GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Asia - page 5

Il Ministro della Difesa italiano Pinotti vola a Mosul

Asia/Difesa di

In vista del nuovo impegno in Iraq pianificato per proteggere le operazioni di messa in sicurezza dell’imponente diga di Mosul il Ministro Pinotti si reca in visita alle forze italiane di che operano a Erbil.

Le forze presenti nella città appartengono al 5° Reggimento Aviazione “Rigel” e al 7° “Vega” della Brigata aeromobile “Friuli” dell’Esercito italiano, appoggiati dal reggimento di fanteria aviotrasportata del 66° “Trieste“.

Il loro compito è quello di fornire CSAR, Combat search and rescue, ossia operazioni di recupero, ricerca e salvataggio in ambienti ostili.

A questi verranno affiancate nuovi elementi che avranno il compito di garantire la sicurezza degli operatori civili della società TEVI che si occuperà dei lavori alla diga.

04022018-4ebd-4632-854d-cf330aef75c706MediumLa diga si trova a circa 20 chilometri da Mosul e l’area al momento è interessata da combattimenti tra le forse del governo Irakeno e i terroristi del Daesh che hanno avuto il controllo della zona fino a pochi mesi fa.

Durante la visita il Ministro Pinotti ai militari presenti a Erbil ha confermato il forte apprezzamento per il oro lavoro “La missione che state svolgendo con grande competenza, professionalità e umanità – ha detto durante il suo discorso – è fondamentale per la sicurezza dell’Iraq e del nostro Paese. Sconfiggere il terrorismo deve essere un obiettivo prioritario della comunità internazionale. Grazie perché con il vostro lavoro tenete alto l’onore dell’Italia”.

Con l’invio dei nuovi 500 elementi delle Forze Armate l’Italia diventa il secondo Paese più importante nella coalizione anti Isis. Un impegno che nasce dalla ferma volontà di contrastare l’attività dei terroristi.

Il Congresso rafforza il potere di Kim Jong-Un

Asia/BreakingNews di

Il Congresso Generale del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, iniziato venerdì scorso a 36 anni di distanza dal precedente, prosegue secondo programma, consolidando ulteriormente il potere del presidente Kim Jong-Un, succeduto nel 2011 al padre Kim Jong-Il.

Domenica 8 maggio la televisione di stato ha trasmesso un lungo discorso con il quale leader supremo, di fronte a 3400 delegati giunti da ogni angolo del paese, ha annunciato un nuovo piano quinquennale per restituire slancio alla sofferente economia nazionale. Nonostante l’enfasi con il quale è stato presentato, il nuovo piano non fa intravedere cambiamenti profondi né a livello politico né sul piano economico.

In effetti, il presidente nord-coreano è stato avaro di dettagli, riferendosi vagamente alla necessità di una maggiore automazione dell’industria e del settore agricolo e ad un incremento della produzione di carbone nel corso del prossimo lustro. Gran parte del discorso si è focalizzato sulla celebrazione degli sforzi e dei progressi fatti dal paese negli ultimi 36 anni, con frequenti riferimenti all’ideologia della Juche, centrata sui concetti di autonomia e autosufficienza. Al contempo, il leader ha auspicato un incremento del commercio estero, mostrando scarsa considerazione per l’irrigidimento delle sanzioni economiche voluto dall’ONU dopo i test nucleari condotti nel gennaio scorso.

In un paese che, nonostante tutto, cresce di circa un punto percentuale di PIL ogni anno, Jong-Un ha sottolineato il bisogno di individuare nuove risorse energetiche che possano generare elettricità a sufficienza per sostenere lo sviluppo, in un paese da sempre alle prese con frequenti black-out, che interessano anche la capitale PJongyang. A tale scopo, la Corea del Nord intende puntare sul nucleare e sull’incremento di fonti energetiche rinnovabili.

Il presidente ha fatto anche riferimento all’arsenale nucleare, sul cui sviluppo si stanno concentrando gli sforzi maggiori del regime. In una dichiarazione dal sapore distensivo, Kim ha assicurato che la Corea del Nord non intende fare ricorso alle armi atomiche, a meno che “la sua sovranità non sia messa in pericolo dall’aggressione di altre potenze nucleari”.

Un approccio insolitamente diplomatico ha caratterizzato anche i riferimenti alla Corea del Sud, con la quale il regime vorrebbe tornare a dialogare per abbassare il livello di tensione. Un’offerta aspramente respinta, a stretto giro di boa, dal Ministro per l’Unificazione del Sud: “mentre parla di dialogo inter-coreano continua a sviluppare il suo arsenale nucleare”, ha affermato, bollando le dichiarazioni di Kim Jong-Un come mera propaganda.

