GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Tag archive

UE - page 4

Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Turchia: ingresso nella UE per controllare i rifugiati

Medio oriente – Africa/Varie di

Fino ad ora offrire ospitalità ai rifugiati che ne oltrepassano i confini è costato alla Turchia circa 7 miliardi di dollari. Questo dall’inizio del conflitto siriano. I flussi migratori, con l’inasprirsi delle violenze nella zona medio-orientale, sono enormemente aumentati negli ultimi mesi travolgendo di fatto l’Unione Europea.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
La Turchia svolge anche in questo un ruolo difficilmente sostituibile come interfaccia fra un Medio Oriente dilaniato da crisi e terrorismo ed una Europa che fatica a recepire l’arrivo di migliaia di profughi, fiaccati e spaventati, in fuga da realtà difficili e assurdamente violente. In questo quadro si inserisce l’accordo che avrebbe unito le volontà europea e turca nella gestione dei flussi migratori anche se entrambe ne smentiscono l’ufficialità.

L’unica voce che al contrario conferma l’avvenuto patto è quella della Commissione europea che considera ciò che gli altri definiscono “una dichiarazione di buona volontà”, un accordo di fatto. Le condizioni offerte alla Turchia riguardano aiuti finanziari, un allentamento delle restrizioni sui visti per i turchi e la riapertura della candidatura del paese all’entrata in Europa. In cambio, la Turchia dovrebbe aumentare i suoi sforzi per contenere i rifugiati all’interno dei suoi confini turchi controllando le frontiere, limitando i flussi di rifugiati vero la Ue, dando loro lavoro, e lottando contro i trafficanti.

I primi tentativi di entrare nell’orbita UE sono stati portati avanti da Ankara nel 2000. Le condizioni prospettate dalla Turchia, nonostante fossero migliori rispetto ad oggi per quanto riguarda democrazia e stabilità interna, non erano apparentemente ancora mature, per essere valutate concretamente. In questi anni, molte cose sono cambiate.

La Turchia, con l’arrivo della minaccia islamica rappresentata da Isis, ha assunto per la sua posizione sia geografica, sia politica in quanto paese inserito in ambito Nato, un ruolo importante e, per alcuni versi, determinante. Erdogan sta facendo di tutto per poter sfruttare al meglio la situazione, colpendo i curdi, anzichè i terroristi Isis destinatari delle armi transitate dalle frontiere turche, senza ferire la sensibilità Nato offrendo, dopo lunghe trattative, l’autorizzazione di far partire i raid contro l’Isis dalla base aerea di Incirlik, nei pressi di Adana.

Ora, l’entrata nell’UE sembra essere una nuova merce di scambio oltre ovviamente ai 3 miliardi di dollari chiesti da Ankara per la gestione dei rifugiati. Il denaro in realtà sembra ancora essere in fase di negoziato sia per gli importi, sia per le modalità di versamento, probabilmente scaglionate su più anni. Al momento comunque, sembrano essere rimasti in sospeso tanto l’inserimento della Turchia nella lista dei ‘paesi sicuri’, quanto l’apertura di 6 capitoli del negoziato per l’adesione, sui quali grava il veto di Cipro e Grecia.
Monia Savioli

[/level-european-affairs]

UE, quote e hotspot: un via libera forzato

EUROPA/POLITICA di

I Paesi occidentali votano sì alla redistribuzione di 120mila rifugiati arrivati in Italia e Grecia, le quali dovranno rendere efficienti i centri d’identificazione entro novembre. Ostruzionismo degli Stati dell’Est. Via libera ai raid contro gli scafisti.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Via libera alla quota di 120mila rifugiati, alla creazione di hotspot entro novembre, ai raid contro gli scafisti. Tra il 22 e 24 settembre, durante la riunione straordinaria dei ministri degli Interni della Ue e il Consiglio Europeo, il pacchetto di proposte della Commissione Europea sull’immigrazione è stato accolto nelle sue linee guida. Come prevedibile e già manifestato in più occasioni nel corso di questo 2015, lo schieramento di Paesi dell’Est (“Visegrad”), composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia più la Romania, ha votato contro la ripartizione dei profughi.

