GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Un serbo a Tirana…nel senso del premier

ECONOMIA/Energia/EUROPA di

Quando si parla di “ospitalità” albanese, ebbene, le autorità non hanno fatto mancare nulla dal protocollo al capo del governo serbo: Bože pravde , l’inno nazionale serbo è stato eseguito per la prima volta nella Tirana istituzionale, durante una visita ufficiale. Nella sede di rappresentanza del Palazzo delle Brigate i due premier si sono stretti mani diplomatiche senza lasciare nulla al caso con tanto di tricolore serbo issato.
Questa visita è stata preparata nei dettagli e vissuta “seguendo l’esempio della Germania e della Francia dopo la seconda guerra mondiale”, ha detto il premier Rama, facendo riferimento alla distensione auspicata dei rapporti tra i due paesi balcanici, “ sulla scia del desiderio di intensificare i buoni rapporti”.
Vučić ha raggiunto Tiranail 27 maggio scorso, il giorno dopo la conclusione dei lavori del South-East European Cooperation Process, il consiglio di cooperazione regionale, istituito dalla Bulgaria nel 1996 e presieduto dall’Albania quest’anno. Un summit nel quale è stato ribadito e sottolineato la volontà dei paesi balcanici di puntare all’integrazione europea come obiettivo comune. Bulgaria e Romania hanno manifestato il loro appoggio incondizionato.
Una visione d’insieme che è stata rinforzata durante la visita del capo del governo serbo il giorno dopo, sia da questi che dal premier albanese, Edi Rama.
“Qualcuno in Serbia farà rumore per questa mia visita, come immagino succederà a Rama per avermi invitato. Ma il mio dovere è di guardare al futuro, e nel futuro le relazioni fra di noi sono molto importanti… Pensiamo in modo diverso, parliamo in modo diverso. Ma questo non ha a che fare con il fatto di lavorare insieme. Se saremo abbastanza responsabili, saggi e intelligenti, se non penseremo di risolvere i nostri problemi con i conflitti ma con il dialogo, con rapporti sinceri, aperti e onesti, allora sono sicuro che Serbia e Albania avranno un futuro migliore del passato. Alla storia non possiamo sfuggire, ma il nostro sguardo dovrà essere rivolto al futuro, perciò oggi sono qui per porgere al mio collega Rama la mano dell’amicizia.”
Molto più disinvolto e visionario Rama il quale esprime le relazioni diplomatiche future dichiarando “ Delle relazioni tra Francia e Germania si dice che rappresentino l’asse dell’Europa, spero di non mancare di modestia dicendo che gli albanesi e i serbi vogliono trasformare le loro relazioni in un’uguale testimonianza del fatto che da una storia di guerre sanguinose potrebbe nascere l’esempio di un comune successo di pace”.
In questo momento di pragmatismo politico non si poteva lo stesso evitare un richiamo al punto dolente delle relazioni problematiche tra i due paesi, ovvero la questione del Kosovo e della “Grande Albania”. Il virgolettato è d’obbligo stando alla versione albanese della faccenda. “La Grande Albania per noi non è un progetto o un programma. Si tratta di un’idea nutrita da coloro che non vogliono il bene degli albanesi, non la nostra nazione, che non vuole ampliamenti, a scapito di nessuno, ma la convivenza normale. Progettiamo di unirci sulla strada nell’Unione europea. Se noi avessimo visto la bandiera della Grande Serbia sul drone avremo riso, ma questa è una questione di percezione. Penso che la lezione è stata tratta da entrambi”.
Di tenore molto più sostenuto Vučić sullo stesso tema aveva in un primo momento dichiarato “E’ un fatto che non siamo d’accordo sul Kosovo. La Serbia considera il Kosovo come la sua parte e l’Albania la considera indipendente”. La posizione di Rama, più ironico e morbido, si delinea nella sua dichiarazione in merito: “La mia convinzione è che il riconoscimento del Kosovo sarebbe un grande sollievo per la Serbia, ma non voglio entrare più in profondità in questa questione dal momento che qui siamo tra amici e noi rispettiamo tutti gli amici e le loro sensibilità“. Senza paroloni, ma incisivo e serio il premier serbo ha sottolineato “La grande divergenza fra Belgrado e Tirana sullo status del Kosovo non deve essere un ostacolo ai nostri rapporti bilaterali; nonostante questo, ritengo che questa incongruenza non significhi che non possiamo ammorbidire le differenze con il dialogo”.
Nell’affrontare la crisi che si sta consumando nella Repubblica Macedone dopo i fatti di Kumanovo, entrambi i governi si sono voluti mostrare equi distanti con la volontà di non schierarsi con nessuna delle fazioni e facendosi garanti di una stabilità balcanica necessaria.
A dettare questa nuova fase è ovviamente la prospettiva economica degli investimenti esteri e tra i due paesi, nonché la posizione strategica dei Balcani nei corridoi energetici e nella infrastruttura dei trasporti transnazionale.
Nell’ambito dei Tirana Talks – Vienna Economic Forum (nato nel 2004), il giorno dopo, 28 maggio, si è ufficializzato questo riavvicinamento toccando propriamente i progetti futuri. In esclusiva, si fa riferimento all’autostrada Tirana-Belgrado , passando per il Kosovo, funzionale e simbolica. Serbi e albanesi, monitorati dalla Germania e procedendo sotto gli occhi dell’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer chiedono fondi esteri e investimenti. Hanno finalmente capito che possono diventare seriamente strategici per se stessi e l’Europa. In un contesto di crisi delle frontiere europee, della crisi profonda, difficilissima in Ucraina e nelle ex repubbliche sovietiche, con conseguenze economiche enormi per tutti, i balcanici provano a elevare le rispettive posizioni, cercando di attrarre investimenti, prestigio e credibilità.
Non è una passeggiata nella storia, si tratta di conflitti secolari, di diatribe territoriali e culturali radicalizzate. Si tratta di Berlino con lo sguardo puntato e, soprattutto gli albanesi, si ricordano bene un altro Berlino, quello del Congresso del 1878, quello degli Imperi ( Austria e Turchia) e delle grandi Potenze europee, quello a conclusione del quale gli albanesi si sono visti negati l’esistenza niente di meno che da Bismarck: “Non esiste alcuna nazione albanese”. Erano altri tempi, ma i Balcani si sono visti fare e disfare nei secoli da altri le loro esistenze. Ad ogni modo, era il mondo di ieri.