Il giorno successivo, quasi a confermare le diffidenze sud-coreane, il Partito dei Lavoratori ha deciso formalmente, durante il congresso, di rafforzare ulteriormente l’arsenale nucleare del paese “a scopo di auto-difesa”, sfidando nuovamente l’Onu e il suo sistema di sanzioni.

Benché non sia stata ancora ufficializzata una data di chiusura, il congresso dovrebbe proseguire ancora per alcuni giorni. I media stranieri sono stati invitatati a presenziare allo storico evento ma, fino ad oggi, i giornalisti non hanno potuto varcare le porte del grande Palazzo della Cultura, la cui platea si estende su una superficie pari a due campi da calcio. I cronisti hanno preso parte ad alcune visite guidate, sotto lo sguardo attento dei funzionari del partito ma, di fatto, non hanno ancora potuto svolgere il lavoro per il quale erano stati accreditati.

Il clima, per la stampa, non è comunque facile. Lo scorso venerdì i membri di un team della BBC, inviato a coprire il congresso, sono stati posti in stato di arresto e successivamente espulsi. Secondo quanto riportato da un’agenzia di stampa cinese, i britannici sono stati accusati di aver “attaccato il sistema della DPRK (Repubblica Democratica Popolare di Corea) e di aver riportato i fatti in modo non-obiettivo”.

Mentre la stampa straniera fa i conti con l’idea nord-coreana di obiettività, il leader supremo del paese rafforza ulteriormente il suo potere. Lunedì, infatti,i delegati hanno insignito Kim Jong-Un di un nuovo titolo: Presidente del Partito dei Lavoratori, carica che si affianca a quella di primo segretario.

 

Luca Marchesini

Cina: rinnovato sistema sorveglianza cittadini

Asia di

La Cina, come tutti i sistemi autoritari, ha la necessità costante di tenere sotto controllo i propri cittadini, per monitorarne i comportamenti, anticipare possibili conflitti e predisporre soluzioni adeguate ai problemi.

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L’ostacolo principale, per il gigante asiatico, è la sua stessa dimensione. Approntare standard di sorveglianza efficaci per un miliardo e 375 milioni di abitanti non è evidentemente un compito semplice. Le autorità del governo centrale hanno però messo a punto un nuovo sistema che potrebbe rendere i meccanismi di controllo maggiormente efficienti.

Il suo nome è “sistema di gestione a griglia” e, una volta implementato su scala nazionale, potrebbe consentire al Partito Comunista Cinese di esercitare una capacità di sorveglianza mai sperimentata prima.

Fino ad oggi, le informazioni raccolte dalle autorità cinesi provenivano da una pluralità di fonti diverse. L’eccessiva articolazione, unita alla spaventosa mole delle informazioni, rendevano l’analisi dei dati raccolti complessa e farraginosa. Negli ultimi cinque anni la Cina ha dunque lavorato su un programma all’avanguardia capace di razionalizzare tale analisi, facendo affidamento su un database ordinato e coerente al suo interno.

Il cardine del nuovo sistema è l’amministratore di griglia. Su ogni centro abitato viene applicata una griglia, composta da un certo numero di quadranti. Nel caso di una grande città, i settori saranno anche migliaia. Ogni amministratore, su mandato delle autorità, ha il compito di tenere sotto controllo un quadrante e le abitazioni al suo interno, fino a un massimo di duecento.

Il funzionario raccoglie informazioni relative ad ogni caseggiato di sua competenza e le inserisce in un apposito formulario che andrà poi a comporre, insieme agli altri, un enorme database complessivo.  I dati possono riguardare i prezzi degli affitti, il numero di abitanti, i loro luoghi di lavoro, a che ora escono da casa e a che ora rientrano.

L’amministratore ha anche il compito di tenere occhi ed orecchie aperte, per registrare eventuali lamentele o proteste da parte dei cittadini, su qualunque argomento. Ogni rimostranza viene poi trascritta sul database come possibile minaccia. Le autorità, locali o centrali, analizzando i dati così aggregati, potranno capire se in un certo territorio si stanno manifestando espressioni diffuse di malcontento ed intervenire d’anticipo, prima che la protesta monti ulteriormente. La risposta non sarà necessariamente poliziesca; quel che conta, per le autorità, è la prevenzione di ogni forma organizzata di conflitto e la salvaguardia della stabilità sociale.

La capacità di controllo sarà un elemento sempre più importante per il governo centrale, dal momento che il rallentamento della crescita economica e il consolidamento di un feroce sistema industriale sembrano destinati ad esacerbare le diseguaglianze economiche e sociali fra i cittadini e ad alimentare il fuoco della protesta.