Sulla distribuzione dei 120mila rifugiati giunti in Italia e Grecia, infatti, è stato necessario il ricorso alla maggioranza qualificata, data l’impossibilità di raggiungere l’unanimità. A loro volta, i due Stati del Mediterraneo si sono impegnati al rafforzamento dei centri d’identificazione, i quali dovrebbero essere pronti entro novembre, come deciso dal Consiglio Europeo.

L’obiettivo è snellire le procedure di rimpatrio per chi non detiene il diritto d’asilo e facilitare lo smistamento di tutti coloro che invece ne posseggono i requisiti. È una misura di valore storico poiché di fatto annulla la norma comunitaria del Trattato di Dublino che consente al rifugiato di potere risiedere solo presso lo Stato nel quale ha fatto domanda d’asilo.

Il Consiglio Europeo che ha poi detto sì ai raid contro gli scafisti provenienti dalla Libia. Tale operazione navale, attiva dal prossimo 7 ottobre, rientra nella seconda fase della EunavFor e prevede l’abbordaggio, la perquisizione e il sequestro delle imbarcazioni con a bordo migranti.

Piccolo passo in avanti anche nei rapporti con gli enti internazionali e i Paesi vicini. La Ue ha infatti predisposto un piano di aiuti del valore di 1 miliardo di euro a favore delle agenzie Onu che aiutano i profughi. Mentre, sul fronte del trust fund, l’Europa ha chiesto un maggiore sforzo agli Stati membri, visto che i fondi per i Paesi esposti alle crisi, Siria e Iraq in primis, non sono sufficienti.

Le decisioni prese in questi due vertici sono state salutate positivamente da una parte d’Europa. Dai vertice dell’Unione Europea, passando per Italia e Francia, fino ad arrivare alla Germania, con la cancelliera Angela Merkel che ha parlato di “passo in avanti decisivo”.

Dichiarazioni a cui ha fatto seguito la replica, di certo non conciliante, del premier ungherese Orban, che ha parlato di “moralismo imperialista”. E sono proprio queste parole che evidenziano al meglio il clima che si respira tra i leader dell’Est Europa. A partire dal primo ministro slovacco Robert Fico il quale, in rappresentanza del gruppo Visegrad, ha annunciato di un’azione legale contro la norma sulla ripartizione dei rifugiati.

Ma ciò che evidenzia ancora di più la spaccatura è il comportamento dell’Ungheria. Dopo le leggi antiimmigrazione e la costruzione del muro al confine con la Serbia, il governo ha annunciato di volere innalzare un’ulteriore barriera al confine con la Croazia. Notizia che, aggiunta alle migliaia di profughi arrivati in Serbia, stanno riportando a galla le antiche ruggini tra Belgrado e Zagabria.

Sulle politiche immigratorie, così come già dimostrato sul versante economico, l’Europa viaggia a doppia velocità. Nella fattispecie, la spaccatura tra Ovest ed Est affonda le sue radici nella storia moderna e contemporanea europea. Più che il Comunismo, gli Stati orientali, come evidenziato da più fonti internazionali, sono contrari all’accoglienza perché la loro indipendenza reale è stata raggiunta recentemente, con il ricordo ancora presente del sangue versato per la propria patria. Questo divario tra le due aree dell’Unione Europea sottolinea quanto l’unità politica continentale sia ancora molto distante.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

La Difesa italiana nel contesto globale

Difesa/EUROPA/POLITICA di

Intensificare lo sforzo della Difesa italiana per mantenere stabilità nelle aree di crisi, facendo i conti con i nuovi tagli imposti al settore e massimizzando i benefit delle cooperazioni internazionali.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
E’ questo il nuovo indirizzo della politica militare nazionale, inserita in un sistema di relazioni globali che da un lato garantiscono il supporto di sinergie operative e tecnologiche, dall’altro esigono risposte efficienti alle nuove sfide poste dal contesto geopolitico mondiale. Mentre l’America ci chiede formalmente di impegnarci ad arginare il problema dell’Ucraina e distendere i rapporti con la Russia, l’Europa ci affida un ruolo preponderante nella risoluzione della crisi mediterranea che la minaccia da vicino.