Immigrazione: l’Ue muove i primi, ma incerti passi

EUROPA di

La vera partita tra gli Stati membri si gioca attorno alle quote di redistribuzione dei rifugiati siriani ed eritrei. Le altre nuove misure, tra cui l’allargamento del raggio d’azione di Frontex, potrebbero essere il primo passo verso una europeizzazione della questione migratoria.

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L’emergenza immigrazione nel Mediterraneo è divenuta un punto fisso dell’agenda Ue nell’ultimo mese. Per la prima volta, la questione viene trattata a livello comunitario. L’allargamento del raggio di competenza e l’istituzione di una nuova base logistica a Catania stanno portando Frontex, e di conseguenza le operazioni Triton e Poseidon Sea, sugli stessi livelli di Mare Nostrum. La vera partita tra gli Stati Membri, però, ruota attorno alla ricollocazione delle persone sbarcate sulle coste italiane e greche quest’anno.

Oltre 30000 sono stati i migranti sbarcati in Italia fino ad ora. La stessa cifra raggiunta, a sorpresa, dalla Grecia, divenuta meta privilegiata per siriani (la maggioranza) e iracheni che, passando attraverso la Turchia, non passano per la Libia, ma optano per la più sicura rotta verso le isole greche del Mar Egeo (Mitilene, Chios, Leros, Samos) situate a pochi chilometri dalle coste dall’Anatolia.

La ricetta proposta dal collegio dei commissari europei consta di vari punti. Quello più importante riguarda la redistribuzione dei profughi siriani ed eritrei sbarcati dopo il 15 aprile 2015. Anche se da Bruxelles non parlano di questione di “quote, ma di solidarietà minima”, il 15 e 26 giugno, prima il Consiglio dei Ministri Ue, poi il vertice dei leader, saranno le due date decisive per avvallare questa ricollocazione.

Nella proposta di legge, dei 40 mila profughi siriani ed eritrei totali (24mila sbarcati in Italia, 16 in Grecia) 8763 rifugiati dovrebbero spettare alla Germania, 6752 alla Francia e 4288 alla Spagna. Gli altri 20 Paesi si accollerebbero la restante parte. Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca non sono state previste in quanto contrarie. Mentre Parigi e Madrid, scettici su questo provvedimento, dovrebbero, secondo fonti europee, comunque accettare.

Gli altri punti riguardano l’introduzione dell’obbligo delle impronte digitali per tutti i migranti. La lotta al reinsediamento di 20mila campi profughi. L’istituzione di un ufficio dell’Unione Europea in Niger che valuti in loco le richieste d’asilo politico. Il nuovo piano Frontex, come detto prima.

Ma è il nodo quote che lascia perplessi. Se il caso greco ha raggiunto numeri impressionanti solo nel 2015, l’Italia ha visto, dopo le Primavere Arabe e la caduta di Gheddafi nel 2011, un progressivo aumento degli sbarchi sulle coste meridionali. Nel 2014, infatti, ben 170 mila sono stati gli sbarchi. Numeri destinati ad aumentare se le stime del Ministero degli Interni italiano, 200 mila arrivi entro il 2015, dovessero essere confermate.

Se andiamo al dato del 2014, possiamo osservare che solo il 7% dei migranti sarebbe preso in considerazione. Nel 2015, invece, circa 41mila siriani ed eritrei rappresenterebbero circa il 31%. Numeri risibili rispetto alla realtà dei fatti.

La ricerca di un piano strutturale da parte dell’Europa cozza con il numeri messi in campo. Sebbene l’intervento diretto nel contesto africano e l’allargamento e l’aumento dei fondi a Frontex vadano nella giusta direzione, quello che manca è una visione comune sulla questione migratoria. Una visione comune che viene meno perché, in apparenza, il problema sembra solo per Italia e Grecia.

Nella realtà dei fatti, il problema è europeo. Perchè non solo per i siriani Roma e Atene sono luoghi di passaggio. Da tempo, ormai, la maggioranza dei migranti di tutte le nazionalità ambiscono a raggiungere Germania, Norvegia e Svezia per due fattori. Il primo è perché sono i tra i Paesi europei più sviluppati e con una maggiore qualità della vita. Il secondo, non meno importante, è perché molti parenti e amici dei nuovi arrivati, essendosi stabiliti lì da molti anni, costituiscono un punto d’appoggio per iniziare una nuova vita.

Questo punto, unito alla fitta immigrazione proveniente dai confini dell’Europa orientale, dovrebbero fare riflettere sulla necessità di non limitare la ricollocazione ai soli rifugiati siriani ed eritrei.