 

Luca Marchesini

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Russia, varata nuova legge antiterrorismo

Asia/POLITICA di

Da quando il conflitto è alle porte la Federazione Russa ha pensato di costituire uno schermo di tipo giuridico anti-terroistico, che però si sta rivelando essere solo un altro dei tentativi per centralizzare e rafforzare il potere dello Stato. La Duma si propone di inasprire le sanzioni per il terrorismo e l’estremismo, e, inoltre, vietare l’espatrio a coloro che possono essere sospettati di aver compiuti atti riconducibili al terrorismo. In effetti la minaccia alla quiete pubblica nelle ultime settimane, come ad esempio l’attacco degli estremisti a Stavropol’, ha fatto sì che fosse necessaria un’iniziativa del genere.
Il giorno 11 aprile 2016 sono stati presentati al parlamento due disegni di legge che andrebbero ad incidere norme contenute nel Codice Penale. Tali modifiche sono state proposte da un deputato della Duma Irina Yarovaya e dal Presidente del Comitato del Consiglio della Federazione sulla difesa e la sicurezza Viktor Ozerov.

Le modifiche sono svolte non solo nella direzione di una più severa pena per le attività affini al terrorismo. Esse andrebbero a colpire immediatamente un certo numero di sfere di vita dei cittadini, enti pubblici e strutture commerciali. L’estremismo può essere considerato anche un post su un social network, se si trova ad essere secondo il nuovo Art. 280 del codice penale affine a quelle attività considerate estremiste. Si innalza il tempo della detenzione e vengono maggiorate le multe. Sono state prese delle misure in materia di revoca della cittadinanza per coloro che sono sotto processo per atti di terrorismo e l’estremismo e impedito loro l’espatrio. E’ stata ridotta la soglia di responsabilità per i minori che dai 16 scende ai 14 anni. Inoltre le nuove sanzioni prevedono da 3000 a 5000 rubli per i cittadini che non si conformano all’obbligo di notificare al Roskomnadzor  le informazioni riguardanti l’organizzazione o lo scambio di dati tra gli utenti in rete, così anche  come violazione del dovere di memorizzare i dati per 6 mesi.

Gli autori di un nuovo pacchetto di iniziative anti-estremista vogliono in particolare limitare l’uscita dal Paese per “Ribellione armata” (Art.279 codice penale) o “Attacco contro persone o istituzioni che godono di protezione internazionale” (art. 360 del codice penale). Sono stati proposti degli articoli anche per il “terrorismo internazionale”, con la pena da 15 anni all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, e senza un termine di prescrizione e “Promozione di attività estremista”.

Oltre all’inserimento degli articoli ex novo sono state proposte anche delle puntualizzazioni come ad esempio nelle materie sulla cittadinanza della Federazione Russa. Ne può essere effettuata la revoca qualora il soggetto rientri nella sfera di giurisdizione di quegli articoli che ne provino l’affiliazione ad attività estremiste, con una puntualizzazione che esclude i casi di revoca “se una persona non ha altra cittadinanza o garanzie della sua acquisizione.”
La particolarità di queste leggi è che possono essere rivolti a chiunque. Il fatto che l’imputato o l’indagato rimarrà sul territorio della Russia, non influenzerà la sicurezza dei cittadini. Allo stesso modo, non ha alcuna importanza il fatto che per l’appartenenza a un gruppo armato illegale la responsabilità sia scesa a  14 anni. Gli autori avevano in mente la minaccia rappresentata dall’ISIS, ma i meccanismi di queste nuove leggi possono indurre in suoi abusi, grazie alle linee larghe che non hanno logica organica ma un insieme di azioni volte a rafforzare le misure di controllo. Anche il deputato della Duma di Stato Dmitry Gudkov ha puntualizzato come articoli come quelli che trattano la responsabilità la “promozione dell’attività estremista” possono considerarsi dirette all’eliminazione dell’opposizione del governo.  

La piattaforma Talk.rublacklist.net ha raccolto commenti inerenti a tale disegno di legge. Ne è risultato che la revisione è vista come un nuovo criterio per classificare le attività terroristiche sotto forma di “attività che destabilizzano le autorità”. Si estende il controllo delle comunicazioni di rete dei cittadini. Hosting provider, proprietari di siti web e altre persone (comprese le risorse estere), saranno  costretti a memorizzare i dati sull’ammissione, il trasferimento, il trasporto, la manipolazione varie informazioni elettroniche per sei mesi. Si parla anche dei pagamenti elettronici: saranno limitati quelli non personalizzati, ossia pagamenti effettuati senza identificare il cliente. Questo potrebbe rappresentare una lesione delle libertà personali che concernono sopratutto l’unione di più gruppi e la condivisione degli interessi dei consociati.

