GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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La situazione in Medio Oriente dopo il 7 Ottobre

 

L’attacco che Hamas ha condotto contro lo Stato di Israele, lo scorso 7 Ottobre, rappresenta un ulteriore episodio del conflitto che devasta il Medio Oriente da circa un secolo (anno più, anno meno).

Per poter comprendere tale nuova fase di questa guerra infinita, è necessario esaminare gli aspetti che ad essa sono connessi al fine di potere avere una visione complessiva del suo significato.

Come tutti i conflitti, anche questo si svolge su piani paralleli ineluttabilmente interconnessi e le cui conseguenze richiedono una comprensione d’insieme per identificare le eventuali ipotesi di soluzione.

Non si tratta, quindi, di uno scontro manicheo dove il bene e il male si affrontano e dove basta manifestare contro l’uno e a favore dell’altro dei due contendenti per risolvere la situazione, ma ci troviamo di fronte a un conflitto dove sono in gioco molteplici interessi geopolitici e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali per la convivenza tra le nazioni che sono posti alla base del sistema di riferimento mondiale.

Gli aspetti da esaminare, per comprendere la situazione in corso e cercare di identificare gli eventuali sviluppi futuri, sono molteplici.

Innanzitutto, è necessario fare una premessa per comprendere l’evoluzione della situazione in Medio Oriente nel corso degli anni. Originariamente, il conflitto è nato come una guerra tra gli Stati Arabi e Israele; successivamente, dagli anni Novanta del secolo scorso, quando è iniziato un processo di distensione che attraverso varie tappe ha condotto alla accettazione parziale di Israele da parte di una serie di Paesi, il fronte arabo è stato sostituito dall’Iran. Questo cambio di paradigma ha trasformato il conflitto in una crociata finalizzata alla distruzione dello Stato Ebraico che il mondo sciita, cioè l’Iran, ha intrapreso come elemento fondamentale della sua politica di egemonia.

In sintesi, il problema sostanziale alla base di tutto è la concezioni di negare la presenza di Israele, non solo in quanto enclave non musulmana (in un territorio che si ritiene debba essere dominio esclusivo dell’Islam perché conquistato quattordici secoli fa), ma soprattutto quale fattore di ostacolo al conseguimento di una egemonia locale che rappresenta l’obiettivo geostrategico della leadership teocratica iraniana.

Con buona pace dei vari movimenti di intellettuali e delle organizzazioni studentesche dei campus universitari che hanno inscenato ipocrite manifestazioni pro-Palestina libera, il destino del Popolo Palestinese non interesse minimamente a nessuno degli attori mediorientali coinvolti in questo conflitto, il fattore critico è, invece, rappresentato dalla distruzione dello Stato di Israele, quale corollario della espansione di quella rivoluzione religiosa che ha ispirato l’Iran di Khomeini finalizzata ad eliminare uno degli ostacoli che si frappongono al conseguimento della supremazia regionale.

Fatta questa debita puntualizzazione si può esaminare la situazione considerando sia agli aspetti regionali sia a quelli di carattere globale che derivano da questa crisi e che potranno costituire le basi per i successivi sviluppi.

Per quanto riguarda gli aspetti regionali, essi sono numerosi e con conseguenze di notevole portata.

In primo luogo, l’offensiva di Hamas ha colto di sorpresa il mondo arabo destabilizzandolo e parcellizzando la sua reazione nei confronti dell’atteggiamento verso Israele.

Infatti, il supporto per Hamas non è stato deciso e unanime in considerazione della differente posizione diplomatica che caratterizza i Paesi del MENA (Middle East and North Africa) a seguito del processo di normalizzazione con Israele in atto da tempo nella regione. Inoltre, l’azione di Hamas ha creato una situazione di tensione interna in quasi tutti i Paesi, dove le manifestazioni di piazza (più o meno spontanee), tese a supportare il Popolo Palestinese, oltra a costituire un fattore di pressione sulla componente governativa, potrebbero tramutarsi in un pericolo per la tenuta di alcuni dei regimi.

In secondo luogo, l’indeterminatezza della situazione potrebbe portare a un coinvolgimento di altre protagonisti, con un allargamento del conflitto, la cui escalation destabilizzerebbe anche il Libano e aumenterebbe lo stato di crisi della Siria. Infatti, la tensione che da tempo caratterizza il settore nord di Israele, fomentata da una serie continua di provocazioni messe in atto principalmente da Hezbollah lungo il confine, potrebbe sfociare nella apertura di un secondo fronte, qualora l’Iran decidesse di impiegare le organizzazioni che finanzia, addestra e coordina che costituiscono lo strumento principale di pressione su Israele (in attesa della componente nucleare!).

In terzo lugo, quanto successo il 7 Ottobre ha profondamente scosso l’opinione pubblica israeliana gettando un’ombra sulle capacità dimostrate dal governo e dall’establishment nella gestione e nella conduzione della fase iniziale del conflitto.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, l’azione di Hamas rappresenta il corollario della fallimentare gestione della cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), incapace di governare, inetta, senza visione politica, che dopo aver perso, già da tempo, il controllo della Striscia di Gaza a favore di Hamas, si sta facendo fagocitare da Hamas anche nella Cisgiordania. Da strumento di governo inizialmente individuato per la realizzazione dello lo Stato Palestinese, come previsto dagli accordi di Oslo, si è trasformata in una organizzazione clientelare, corrotta che ha abiurato al suo ruolo consegnando Gaza e Cisgiordania nelle mani di organizzazioni di matrice terroristica che come detto, nascondendosi dietro la causa del popolo palestinese perseguono obiettivi e interessi di potere deliranti.

Spostando l’esame agli aspetti di carattere globale possiamo osservare i seguenti elementi critici.

La regione indicata come MENA, ma soprattutto il Medio Oriente propriamente detto, rappresentano l’area di crisi più importante nel contesto geostrategico mondiale. E’ il cardine della cerniera che lega l’Asia all’Europa ed è la porta dell’Africa!

Questo è uno dei terreni dove si gioca la partita fondamentale della costruzione del nuovo ordine mondiale perché è da qui che la Cina deve passare per sostenere il suo fabbisogno energetico e per accedere alle ricchezze dell’Africa e sempre da qui passa la possibilità per l’Occidente di rafforzarsi economicamente e politicamente nel confronto con il mondo indo-pacifico garantendo non la pace (parola utopicamente abusata) ma la stabilità e l’equilibrio alla regione. Le reazioni globali che hanno caratterizzato questa nuova crisi mediorientale dimostrano ancora una volta che il destino geostrategico dell’Occidente non risiede nel tentativo di riesumare la Guerra Fredda con la Russia (per dare soddisfazione ai rancori dell’Europa Orientale) ma nella partecipazione attiva alla gestione della situazione in questa regione chiave.

Successivamente, la crisi ha dimostrato che la politica statunitense non possa fare a meno di svolgere un ruolo di primo piano nel Medio Oriente, essendo l’unico attore in grado di agire sia come protagonista diplomatico sia come elemento di deterrenza contro la tentazione di una eventuale escalation.

La risposta tiepida della Cina e l’impossibilità della Russia di giocare un ruolo determinante lasciano a Washington il ruolo di arbitro della situazione in tutti i sensi. Quando non frenati da alleati titubanti e ambigui nelle loro scelte, gli Stati Uniti sono in grado di decidere e di agire in maniera diretta, dimostrandosi in grado di svolgere quel ruolo di grande potenza che molti, recentemente, davano per appannato.

Come ultimo fattore di analisi deve essere sottolineato, ancora, il ruolo dell’ONU, anzi l’assoluta assenza dell’ONU, che si dimostra per l’ennesima volta un organismo vuoto e privo di concretezza, incapace di svolgere il ruolo per il quale era stato creato, prigioniero nel suo stesso Palazzo di Vetro di una apatia e di una insipienza ipocrita che rendono, vieppiù, necessario provvedere a una sua ricostruzione concettuale e strutturale.

Tenendo in considerazione questo contesto geopolitico e geostrategico è possibile, quindi, formulare delle ipotesi riguardo all’evoluzione della situazione.

L’intenzione di Israele di produrre una risposta coerente all’attacco di Hamas è fuori discussione, resta da vedere come tale risposta sarà concepita.

Tralasciando gli aspetti puramente operativi che verranno adottati, ciò che rappresenta il centro di gravità per la risoluzione del conflitto è costituito da quello che avverrà durante e dopo l’azione militare, cioè le azioni diplomatico politiche che non solo Israele ma la comunità internazionale saranno in grado di mettere in atto per gestire la situazione, evitare un’escalation e avviare un processo di ricostruzione.