Ciò significa instaurare un dialogo “super partes” con i Paesi del medio oriente, rinsaldare i rapporti fondamentali con l’Egitto, appianare la questione libica, monitorare le rotte dei migranti e assumerci la responsabilità di stabilizzare l’intera area. Significa, soprattutto, acquisire una leadership che garantisca l’efficacia di strumenti collettivi quali l’Unione Europea e l’Alleanza atlantica per il rafforzamento della Politica Comune di Sicurezza e Difesa, promuovere la condivisione delle risorse tra i Paesi membri, anche in termini di misure fiscali che favoriscano incentivi al comparto militare.

Come da direttive del Libro Bianco presentato dal Ministro Pinotti, l’Italia punta a preferire le partnership multilaterali a quelle bilaterali, in assoluta controtendenza rispetto al passato, allo scopo di valorizzare il legame transatlantico alla luce dell’intesa tra la dimensione europea della Difesa e la NATO. Individuate quindi nelle regioni euro-atlantica e mediterranea le aree d’intervento prioritarie su cui concentrare gli sforzi, la presenza dei nostri militari impegnati in operazioni marginali è stata considerevolmente ridotta.

Delle oltre trenta missioni sparse in tutti i continenti, dunque, ne restano attive ventiquattro, in ambito ONU, NATO e UE. Tra queste, strategiche le missioni UNIFIL e MIBIL in Libano, volte a supportare la popolazione e le condizioni socio-economiche del Paese a seguito del conflitto siriano; la Risolute Support in Afghanistan, successiva ad ISAF e incentrata sull’addestramento delle milizie afghane; la KFOR in Kosovo, che garantisce il supporto alle organizzazioni umanitarie per l’assistenza ai profughi; le missioni European Union Training Mission in Mali, contro i gruppi terroristici locali, e in Somalia, dove l’Italia partecipa alla strategia europea per la sicurezza nel Corno d’Africa; l’operazione Prima Parthica in Iraq, di contrasto all’Isis, e infine la MIL in Libia, successiva alla guerra civile scaturita dalla caduta di Gheddafi.
Viviana Passalacqua
[/level-european-affairs]

Libia: la comunità internazionale aspetta Tripoli

Settimana decisiva per la composizione del governo di unità nazionale. Il ministro degli Esteri Gentiloni e il mediatore Onu Leon sono in pressing sul premier Abusahmin. All’orizzonte si profila un possibile intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Isis però diffonde un video in cui minaccia l’esecutivo di Tobruk.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
“Questo è un avvertimento ad Haftar e ai suoi compagni, gli atei che si riuniscono nel Parlamento, noi non saremo tolleranti, avremo piacere a sgozzarvi”. Queste le parole pronunciate dal jihadista Abu Yahya Al-Tunsi in un video diffuso in rete dall’Isis libico e dal titolo “Messaggio di Sirte”. Le minacce dirette al governo di Tobruk arrivano nella settimana decisiva per la formazione del governo di unità nazionale, sul quale deve sciogliere le riserve l’esecutivo di Tripoli.

Proprio non più tardi del 1° agosto, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il mediatore Onu Bernardino Leon hanno incontrato il premier di Tripoli Nuri Abusahmin. Nell’incontro, avvenuto in Algeria, si è cercato di dare un seguito all’accordo di Shikat di due settimane fa in cui tutte le fazioni, a parte il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, hanno messo nero su bianco la firma per l’istituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante le molte difficoltà nei negoziati in questi ultimi mesi, il fatto che Tripoli abbia continuato a negoziare, può far presagire che l’accordo non sia poi così distante.

C’è tuttavia urgenza da parte delle istituzioni internazionali. Un’istituzione governativa stabile, infatti, darebbe il via libera ad una possibile missione militare, ormai chiesta a gran voce dalla comunità internazionale, sotto l’egida Onu. I Paesi in campo sarebbero l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano La Repubblica, fornirebbero solo l’appoggio logistico all’operazione.