Così con il proposito di svolgere delle attività “anti-terroristiche”, i nuovi emendamenti risolvono contemporaneamente alcuni problemi rilevanti per La Federazione Russa come il rafforzamento dei poteri dell’FSB e della Banca Centrale,  Il rafforzamento del controllo sulle comunicazioni di rete dei cittadini, rafforzamento del controllo sulle operazioni finanziarie dei cittadini, con l’ausilio di mezzi elettronici di pagamento, rafforzamento del controllo sulle attività delle ONG.

Yauheniya Dzemianchuk

Alessandro Conte

Mitsubishi: dati emissioni truccate

Asia di

Un nuovo “caso VolksWagen” si profila sull’orizzonte del sol Levante, seppur su scala minore. E’ di ieri la notizia che la Mitsubishi Motors, storica casa giapponese di automobili (e non solo), ha ammesso di aver truccato i dati relativi all’efficienza energetica di alcuni suoi veicoli.

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Il presidente del gruppo Tetsuro Aikawa ha indetto una conferenza stampa a Tokio per scusarsi con i clienti, e gli stakeholders della Mitshubishi, rivelando che i dati relativi a 625 mila veicoli sono stati manipolati in modo improprio per aumentare i valori del chilometraggio e simulare un minore consumo di carburante. 157 mila di questi sarebbero marchiati Mitsubishi, mentre i restanti 468 mila sarebbero stati prodotti per la Nissan. In tutti i casi si tratta di mini auto con una cilindrata di 660 cc, molto popolari sul mercato nipponico.

La compagnia ha inoltre ammesso di aver violato la legge nipponica, adottando metodologie di test irregolari sin dal 2002. La rivelazione ha spinto  Ministero dei trasporti giapponese ad avviare un’indagine giudiziaria per verificare l’effettiva portata della falsificazione e del danno relativo inflitto ai consumatori.

L’unica danno certo, per ora, è quello che la Mitsubishi ha inflitto al valore delle sue stesse azioni: dopo la conferenza stampa di Aikawa, infatti, il valore di capitalizzazione sulla borsa di Tokio è crollato del 15 per cento: una dura battuta di arresto per i profitti del sesto produttore giapponese di veicoli a motore, fino a quel momento sospinti dalla crescita della domanda globale di automobili.

I problemi, del resto, potrebbero non limitarsi ai veicoli fino ad ora identificati, poiché il gruppo sta svolgendo ulteriori indagini interne per stabilire se anche le macchine vendute fuori dal Giappone siano state testate con le stesse irregolari metodologie.

Secondo una prima stima fatta da un analista di JP Morgan, lo scandalo potrebbe costare alla holding circa 50 milioni di Yen (450 milioni di dollari), comprensivi dei risarcimenti e dei costi di sostituzione delle parti non a norma delle auto. Ma il vero danno, per la casa nipponica, potrebbe essere la compromissione dell’affidabilità del brand, le cui ricadute in termini economici non sono al momento quantificabili.

Le rivelazioni hanno prodotto un’immediata reazione da parte delle autorità giapponesi. La polizia ha condotto un blitz in una delle sedi principali della Mitsubishi Motors, nella città di Okazaki, per raccogliere documentazione ed ha intimato alla società di fornire, entro il limite tassativo del 27 aprile, un rapporto dettagliato sulla situazione e sui test fino ad ora condotti sui veicoli. Lo scopo delle autorità è capire come siano stati falsificati i test e verificare che lo scandalo non abbia proporzioni maggiori di quelle fino ad oggi emerse.

Non è la prima volta che la Mitsubishi si trova costretta a riconquistare la fiducia dei consumatori. All’inizio degli anni 2000 il colosso giapponese dovette affrontare un altro scandalo, quando emerse che alcune sue automobili presentavano una serie di gravi difetti, con freni e frizioni mal funzionanti e serbatoi che si staccavano dal veicolo durante la marcia.

Lo scandalo Walkswagen, costato alla casa di Wolfsburg 6,7 miliardi di dollari e la perdita di importanti quote di mercato, non è dunque rimasto un caso isolato e solo il futuro ci dirà quanti altri produttori hanno truccato i dati sulle emissioni, truffando i consumatori, per aggiungere qualche zero ai propri profitti.

 

Luca Marchesini

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Aung San Suu Kyi vuole liberare i prigionieri politici

Asia di

Dopo il giuramento di Htin Kyaw, il primo presidente democraticamente eletto del Myanmar dopo 56 anni di dittatura militare, continua il percorso di cambiamento del paese del sud-est asiatico.