Israele, non solo deve attentamente calibrare l’intensità e la durezza della sua azione a Gaza, conformando la sua condotta alle leggi dei conflitti evitando, così, di perdere o compromettere il sostegno internazionale ricevuto, ma deve soprattutto impedire che la neutralizzazione di Hamas apra un vuoto di potere nella Striscia tale da creare una situazione di caos istituzionale peggiore di quella attuale.

Infatti, la situazione al termine delle operazioni militari rappresenta il punto focale dell’intera questione ed è il fattore sul quale devono concentrarsi gli sforzi della comunità internazionale.

A questo proposito è importante sottolineare come le azioni diplomatiche che i Governi dell’area hanno intrapreso, nel particolare la Giordania, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, tendano sia a identificare una linea d’azione comune che pianifichi la ricostruzione dell’area sia a moderare gli effetti della crisi umanitaria in atto nella Striscia.

Oltre a condividere e sostenere una tale linea d’azione il ruolo che la diplomazia internazionale deve svolgere dovrebbe avere un duplice obiettivo: scongiurare che le caratteristiche della risposta cinetica di Israele coinvolgano anche la popolazione civile di Gaza (che è la vera vittima dell’azione di Hamas) ed evitare che il coinvolgimento di Hezbollah e dell’Iran possa determinare una escalation incontrollabile, che non solo destabilizzerebbe l’area, ma, le cui ripercussioni avrebbero effetti catastrofici globali; contestualmente, identificare delle ipotesi di soluzione credibili per la fase la ricostruzione politica, istituzionale ed economica dell’area, finalizzata a creare una situazione di equilibrio e di stabilità.

Il conseguimento di questi obiettivi sarà possibile se la diplomazia statunitense sarà sostenuta e integrata dal coinvolgimento di tutti i protagonisti del consesso internazionale, in primis Cina, India ed Unione Europea.

Un elemento di assoluta criticità è rappresentato dalla necessità di impedire che l’Iran, direttamente o indirettamente tramite le organizzazioni che finanzia e gestisce in Libano, Siria e Cisgiordania, supporti l’apertura di un secondo fronte settentrionale espandendo la crisi.

Al momento, nonostante la retorica minacciosa dei comunicati di Teheran, appare dubbio un coinvolgimento diretto dello stato islamico, tuttavia, la capacità di controllo di Hezbollah potrebbe non rivelarsi così incondizionata da evitare un possibile intervento nel conflitto. Al fine di neutralizzare questa potenziale minaccia è necessario che il contesto internazionale intervenga sia attraverso i canali diplomatici sia, anche, con azioni di deterrenza.

Per quanto attiene, invece, alla necessità di ricostruire ciò che la azione di Hamas ha distrutto, le possibili ipotesi devono essere immediatamente identificate al fine di condizionare e limitare l’azione puramente militare.

Il discorso, in questo caso, risulta essere complicato dalle infinte variabili in gioco.

La rioccupazione militare permanente della Striscia da parte di Israele non appare essere la soluzione ricercata dallo stato ebraico; l’ANP al momento non ha né gli strumenti né le capacità per poter riassumere il ruolo che gli competerebbe, avendo perso ogni forma di supporto popolare; la formazione di una missione sotto egida dell’ONU non sembra trovare il consenso necessario e risulterebbe l’ennesimo esempio di burocratizzazione inutile di una crisi senza provvedere alla soluzione; la possibilità di ripristinare la situazione quo ante puntando sull’ala moderata di Hamas (se mai ce ne fosse ancora una) è poco credibile e priva di garanzie di affidabilità per il futuro; la formazione assistita di una governance basata sulle forze politiche di minoranza locali opposte ad Hamas potrebbe risultare una imposizione dall’esterno priva di appoggio popolare.

Queste sono solo alcune delle possibili ipotesi ed è difficile predire quale possa essere la soluzione che potrà essere adottata; comunque sia, il fulcro del problema non risiede a Gaza ma investe tutta l’area mediorientale.

E’ quindi indispensabile la concretizzazione di un’azione diplomatico-politica globale che riesca a identificare e mettere in atto una soluzione idonea a creare l’equilibrio e la sicurezza indispensabili per tutto il Medio Oriente, considerando, realisticamente le aspirazioni e le aspettative legittime di tutti senza ipocrisie culturali e senza nascondersi dietro devianti interpretazioni del credo religioso.

Israele, il governo di solidarietà nazionale è un ibrido

Lunedì notte Benjamin Netanyahu e Benny Gantz hanno firmato l’accordo di Coalizione per l’Istituzione del Governo d’Emergenza di Unità Nazionale, un fascicolo di 16 pagine perlopiù atte ad evitare che uno dei due firmatari possa soverchiare l’altro.

L’intesa è stata trovata dopo che le precedenti trattative tra il Likud e il Blu e Bianco per formare un governo erano fallite nuovamente e, a più di un anno dalla crisi politica che ha investito il paese, per la seconda volta nell’arco di 12 mesi il presidente Reuven Rivlin aveva concesso in data 16 aprile un periodo di 21 giorni alla Knesset per designare un membro del parlamento idoneo a formare una maggioranza al proprio interno.
Nonostante il primo turno per la carica presidenziale verrà assunto da Netanyahu per 18 mesi, dai termini dell’accordo sembra che sia Benny Gantz ad incidere maggiormente sulla prossima legislatura; ad esempio molti deterrenti e contraltari sono posti al capo di Likud, come la previsione di un lungo periodo prima delle elezioni, in caso venissero indette da Netanyahu, in cui ad assumere il ruolo di primo ministro sarebbe lo stesso Gantz; inoltre tradire l’accordo di governo varrebbe a dire per il Likud un’enorme perdita di consensi in vista di eventuali elezioni.

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Israeliani e palestinesi insieme contro la diffusione del Covid-19

MEDIO ORIENTE di

Israele offre assistenza medica all’Autorità Nazionale Palestinese dopo la rottura provocata dal piano di pace proposto dal Presidente americano  Donald Trump.

Dopo anni di congelamento delle relazioni e la rottura dei legami causati dalla presentazione nel mese di febbraio del controverso piano di pace dagli Stati Uniti, israeliani e palestinesi stanno collaborando da vicino nelle ultime settimane per arginare la diffusione della pandemia del coronavirus. L’avvicinamento, generato dal coordinamento sanitario, ha portato Israele ad offrire aiuti medici all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), estendendosi per la prima volta anche alla sovraffollata Striscia di Gaza, sotto il controllo dell’organizzazione islamista Hamas. Inoltre, decine di migliaia di lavoratori della Gisgiordania sono stati autorizzati a risiedere sul territorio israeliano, contrariamente all’attuale divieto, durante la situazione d’emergenza.

In una tregua non dichiarata, i razzi hanno smesso di librarsi nei cieli delle città israeliane al confine con Gaza, le truppe rimangono acquartierate e gli incidenti violenti sono diventati una rarità nelle comunicazioni dei media locali. L’ANP ha dichiarato il confinamento di tutta la popolazione a partire da domenica.

Già con quasi mille casi di Covid-19 registrati in Israele (9 milioni di abitanti), con un deceduto fino ad oggi, e oltre cinquanta positivi in Cisgiordania (2,5 milioni di abitanti), la crisi è ancora distante dai livelli europei. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono stati colpiti dal fatto che nell’enclave sovraffollata di Gaza (circa 2 milioni tra residenti e rifugiati) nessun caso è stato  dichiarato fino a sabato sera, quando sono stati annunciati i primi due casi positivi: due viaggiatori provenienti dal Pakistan.

La striscia costiera, appena 375 chilometri quadrati, è stata isolata dal 2007, quando gli islamisti di Hamas hanno estromesso il partito Fatah del Presidente dell’ANP Mahmud Abbas e Israele ha imposto un feroce blocco militare. Poiché Gaza è dotata di un solo laboratorio per eseguire i test di rilevamento dei virus, Israele ha facilitato l’ingresso di qualche centinaio di kit per eseguire test e dispositivi di protezione per il personale medico, pur ammettendo un grave deficit di apparecchiature mediche nei loro centri ospedalieri, secondo i dati ufficiali riportati dal The Jerusalem Post.

Il Cogat, il corpo del Ministero della Difesa israeliano che gestisce l’occupazione nei territori palestinesi, ha messo in guardia da un possibile contagio tra la popolazione della Striscia di Gaza, il cui sistema sanitario copre a malapena i bisogni minimi dopo le tre guerre devastanti con Israele tra il 2008 e il 2014. Il maggiore Yotam Shefer, capo del dipartimento internazionale del Cogat, ha avvertito in una teleconferenza con giornalisti stranierei che “i virus non conoscono confini”. L’enclave dispone solamente di 60 posti nelle unità di terapia intensiva. Al momento, oltre 2700 persone sono confinate nelle loro case dopo essere tornate a Gaza attraverso il varco di Rafah, l’unico passaggio aperto con l’Egitto. Il confine di Erez con Israele è chiuso, tranne che per i pazienti oncologici e con malattie gravi che devono essere trasferiti negli ospedali israeliani o della Cisgiordania.

