

Ci sono pericoli per la comunità cristiana?

La comunità cristiana in un primo tempo, con l’arrivo della Seleka nel marzo 2013, si è ritrovata spesso vittima di saccheggi, violenze, torture. Poi, con l’arrivo degli antibalaka e la reazione contro la Seleka, purtroppo molti musulmani sono stati minacciati ed hanno preferito scappare verso il Ciad e verso il Cameroun. Adesso si assiste a un timido rientro. Proprio oggi ho iscritto un bambino musulmano nella nostra scuola, rientrato dal Ciad.

Di cosa siete maggiormente preoccupati?

DSC03454Siamo un po’ preoccupati, perchè la Nigeria è vicina, e anche Boko Haram. E temiamo che qualcuno approfitti della voglia di vendicarsi di alcuni musulmani per creare problemi.

Ma ci sono anche aspetti positivi: a novembre ho chiesto ai cristiani di fare una raccolta di cibo e di soldi in favore dei 200 musulmani rimasti a Bozoum (per la maggior parte donne e bambini). E la risposta è stata impressionante: molto cibo, e anche molti soldi (più del triplo di quello che normalmente raccogliamo). Sono stato commosso da questo: pochi mesi fa molti hanno perso beni e anche familiari a causa dei musulmani, ed ora sono stati capaci (e anche contenti) di fare un gesto così generoso…

La missione EURFOR è di aiuto in questo contesto?

EUFOR si limita alla capitale, ed abbiamo contatti, ma non ho molte ripercussioni. Il contingente italiano si sta facendo onore con alcuni lavori di ingegneria (ponti ecc).

Sarà utile la presenza dell’ONU?

Per ora abbiamo visto un dispiegamento massiccio di mezzi, ma non si vedono grandi risultati. Basta dire che l’unica strada che collega la capitale al Cameroun (e quindi al porto…) fino a qualche settimana fa era infestata da una decina di barriere degli antibalaka, che fermano le macchine e rapinano i viaggiatori, ONG comprese.

Inoltre parte di caschi blu provengono dal Bangladesh e altri paesi anglofoni… e non è facile intervenire e lavorare con grosse differenze di comprensione.

Speriamo che possano accompagnare il Paese, con misure forti che cambino in profondita il modo di governare e l’amministrazione. Per ora non si vede molto lavoro in questo senso…

Quali sono le necessità più impellenti per la vostra missione?

Sono molte!. Salute, orfani, agricultura, microcredito, case… Ma sono più preoccupato per altre necessità, più urgenti: una crisi come questa non nasce dal nulla, ma è il frutto di decenni di errori. Cito un solo esempio: il Governo Centrafricano, dal 1960, non ha mai costruito una scuola con i suoi soldi…

Sono convinto che se non facciamo un lavoro grosso di riflessione, che aiuti la gente a conoscere e cambiare, non ci sarà nessun cambiamento serio, e fra qualche anno saremo di nuovo in guerra…

 

Alessandro Conte

 

Nigeria: l’avanzata di Boko Haram a nord e il rischio di crisi economica a sud ad un mese dalle Presidenziali

Medio oriente – Africa di

2000 morti ad inizio gennaio. Oltre 200 ragazze rapite. Numerose bambine fatte saltare in aria all’interno dei mercati cittadini. Sono i numeri impietosi della violenza di Boko Haram nel nord della Nigeria, dove è stato proclamato il Califfato sulla stessa scia di quanto sta accadendo in Iraq e Siria. Intanto, a causa del drastico calo del greggio, il sud, ricco e sviluppato, rischia di trascinare il Paese in una crisi senza precedenti ad un mese dalle Presidenziali di febbraio.

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Gli attacchi di Parigi e la mancata documentazione di quello che è accaduto hanno oscurato la strage perpetrata dal gruppo jihadista di Boko Haram lo scorso 3 gennaio nella città di Baga e nei villaggi circostanti. È stata la Bbc a dare per prima la notizia. Ma ancora è incerto il numero dei morti, anche se le rare testimonianze parlano di circa 2000 vittime, come incerta è la sorte delle oltre 200 liceali rapite lo scorso aprile.

Il Califfato proclamato nella primavera del 2014 e la sintonia con l’Isis di al Baghdadi spiegano il quadro disperato di una regione, quella del Borno (nord-est della Nigeria), dove, tra il 2014 e 2015, si sono verificati numerosi suicidi involontari di bambine all’interno dei mercati della zona. Una situazione geopolitica fragile dunque, resa ancora più precaria dal coinvolgimento di altri stati confinanti come Camerun, Niger e Ciad, tra cui una vera collaborazione sul campo stenta a decollare.