Intanto, il 3 agosto un altro video è stato diffuso in rete. Il filmato documenta le torture subite da Saadi Gheddafi, secondogenito del Rais, nel carcere di Tripoli. Immagini quanto mai eloquenti e quanto mai dure che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura Generale di Tripoli.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Ue, migranti: retromarcia sulle quote e l’Italia tace

EUROPA di

Scende da 40mila a 32mila il numero dei migranti, sbarcati quest’anno in Italia e Grecia, da ricollocare. Il provvedimento sarà in vigore da ottobre. I duri scontri del vertice sull’immigrazione del 26 giugno scorso lasciano lo spazio ad una tacita rassegnazione di Roma.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Passo indietro sul fronte delle quote di migranti da redistribuire tra i Paesi dell’Unione Europea. Nella riunione tra i 28 membri di Bruxelles del 20 luglio, è stato deciso che il numero di migranti totali da accogliere saranno 32mila e non 40mila come previsto dalla proposta della Commissione Europea del 26 giugno. A questi, si devono aggiungere le 20mila persone, siriani ed eritrei, provenienti dai campi profughi.

La dura trattativa della nottata tra il 25 e 26 giugno appare un lontano ricordo. La presa di posizione del presidente del Consiglio Ue Tusk contrapposta alla reprimenda del presidente della Commissione Juncker al termine dei negoziati di un mese fa assomigliano ad un teatrino. Così come le tanto attese quote, proclamate all’epoca come “obbligatorie”, altro non sono che “volontarie”.

Mancano dunque circa 20mila migranti da ricollocare rispetto a quanto prefigurato a giugno. Intanto, da ottobre, circa 32mila persone giunte in Italia e Grecia saranno ricollocate in altri Paesi. Oltre agli annunciati no delle sempre più antieuropeiste Austria e Ungheria, stupisce il sì parziale dell’Irlanda, esentata secondo i trattati europei assieme a Gran Bretagna e Danimarca, all’accoglienza di 600 persone. In vetta, invece, troviamo la Germania con circa 10mila, la Francia con quasi 7000, l’Olanda con circa 2000.

Sul fronte ricollocamento dei profughi, le cifre appaiono diverse perché diverso, in senso positivo, è stato l’atteggiamento degli Stati membri Ue. Oltre ad Italia, Germania e Francia, spiccano a sorpresa la Gran Bretagna, l’Austria e la Spagna, oltre anche alla presenza di Paesi non-Ue come Svizzera e Norvegia.

A parte la suddivisione dei 20mila profughi, il resto del quadro resta opaco. Oltre all’accordo al ribasso, i 28 Paesi membri non si sono pronunciati sulle quote previste per il 2016, delle quali si riparlerà a fine 2015. L’accoglienza tiepida, ma “positiva dell’Italia”, secondo le parole del ministro degli Interni Alfano, stonano con i toni duri espressi nell’incontro di un mese fa dal primo ministro Renzi: “Se non siete d’accordo sulla distribuzione dei 40 mila migranti, non siete degni di chiamarvi Europa. Se volete la volontarietà, tenetevela”. A cosa è dovuto questo cambio di atteggiamento da parte di Roma?
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Accordo nucleare Iran: i dubbi e i sospiri di sollievo

A Vienna, Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Cina, Russia firmano lo storico accordo con l’Iran. L’utilizzo per scopi civili e non militari dell’uranio arricchito da parte di Teheran fa da contraltare alla fine delle sanzioni e dell’embargo. Le reazioni di Israele e dell’Arabia Saudita, nonché le critiche provenienti dalla stampa statunitense, lasciano perplessità sui futuri sviluppi geopolitici nel Medio Oriente.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Dopo 16 giorni di negoziati, ieri a Vienna è stata raggiunta la storica intesa tra Usa, Ue, Gran Bretagna Russia e Cina, e l’Iran sul programma nucleare. Un accordo di portata storica, come definito dalle parti in causa. Un’intesa che da una parte punta alla riduzione della produzione di uranio di Teheran per i prossimi 10 anni. Dall’altra, pone fine alle sanzioni e all’embargo per quanto riguarda il commercio. Sebbene ponga, in modo formale, fine a decenni di conflitto con l’Occidente, il cui apice c’è stato durante l’amministrazione di George W. Bush, le reazioni negative da parte di Israele e le contraddizioni con le alleanze di Washington con partner del Medio Oriente, Arabia Saudita su tutti, suonano come un campanello d’allarme per la comunità internazionale.