Giacomo Pratali

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Libia: governo Tobruk colpisce petroliera a largo di Sirte

L’esecutivo riconosciuto a livello internazionale si è reso protagonista di una azione militare simile a quella contro il mercantile turco l’11 maggio scorso. I servizi segreti britannici, intanto, rivelano che la Francia e l’Italia sono diventate le corsie preferenziali dei foreign fighters che si arruolano tra le fila dell’Isis in Libia. Sullo sfondo, a sorpresa, si prospetta un intervento di ispezione e sequestro per i barconi partenti dalle coste libiche, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

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Ancora un bombardamento, stavolta contro una petroliera vicino a Sirte. Dopo l’attacco contro un mercantile turco l’11 maggio scorso, alcuni caccia del governo di Tobruk hanno colpito la nave che, secondo l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale, stava trasportando il greggio per un centrale elettrica in mano ad un gruppo terrorista vicino al governo di Tripoli. In più, c’era il sospetto che l’imbarcazione trasportasse con sé armamenti per i ribelli. Due componenti dell’equipaggio sono rimasti feriti.

Intanto, i foreign fighters, secondo il rapporto pubblicato dall’intelligence britannica, hanno sviluppato una nuova strategia per arruolarsi nello Stato Islamico in Libia. Per evitare i rigidi controlli aeroportuali, questi aspiranti jihadisti giungono in Francia via mare e, una volta in Italia, partono alla volta di Tunisi via traghetto. Da qui, poi, raggiungono Sirte e Derna, le città controllate dall’Isis.

Oltre alla partita dei combattenti di origine occidentale reclutati dal Califfato, l’altro fronte caldo è quello relativo all’immigrazione. Mercoledì 20 maggio, il governo di Tobruk ha spedito una lettera alle Nazioni Unite in cui apre ad un’azione comune assieme all’Unione Europea “al fine di sviluppare un piano d’azione per affrontare la crisi degli immigrati nel Mediterraneo”.

Una sostanziale ammissione di “incapacità della Libia di ridurre le migrazioni illegali”. Ma anche parole importanti, che vanno ad assecondare quello che la risoluzione Onu in materia dovrebbe dire: no al bombardamento e sì all’ispezione dei barconi prima che partano dalla Libia.

Una missione che, secondo fonti diplomatiche, dovrebbe avere il consenso di tutte le
parti in causa libiche e, quindi, anche del governo di Tripoli. In questo senso, la missione del mediatore Bernardino Leon di ricucire lo strappo istituzionale libico diventa cruciale.

Il futuro della Libia e la questione migratoria appaiono dunque correlati. “Il punto principale è decidere le operazioni europee in mare per smantellare le reti criminali e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. L’accordo tra i due governi è essenziale”, ha affermato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini, in missione a New York per sollecitare la comunità internazionale a prendere una decisione rapida sulla politica da attuare nel Mediterraneo.

La partita interna al Consiglio di Sicurezza sarà decisiva nei prossimi giorni. Anche se, forse, già segnata. Tra i membri permanenti, la Russia è quella che si è opposta ad un intervento militare. Ma il Cremlino, così come Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina, hanno dato il benestare ad un’operazione di polizia internazionale la quale, con solide basi legali, dia la “possibilità di ispezionare, sequestrare e neutralizzare le barche che sono sospettate di essere utilizzate per il traffico di migranti”, come recita il capitolo 7 della Carta Onu.
Giacomo Pratali

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Moas, Xuereb: “L’immigrazione nel Mediterraneo è una questione internazionale che richiede una soluzione globale”

EUROPA di

L’Unione Europea e le Nazioni Unite stanno trattando questa emergenza nell’intento di non lasciare sole Italia e Malta. Riguardo a queste questioni, European Affairs ha intervistato Martin Xuereb, Direttore Migrants Offshore Aid Station (Moas), l’organizzazione non governativa impegnata nel salvataggio dei migranti in arrivo dall’Africa.

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Quando e perché è stato fondato Moas?

“Moas è stato fondato nel 2014. l’idea è venuta a Regina e Christopher Catambrone dopo il naufragio di 400 migranti avvenuto vicino alle coste di Lampedusa durante l’estate del 2013. Dopo la visita del Papa, sempre nel 2013, quando egli chiese fortemente di aiutare queste persone in qualsiasi modo, Regina e Christopher hanno avuto la scintilla. Essi hanno iniziato a pensare ad un’organizzazione che salvasse la vite a rischio nel Mediterraneo. Io sono stato coinvolto nel febbraio 2015, quando mi è stato chiesto aiutare, prestare soccorsi e salvare i migranti. Noi siamo un ente privato e dipendiamo dalle donazioni fatte dalle persone. Speriamo che il nostro messaggio, che la vita è preziosa e non importa a chi appartiene, sia fonte d’ispirazione per gli altri affinché donino”.

 

In cosa consiste la vostra attività?

“Noi abbiamo iniziato a lavorare lo scorso anno. Dopo 16 giorni di operazioni in mare aperto, avevamo già salvato 3000 persone. Poi, siamo tornati a settembre e a fine ottobre abbiamo iniziato a pensare alla missione del 2015. Adesso, a differenza dello scorso anno, collaboriamo con Msf. Essi hanno il compito di provvedere all’assistenza e al salvataggio delle persone. Moas, invece, possiede una nave di 40 metri (Phoenix), due Remote Piloted Aircraft e due Rhibs: questi ultimi hanno la possibilità di spostarsi e volare se abbiamo necessità di avere informazioni urgenti. Tutti questi mezzi vengono diretti dal Rescue Coordination Center. In più, abbiamo due gommoni che possono servono quando un’imbarcazione in alto mare necessita di assistenza. La scelta di fare salire a bordo i migranti viene fatta sempre assieme al Rescue Coordination Center. Quando le persone sono a bordo, Msf, con i loro dottori, infermieri e mezzi logistici, provvede alle loro cure mediche e li tiene costantemente monitorati”.

 

Quanto sono determinanti le competenze professionali acquisite durante le operazioni di salvataggio umanitario in mare aperto?

“Cercare di salvare le persone in un contesto così difficile è molto impegnativo. Servono capacità, conoscenze e attitudine al rischio. Ovviamente, serve passione per un lavoro del genere, ma ancora più importante è l’essere capaci di lavorare professionalmente perché in gioco ci sono le vite delle persone”.