Sempre Sheref ha affermato che “per tre settimane, il Cogat ha coordinato la cooperazione tra il Ministero della Salute israeliano e le autorità sanitarie palestinesi”, ricevendo circa 400 kit di test di rilevazione e 500 dispositivi di protezione individuale. Sono stati inoltre organizzati incontri telematici per formare professionisti palestinesi per la prevenzione della pandemia. La prospettiva di un massiccio contagio in Cisgiordania e a Gaza viene analizzata con preoccupazione dallo stato maggiore delle forze armate, riferisce il quotidiano Haaretxz.

Il Presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha telefonato nei giorni scorsi a Rais Mahmus Abbas: un gesto di avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese inusuale da quando i negoziati di pace sono stati annullati nel 2014. “La crisi del coronavirus non distingue tra popoli e territori”, ha detto il Presidente ebraico, “e la nostra cooperazione è vitale per proteggere la salute di israeliani e palestinesi: la nostra capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonierà anche la nostra volontà di collaborare in futuro per il bene di tutti”, ha aggiunto Rivlin, prima di esprimere ad Abbas la sua volontà di offrire aiuto, in modo coordinato.

Da parte palestinese, il Ministro degli Affari Civili, Hussein al-Sheikh, responsabile del coordinamento con Israele, ha riconosciuto in alcune interviste il miglioramento delle relazioni bilaterali, sottolineando come ci sia una forte volontà di collaborazione e come il pericolo pandemia non abbia confini. E’ nella situazione degli oltre cento mila palestinesi che ogni giorno attraversano la Cisgiordania verso Israele per motivi di lavoro che la cooperazione è diventata più visibile. Infatti, secondo Al-Sheikh saranno circa 45.000 i lavoratori che riceveranno l’autorizzazione a risiedere in territorio israeliano per almeno un mese, evitando così quei trasferimenti continui che potrebbero moltiplicare le possibilità di diffusione del virus.

Di Mario Savina

La visita di Mattarella in Qatar e in Israele

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

La settimana appena trascorsa è stata per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricca di appuntamenti istituzionali per lo più centrati sui nodi del Medio Oriente e della questione libica. 

 

IL SUMMIT IN QATAR
Il Capo di Stato dopo aver ricevuto nel 2018 al Quirinale il sovrano del Qatar, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, si è recato a Doha lunedì 20 gennaio per sostenere dei colloqui assieme a quest’ultimo. Nei due giorni di permanenza sono stati toccati numerosi temi, dai problemi che affliggono la comunità internazionale e la stabilità della regione fino alle fruttuose relazioni economiche tra i due paesi, che negli ultimi anni hanno registrato 2 miliardi di euro in interscambio, ovvero nell’insieme di importazioni ed esportazioni, di cui uno per le esportazioni italiane; a testimonianza del rapporto saldo in materia economica tra Italia e Qatar erano presenti al vertice gli amministratori delegati di numerose aziende italiane, tra cui Eni, Fincantieri, Leonardo e Cassa depositi e prestiti.

Il rapporto tra i due paesi non è solo di cooperazione economica, difatti sia l’Italia che il Qatar nella questione libica appoggiano il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, nell’ultimo periodo sotto l’attacco del Generale Haftar, comandante dell’Esercito Nazionale Libico, che sta conducendo una grave offensiva sulla capitale nonostante le richieste di tregua avanzate sia dalla Conferenza di Berlino che dalla Russia e la Turchia, principali alleati delle rispettive compagini libiche.
Il presidente Mattarella non ha nascosto all’emiro al-Thani la sua preoccupazione per questa grave escalation di violenze, soprattutto alla luce dell’invio da parte del presidente turco Erdogan di un contingente militare in supporto di Tripoli sulla base di un accordo trovato tra Anakara e il Governo di Accordo Nazionale libico lo scorso 27 novembre. Tra i paesi che hanno condannato quest’intromissione, che sembra aver colpito l’intera comunità internazionale, c’è l’Italia. Il Presidente Mattarella ha definito la situazione preoccupante ed ha auspicato una maggiore saggezza; la crisi libica deve essere risolta tramite la mediazione poiché un ulteriore conflitto sarebbe devastante per un paese che dal 2011 ha perso la propria stabilità; è per questo che l’Italia, ha continuato il Capo di Stato, appoggia l’azione multilaterale dell’ONU e del suo alto rappresentante Ghassan Salamé.
Da parte sua l’emiro qatariota al-Thani supporta il governo di al-Serraj ed è al contempo stretto alleato di Ankara, da quando nel 2017 Erdogan supportò il Qatar a fronte di un blocco commerciale che altri Stati vicini come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto, lo Yemen e il Barhein gli imposero a seguito di accuse di finanziamento allo Stato Islamico; aiuto per cui la Turchia sta ora beneficiando di un piano d’investimenti pari a 15 bilioni di dollari da parte di Doha per contrastare la forte svalutazione della lira turca. L’incontro di Doha è stato quindi salutato con esito positivo,nonostante restino alcuni interrogativi circa il futuro della Libia; il multilateralismo e le richieste di tregua restano al contempo strumenti tanto solenni quanto poco efficaci, tant’è che il generale Haftar oltre a violare la tregua auspicata a Berlino sta limitando fortemente la produzione di greggio negli impianti sotto suo controllo, recando danni ingenti a compagnie come la NOC e l’Eni.

 

LA VISITA IN ISRAELE
Dopo gli incontri tenuti in Qatar per il Presidente Mattarella è stata la volta di Gerusalemme, invitato lì il 24 gennaio assieme agli altri capi di stato dal Presidente israeliano Reuven Rivlin per commemorare il 75imo anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau al memoriale della Shoah Yad Vashem. Il Presidente Rivlin per l’occasione si è voluto congratulare con l’Italia per il suo impegno in prima fila nella lotta contro l’antisemitismo, testimoniato anche dalla nomina di Liliana Segre a senatrice a vita nel 2018, a 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali. L’evento di commemorazione si è svolto linearmente; hanno preso parola molti capi di stato tra cui il Presidente russo Vladimir Putin, che anche se con un leggero ritardo ha voluto ringraziare Israele per conservare tutt’oggi la memoria dei tragici eventi legati al nazismo, eventi che uniscono il popolo russo a quello ebraico, e Mike Pence, vice-presidente statunitense, il quale ha rivolto l’attenzione dei partecipanti verso gli attuali nemici del popolo ebraico, prima fra tutti Teheran.
IL VICE USA AL QUIRINALE

All’indomani della commemorazione che si è svolta a Gerusalemme il Presidente Mattarella ha accolto venerdì 24 gennaio, presso il Quirinale, proprio il vice-presidente USA Mike Pence. Le buone relazioni che intercorrono fra Stati Uniti e Italia sono dato certo; le situazioni di crisi nella politica internazionale non ne hanno scalfito l’intesa sebbene l’Italia, come confermato dalle parole dello stesso Presidente, sia preoccupata dal graduale disimpegno americano in Siria e in Libia, oltre che dall’applicazione di dazi nei confronti del nostro paese.

A tal proposito Mattarella ha esortato gli Stati Uniti ad applicare il proprio peso poltico specialmente in Libia, dove l’Italia conserva numerosi interessi, al fine di dare efficacia alla tregua chiesta dalla Conferenza di Berlino. Sulla questione dazi il Presidente ha richiamato il concetto di alleanza come “comunità di valori”, la stessa che lega i due paesi nell’alleanza trans-atlantica, e che rischia però di essere indebolita dall’intromissione di strumenti commerciali nocivi come i dazi commerciali. Dopo il colloquio avuto al Quirinale il vice USA Mike Pence si è diretto a Palazzo Chigi dal premier Conte ma, prima di lasciare il Colle, questo si è voluto complimentare con il Presidente Mattarella per la sua forte leadership.