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Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), di cui il governo è diretta espressione, non ha potuto assumere il ruolo di Primo Ministro a causa di una norma costituzionale che era stata introdotta dalla giunta militare per scongiurare il rischio di una sua salita al potere. L’”Orchidea di acciaio” però, fin dalla campagna elettorale conclusasi con le elezioni dello scorso novembre, aveva promesso ai cittadini del Myanmar che, in caso di vittoria, avrebbe governato il paese anche senza essere premier.

Per permetterle di rispettare l’impegno, il nuovo Parlamento ha creato una posizione ad hoc per San Suu Kyi, assegnandole il ruolo di Consulente di Stato. In tale veste ufficiale, la leader del partito può direttamente contattare e convocare ministri, dipartimenti, organizzazioni, associazioni e singoli individui per discutere delle questioni al centro dell’agenda di governo. Una posizione che, di fatto, permette a Suu Kyi di governare indirettamente, attraverso il Presidente “delegato” Htin Kyaw.

Una delle prime questioni su cui Aung San Suu Kyi intende far valere il suo peso è quella dei prigionieri politici. Giovedì scorso il premio nobel, con un post su Facebook, ha affermato la sua intenzione di impegnarsi per un’amnistia di massa che permetta la liberazione dei prigionieri politici, degli attivisti  e degli studenti incarcerati dalla giunta militare nel corso degli ultimi anni.

L’incarcerazione arbitraria di migliaia di attivisti per la democrazia è stata una drammatica costante durante i decenni della dittatura, e la stessa Suu Kyi ha vissuto per 15 anni agli arresti domiciliari. Anche molti dei parlamentari recentemente eletti hanno provato sulla propria pelle la repressione del regime e le privazioni  della vita del carcere.

Il governo di transizione semi-civile, che è stato al potere dal 2011 al 2015, aveva già concesso la libertà a centinaia di detenuti politici, ma secondo le stime ci sono ancora 90 attivisti imprigionati e altri 400 in attesa di giudizio. Circa 70 di questi sono studenti arrestati prima delle elezioni dello scorso novembre con l’accusa di aver partecipato ad assemblee illegali o di aver preso parte, nel marzo 2015, alle proteste di piazza contro la riforma scolastica, duramente represse dalla polizia. Dopo più di un anno, i processi in molti casi devono ancora giungere a sentenza.

La decisa iniziativa di Suu Kyi, che fa presagire un intervento diretto, a breve, da parte del premier Kyaw, potrebbe spingere il pubblico ministero a far cadere le accuse contro gli studenti. Le difficoltà però sono ancora molte, considerando anche le profonde inefficienze del sistema giudiziario del Myanmar.

Il primo dei problemi, ancora una volta, è rappresentato dall’esercito, a cui l’attuale costituzione garantisce un quarto dei seggi parlamentari e la  guida di alcuni tra i ministeri più importanti. Il potere dei militari, in Myanmar, è stato mutilato ma è ancora forte e diffuso. Ogni riforma democratica dovrà inevitabilmente fare i conti con le loro resistenze.

 

Luca Marchesini

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Myanmar: finalmente il primo presidente eletto

Asia di

Per il Myanmar è arrivato finalmente il punto della svolta. Dopo 56 anni di regime militare, nel paese del sud-est asiatico si è insediato un governo democraticamente eletto, grazie alla vittoria della Lega Nazionale della Democrazia (NLD) nelle consultazioni dello scorso novembre.

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Il primo presidente civile del nuovo corso si chiama Htin Kyaw. Inizialmente indicato dai media occidentali come il semplice autista di Aung San Suu Kyi, Kyaw è sempre stato, in realtà, il più stretto collaboratore del leader della NLD ed ha accettato il ruolo di primo ministro solo in conseguenza del divieto costituzionale che impedisce alle persone imparentate con un cittadino straniero di ricoprire la carica di premier.

Suu Kyi, premio Nobel per la pace e simbolo della lotta per la democrazia contro la giunta militare, è stata sposata fino al 1999 con il britannico Michael Aris, dal quale ha avuto due figli con doppia cittadinanza. La legge le impedisce dunque di assumere formalmente i poteri e le responsabilità della presidenza, ma l’”Orchidea di ferro”, come fu rinominata durante gli anni della militanza e della prigionia, ha già chiarito che intende governare attraverso la figura del suo fedele collaboratore. Si configura dunque una sorta di premierato per interposta persona.