 

Quali risultati avete conseguito?

“3000 persone sono state salvate nei 60 giorni di operazioni svoltesi nel 2014. Nel 2015, dopo essere partiti il 2 maggio, abbiamo salvato 1441 persone da imbarcazioni alla deriva nel Mediterraneo: di questi, 106 bambini, 211 donne e 1124 uomini”.

 

Con quali istituzioni ed enti collaborate?

“Prima di tutto con il Rome’s Maritime Rescue Coordination Centre e con il centro omologo maltese. Essi hanno il compito di coordinare le missioni di salvataggio e noi, a nostra volta, siamo ben lieti di collaborare con loro. Essi sono molto soddisfatti delle nostre capacità e del fatto che non utilizziamo solamente imbarcazioni per il mare aperto, bensì anche droni e cliniche mediche a bordo. Infatti, come tutte le altre navi, anche noi abbiamo l’obbligo per legge di prestare soccorso ad imbarcazioni alla deriva. Ma, la differenza tra noi e le navi mercantili, è che il salvataggio delle vite umane è la nostra missione”.

 

Dopo che il Consiglio Europeo ha deciso di triplicare i fondi per “Triton”, l’immigrazione è davvero divenuto un tema europeo?

“Io ritengo che questa sia una questione internazionale che richiede una soluzione globale. Noi volgiamo dire che l’Europa deve dimostrarsi più attiva in questa vicenda. Vorremmo intravedere una prospettiva di largo respiro. Penso che tutti dovrebbero essere consapevoli che, la maggior parte dei salvataggi, viene condotta in acque internazionali. Per questo motivo, perché l’Italia dovrebbe prendersi da sola tutta la responsabilità? Queste operazioni dovrebbero essere coordinate da qualcun altro. E credo anche che non solo gli stati, ma anche aziende private ed enti dovrebbe interessarsi alla questione. Come Moas, assieme a Msf, vogliamo portare sul tavolo un nuovo modus operandi”.

 

Giacomo Pratali

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Libia, Gentiloni: “Nessun intervento militare”

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Il titolare della Farnesina respinge l’ipotesi di una risoluzione Onu a favore di un’eventuale operazione armata. Intanto, il tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti da Leon rischia di saltare a causa dell’ostilità di Haftar.

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“Nessun intervento militare è stato deciso né dall’Unione Europea né dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Con queste parole, pronunciate venerdì 15 maggio durante la trasmissione Agorà su Rai3, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni smentisce l’ipotesi di un’operazione armata da condurre presso le coste libiche, nell’ambito del contrasto alla crescente immigrazione proveniente dal continente africano. Ipotesi trapelata attraverso la stampa italiana ed internazionale.

Il Capo della Farnesina ha comunque precisato che, un’eventuale risoluzione positiva delle Nazioni Unite lunedì 18 maggio, “autorizzerebbe solo la confisca e il sequestro di barconi in mare e l’individuazione attraverso meccanismi di intelligence in acque territoriali prima che vengano imbarcati i migranti”. Questo perchè “bisogna organizzare combattere la criminalità rendere più sopportabili le condizioni nei Paesi di origine”. Un’azione possibile solo se viene suddividiso “il peso della situazione tra i Paesi europei: in questo senso è stato fatto qualche passo avanti”, ha precisato Gentiloni.

Se il governo di Tripoli sembra accogliere in senso positivo la discussione dell’Europa e della comunità internazionale, altrettanto non si può dire per l’esecutivo di Tobruk. Khalifa Haftar, Capo delle Forze Armate, si è dichiarato preoccupato da una possibile “azione militare contro le nostre coste”. Non solo. Passando dalle parole ai fatti, lunedì 11 maggio ha dato il via libera per il bombardamento di una nave mercantile turca, rea di “non aver rispettato l’ordine di non avvicinarsi alla città di Derna”, ha affermato ancora l’ex agente della Cia. L’azione ha causato l’uccisione di un membro dell’equipaggio, mentre Ankara ha fatto sapere che ricorrerà in sede giudiziaria a livello internazionale.

Un tira e molla continuo che di fatto non favorisce le estenuanti trattative condotte da oltre due mesi dal delegato Onu Bernardino Leon. Il suo ottimismo circa un accordo tra i governi e le fazioni contrapposte a beneficio dell’unità nazionale libica sembra scontrarsi con la realtà.

Una realtà che parla di guerra civile. Una realtà che coinvolge anche i bambini. Dopo i 3 morti di qualche giorno fa, altri 7 innocenti sono stati uccisi poche ore fa da un colpo di mortaio nella città di Bengasi. Secondo Associated Press, il fatto sarebbe attribuibile allo Stato Islamico e Ansar al Sharia e riguarderebbe in tutto 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia.

 

Giacomo Pratali

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L’Europa apre gli occhi sul Mediterraneo

BreakingNews/Difesa/EUROPA/POLITICA di

La Commissione Europea ha stilato e approvato l’agenda europea sull’immigrazione. Nel documento vengono delineate le misure previste nell’immediato per rispondere alla situazione di crisi nel Mediterraneo e le iniziative da varare negli anni a venire per gestire meglio la migrazione in ogni suo aspetto.

Triton e Poseidon, pur mantenendo la loro missione di controllo delle frontiere via mare dell’UE, vedono le loro funzioni ampliate nelle operazioni di soccorso, con molte similitudini con Mare Nostrum. Si prospetta un sistema di emergenza di quote, per ripartire fra tutti i paesi dell’Unione i profughi che riusciranno a sbarcare sulle nostre coste. Sarà obbligatorio per tutti, eccezion fatta per Italia e Grecia, alle quali viene riconosciuto di “aver fatto già abbastanza” e considerando il fatto che i due paesi rimangono impegnati nelle fasi di soccorso e prima accoglienza.