Striscia di Gaza: almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste, 1.000 quelli rimasti feriti

MEDIO ORIENTE di

Sul piano internazionale, la storia della Striscia di Gaza imbarazza poiché tutti gli attori (Stati uniti e Unione Europea in primis) che si dicono paladini della “pace in Medio Oriente” non vogliono (i primi) e non possono (la seconda) muovere un dito per affrontare radicalmente la questione. Che viene così trascurata, attenuata ogni tanto con discorsi di “investimenti”, di “sostegno allo sviluppo”, di “interventi” che non hanno alcun impatto significativo per sedare la rabbia di chi nasce, sopravvive e muore in quel pezzo di terra recintata. Le ragioni delle proteste iniziate da più di 6 settimane nella striscia di Gaza sono diverse: l’embargo di Israele verso la Striscia di Gaza (che dura da più di dieci anni), l’assenza di prospettive e di lavoro con un tasso di disoccupazione al 44%, il risentimento verso la classe dirigente palestinese, il 30% del taglio dei salari agli abitanti di Gaza solo nell’ultimo anno o anche il fatto che periodicamente mancano acqua, cibo, medicinali, elettricità e carburante. Le proteste hanno visto 108 morti di cui 60 solo nella giornata del 14 maggio. Gli scontri hanno visto da una parte i Palestinesi che cercavano di “abbattere” il muro o di lanciare pietre (pietre che hanno assunto il simbolo del dolore della popolazione palestinese), mentre dall’altra parte del muro vi erano i tiratori scelti israeliani. Amnesty International ha dichiarato che è “aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro i civili disarmati” mentre l’esercito israeliano si è difeso dicendo che tra i 60 caduti vi erano 14 che cercavano di scavalcare il muro o di lanciare molotov o ordigni improvvisati e altri 24 che facevano parte delle brigate di fondamentalisti. In questi scontri non è stato risparmiato nessuno, sono almeno 13 i bambini che hanno perso la vita a Gaza dall’inizio delle proteste mentre il numero di persone rimaste ferite ha ormai superato quota 10.000di cui almeno 1.000 sono minori.  Quella del 14 maggio, sottolinea Save the Children è stata una delle giornate più sanguinose dalla guerra del 2014, con 6 bambini che hanno perso la vita e più di 220 rimasti feriti, tra cui, secondo i dati del Ministero palestinese per la Salute a Gaza, più di 150 colpiti da colpi d’arma da fuoco. Lo stesso Ministero, del resto, conferma che circa 600 bambini sono stati finora ricoverati in strutture ospedaliere, mentre secondo le informazioni diffuse da un’agenzia impegnata nella protezione dei civili almeno 600 minori hanno attualmente bisogno di supporto psicosociale. Inoltre, Anche prima dell’inizio delle proteste, gli ospedali di Gaza erano quasi al collasso con il 90% dei posti letto già occupati. L’afflusso di nuovi feriti ha significato che tante persone vengono curate nei corridoi o dimesse prima di essere adeguatamente curate. A peggiorare ulteriormente la situazione, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, solo a pochissimi feriti viene permesso di lasciare Gaza per cercare assistenza medica, il che aumenta le probabilità di complicazioni e impedisce ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno. Nel frattempo, Germania e Regno unito pretendono un’inchiesta indipendente, richiesta che al consiglio di sicurezza è stata bloccata dagli Stati Uniti che riconoscono ad Israele “il diritto di difendere il loro confine”. A ciò si aggiunge il riaprirsi della frattura diplomatica tra Israele e Turchia. La Turchia ha espulso l’ambasciatore di Ankara mentre Netanyahu ferma l’importazione dei prodotti agricoli turchi e rimanda a casa il console a Gerusalemme. I palestinesi sono abituati da sempre a dare grande importanza al dibattito internazionale che si è creato intorno alla loro causa. La nuova amministrazione americana ha nominato un ambasciatore in Israele molto vicino al movimento dei coloni e soprattutto ha deciso di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, una città contesa da decenni fra israeliani e palestinesi. Una decisione che ha convinto molti palestinesi che la soluzione ai loro problemi sia sempre più lontana, per cui l’autorità palestinese ormai non considera più Washington come un mediatore imparziale.

Il comitato organizzatore della protesta si era impegnato a garantire una grande manifestazione non violenta in modo da favorire la partecipazione delle famiglie. In cinque luoghi diversi della Striscia, a circa un chilometro di distanza dalla recinzione, sono stati montati ampi tendoni per i manifestanti. Qui migliaia di persone hanno mangiato e bevuto insieme mentre gli altoparlanti trasmettevano musica leggera. Però qualche centinaio di metri più in là, a poca distanza dalla recinzione, l’atmosfera era molto diversa. A piccoli gruppi provano ad avvicinarsi sempre di più al confine israeliano per lanciare pietre, bruciare copertoni e danneggiare la recinzione. Alcuni di loro sono giovani manifestanti senza particolari affiliazioni politiche mentre altri hanno legami con Hamas. La giornata del 14 è particolare che passa tra il sorriso di Ivanka Trump e il massacro dei palestinesi: mentre delle persone morivano sotto i colpi dei fucili di precisione, a Gerusalemme si teneva la cerimonia in pompa magna per l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense. Trump ha ventilato per mesi la possibilità di partecipare lui stesso alla cerimonia ma alla fine ha mandato sua figlia Ivanka e il marito Jared Kushner. Inoltre, la data è stata scelta con precisione in quanto coincide con i 70 anni dalla nascita dello stato israeliano. Ivanka Trump ha inaugurato la sede dell’ambasciata dicendo: “A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell’ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d’Israele. Inoltre, come è stato detto: “Prevale una versione della storia della Palestina con una costante rimozione: nella terra promessa c’è un altro popolo che sente quella terra come propria per il semplice fatto che ci vive da secoli e secoli. Una contraddizione irrisolta tra il mito del focolare ebraico, dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento: Gerusalemme capitale dello stato israeliano significa anche questo”. Il 15 maggio, anniversario dei 70 anni della Nakba, era previsto come il giorno in cui le azioni di protesta sarebbero state più intense ma è stata una giornata di funerali.

Lo Status di Gerusalemme

Lo scorso 6 dicembre Donald Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Gli Stati Uniti non hanno sempre sostenuto il movimento sionista (movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico). Per esempio, Roosevelt aveva capito il rischio nel supportare uno stato Israeliano in un momento in cui il mondo arabo mostrava affinità con il socialismo sovietico e possedeva la maggior quantità di petrolio. Truman invece era un simpatizzante sionista e doveva, in parte, la sua elezione alla comunità ebraica americana quindi, una volta diventato presidente, spinse molto per lo Stato di Israele, per questo gli Stati Uniti furono il primo paese a riconoscere il neonato stato ebraico. Nel 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite (che allora contava 52 Paesi membri), dopo sei mesi di lavoro da parte dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) approvò la Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 181 che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500 000 ebrei e 400 000 arabi) e di uno Stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800 000 arabi e 10 000 ebrei). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, sarebbero dovuti diventare una zona separata sotto l’amministrazione dell’ONU. Nella sua relazione l’UNSCOP giunse alla conclusione che era “manifestamente impossibile” accontentare entrambe le fazioni ma che era “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico. Le reazioni alla risoluzione dell’ONU furono diversificate. La maggior parte degli ebrei accettarono pur lamentando la non continuità territoriale mentre i gruppi più estremisti erano contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano “la Grande Israele”, nonché al controllo internazionale di Gerusalemme. Tra la popolazione araba la proposta fu rifiutata, con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico; altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso né sulla principale risorsa idrica della zona, il Mar di Galilea); altri ancora erano contrari perché agli ebrei, che allora costituivano una minoranza (un terzo della popolazione totale che possedeva solo il 7% del territorio), fosse assegnata la maggioranza (56%, ma con molte zone desertiche) del territorio (anche se la commissione dell’ONU aveva preso quella decisione anche in virtù della prevedibile immigrazione di massa dall’Europa dei reduci delle persecuzioni della Germania nazista); gli stati arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due governi. Tra il dicembre del 1947 e la prima metà di maggio del 1948 vi furono cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Venne messo a punto Il piano che aveva come scopo la difesa e il controllo del territorio del quasi neonato Stato israeliano, e degli insediamenti ebraici a rischio posti di là dal confine di questo. Questo prevedeva, tra le altre cose, la possibilità di occupare “basi nemiche” poste oltre il confine (per evitare che venissero impiegate per organizzare infiltrazioni all’interno del territorio), e prevedeva la distruzione dei villaggi palestinesi espellendone gli abitanti oltre confine, ove la popolazione fosse stata “difficile da controllare“. Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, un giorno prima che l’ONU stessa, come previsto, ne sancisse la creazione. Il giorno successivo (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, attaccarono l’appena nato Stato di Israele ma l’offensiva venne bloccata dall’esercito israeliano. Nel corso della guerra, Israele distrusse centinaia di villaggi palestinesi e fu la concausa dell’esodo degli abitanti. La guerra terminò con la sconfitta araba nel maggio del 1949, e produsse 711 000 profughi arabo-palestinesi. Dall’amministrazione Truman in poi abbiamo assistito a differenti linee guida con i democratici e i repubblicani. L’unica caratteristica che è rimasta stabile nelle differenti politiche è la soluzione a due stati, di fatto nessun presidente ha mai apertamente sostenuto la possibilità che Israele possa annettere automaticamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nella presidenza Reagan invece vi è stato il momento più forte di supporto a Israele, sotto la sua amministrazione Tel Aviv ha guadagnato il titolo di “major non-NATO ally” e che si è tradotto in grandi quantità di denaro e di armi in arrivo da Washington. Con la fine della Guerra fredda il supporto a Israele è diventato più una posizione di politica interna. Inizialmente, dopo la caduta del muro di Berlino, gli Stati uniti hanno cercato di avvicinarsi al tema dei diritti dei palestinesi per cercare alleanze con il mondo arabo che non godeva più del supporto dell’unione sovietica. Ma con gli attacchi alle Torri Gemelle del 2001 e la retorica del terrorismo, l’appoggio per la causa palestinese ha assunto sfumature diverse.  Le due amministrazioni Bush e, in parte, quelle di Obama hanno mostrato una forte vicinanza a Israele ma hanno usato il tema dei diritti dei palestinesi e della difesa dei loro territori come uno strumento per farsi vedere vicini ai temi arabi.