Prendendo spunto dall’intesa dello scorso 3 aprile, l’accordo messo nero su bianco dal ‘5+1’ consta di quattro punti fondamentale. Il taglio del 98% delle scorte di uranio arricchito. L’utilizzo delle centrifughe ridotto a due terzi. La possibilità, non automatica, degli ispettori di Alea di effettuare ispezioni presso gli impianti nucleari iraniani, dietro il consenso del tribunale arbitrario formato dagli stessi Paesi che hanno sottoscritto l’accordo. La graduale riduzione dell’embargo sulle armi entro i prossimi cinque anni. La risoluzione Onu in materia è prevista la prossima settimana, quando si riunirà il Consiglio di Sicurezza.

Punti che mirano al nocciolo della disputa tra Usa e Iran: l’utilizzo dell’uranio arricchito per usi civili e non militari. Ma che hanno anche l’intento di creare un corridoio diplomatico privilegiato con il più grande Stato sciita del Medio Oriente, capace di sostenere il regime di Assad in Siria o gli Hezbollah in Libano e determinante nella riconquista dei territori nord-occidentali iracheni, finiti sotto l’ombra del Califfato.

In più, questa intesa consente di aprire un vaso di pandora enorme dal punto di vista del commercio. Basti pensare al petrolio. L’Iran è il quarto produttore al mondo e, con la fine dell’embargo, è pronto ad aumentare la produzione di greggio, con una conseguente diminuzione del prezzo al barile sui mercati internazionali. Inoltre, fino agli anni Settanta, l’Europa era il primo mercato estero per Teheran.

Sono questi aspetti geopolitici ed economici a spingere le dichiarazioni entusiaste dei protagonisti dell’accordo di Vienna. Il presidente Usa Obama ha affermato che “grazie all’accordo, la comunità internazionale potrà verificare che l’Iran non sviluppi l’arma atomica. È un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica”. E si è detto pronto a porre il veto, presso il Congresso, nel caso in cui i repubblicani “si opponessero all’attuazione della legge”, ha ammonito il capo della Casa Bianca.

“Penso che questo sia un momento storico: l’accordo non è perfetto ma è il migliore che potevamo raggiungere”, ha affermato il ministro degli Esteri iraniano Zarif. Mentre il presidente Rohani ha incalzato dicendo che “nessuno può dire che l’Iran si è arreso. L’accordo è una vittoria legale, tecnica e politica per l’Iran, che non sarà più considerato una minaccia mondiale”.

Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, parte attiva dei negoziati, parla di “nuovo capitolo nelle relazioni internazionali”, mentre per il presidente russo Putin “il mondo tira un grosso sospiro di sollievo”.

Il coro, però, non è stato unanime presso tutta la comunità internazionale. Come prevedibile, la reazione di Israele non si è fatta attendere: “ È un errore di portata storica – ha tuonato il presidente Netanyahu al telefono con Obama-. Questo accordo minaccia la sicurezza di Israele e il mondo intero. Quanto avete concordato con l’Iran gli consentirà di avere armi nucleari entro 10-15 anni se rispetteranno l’accordo. Altrimenti, anche in minor tempo”. Mentre un funzionario del governo dell’Arabia Saudita denuncia la possibilità che l’Iran possa “devastare la regione”.