L’Europa si trova costretta a guardare negli occhi la gravità della situazione creatasi nelle sue frontiere sud. Il primo Vicepresidente Frans Timmermans ha dichiarato: “La tragica perdita di vite umane nel Mediterraneo ha sconvolto tutti gli europei. I nostri cittadini si aspettano che gli Stati membri e le istituzioni dell’UE agiscano per impedire il ripetersi di simili tragedie. Il Consiglio europeo ha dichiarato esplicitamente che occorrono soluzioni europee, basate sulla solidarietà interna e sulla consapevolezza che abbiamo una comune responsabilità nel creare una politica migratoria efficace.” Nel presentare il documento, ha aggiunto -” Per questo la Commissione propone oggi un’agenda che rispecchia i comuni valori europei e dà una risposta ai timori che nutrono i nostri cittadini sia difronte a una sofferenza umana inaccettabile che rispetto all’applicazione inadeguata delle nostre norme comuni e condivise in materia di asilo. Le misure che proponiamo contribuiranno a gestire meglio la migrazione e a rispondere alle legittime aspettative dei nostri cittadini”.

La Commissione ha elencato le azioni immediate da intraprendere subito:

– Triplicare le capacità e i mezzi delle operazioni congiunte di Frontex, Triton e Poseidon, nel 2015 e nel 2016. È stato adottato un bilancio rettificativo per il 2015 che assicura i fondi necessari: un totale di 89 milioni di EUR, comprensivo di 57 milioni per il Fondo Asilo, migrazione e integrazione e 5 milioni per il Fondo Sicurezza interna in finanziamenti di emergenza destinati agli Stati membri in prima linea, mentre entro fine maggio sarà presentato il nuovo piano operativo Triton;

– Proporre per la prima volta l’attivazione del sistema di emergenza previsto all’articolo 78, paragrafo 3, del TFUE per aiutare gli Stati membri interessati da un afflusso improvviso di migranti. Entro la fine di maggio la Commissione proporrà un meccanismo temporaneo di distribuzione nell’UE delle persone con evidente bisogno di protezione internazionale. Entro la fine del 2015 seguirà una proposta di sistema permanente UE di ricollocazione in situazioni emergenziali di afflusso massiccio;

Proporre entro fine maggio un programma di reinsediamento UE per offrire ai rifugiati con evidente bisogno di protezione internazionale in Europa 20 000 posti distribuiti su tutti gli Stati membri, grazie a un finanziamento supplementare di 50 milioni di EUR per il 2015 e il 2016;

Varare un’operazione di politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) nel Mediterraneo volta a smantellare le reti di trafficanti e contrastare il traffico di migranti, nel rispetto del diritto internazionale.

I quattro pilastri della nuova agenda, in linea con la politica sullìimmigrazione auspicata da J.C. Juncker, Presidente della Commissione Europea, sono i seguenti:

  • Ridurre gli incentivi alla migrazione irregolare, in particolare distaccando funzionari di collegamento europei per la migrazione presso le delegazioni dell’UE nei paesi terzi strategici; modificando la base giuridica di Frontex per potenziarne il ruolo in materia di rimpatrio; varando un nuovo piano d’azione con misure volte a trasformare il traffico di migranti in un’attività ad alto rischio e basso rendimento e affrontando le cause profonde nell’ambito della cooperazione allo sviluppo e dell’assistenza umanitaria.
  • Gestire le frontiere: salvare vite umane e rendere sicure le frontiere esterne, soprattutto rafforzando il ruolo e le capacità di Frontex; contribuendo al consolidamento delle capacità dei paesi terzi di gestire le loro frontiere; intensificando, se e quando necessario, la messa in comune di alcune funzioni di guardia costiera a livello UE.
  • Onorare il dovere morale di proteggere: una politica comune europea di asilo forte. La priorità è garantire l’attuazione piena e coerente del sistema europeo comune di asilo, promuovendo su base sistematica l’identificazione e il rilevamento delle impronte digitali, con tanto di sforzi per ridurne gli abusi rafforzando le disposizioni sul paese di origine sicuro della direttiva procedure; valutando ed eventualmente riesaminando il regolamento Dublino nel 2016.
  • Una nuova politica di migrazione legale: l’obiettivo è che l’Europa, nel suo declino demografico, resti una destinazione allettante per i migranti; bisognerà quindi rimodernare e ristrutturare il sistema Carta blu, ridefinire le priorità delle nostre politiche di integrazione, aumentare al massimo i vantaggi della politica migratoria per le persone e i paesi di origine, anche rendendo meno costosi, più rapidi e più sicuri i trasferimenti delle rimesse.

Subito dopo l’esposizione delle misure previste dall’agenda sull’immigrazione, paesi come Regno Unito, Irlanda e Danimarca, noti nelle loro politiche migratorie molto rigide, si sono chiamati fuori dal quadro concreto degli aiuti e delle quote da ripartire, creando un contesto parallelo nel cuore dell’Unione. Sarà il summit dei leader europei di giugno che deciderà sulle quote e in quell’occasione verrà discussa e definita la poszione di tutti.

A richiamare alle loro responsabilità i governi dell’Unione è stata anche l’Alta rappresentante/Vicepresidente Federica Mogherini la quale ha dichiarato: “È un’agenda audace quella con cui l’Unione europea ha voluto dimostrare di essere pronta ad affrontare la situazione disperata di coloro che fuggono guerre, persecuzioni e povertà. La migrazione è responsabilità condivisa di tutti gli Stati membri e tutti gli Stati membri sono chiamati ora a raccogliere questa sfida storica. Una sfida che non è solo europea, è globale: con l’agenda confermiamo e ampliamo la cooperazione con i paesi di origine e transito per salvare vite umane, combattere le reti di trafficanti e proteggere coloro che sono nel bisogno” e ha aggiunto ” Sappiamo tutti che una risposta reale, a lungo termine sarà possibile soltanto se affrontiamo le cause profonde, che vanno dalla povertà all’instabilità dovute alle guerre, fino alla crisi in Libano e in Siria. Come Unione europea, siamo impegnati e determinati a cooperare con la comunità internazionale”.