Dal 1947 la questione cruciale dello scontro è lo status di Gerusalemme. Le nazioni unite hanno ripetuto a più riprese la soluzione che comprendeva l’esistenza di due stati e l’amministrazione sotto l’ONU della città di Gerusalemme. Ciò non riuscì ad evitare la divisione effettiva della città tra due gruppi opposti. Sono stati svariati i tentativi di stabilire giuridicamente il possesso della città. Uno dei casi più eclatanti è in seguito alla vittoria da parte di Israele della guerra dei sei giorni e la successiva annessione dei territori del Sinai, della West Bank e delle Alture del Golan. Infatti, immediatamente dopo l’occupazione, il ministro della difesa israeliana Dayan ha proclamato Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. La comunità internazionale non ha riconosciuto l’annessione della città e si è continuato a sottolineare la necessità del regime internazionale sull’area. Ci furono ripetuti tentativi dell’ONU e diverse investigazioni sulla violazione dei diritti umani. Sullo status di Gerusalemme, per esempio, ha dichiarato inammissibile l’acquisizione di un territorio attraverso l’uso della forza, secondo quanto stabilito dalla carta Onu, e ha richiesto il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati, nel riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere e del principio di sovranità. Nel 1980, però, lo stato israeliano ha emanato la Jerusalem Law, con cui si dichiarava Gerusalemme capitale. La dichiarazione venne immediatamente rifiutata dalle Nazioni Unite e dalle altre organizzazioni internazionali. Furono adottate due risoluzioni in quell’anno, la 465 e la 478, in cui Israele veniva accusata di violazione dei diritti umani e si invitava tutti i membri dell’ONU ad interrompere le missioni diplomatiche nella città. Nel corso degli anni le risoluzioni hanno sempre confermato lo status di Israele come forza occupante e il riconoscimento di violazioni dei diritti umani. Anche nella risoluzione del 2016 (Res 2334) è stato riaffermato l’obbligo di Israele di rispettare scrupolosamente i suoi obblighi e responsabilità legali ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Inoltre, sono state condannate tutte le misure volte a modificare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, compresa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione degli insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e dislocamento di civili palestinesi, in violazione del diritto internazionale umanitario e relative risoluzioni. In relazione a Gerusalemme è stato ribadito che l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nel territorio palestinese occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale e un ostacolo principale al raggiungimento della soluzione dei due Stati e un giusto pace duratura e completa. In sintesi, le Nazioni Unite continuano a sottolineare il regime internazionale di Gerusalemme e ad accusare Israele di occupazione illecita del territorio, soprattutto di Gerusalemme est (essendo quella ovest ormai considerata de facto israeliana). Come possiamo notare la soluzione di Trump ha dimostrato di avere pesanti conseguenze e porre una rottura sia con la politica estera americana che con le decisioni internazionali. In molti hanno cercato lo scopo della mossa del presidente degli Stati uniti. C’è chi ha trovato la motivazione nell’avvicinarsi delle elezioni di Mid Term. Trump, poiché sta perdendo consensi tra i moderati, avrebbe deciso di assolutizzare ancora di più il suo messaggio politico per poter raccogliere i voti nei poli più estremi del panorama politico. Inoltre, è stata vista come mossa per tenersi più stretti i cristiani evangelisti all’interno del partito repubblicano e che simpatizzano per la questione ebraica, per evitare che vadano su posizioni più vicine ai nemici interni al partito. Va anche detto che Trump sta cercando di mantenere le sue promesse elettorali non appena gli è permesso dalla situazione. Altre ipotesi che sono state analizzate sono quelle relative agli stessi consiglieri di Trump e anche all’ansia della Casa Bianca di distogliere l’attenzione mediatica dal cosiddetto Russiagate. Ciò che rimane sicuro è che le conseguenze per l’area sono gravi e profonde anche per gli stessi alleati del presidente, come l’Arabia Saudita e l’Egitto. Questi giorni risultano essere un successo non per Israele bensì per il primo ministro Benjamin Netanyahu, per la destra e per i nazionalisti. Questi sono giorni di vittoria per il loro percorso, quello della forza, e della loro fede, quella negli eletti che possono fare tutto ciò che vogliono.

La situazione dei bambini

Jennifer Moorehead, direttrice di Save the Children nei Territori palestinesi occupati ha detto: “L’uccisione dei bambini non può essere giustificata. Chiediamo con urgenza a tutte le parti di adottare misure concrete per garantire l’incolumità e la protezione dei bambini, nel rispetto delle convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani. Chiediamo inoltre a tutte le parti di impegnarsi affinché tutte le proteste rimangano pacifiche, di affrontare le cause alla radice del conflitto e di promuovere dignità e sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi. Le famiglie che incontriamo ci dicono che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, mentre cercano di prendersi cura dei propri cari che sono rimasti feriti. Spesso non possono permettersi cure e medicinali e ci raccontano di essere estremamente preoccupate per il futuro dei loro bambini, già devastati da più di 10 anni di blocco israeliano e dal sempre minore interesse da parte dei donatori. Le continue interruzioni di corrente e il congelamento degli stipendi dovuto alle continue divisioni tra l’Autorità Palestinese che governa la West Bank e l’autorità de facto di Gaza, inoltre, significa aggravare ulteriormente le condizioni di vita di famiglie già disperate”. Nella striscia di Gaza, le ostilità hanno esposto i bambini a livelli di violenza e distruzione senza precedenti. La povertà, le condizioni in cui cresce il bambino, la mancanza di istruzione, o il fatto di non avere cibo e acqua sono solo alcune delle problematiche in cui cresce un bambino nelle zone di guerra, queste problematiche hanno effetti sulla salute fisica e mentale del bambino. In questi contesti la personalità e l’intersoggettività del bambino viene distrutta e occorrono importanti cure mediche e piscologiche che spesso solo le ONG possono portare ma trovano ostacoli nel loro operato o perdono fondi per il disinteresse internazionale.  Il “rapporto 2017 – 2018 sulla situazione dei diritti umani nel mondo” di Amnesty International riporta che Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto illegalmente da Israele sulla Striscia di Gaza mantiene in vigore le consolidate restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoponendo a punizione collettiva l’intera popolazione di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto e alle misure punitive imposte dalle autorità della Cisgiordania, il blocco di Gaza da parte d’Israele ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da interruzioni dell’erogazione dell’energia elettrica, passata da una media di otto ore al giorno a un massimo di due o quattro ore giornaliere, da una ridotta fornitura di acqua potabile con implicazioni igienico-sanitarie e da crescenti difficoltà d’accesso all’assistenza medica, rendendo Gaza progressivamente “invivibile”, secondo una definizione delle Nazioni Unite.

Nuova mossa di Trump: Gerusalemme capitale di Israele.

MEDIO ORIENTE di

La decisione del Presidente degli Stati Uniti, Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l’ambasciata americana da Tel Aviv ha fatto notizia in tutto il mondo. Tra le principali reazioni troviamo naturalmente quelle della zona interessata, da Israele all’Autorità Palestinese, da Hamas alla Turchia, con interventi anche di esponenti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei principali Paesi europei. Nonostante gli avvertimenti vari, da Macron a Erdogan, Trump, lontano da ogni consenso, ha dimostrato ancora una volta che è fedele  ai suoi interessi.