Le contraddizioni in seno all’accordo, come la contemporanea alleanza degli Stati Uniti con la coalizione saudita nello Yemen contro gli Houtii (fazione sciita appoggiata da Teheran), portano dietro di sè una strategia di ben più ampio respiro. La chance data dagli Stati Uniti e i suoi alleati più che all’Iran è diretta alla società civile iraniana. L’apertura verso l’esterno e un’auspicabile e sempre più progressiva responsabilizzazione della classe politica dirigente, potrebbe portare al ritorno al dialogo e alla distensione tra gli sciiti e i sunniti del Medio Oriente. Questo nuovo equilibrio potrebbe essere un’arma efficace contro l’espansionismo dello Stato Islamico.

I critici sull’accordo non mancano, come detto. Negli Stati Uniti, aldilà del Partito Repubblicano, è stata parte della stampa stessa a sollevare ben più di un’ombra. Sul Wall Street Journal, ad esempio, l’editoriale di Bret Stephens tuona dicendo che “l’accordo fa acqua da tutte le parti” e che difficilmente la politica estera iraniana cambierà. Anzi, l’intesa di Vienna potrebbe rivelarsi un boomerang per gli Stati Uniti.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Immigrazione: 150mila sbarchi nel 2015

EUROPA di

In Italia sono arrivati 7000 migranti in più rispetto al 2014. In Grecia siamo arrivati a quasi 76mila. Il numero dei morti nel Mediterraneo è salito a 1900, nonostante Frontex sia riuscita ad arginare, in parte, l’emergenza. L’Oim certifica questa emergenza attraverso i numeri.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Gli oltre 700 migranti sbarcati sulle coste della Sicilia nell’ultimo weekend sono solo l’ultimo campanello d’allarme di una crisi che riguarda l’Italia e la Grecia. I dati diffusi dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), in collaborazione con il Ministero degli Interni italiano, certificano un tragico esodo in continua evoluzione e un numero di morti destinato a crescere nei prossimi mesi.

I numeri diffusi da Oim parlano chiaro, tuttavia l’organizzazione non governativa precisa che “L’arrivo di 150.000 migranti in Europa è sicuramente un dato significativo ma assolutamente non eccezionale, considerando che gli europei sono complessivamente più di 500 milioni. Secondo l’OIM, non bisogna considerare questo fenomeno come “un’invasione”, soprattutto se si prende in considerazione ciò che accade al di fuori dei confini dell’Unione Europea”.

Secondo il report, i migranti arrivati in Europa via mare nel 2015 sono stati oltre 150mila: 74mila in Italia (circa 7000 in più rispetto ad un anno) e quasi 76mila in Grecia (sei volte in più rispetto al 2014). Ma è il numero dei morti, 1900, ad essere più che raddoppiato rispetto al 2014. Cifra che è tuttavia diminuita da maggio 2015 in poi, grazie all’intervento sistematico di Frontex nel Canale di Sicilia. La provenienza dei migranti per l’Italia è: Eritrea (18,676), Nigeria (7,897), Somalia (6,334), Siria (4,271), Gambia (3,593) e Sudan (3,589).

Rispetto all’Italia, è il caso della Grecia a destare più scalpore. Perchè, se il bel Paese storicamente è abituato a ricevere un importante flusso migratorio, lo Stato ellenico vive questa notevole ondata migratoria come una novità e il contesto di crisi economica non facilita l’accoglienza dei migranti. Un aumento, soprattutto attinente ai profughi siriani ed iracheni, spiegabile con la maggiore praticabilità della tratta dalle coste della Turchia alle isole del Mar Egeo, piuttosto che la rotta che porti prima in Libia e poi in Italia attraverso un ben più lungo transito in mare aperto.

I numeri relativi ad Atene parlano chiaro: “Secondo i dati della Guardia Costiera greca – recita ancora la nota dell’Oim -, i migranti che hanno solcato il Mar Egeo nei primi 6 mesi del 2015 sono stati circa 69.000. Nel corso del mese appena conclusosi, si stima che siano arrivate circa 900 persone al giorno. In sette giorni, dal 1 al 8 luglio 2015, i migranti che hanno attraversato l’Egeo sono stati 7.202. I principali paesi d’origine sono Siria e Afghanistan”.