Alla eventualità di intervenire in Libia, cuore dell’instabilità e del traffico dei migranti nel Mediterraneo, la Mogherini ha dichiarato che non ci saranno boots on the ground, ma ci si affiderà a operazioni mirate di intelligence che i governi degli stati membri dovranno condividere il più possibile.

Sabiena Stefanaj

 

Elezioni UK: vincitori, vinti e affari futuri

ECONOMIA/EUROPA/POLITICA/Varie di

“Hanging on in quite desperation is the english way – Sopravvivere in una quieta disperazione è il modo all’inglese”, così cantavano i mitici Pink Floyd nel lontano 1972, versi che descrivono alla lettera l’attuale situazione emotiva dei laburisti inglesi nel post voto popolare del 7 maggio scorso. Il Regno Unito rimane decisamente conservatore e spiazza ogni previsione di “sfida all’ultimo voto”. Hanno vinto i Tories.

Circa 11 milioni e 300 mila voti per 331 seggi su 650, ovvero 24 in più rispetto al 2010, sono una conferma piena al mandato di Cameron. Quelli che hanno determinato la vittoria dei Tories e la disfatta dei Lab sono stati i cosiddetti swing voters, ovvero coloro che cambiano schieramento politico e che decidono per temi, argomenti o vantaggi volta per volta. Nel sistema elettorale inglese uninominale questo atteggiamento è decisivo alla conta finale. In definitiva, i conservatori sono cresciuti del 0,7% e i laburisti del 1,5% rispetto al 2010, quindi chi ha deciso vincitori e sconfitti sono stati i voti raccolti dalle altre formazioni politiche “secondarie” quali UKIP con il 12,6% e soprattutto l’ SNP di Nicola Sturgeon con il loro 4,6%. I scozzessi hanno spazzato via i laburisti guadagnando 56 seggi su 59 previsti per loro in Parlamento. Il linguaggio empatico, indipendentista e molto più di sinistra dei laburisti ha premiato. Non pervenuti i lib-dem di Nick Clegg fermi a soli 8 seggi, 49 in meno rispetto al 2010, crollo clamoroso.

Come funziona il sistema elettorale inglese del “first-past-the post”?

I parlamentari britannici vengono eletti attraverso il sistema dell’uninominale maggioritario secco. I partiti si contendono 650 collegi su tutto il territorio ed in ognuno di essi a vincere, ovvero a guadagnarsi un seggio in Parlamento è il candidato che prende più voti. Gli elettori possono esprimere una sola preferenza e a governare è il partito che si è aggiudicato il maggior numero di parlamentari. Sistema imperfetto : Il candidato deve assicurarsi solo la maggioranza semplice ed è possibile quindi che la maggioranza di persone in quel collegio abbia in realtà votato anche per altri candidati. Succede che un partito che in molti collegi non arrivi primo, possa aggiudicarsi, sì un gran numero di voti, ma conquistare pochi seggi. E’ successo a UKIP proprio in questa tornata elettorale. Allo stesso modo, il partito che alla fine forma il governo potrebbe in realtà aver ricevuto meno voti del suo rivale. Ogni collegio, inoltre, è diverso, a cominciare dal numero di elettori che lo compongono: un candidato che vince in un piccolo collegio può quindi aver ottenuto molti meno voti di uno che ha invece perso in un collegio molto imponente, ad esempio i grandi centri urbani, le città. Esattamente quello che è successo ai laburisti, vincenti nelle città più importanti, ma perdendo nei centri non urbani.

I britannici votano la promessa dell’economia e il ridimensionamento del tasso di disoccupazione, mentre penalizzano la “speranza”, l’equità e l’attenzione alle classe lavoratrici, tanto proclamata dai candidati del Partito Laburista in campagna elettorale. Votano un Cameron pragmatico e penalizzano un timido Miliband, troppo impacciato, troppo serioso, troppo “senza polso”, almeno nell’immaginario mediatico rappresentato.

Votano anche un probabile futuro fuori dall’Europa?

David Cameron ha dichiarato all’indomani del voto, “Possiamo fare della Gran Bretagna un luogo dove il buon vivere è alla portata di chiunque abbia voglia di lavorare e fare le cose in modo giusto”,- e ha aggiunto, “ però, si, ci sarà un referendum sul nostro futuro in Europa”. Il Brexit, questa volontà degli inglesi di ufficializzare le distanze dal continente politico, potrebbe prendere forma nel 2017, probabile anno del referendum. Jean-Claude Juncker ha definito “non negoziabili i fondamenti dell’Unione, come la libera circolazione di persone”, punto debole fisso dei rapporti con Londra. Centro nevralgico della finanza europea, la City significa troppo per l’UE e di certo non sarà una passeggiata affrontare un eventuale ricorso per separazione. I negoziati in corso per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partenership) che vedono il Regno Unito protagonista saranno decisivi in questo di mediazioni tra USA e UE.

Europa e Usa a sostegno dell'unità nazionale della Libia

BreakingNews/Varie di

I Governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro forte impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia, e affinché le risorse economiche del Paese siano utilizzate per il benessere della popolazione libica.