Gerusalemme è una ferita aperta. Un labirinto dal quale nessuno è riuscito a trovare un’uscita. 70 anni fa, l’accordo di spartizione della Palestina aveva collocato temporaneamente la città sotto l’amministrazione internazionale. Ma presto la parte occidentale era stata occupata da Israele e dopo la guerra dei sei giorni, nel giungo del 1967, anche quella orientale (la parte che i palestinesi considerano loro capitale). In questo nido, Trump ha giocato con il fuoco. Sapendo che tutte le ambasciate  hanno sede a Tel Aviv, ha permesso che la sua intenzione di trasferire l’ambasciata trapelasse e ha persino allertato le delegazioni USA sulle possibilità di proteste. Con il suo silenzio, come quando ha ritirato il suo paese dagli Accordi sul clima di Parigi, ha fatto sì che la tensione raggiungesse il culmine. Il risultato è stato che in tutto il Medio Oriente e in Europa le pressioni si sono moltiplicate per costringerlo ad un cambiamento di rotta, mentre lui con tutte le luci puntate addosso, si accomodava sul barile di polvere da sparo per meditare. È il suo modo di fare politica. 

La decisione è stata già comunicata  al leader palestinese, Mahmud Abbas, e al re giordano Abdullah II con un giro di telefonate. La sua intenzione è quella di riconoscere la “realtà storica” di Gerusalemme e spostare l’ambasciata il prima possibile. Il cambiamento di sede era già stato deciso dal Congresso nel 1995, ma per motivi di sicurezza nazionale era stato sospeso da tutti i presidenti precedenti a Trump. La Casa Bianca sostiene comunque che il trasferimento per quanto desiderato richiederà anni, a causa dei permessi e per questioni di sicurezza. In ogni caso, il riconoscimento di Gerusalemme, con il suo enorme onere simbolico, significa gettare benzina sul fuoco. Non solo Trump pone fine a quella tregua internazionale ormai decennale, ma riafferma la sua fede filo-israeliana, che tanti voti gli ha portato durante la campagna elettorale, e avverte i palestinesi che il suo obiettivo è quello di aprire  un nuovo ciclo in cui la soluzione a due stati non è necessaria.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha qualificato come atto storico la decisione di Trump e ha invitato gli altri paesi a fare la stessa cosa, affermando di essere profondamente grato al presidente americano per la scelta fatta e che qualsiasi accordo di pace nella zona deve tenere conto di Gerusalemme come capitale di Israele. L’indignazione cresce nella zona interessata e in Europa. Una nuova tempesta  che è stata accolta  con costernazione in un’area devastata da decenni si sangue e fuoco. Il leader palestinese, Mahmud Abbas, ha dichiarato in un intervento televisivo che Gerusalemme è la capitale storica  dello Stato Palestinese, puntando il dito contro la decisione americana e rifiutando qualsiasi mediazione nelle negoziazioni con Israele.   Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha già minacciato una nuova intifada, secondo cui la decisione di Trump “apre le porte all’inferno”, etichettandola come un’aggressione contro il popolo palestinese. L’OLP (l’Organizzazione Palestinese di Liberazione) ha definito la misura come “il bacio della morte” per la pace. In Turchia, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha manifestato la sua contrarietà, minacciando la chiusura di rapporti diplomatici con Israele, definendo la questione come una linea rossa per il mondo musulmano. In modo meno bellicoso, ma sempre indignata è stata la reazione dell’Organizzazione  della Cooperazione Islamica, che riunisce i paesi musulmani, dichiarando che il trasferimento significherebbe ignorare l’occupazione di Gerusalemme Est come territorio palestinese. Dall’Europa sono arrivati dichiarazioni da Macron, secondo cui la scelta di Trump va contro le risoluzioni dell’ONU, e dall’Alto Rappresentante UE Mogherini che ha espresso preoccupazione  per le conseguenze della mossa del presidente statunitense.

Tuttavia, secondo alcuni analisti, la mossa di Trump, per quanto spregiudicata, è meditata. I paesi arabi protesteranno formalmente, ma esistono interessi più grandi che non possono essere compromessi. Soprattutto sul fronte di Riyad, il legame tra USA e Arabia Saudita è indirizzato nell’opposizione all’ascesa dell’Iran, una battaglia condivisa con lo stesso Israele, e per essere forti su questa lotta al potere degli ayatollah, i sauditi hanno bisogno del supporto statunitense. Naturalmente fra i motivi di questa decisione bisogna citare la chiara strategia di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica verso la politica internazionale, cercando di distoglierla dallo scandalo del Russiagate con le sue ultime novità (possibile coinvolgimento del consigliere capo e genero di Trump, Jared Kushner). Non da ultimo il chiaro furore ideologico, ereditato anche da presidenze passate, secondo cui Israele è il bene assoluto.

Di Mario Savina

UNIFIL Libano, cambio di comando per la missione italiana

Difesa/Medio oriente – Africa di

La Brigata Sassari subentra alla Brigata Taurinense nell’Operazione Leonte al confine sud del paese.

I compiti della missione e le regole di ingaggio non cambiano ma proseguono con lo stesso livello di professionalità e impegno profuso negli anni dai contingenti italiani nell’ambito della missione ONU denominata UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon).

20160418 ToA JTFL Sector West-269Al comando della Brigata Sassari il Generale di Brigata Arturo Nitti che subentra al Generale Franco Federici comandante della Brigata Taurinense.

Anche se la Brigata “Sassari” è alla sua prima missione in Libano con i colori delle Nazioni Unite ha una grande esperienza sul campo, presente negli anni sui diversi scenari operativi internazionali ha accumulato una grande esperienza operativa che sarà utile in un contesto come quello libanese che vive da anni una situazione di tregua con il vicino Israele ma che necessità di un altissimo livello di professionalità e attenzione per non far infiammare nuovamente il conflitto.

La situazione internazionale non aiuta il mantenimento della stabilità, il Libano soffre al nord di infiltrazioni da parte dell’ISIS, come dimostrano i recenti arresti da parte delle autorità nazionali, oltre alla crisi umanitaria provocata dal sempre crescente numero di profughi siriani ospitati anche nei campi profughi presenti nella zona di competenza della missione UNIFIL.

Durante la cerimonia di cambio di comando il Generale Portolano, Capo missione e comandante delle forze UNIFIL ha indicato come fondamentale il ruolo degli italiano come ambasciatori di pace e sottolinea come la missione conclusa dalla “Taurinense” sia stata “caratterizzata dalla condivisione di un progetto comune realizzato attraverso il dialogo con la popolazione e le sue istituzioni e” continua il Generale “come Il consenso sia stato alla base di ogni attività condotta dagli alpini del contingente italiano grazie ai quali è stata incrementata l’efficacia delle attività operative per il mantenimento della stabilità dell’area e la fiducia della popolazione libanese nei confronti di Unifil. “

IMG_9791L’attività di peacekeeping nella missione Leonte è il pilastro fondamentale della missione, la raccolta di consenso da aprte della popolazione permette una operatività sul territorio fondamentale per il mantenimento della pace.

La missione LEONTE è caratterizzata da un mix di attività cinetiche come il pattugliamento del territorio e il controllo di mezzi e persone con l’obiettivo di impedire il movimento di armi e incidenti lungo la Blue Line.

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Rohani a Roma: a rischio i rapporti con Israele?

Medio oriente – Africa/POLITICA di

 

Inizia dall’Italia il primo tour in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani all’indomani della fine delle sanzioni internazionali sul paese. Un segno di apertura verso il mondo occidentale e di come l’Iran voglia recuperare e rafforzare i rapporti con i partner europei, in primis, appunto, l’Italia.

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Il viaggio del leader iraniano a Roma assume una triplice valenza. Dal punto di vista politico, la visita di Rohani arriva in un momento significativo per il paese e per il Medio Oriente. La fine delle sanzioni internazionali e l’accordo sul nucleare rilanciano, infatti, i rapporti della Repubblica Islamica con il resto del mondo, ponendo fine al decennale isolamento politico. Opportunità per Teheran, quindi, di contribuire anche ad una soluzione politica delle varie problematiche regionali.

Secondo, l’aspetto religioso. L’incontro tra un leader musulmano sciita e il più alto rappresentate della Chiesa Cattolica, Papa Francesco, rappresenta un evento importante in un periodo in cui le tensioni settarie e la costante minaccia del terrorismo islamico rendono difficili i rapporti tra Chiese diverse. Nella Roma cattolica, Rohani si fa promotore del volto buono dell’Islam. Lo stesso Vaticano sottolinea i valori spirituali comuni e l’importanza dell’Iran per la pace in Medio Oriente.

Voce finale nell’agenda di Rohani è l’economia. Sette gli accordi istituzionali firmati, tra cui l’intesa tra il Mise e il Ministero dell’Industria iraniano. A livello industriale, contratti siglati nel settore energetico, minerario, delle costruzioni, della cantieristica navale e dei trasporti, per un ammontare di circa 17 miliardi.

Seppure non esente da polemiche e critiche (come quella legata alla copertura delle statue di nudo nel Museo Capitolino), la visita di Rohani segna un riavvicinamento notevole tra la Repubblica Islamica e l’Italia. Un’Italia che, pur aderendo alle sanzioni internazionali, ha mantenuto buone relazioni con il paese arabo, basate –oggi come in passato-sul mutuo vantaggio.