La Multinational Joint Task Force (Mnjtf), creata nel 1998 da Nigeria, Niger e Ciad per colpire il crimine transfrontaliero, non ha funzionato proprio in occasione dell’attacco di Boko Haram a Baga ad inizio gennaio. I guerriglieri islamisti, infatti, avevano l’intento di colpire una base di questa organizzazione multinazionale. Base che, però, era stata abbandonata dai contingenti di Niger e Ciad lo scorso novembre e presidiata solo dall’esercito nigeriano, arresosi prima che l’offensiva jihadista iniziasse.

I vari tentativi per la creazione di un contingente panafricano contro il terrorismo non sono ancora divenuti realtà. La Commissione del bacino del Lago Ciad, ad esempio, composta da Libia, Centrafrica, Ciad, Nigeria e Niger, presieduta più volte dal presidente francese Hollande, aveva messo nero su bianco una forza militare congiunta a marzo 2014. Tale forza sarebbe dovuta nascere otto mesi dopo ma, per mancanza di fondi e aiuti umanitari, la decisione è rimasta solo su carta.

Questa situazione d’instabilità cronica a livello continentale sta man mano trasferendosi a livello nazionale. Analizzando la composizione sociale ed economica della Nigeria, infatti, il Paese è diviso, dal punto di vista storico, in due parti: il nord musulmano e meno sviluppato; il sud cristiano, ricco, dove sono concentrate le multinazionali occidentali del gas e del petrolio.

Il calo del prezzo del petrolio in corso potrebbe indurre le grandi industrie occidentali a vendere le loro concessioni di petrolio e gas e rendere pertanto instabile economicamente un’area, quella che va dalla capitale Lagos al fiume Niger, tra le più fiorenti dell’Africa. Una situazione che potrebbe creare un mix letale con l’instabilità dovuta all’espansione del terrorismo nelle regioni settentrionali e che potrebbe degenerare dopo le Elezioni Presidenziali del 14 febbraio 2015, a cui si ricandiderà il capo dello Stato uscente Goodluck Jonathan (cristiano del Sud) contro Muhammadu Buhari (musulmano del Nord). Proprio l’avvicinarsi di questa data, secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, sta inducendo Boko Haram ad aumentare il numero degli attacchi terroristi per destabilizzare e influenzare queste imminenti votazioni.

Giacomo Pratali

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La sicurezza americana nella Strategia 2025, focus sul clima.

AMERICHE/Difesa di

La problematica della sicurezza legata ai cambiamenti climatici torna ad essere affrontata dagli strateghi americani come una priorità politica oltre che militare e di difesa civile. All’interno della “Strategia 2025” i cambiamenti climatici sono individuati come minaccia alla sicurezza nazionale: una minaccia che gravita attorno a tutta la sicurezza interna ed in grado di influenzare pesantemente la sicurezza esterna degli Stati Uniti.

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Il tema non è nuovo alla sensibilità degli analisti militari che sottolineano ancora una volta, come riportato dal C&S : “OASA (IE&E) Strategy 2025 is important, as it serves to guide and shape the Army’s future and current actions related to Installations, Energy and Environment, as well as provide the strategic roadmap to achieve its vision.”. La visione dunque è a 360 gradi. Coinvolge appieno la sfera militare e di conseguenza preserva quella civile, rendendo chiaro come nella strategia per la difesa la sicurezza climatica sia parte fondamentale per una consapevole guida politica. Gli obiettivi a lungo termine presenti nella strategia hanno lo scopo di permettere la realizzazione nel breve periodo di piani e progetti su scala regionale e nazionale, garantendo al comparto della difesa una più accurata valutazione degli scenari di rischio per le operazioni militari.

All’interno di tale prospettiva al cambiamento climatico vengono riservate particolari attenzioni. La resilienza innanzitutto: dato il numero di eventi climatici estremi che ogni anno vengono registrati negli Stati Uniti e basandosi su statistiche che prevedono che tali fenomeni con molta probabilità saranno sempre maggiori, migliorare la resistenza all’impatto di infrastrutture e sistemi è un punto chiave, insieme alla capacità di ripresa industriale e sociale del tessuto locale e nazionale.

L’adattamento poi è declinato in due concezioni: a livello microscopico l’adattamento a condizioni sempre più imprevedibili resta una priorità nello lo sviluppo di strategie regionali e nazionali nei settori idrico, energetico, per ciò che riguarda la sicurezza del territorio predisponendo pratiche in grado di far fronte alle emergenze nell’immediato; il livello macroscopico invece rappresenta l’evoluzione della strategia nel tempo sulla base dell’individuazione di quei cambiamenti in grado di aumentare il rischio per le installazioni ed il personale militare e quindi integrare le analisi climatiche nella pianificazione di interventi armati piuttosto che nelle modifiche agli assetti sul suolo nazionale.

 

Tag: Strategia sicurezza americana

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Francesco Danzi
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