Htin Kyak, 69 anni, ha giurato fedeltà, con i suoi ministri e due vice-presidenti, al popolo del Myanmar, di fronte al Parlamento riunito in seduta plenaria nella capitale Nay Pyi Taw. Nella lista dei nuovi membri del governo spicca il nome di Aung San Suu Kyi, che si occuperà direttamente di affari esteri, educazione, energia e dell’ufficio di presidenza. Tanto per chiarire che tutte le decisioni più importanti passeranno comunque dalla sua scrivania.

Altri tre ministeri chiave, la difesa, gli interni e gli affari di confine, resteranno sotto il controllo dei militari, ai quali spetta anche la nomina di un quarto dei membri del parlamento ed il potere di veto sulle riforme costituzionali. Limitazioni inevitabili, per garantire un cambio di potere pacifico, concordate nei negoziati tra Aung San Suu Kyi e l’ex presidente Thein Sein, al potere per cinque anni ed espressione della giunta militare.

Di San Suu Kyi, simbolo del paese, si sa praticamente tutto. Chi è invece il nuovo presidente Kyaw? Lui e la leader della NLD hanno frequentato insieme le scuole superiori e da allora sono legati da una forte amicizia. Ha studiato informatica nel Regno Unito ed in Giappone ed ha sempre mantenuto un basso profilo, facendosi apprezzare, una volta rientrato in patria, per l’onestà e la lealtà alla causa della democrazia. Durante i quindici lunghi anni della detenzione, è stato tra i pochi ad avere accesso alla casa prigione di Suu Kyi e, dopo la liberazione, è stato spesso visto al suo fianco, anche nelle vesti di autista. E’ sposato con la figlia di uno dei fondatori della Lega Nazionale della Democrazia, anch’essa deputata al Parlamento nazionale, e in passato si è occupato della Fondazione Daw Khin Kyi, un ente benefico intitolato alla defunta madre del premio nobel.

Nel suo discorso di insediamento il neo-Presidente Kyaw ha fatto riferimento alle sfide complesse che attendono il paese, a partire dalla necessità di un cessate-il-fuoco che ponga fine, al più presto, ai conflitti armati che da decenni contrappongono il potere centrale ed alcune minoranze etniche. Kyaw ha inoltre affermato che il nuovo governo ha intenzione di introdurre cambiamenti costituzionali, per rendere la Carta fondamentale del paese coerente con i moderni principi democratici.

Quest’ultimo impegno è certamente il più difficile da realizzare perché l’esercito, a cui l’attuale costituzione garantisce ampissimi poteri, non appare intenzionato ad assecondare altri cambiamenti. Ma solo cinque anni fa il Myanmar era costretto ad affrontare pesanti sanzioni economiche, poiché era considerato dalla comunità internazionale come un regime militare oscurantista, con migliaia di prigionieri politici e totale assenza di libertà di espressione. Molte cose sono migliorate, da allora, grazie soprattutto all’impegno di Aung San Suu Kyi e del suo movimento. Il futuro, oggi, appare pieno di promesse alle quali è lecito credere.

 

Luca Marchesini

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La Corea del Nord testa un nuovo missile balistico

Asia di

La Corea del Nord ha fatto un altro passo verso uno dei suoi obiettivi prioritari: realizzare un missile inter-continentale che sia in grado di trasportare una testata nucleare e colpire in modo accurato il nemico, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Nelle ultime ore infatti i media statali hanno diffuso la notizia che Pyongyang ha testato con successo un nuovo motore a combustibile solido in grado di aumentare considerevolmente la potenza del suo arsenale missilistico. Il test fa parte di un più ampio progetto, volto allo sviluppo di un missile balistico a lunga gittata (ICBM, InterContinental Ballistic Missile), che sembra progredire rapidamente nonostante le sanzioni dell’ONU e i numerosi allarmi lanciati dalla Corea del Sud.

Dopo i recenti test nucleari di gennaio, la Corea del Nord continua dunque a muoversi in modo spericolato sul crinale che divide la retorica bellicista contro i nemici del sud e degli Stati Uniti e gli effettivi sviluppi sul fronte della tecnologia militare.

L’agenzia di stampa nazionale, la KCNA, ha salutato con orgoglio il successo del nuovo test, che “ha contribuito ad incrementare la potenza dei missili balistici”, aggiungendo che presto gli ingegneri nordcoreani saranno in grado di testare nuovi ordigni “capaci di colpire senza pietà le forze ostili”.

Anche il presidente Kim Yong-Un ha assistito al lancio dimostrativo, celebrandone immediatamente la riuscita. “Questo è un giorno storico ed indimenticabile”, avrebbe dichiarato davanti ai microfoni e ai taccuini dell’informazione di regime.