L’Oim è presente nei punti di sbarco sia in Italia sia in Grecia. Ciò permette a questa organizzazione di fotografare in modo lucido il quadro generale: “Le rotte cambiano, così come la composizione dei flussi, ma i numeri continuano a salire”, afferma Federico Soda, Direttore dell’Ufficio di coordinamento dell’OIM per il Mediterraneo.

Un sforzo davvero europeo quindi è auspicabile: “L’emergenza è umanitaria a causa delle drammatiche condizioni in cui si vengono a trovare i migranti – continua Soda – e sarebbe certamente più gestibile se tutti i paesi coinvolti collaborassero di più tra di loro e dessero risposte più esaurienti e strutturate. Non esiste una soluzione facile e immediata per questo fenomeno, perché è il frutto di circostanze politiche, sociali ed economiche”, conclude il rappresentanti di Oim.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Ue, Gentiloni: soddisfazione per missione navale EuFor

BreakingNews/EUROPA di

A margine del Consiglio Affari Esteri Ue a Lussemburgo, il ministro italiano Paolo Gentiloni si dice soddisfatto della missione navale EuFor, definito un primo passo importante verso il vertice del 25 e 26 giugno prossimi. In questo summit, verrà infatti definito l’accordo sulla ricollocazione dei profughi che dovrebbe vincolare gli altri Paesi europei.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
“Bisogna arrivare ad un’intesa che metta nero su bianco l’impegno alla solidarietà vincolante sulla ricollocazione dei migranti perché la solidarietà non può essere un ‘optional’, deve essere un impegno per la Ue”, sottolinea il rappresentante del governo italiano.

Gentiloni si mostra tuttavia fiducioso sull’esito delle trattative, anche con i Paesi più riluttanti ad apportare una soluzione comune a questa emergenza: “Penso che il negoziato in queste settimane abbia creato le premesse per arrivare ad un’intesa giovedì e venerdì, ma vediamo: bisognerà lavorarci nei prossimi giorni”, conclude.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Ue, relazione sulle rinnovabili: promossi gli Stati membri

BreakingNews di

Entro il 2014 è stata raggiunta la quota del 15,3. Il 20% entro il 2020 sembra essere alla portata.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
“La relazione indica ancora una volta che l’Europa crede nelle energie rinnovabili e che le energie rinnovabili fanno bene all’Europa”, è quanto dichiarato da Miguel Arias Cañete, Commissario responsabile per l’Azione per il clima e l’energia, a seguito della pubblicazione dei dati sulle energie rinnovabili in Europa. Numeri ottimistici, che pongono i Paesi Ue al 15,3% lordo delle energie rinnovabili entro il 2014 e ad un passo dal 20% (10% per i trasporti) programmato per il 2020 e deciso nel 2009.

“L’Europa può vantare tre volte più energia rinnovabile pro capite che qualunque altra parte del mondo e più di un milione di persone che lavorano nel settore delle energie rinnovabili, il cui valore supera i 130 miliardi di EUR all’anno. Ogni anno esportiamo energie rinnovabili per un valore di 35 miliardi di EUR”, ribadisce il rappresentante dell’Unione Europea.

In più, questi dati ecologici vanno, secondo l’Ue, di pari passo con il realismo economico. Gli obiettivi del 2020 sono infatti diventati un traino per i Paesi del Vecchio Continente, spinti ad investire di più sulle rinnovabili per rilanciare le proprie industrie e, di conseguenza, a collaborare tra loro e con gli Stati non-Ue.

Ecco i risultati prodotti dalle direttive europee nel campo delle rinnovabili:
• circa 326 milioni di tonnellate lorde di emissioni di CO2 evitate nel 2012 e 388 milioni di tonnellate nel 2013,
• una riduzione della domanda di combustibili fossili in Europa pari a 116 mtep nel 2013.
Inoltre per quanto riguarda la sicurezza dell’approvvigionamento energetico nell’Unione:
• sul totale di combustibili fossili il cui uso è stato evitato nel 2013, il 30% è dovuto alla sostituzione del gas naturale con fonti rinnovabili
• quasi la metà degli Stati membri ha ridotto il consumo interno lordo di gas naturale di almeno il 7%.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Redazione
0 £0.00
Vai a Inizio
×