Politicamente, rinvigorire i legami con un paese europeo significa, per l’Iran, recuperare l’isolamento degli anni passati e proiettare nuovamente la nazione nel contesto europeo ed internazionale. Veder riconosciuta la capillarità del proprio ruolo per ripristinare la stabilità in Medio Oriente ridona legittimità a un paese che per decenni è stato visto come minaccia per la sicurezza regionale e globale. Dall’altro lato, l’Italia acquisisce un alleato indispensabile per la lotta al terrorismo internazionale e, facendosi mediatore del reinserimento dell’Iran nei maggiori fora mondiali, può guadagnare in termini di importanza diplomatica.

Dal punto di vista economico, la fine delle sanzioni verso l’Iran non è soltanto ossigeno per il paese, ma apre la porta a nuovi investimenti per l’Italia. L’Iran, infatti, possiede una popolazione giovane, che guarda di buon occhio il mercato occidentale, in particolar modo quello del lusso, della moda e dell’auto. L’Iran può essere, dunque, un partner importante per rilanciare il Made in Italy.

Ma quale sarà la reazione dello storico nemico della Repubblica Islamica, Israele? Quali le ripercussioni nei rapporti tra lo Stivale e il paese ebraico?

L’Italia vanta storicamente buone relazioni con Israele, basate su una cooperazione in campo politico, economico, scientifico, culturale e militare. Promotore negli anni del processo di pace in Medio Oriente e della creazione dello Stato della Palestina, il governo italiano ha sempre lavorato nell’ottica di ostacolare la diffusione dell’antisemitismo nella regione e favorire il dialogo tra Israele e i vicini stati arabi. La fine delle sanzioni e l’accordo sul nucleare (relativamente al quale Israele ha apertamente manifestato il proprio dissenso), hanno messo in allarme il governo Netanyahu circa una possibile rinascita iraniana. Vedere uno stato tradizionalmente amico, come l’Italia, rafforzare i legami con la Repubblica Islamica potrebbe effettivamente creare attriti tra Roma e Gerusalemme.

L’anello chiave di questo equilibrio può essere l’elemento militare. Gli accordi stretti tra Roma e Teheran non contemplano il settore militare, né in termini di rifornimento di capacità belliche né di addestramento e know-how. Un simile low-profile è presumibilmente accettabile per Israele per due motivi. Da un lato, non tocca la capacità militare iraniana; dall’altro, l’effettiva apertura verso l’Iran è un segnale positivo anche per i suoi alleati (ad es. Russia). Al contrario, posizioni chiuse da parte dei paesi occidentali potrebbero irrigidire anche i rapporti tra l’Occidente e le potenze amiche di Teheran, compromettendo gli sforzi in atto per fronteggiare altre minacce comuni, come l’Islamic State.

È difficile, dunque, pensare che l’Italia possa optare per un’opzione aut-aut, che vada cioè ad escludere i rapporti con uno dei due paesi a favore esclusivamente dell’altro. Nell’incontro con il presidente iraniano, il premier Matteo Renzi ha tenuto a precisare l’importanza dei rapporti con Israele ed il diritto/dovere di quest’ultimo di esistere come Stato. Considerando gli interessi in gioco e le tradizioni politiche italiane, è più probabile, dunque, che il governo scelga di mantenere una posizione equidistante: un calcolo strategico che garantisce i vantaggi del commercio con l’Iran senza però irritare Israele.

 

Paola Fratantoni

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Accordo nucleare Iran: i dubbi e i sospiri di sollievo

A Vienna, Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Cina, Russia firmano lo storico accordo con l’Iran. L’utilizzo per scopi civili e non militari dell’uranio arricchito da parte di Teheran fa da contraltare alla fine delle sanzioni e dell’embargo. Le reazioni di Israele e dell’Arabia Saudita, nonché le critiche provenienti dalla stampa statunitense, lasciano perplessità sui futuri sviluppi geopolitici nel Medio Oriente.

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Dopo 16 giorni di negoziati, ieri a Vienna è stata raggiunta la storica intesa tra Usa, Ue, Gran Bretagna Russia e Cina, e l’Iran sul programma nucleare. Un accordo di portata storica, come definito dalle parti in causa. Un’intesa che da una parte punta alla riduzione della produzione di uranio di Teheran per i prossimi 10 anni. Dall’altra, pone fine alle sanzioni e all’embargo per quanto riguarda il commercio. Sebbene ponga, in modo formale, fine a decenni di conflitto con l’Occidente, il cui apice c’è stato durante l’amministrazione di George W. Bush, le reazioni negative da parte di Israele e le contraddizioni con le alleanze di Washington con partner del Medio Oriente, Arabia Saudita su tutti, suonano come un campanello d’allarme per la comunità internazionale.

Prendendo spunto dall’intesa dello scorso 3 aprile, l’accordo messo nero su bianco dal ‘5+1’ consta di quattro punti fondamentale. Il taglio del 98% delle scorte di uranio arricchito. L’utilizzo delle centrifughe ridotto a due terzi. La possibilità, non automatica, degli ispettori di Alea di effettuare ispezioni presso gli impianti nucleari iraniani, dietro il consenso del tribunale arbitrario formato dagli stessi Paesi che hanno sottoscritto l’accordo. La graduale riduzione dell’embargo sulle armi entro i prossimi cinque anni. La risoluzione Onu in materia è prevista la prossima settimana, quando si riunirà il Consiglio di Sicurezza.

Punti che mirano al nocciolo della disputa tra Usa e Iran: l’utilizzo dell’uranio arricchito per usi civili e non militari. Ma che hanno anche l’intento di creare un corridoio diplomatico privilegiato con il più grande Stato sciita del Medio Oriente, capace di sostenere il regime di Assad in Siria o gli Hezbollah in Libano e determinante nella riconquista dei territori nord-occidentali iracheni, finiti sotto l’ombra del Califfato.

In più, questa intesa consente di aprire un vaso di pandora enorme dal punto di vista del commercio. Basti pensare al petrolio. L’Iran è il quarto produttore al mondo e, con la fine dell’embargo, è pronto ad aumentare la produzione di greggio, con una conseguente diminuzione del prezzo al barile sui mercati internazionali. Inoltre, fino agli anni Settanta, l’Europa era il primo mercato estero per Teheran.

Sono questi aspetti geopolitici ed economici a spingere le dichiarazioni entusiaste dei protagonisti dell’accordo di Vienna. Il presidente Usa Obama ha affermato che “grazie all’accordo, la comunità internazionale potrà verificare che l’Iran non sviluppi l’arma atomica. È un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica”. E si è detto pronto a porre il veto, presso il Congresso, nel caso in cui i repubblicani “si opponessero all’attuazione della legge”, ha ammonito il capo della Casa Bianca.

“Penso che questo sia un momento storico: l’accordo non è perfetto ma è il migliore che potevamo raggiungere”, ha affermato il ministro degli Esteri iraniano Zarif. Mentre il presidente Rohani ha incalzato dicendo che “nessuno può dire che l’Iran si è arreso. L’accordo è una vittoria legale, tecnica e politica per l’Iran, che non sarà più considerato una minaccia mondiale”.

Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, parte attiva dei negoziati, parla di “nuovo capitolo nelle relazioni internazionali”, mentre per il presidente russo Putin “il mondo tira un grosso sospiro di sollievo”.

Il coro, però, non è stato unanime presso tutta la comunità internazionale. Come prevedibile, la reazione di Israele non si è fatta attendere: “ È un errore di portata storica – ha tuonato il presidente Netanyahu al telefono con Obama-. Questo accordo minaccia la sicurezza di Israele e il mondo intero. Quanto avete concordato con l’Iran gli consentirà di avere armi nucleari entro 10-15 anni se rispetteranno l’accordo. Altrimenti, anche in minor tempo”. Mentre un funzionario del governo dell’Arabia Saudita denuncia la possibilità che l’Iran possa “devastare la regione”.

Le contraddizioni in seno all’accordo, come la contemporanea alleanza degli Stati Uniti con la coalizione saudita nello Yemen contro gli Houtii (fazione sciita appoggiata da Teheran), portano dietro di sè una strategia di ben più ampio respiro. La chance data dagli Stati Uniti e i suoi alleati più che all’Iran è diretta alla società civile iraniana. L’apertura verso l’esterno e un’auspicabile e sempre più progressiva responsabilizzazione della classe politica dirigente, potrebbe portare al ritorno al dialogo e alla distensione tra gli sciiti e i sunniti del Medio Oriente. Questo nuovo equilibrio potrebbe essere un’arma efficace contro l’espansionismo dello Stato Islamico.