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Il primo riferimento è alle trattative tra i governi di Tobruk e Tripoli condotte dal mediatore Onu Bernardino Leon: “In un momento in cui il processo di dialogo guidato dalle Nazioni Unite fa segnare progressi verso una soluzione durevole del conflitto in Libia, esprimiamo la nostra preoccupazione per i tentativi di dirottare risorse libiche ad esclusivo vantaggio di una delle parti in conflitto e di dividere istituzioni economico-finanziarie che appartengono a tutti i cittadini libici”.
Nessuna interferenza nelle istituzioni e nell’economia libiche: “Affermiamo nuovamente l’auspicio che coloro che rappresentano le istituzioni libiche indipendenti, vale a dire la Banca Centrale di Libia (CBL), la Libyan Investment Authority (LIA), la National Oil Corporation (NOC) e la compagnia delle Poste e Telecomunicazioni libiche (LPTIC), a qualsiasi campo appartengano, continuino ad operare nell’interesse di lungo termine del popolo libico, in attesa di un chiarimento circa le strutture di governance sotto il Governo di unità nazionale”.
L’unità nazionale è l’unica possibile soluzione per combattere lo Stato Islamico: “Ribadiamo che le sfide che la Libia deve fronteggiare possono essere affrontate soltanto da un esecutivo che possa supervisionare e proteggere in maniera efficace le istituzioni indipendenti del Paese, il cui ruolo è di salvaguardare le risorse della Libia a beneficio di tutta la popolazione. I terroristi stanno approfittando del conflitto in corso per radicare la propria presenza nel Paese e intendono impadronirsi della ricchezza della Libia per portare avanti la propria agenda transnazionale”.
Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno ai cittadini libici: “La Libia possiede le risorse necessarie per creare una nazione pacifica e prospera, in grado di esercitare un forte ruolo positivo nel più ampio contesto regionale. I terroristi traggono beneficio da questo conflitto poiché il loro scopo è far avanzare i loro progetti in Libia e nel mondo. Esortiamo con forza tutti i cittadini libici a sostenere l’indipendenza di queste istituzioni dalle influenze politiche”.

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Ue: nuove proposte sulla sicurezza

EUROPA/POLITICA di

Al vaglio misure per aiutare gli Stati partner nella lotta al terrorismo e alla criminalità. All’orizzonte anche alcune manovre di bilancio per favorire i processi di pace in Africa.

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La Commissione Europea e l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue hanno recentemente diramato un comunicato in materia di sicurezza. Non è una novità: ma l’obiettivo stavolta è quello di aiutare i paesi partner e le organizzazioni regionali a prevenire crisi in materia di sicurezza utilizzando gli strumenti di cui l’Unione ed i singoli Stati Membri dispongono, sulla scorta delle lezioni apprese nei paesi terzi come le missioni di formazione in Mali o in Somalia o, più indietro nel tempo, in Bosnia e Congo (si pensi alle missioni sotto egida UE denominate “EUFOR Althea” ed “EUFOR RD Congo”, a cui hanno partecipato negli anni folti contingenti di militari e non provenienti dal nostro Paese).

La “comunicazione” congiunta, che suona come un’importante dichiarazione di intenti, svela quali siano ad oggi le criticità del sistema Europa in materia sicurezza e difesa ed illustra una serie di proposte anche economico – finanziarie per fronteggiare le minacce del terrorismo e della criminalità organizzata emergenti dentro i confini dell’Unione. Il tutto manifesta l’evidente intento di Junker e di Mogherini di attribuire una missione ancora più globale dell’Europa. Il documento è da ritenersi quale un vero e proprio libro bianco di livello strategico in materia di sicurezza; la stessa Mogherini ha dichiarato: “Con queste nuove proposte intendiamo aiutare i nostri partner ad affrontare le sfide connesse al terrorismo, ai conflitti, alla tratta di esseri umani e all’estremismo. Permettere ai partner di garantire la sicurezza e la stabilizzazione sul loro territorio non serve solo a favorire il loro sviluppo, ma è anche nell’interesse della stabilità internazionale, comprese la pace e la sicurezza in Europa”.

Alcuni manovre di bilancio illustrate nel documento per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato dalle Istituzioni UE sono:
– adattare il Fondo per la pace in Africa per ovviare alle sue limitazioni;
– creare un nuovo fondo che colleghi pace, sicurezza e sviluppo nell’ambito di uno o più strumenti già esistenti;
– creare un nuovo strumento finanziario destinato specificamente a sviluppare la capacità dei paesi partner in materia di sicurezza.

Materialmente, il supporto che la Commissione vorrebbe fornire potrebbe consistere nella fornitura di ambulanze e materiale di protezione o mezzi di comunicazione alle forze militari nei paesi in cui le missioni della politica di sicurezza e di difesa comune stanno già assicurando formazione e consulenza, ma dove la loro efficacia risente della mancanza dei mezzi essenziali.

Il tutto assume una maggiore rilevanza se si pensa che proprio domani, 7 maggio, un’importante Comitato del Consiglio dell’Unione Europea, il COSI – Standing Committee on Internal Security, si riunirà in maniera informale a Riga, in Lettonia (che è il paese attualmente reggente la Presidenza del Consiglio): in quella sede si discuterà principalmente di terrorismo, di foreign fighters, di confini, di immigrazione e dell’operato delle numerose agenzie europee operanti nel settore JHA (Justice and Home Affairs).

Questi eventi, questi “atteggiamenti”, devono indurci a pensare che l’Europa, e le sue numerose Istituzioni, con uno sguardo all’interno ed all’esterno dei suoi confini stanno cercando di assumere un ruolo di sempre maggior rilievo nella gestione civile delle crisi e dei risvolti ad esse interconnessi. L’Europa, in sintesi, pur non abbandonando i suoi primigeni obbiettivi strategici di natura politico-economica, sta operando finalmente in maniera sempre più incisiva anche negli equilibri e negli assetti internazionali, valicando – e anche di molto – i suoi confini geografici ed assurgendo ad organizzazione internazionale sempre più “completa”.