Il test rafforza di fatto la posizione di Pyongyang, dopo che la scorsa settimana, stando a quanto riportato dai media locali, era stato sperimentato con esito positivo il lancio ed il rientro in atmosfera di un  missile balistico che potrebbe presto o tardi essere attrezzato per trasportare una testata nucleare miniaturizzata.

Ai test militari, ancora una volta, si è alternata la retorica della provocazione. Mercoledì scorso il Nord ha minacciato di colpire l’ufficio presidenziale del Sud con una batteria di missili di grande calibro, aggiungendo che le unità speciali dell’esercito sono pronte ad entrare in azione. Il presidente sudcoreano Park Geun-hye ha deciso di replicare al tentativo di intimidazione, ordinando di aumentare lo stato di allerta e chiedendo all’esercito di essere pronto a rispondere alle “incoscienti provocazioni” di Pyongyang.

La tensione nella penisola coreana torna dunque a salire pericolosamente, in un momento in cui il regime del nord si sente stretto tra le nuove sanzioni decise dall’ONU, dopo gli ultimi test nucleari, e le esercitazioni militari congiunte che il Sud e gli USA stanno conducendo, come ogni anno, a poca distanza.

Esercitazioni che ovviamente hanno messo in allarme Pyongyang, che le considera come “prove di guerra nucleare” alle quali è necessario rispondere in modo deciso.

Nonostante i progressi sul fronte dei motori a combustibile solido, gli esperti ritengono che la Corea del Nord non sarà in grado, ancora per molti anni, di minacciare gli Stati Uniti con missili ICBM. Probabilmente parte dell’escalation verbale e propagandistica di Pyongyang va fatta risalire a motivazioni interne. Tra poco infatti dovrebbe tenersi il primo congresso del Partito dei Lavoratori nordcoreano dopo 35 anni e l’attuale leadership, rappresentata dal presidente Kim Yong-Un, ultimo della dinastia dei Kim, ha bisogno di portare sul tavolo qualche importante successo sul piano militare per riaffermare la propria legittimità come guida suprema.

Gli interessi strategici di Cina e USA entrano in collisione

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Negli ultimi dieci anni la Cina è cresciuta enormemente, ridefinendo il suo ruolo a livello economico e geopolitico ed assumendo i connotati di una vera potenza globale. Nonostante i grandi cambiamenti ed il ritmo serrato che li ha contraddistinti, gli imperativi strategici di Pechino continuano ad essere gli stessi, almeno in parte.

In cima alla lista figura ancora il mantenimento dell’unità interna nelle regioni dove prevale l’etnia Han, dislocate prevalentemente lungo il corso di due grandi fiumi, il Giallo e lo Yangtze. Questi territori ospitano la parte più consistente della popolazione cinese ed i settori principali dell’industria e dell’agricoltura nazionali. Mantenere l’unità in questa macro-area è vitale per garantire la coesione del gigante asiatico e consolidare il ruolo del Partito Comunista Cinese come forza egemone. L’obiettivo non è semplice, però. L’uniformità è solo teorica, poiché il gruppo etnico maggioritario del paese si differenzia al suo interno attraverso articolazioni di carattere culturale, sociale ed economico che rendono complicata la ricerca di un punto di equilibrio. Il rallentamento economico, inoltre, contribuisce a rendere il quadro ancora più complesso.

Un’altra sfida fondamentale riguarda il controllo delle regioni cuscinetto, quelle più periferiche, abitate in passato da popolazioni nomadi e caratterizzate, per molto tempo, da confini scarsamente definiti. Nel corso dei secoli la Cina degli Han ha combattuto con i suoi vicini, riuscendo infine ad integrare molte regioni periferiche, dalla Manciuria, fino alla Mongolia, passando per lo Xinjiang, il Tibet e lo Yunnan. Oggi queste aree sono strategiche per Pechino e contribuiscono a rendere il paese la potenza che è, ma pongono molteplici sfide per il potere centrale in termini di coesione e politiche etniche.

Il terzo anello della catena delle priorità fa riferimento  alla protezione delle coste, che si estendono per circa 18 mila chilometri dal Vietnam alla Corea del Nord. Per gran parte della sua storia la Cina ha fatto affidamento sulle dimensioni interne e sulle rotte commerciali terrestri per accaparrarsi le risorse necessarie, rivolgendo scarsa attenzione ai mari. Per lungo tempo, dunque, la Cina non ha voluto disporre di una forza navale potente, concentrandosi sulla difesa delle coste da terra e sviluppando sistemi di navigazione alternativi, attraverso un articolato sistema di canali interni. Oggi la situazione è mutata e la Cina sta rafforzando considerevolmente la sua flotta militare. In queste acque, però, la distanza dall’avversario americano è ancora notevole e le politiche di difesa si concentrano tutt’oggi sul rafforzamento delle protezioni costiere.