I critici sull’accordo non mancano, come detto. Negli Stati Uniti, aldilà del Partito Repubblicano, è stata parte della stampa stessa a sollevare ben più di un’ombra. Sul Wall Street Journal, ad esempio, l’editoriale di Bret Stephens tuona dicendo che “l’accordo fa acqua da tutte le parti” e che difficilmente la politica estera iraniana cambierà. Anzi, l’intesa di Vienna potrebbe rivelarsi un boomerang per gli Stati Uniti.

Giacomo Pratali

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I volti dell’attivismo

Medio oriente – Africa di

“Buongiorno” o “buonanotte dalla Palestina occupata dal mostro nazista israeliano”. E’ con questo saluto che Samantha Comizzoli, attivista volontaria per i diritti umani originaria di Ravenna, ama introdurre i messaggi lanciati tramite la sua pagina Facebook. Il suo impegno è senza tregua. Quarantacinque anni, originaria di Ravenna dove si è candidata a sindaco alle ultime amministrative con la lista “Ravenna Punto a Capo”, da un anno e quattro mesi si trova in Palestina. Il suo obiettivo è di documentare tramite post, foto, video e filmati (fra cui il film dal titolo “Israele, il cancro” realizzato con immagini di scontri reali avvenuti in Palestina e interviste ai loro protagonisti) diffusi tramite il blog e la pagina FB che gestisce, le azioni condotte dai militari israeliani negli insediamenti palestinesi. Tramite le sue testimonianze si entra in una dimensione che non da tregua. Rapimenti, incursioni notturne, violenze di vario tipo. Samantha è stata fermata sabato a Nablus in Cisgiordania, durante una manifestazione, dalla polizia israeliana. La sua carta di identità era contraffatta ed ora, dopo aver iniziato lo sciopero della fame ed essersi dichiarata prigioniera politica, sarà probabilmente espulsa. L’8 giugno scorso ha affidato alla sua pagina Facebook il compito di divulgare il suo appello, affinchè tutti possano conoscere la sua verità. A spronarla, ciò che era successo tre giorni prima, il rinvenimento a casa propria di “qualcosa che non deve assolutamente esserci” e di cui fortunatamente è riuscita a sbarazzarsi prima che potesse arrivare la Polizia e con essa, un arresto sicuro. “Mi chiamo Samantha Comizzoli e sono entrata in Palestina, tramite volo a Tel Aviv, l’11 febbraio 2014 – scrive. “Ho avuto un “visto turistico” dal terrorista Israele per 3 mesi. Dopo mi è scaduto e sono diventata “illegale” o “clandestina”. Sono qui con la mia faccia e il mio nome e ho sempre reso tutto pubblico.
Avevo la possibilità, forse, di regolarizzare la mia presenza qui, ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perchè non vado dai nazisti a chiedergli “un permesso” e non vado nemmeno dai loro amici (l’autorità palestinese) a chiedere il permesso di esistere dove cazzo mi pare. E’ una forma di Resistenza, personale certo – aggiunge – ma sono qui dopo un anno e 4 mesi alla faccia del mostro. Questo ha portato molte conseguenze: i primi tempi salivo sul service per fare anche solo 10 km con le chiappe strette perchè avevo paura che mi beccassero, dopo ho iniziato a non dare più il passaporto ai checkpoint volanti e a rispondergli sui denti, ogni volta che vado in mezzo agli scontri il timore non è che mi sparino, ma che mi prendano. Mi è andata sempre bene? No, non credo, Israele non è stupido. E’ una mente più complessa di quanto uno possa immaginare”. Perchè sia riuscita sempre a cavarsela, almeno fino a quando non è stata fermata, l’attivista ravennate se lo spiega in questo modo. “Inizio a pensare che la motivazione è più agghiacciante: Israele ha dimostrato e mi ha dimostrato che anche se uno sacrifica la propria vita, sta qui con il suo nome e la sua faccia e pubblica tutta (ma veramente tutta) la merda che accade; non cambia nulla. Ha dimostrato che è tutto inutile e che il mondo se ne fotte e non ferma Israele. Ho deciso di scriverlo adesso tutto questo perchè 3 giorni fa purtroppo è accaduta una cosa…. Qualcuno mi ha messo in casa qualcosa che non deve assolutamente esserci. Me ne sono liberata quando ho capito, subito, il giorno dopo e sono stata, sì, fortunata che i soldati non sono venuti quella notte. Questo però mi ha portato a pensare che abbiano deciso di venire qui, ma soprattutto che prima di venire a prendermi vogliono screditarmi e distruggere il mio lavoro. Così anche il Governo italiano sarà fuori dall’imbarazzo. Io sono pronta – aggiunge – non ho paura; prima però ho voluto scrivere tutto questo affinchè rimanga scritto e voglio aggiungere che mentre lo scrivo sto bevendo una birra e anche che ho fumato in strada varie volte e che ho anche avuto storie d’amore. In quest’anno di prigionia non mi sono mai privata della vita e della mia libertà mentale. Ho amato, sorriso, vissuto, scritto sempre la verità. Ho resistito più di un anno, e di notte ho iniziato a dormire perchè non ho paura”. Qualche giorno prima, la Comizzoli è stata ferita durante una manifestazione organizzata per celebrare i 67 anni della Nakba, la “Catastrofe”, data che segna l’espropriazione della patria palestinese del 1948, mentre stava procedendo con le braccia aperte verso il checkpoint israeliano di Howara. A colpirla due rubber bullet, proiettili di gomma utilizzati nelle armi antisommossa. L’11 giugno, una paio di giorni prima di essere fermata e imprigionata nel carcere israeliano dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la Comizzoli aveva avuto modo di raccontare nelle pagine del suo blog un’altro episodio. “Questa è una storia orrenda che ho vissuto oggi – scrive. “Ne sono testimone e in parte partecipe. Vi prego di leggerla, farla leggere e divulgarla perchè non ci sono giornalisti che la conoscono, ma va assolutamente fatta conoscere. Avevo appuntamento con una mia amica a casa sua, nel villaggio di Assira Al Qabilia, Nablus. Volevamo parlare di un piccolo progetto per i bambini che forse inizierò presto, il tutto bevendo un caffè. Con me è venuto un ragazzo italiano che è qui in vacanza. Siccome questo ragazzo non parla né inglese né arabo, ha colto l’occasione per farsi una passeggiata nel villaggio mentre noi parlavamo. Ha iniziato a camminare su, verso la collina, in mezzo alle case del villaggio, e un paio di bambini che l’hanno visto hanno iniziato ad avvicinarsi per fargli compagnia. Nessun dialogo ovviamente, se non a gesti. Si è fermato quando finiva il villaggio di Assira e ha scattato 3 foto alla cima della collina (dal quale era ancora molto distante), dove c’è l’insediamento illegale di Yhitzar. E’ tornato, io avevo finito, abbiamo preso il service e siamo tornati a Nablus. Quando siamo arrivati al checkpoint di Howwara abbiamo visto molti soldati con le jeep, pronti ad entrare in azione (e ho mandato un tweet). Scesi dal service ricevo una telefonata della mia amica, agitata, che mi dice di tornare subito indietro perchè ci sono lì i soldati israeliani e vogliono il ragazzo italiano che ha scattato le foto. Prendiamo un taxi per far prima e torniamo indietro al villaggio di Assira Al Qabilja. Nel frattempo davanti alla casa erano arrivate molte donne del villaggio. La mia amica ci ha fatti tornare di corsa perchè: i soldati israeliani erano piombati nel villaggio con 10 jeeps e avevano preso uno dei due bambini che aveva tentato un dialogo con il ragazzo italiano e volevano anche l’altro bambino se il ragazzo italiano non si fosse consegnato ai soldati.Il bambino che avevano preso ha 15 anni”. Dopo ore farcite di sigarette e caffè e tentativi di sbloccare la situazione, finalmente il bambino viene rilasciato. “Il problema non sono quelle 3 foto del cazzo che ha fatto l’italiano – conclude la Comizzoli. “Il problema è che qui un bambino di 15 anni non è nemmeno libero di camminare su una strada perchè deve sempre temere di essere rapito dai soldati israeliani. Il ragazzo italiano è capitato, secondo logica, in mezzo a qualcosa che volevano già fare oggi (le jeeps e i soldati erano pronti ad Howwara). Così, per buttare anche un po’ di merda sulla presenza degli internazionali e su chi stringe contatti con loro, hanno pensato bene di inscenare questa storia. Se non fosse così, pensateci bene, non sarebbero almeno venuti a prendersi la macchina fotografica o a chiedere di cancellare le foto? Anche questa storia, raccontatela ai vostri figli e ditegli che i mostri esistono”.

 

Monia Savioli
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