Domenico Martinelli

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Tories o Lab? Il Regno Unito all’ultimo dilemma

EUROPA/POLITICA di

Due giorni al voto per i cittadini del Regno Unito e il mistero s’infittisce. Mai come a questo giro di elezioni generali si è raggiunto tale grado di imprevedibilità. Votare o non votare Tory? Votare o non votare Labour? A proposito, ci risiamo con i testardi scozzesi!

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Quinta potenza economica mondiale, il Regno si interroga sulle priorità che la politica dovrà inserire e affrontare nella prossima agenda quinquiennale. Al civico 10 di Downing Street continuerà ad avere le chiavi il conservatore Cameron o il laburista Miliband? Una cosa è certa, sta per finire l’era del monopolio di governo anche a Londra. I due leader dovranno provvedere ad alleanze estese per poter garantire la governabilità. Quasi una “normalità” per il resto d’Europa, Germania in primis con un modello di alleanze che “funziona” e Italia con qualche “problemino” in più, ma totalmente una novità per i britannici i quali si vedono alternare i governi laburisti o conservatori dal lontano 1922. Una simile situazione era venuta a crearsi già nel 2010 con i Lib Dem di Nick Clegg, con i quali Cameron mise su la coalizione.

Sistema elettorale e composizione del Parlamento

First past the post- così è chiamato il sistema maggioritario uninominale a norma del quale il territorio del Regno Unito è diviso in 650 circoscrizioni elettorali. La suddivisione delle circoscrizioni è divisa in questo modo: 523 in Inghilterra; 59 in Scozia; 40 in Galles; 18 in Irlanda del Nord. Da ciascuna circoscrizione verrà espresso un rappresentante da mandare alla Camera dei Comuni che assieme alla Camera dei Lord, composta da membri nominati, andrà a comporre il futuro Parlamento. La maggioranza assoluta è quantificata in 326 seggi. Un numero però improbabile da raggiungere da entrambi i partiti.

David Cameron ha dalla sua il cosiddetto” establishment” anche e soprattutto per la ripresa veloce del Regno Unito nell’economia dopo il fermo imposto dalla crisi globale. Culla del capitalismo liberale, il Regno Unito ha dato un forte segnale di rilancio, ma i frutti di questa ripresa, ad oggi, si segnalano a livello macro, la classe media deve ancora attendere le future buste paga per poterla verificare su di se.

Ed Miliband, dopo aver vinto al fratello David la leadership del Partito Laburista, Ed “il nerd” o Ed “il rosso” per i conservatori, sta guadagnando punti nei sondaggi in maniera decisiva e costante. Partito sfavorito all’inizio della campagna elettorale, ha saputo giocare molto sull’immagine, puntando all’autoironia, valore aggiunto come sempre nell’animo inglese.

I Lib Dem di Nick Clegg, voto di protesta nel 2010, oggi hanno perso la loro genuinità e vengono visti come parte del sistema. Lo Ukip di Nigel Farage, dopo l’exploit delle elezioni europee di un anno fa rimane l’anima indomata del panorama politico britanico, ma la sua portata antieuropeista e populista non si prevede possa essere determinante il 7 maggio prossimo. Infine troviamo  verdi che, con l’aiuto delle spinte da sinistra, puntano a qualche seggio.

Chi confonde le acque di tories e lab è l’SNP, il Partito Nazionale Scozzese con a capo il Primo Ministro donna, Nicola Sturgeon. Dopo aver perso il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito a settembre 2014 la popolarità della Sturgeon non è che aumentata. Una ventata di parole “di sinistra” e di grinta che fanno  la differenza. Escludendo ogni punto d’incontro con Cameron, si presume che l’SNP possa coalizzarsi con i laburisti di Miliband in caso di vittoria di questi, ma solo due giorni fa, lo stesso Miliband ha negato questa possibilità. Partendo dal presupposto che nessuno dei leader ha mai parlato o reso esplicite le possibili alleanze, pare inverosimile la chiusura totale della possibilità di alleanze tra questi due partiti.

Battaglia di seggi, battaglia di news. Lo schieramento dei grandi quotidiani, The Guardian e Financial Times in testa, rispettivamente per i laburisti e i conservatori è altrettanto un aspetto fondamentale. Il potere mediatico anglosassone determina più di una manciata di voti e si svolge ad altissimi livelli. Una copertura invidiabile dell’argomento su tutti i fronti, la City della finanza, le città operaie, le periferie del Regno vengono battute come in un trekking mainstream delle intenzioni di voto.

In sintonia con le ventate dal basso nel mondo occidentale, anche nel Regno Unito si continua ad auspicare una politica inclusiva con pressioni dal basso e sopratutto dai “giovani disillusi”, vedendo in questi il veicolo tramite il quale attingere a una nuova politica, più vera, più reale, più tangibile, fuori dall’establishment.

Europa: Should I stay or should I go?

Pochissima Europa in questa campagna elettorale da tutte le forze politiche coinvolte. David Cameron, in caso di vittoria indirà un referendum se rimanere o meno nell’UE. Miliband non lo farà. Stranota la posizione dell’UKIP, altre invece sono le priorità del SNP. Non è un mistero lo scetticismo britannico nei confronti dell’Europa unita, ma in caso di vittoria di Cameron e di eventuale uscita del Regno Unito dall’UE a indebolirsi sarà quest’ultima,  in caso contrario con presumibile rafforzamento del SNP a dover fare i conti con l’indebolimento interno sarà lo stesso Regno Unito.

Appuntamento, il 7 maggio dalle 7.00, Greenwich Mean Time.

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Sabiena Stefanaj

Sabiena Stefanaj
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