Accanto a questi tre imperativi storici, la crescita economica dell’ultimo decennio ha fatto emergere un quarto vincolo strategico: la difesa delle rotte commerciali, delle risorse e dei mercati dalle ingerenze straniere. Oggi la Cina importa almeno quanto esporta, non è più autonoma come un tempo. Il commercio con l’estero è diventato vitale, così come gli investimenti esterni volti ad acquisire tecnologie e know-how. L’affermazione di questo nuovo paradigma ha richiesto una maggiore presenza militare, finanziaria e politica a livello internazionale e ha portato inevitabilmente a una più diretta contrapposizione con gli Stati Uniti e i suoi interessi strategici.

Gli USA, a livello esterno, considerano vitale il controllo degli oceani e il contenimento delle potenze emergenti, la Cina in primis. Pechino, dal canto suo, crede che la propria stabilità economica possa essere messa a repentaglio dal dominio americano sui mari e sulle rotte commerciali e sta rafforzando la flotta per aumentare il peso della sua presenza.

Gli interessi strategici delle due potenze collidono e dall’esito dello scontro dipenderanno gli assetti geopolitici del futuro. La partita principale, al momento, si sta giocando nel Mar Cinese Meridionale dove la Cina reclama il possesso di alcuni arcipelagi per estendere il proprio controllo sull’area e limitare l’egemonia americana sui mari del’Asia meridionale. Gli USA considerano questa politica espansionista come una minaccia alla libertà di navigazione  e come un segnale di eccesiva aggressività da parte di una potenza crescente, sempre più difficile da contenere. Entrambi i paesi hanno le proprie ragioni ed entrambi sono spinti dall’imperativa difesa dei rispettivi interessi strategici.

La contrapposizione si è ormai estesa anche al campo della finanza internazionale. Grazie al potere del dollaro e dell’influenza che questo garantisce sui mercati internazionali, gli USA sono sempre stati in condizione di dettare le regole dell’economia internazionale, relegando la Cina ad un ruolo da comprimario. Per rompere il sistema, la Cina spinge per la creazione di un sistema alternativo di commercio e finanzia internazionale e cerca di accrescere il suo ruolo all’intero della Banca Mondiale e nelle altre istituzioni economiche internazionali.

In definitiva, gli interessi cruciali di Cina e Stati Uniti entrano in conflitto a diversi livelli, sia sul piano militare che su quello economico e nessuno dei contendenti può semplicemente aspettare che l’altro faccia le sue mosse. Il rischio dell’attesa sarebbe probabilmente superiore ai costi dell’azione. L’esito dello scontro non è ancora prevedibile e non sappiamo come evolveranno le attuali strategie. Quel che è certo è che uno dei contendenti, se non entrambi, dovrà rinunciare a una parte dei suoi obiettivi strategici.

 

Luca Marchesini

Si allarga black list anti-Corea del Nord

In data odierna, il Consiglio dell’Unione Europea – che, lo ricordiamo è di fatto l’organo esecutivo dell’Unione – ha aggiunto 16 persone e 12 enti alla sua “black list” di soggetti e società colpiti dalle misure restrittive europee intraprese contro le condotte della Repubblica popolare democratica di Corea.

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La decisione recepisce le nuove prescrizioni imposte dalla risoluzione 2270 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 2 marzo 2016 in risposta ai lanci di prova di razzo nucleari da parte della Corea del Nord, avvenuti il 6 gennaio  ed  il 7 febbraio scorsi.

Gli atti formali di tale iniziativa diplomatica saranno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue domani.

La misure restrittive dell’UE nei confronti della Corea del Nord sono state introdotte per la prima volta il ​​22 dicembre 2006. Le misure attuali adempiono a tutte le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU adottate dopo i test nucleari ed i lanci eseguiti dalla Corea del Nord utilizzando la tecnologia dei missili balistici ed includono anche  ulteriori misure autonomamente adottate dall’UE. Tali decisione intendono colpire la politica  nucleare ed i programmi di lancio nordcoreani

Le misure più importanti comprendono divieti di esportazione ed importazione di armi, e di ogni oggetto o tecnologia che possa contribuire a tali attività. Sia l’ONU che l’UE, in modo autonomo, hanno anche istituito misure restrittive di natura finanziaria, commerciale e nel campo dei trasporti.

Con quella odierna, L’Unione europea ha così rafforzato le sue ultime misure, che furono decise il 22 aprile 2013, recependo la risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU n. 2094.

 

Domenico Martinelli

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Domenico Martinelli
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