GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Nuovi bombardamenti anti-IS della coalizione internazionale in Siria e Iraq

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Continuano gli attacchi aerei da parte della coalizione internazionale a guida statunitense sui territori siriani e iracheni controllati controllati dall’autoproclamato Stato Islamico (IS). Ad aggiornare sulle ultime operazioni un comunicato ufficiale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

Particolarmente proficui i bombardamenti della giornata di sabato 13 agosto – come tutte le altre operazioni, inseriti all’interno dell’operazione “Inherent Resolve”, che ha come obiettivo la definitiva neutralizzazione di IS in Siria e Iraq.

Quattro di essi sono stati condotti in Siria, nelle zone di Abu Kamal, Dayr Az Zawr e Manbij: particolarmente colpito il giro petrolifero del gruppo terroristico nel paese di Assad. Il grosso delle operazioni aeree – ben dieci bombardamenti – sono state tuttavia condotte in Iraq, dove più le forze di terra sono state coadiuvate dal supporto dei velivoli della coalizione internazionale nella loro avanzata.

Bombe su quattro zone di guerra come Mosul, Qayyarah, Ramadi e Sinjar, nonchè nei pressi della capitale Baghdad, dove nelle ultime settimane IS ha intensificato le sue operazioni terroristiche. Neutralizzate molti veicoli e infrastrutture dell’organizzazione facente capo ad Abu Bakr al-Baghdadi, tra cui torri di comunicazione nei dintorni di Baghdad, alcune autobomba, postazioni tattiche per cecchini, mortai, punti di osservazione e centri di comando.

Nell’ambito dell’operazione “Inherent Resolve”, dunque, il fronte aereo continua ad essere fondamentale – e a dare risultati importanti – nella guerra contro IS in Siria e Iraq. Il Dipartimento della Difesa statunitense ha specificato i paesi facenti parte della coalizione internazionale che agisce contro Daesh con operazioni aeree: Stati Uniti, Australia, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda e Regno Unito in Iraq; Stati Uniti, Australia, Bahrain, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito in Siria. L’Italia non ha preso parte ad alcuno di questi bombardamenti.

di Federico Trastulli

Kurdistan iracheno, l’Italia promuove il diritto allo studio

Asia di

Garantire il diritto allo studio, e soprattutto un posto dove poterlo esercitare, ai giovani rifugiati siriani presso Sulaimainia, nel Kurdistan iracheno. Questo l’obiettivo raggiunto dall’organizzazione “Un ponte per…” all’interno del progetto “Taleem Lil-Jamie – Educazione per tutti”, finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). Il risultato è un centro educativo dove insegnanti e studenti tra i rifugiati siriani del campo curdo di Arbat – in totale oltre 6000 persone in fuga dalla guerra, più di 1000 i minori – potranno esercitare le loro attività.

Presso il centro, si legge nel comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri, saranno proposte numerose “attività educative non formali come sport, circo, musica e teatro. Tra le altre iniziative previste dal progetto, anche l’affitto di 6 microbus per consentire a circa 200 bambini di frequentare le scuole, spesso molto distanti dai luoghi in cui hanno trovato rifugio” – iniziativa, quest’ultima, che ha come obiettivo quello di agevolare i tanti bambini siriani accolti (tra gli oltre 30000 rifugiati totali) nel governorato di Sulaimainia a raggiungere le sole sei strutture scolastiche dichiaratesi disponibili a ricevere i piccoli studenti. Previsti, inoltre, corsi di formazione rivolti agli insegnanti per il supporto psicosociale a bambini con traumi derivati dall’esperienza della guerra nell’ambito dello svolgimento delle attività di insegnamento.

Ad inizio mese, il 2 agosto, la cerimonia di inaugurazione del centro educativo, alla quale hanno preso parte il console italiano nel Kurdistan iracheno Alessandra Di Pippo e altre 60 persone circa, tra cui rappresentanti di ONG, organizzazioni operanti sul campo o a Sulaimainia, rappresentanti del Consiglio Provinciale e del Direttorato dell’Educazione del Kurdistan iracheno, nonchè membri dell’organizzazione locale “Al Mesalla” – uno degli storici partner di “Un ponte per…”. Ultimo in ordine di tempo nel longevo periodo di attività dell’associazione, il centro progettato e costruito nel campo di Arbat da “Un ponte per…”, finanziato dall’AICS, consentirà ai profughi siriani dell’affollatissimo campo curdo – inaugurato ad agosto 2013 – di riguadagnare il loro diritto allo studio dopo il dramma della guerra.

di Federico Trastulli

Kurdistan iracheno, continua l’addestramento delle unita kurde

Asia/Difesa di

Si è concluso il 28 luglio il secondo corso di addestramento che le unità italiane stanno realizzando a favore dei battaglioni Peshmerga  del Kurdistan che dovranno operare nell’ambito della lotta al Daesh.

La missione italiana “Prima Parthica” lanciata nel 2014 e tuttora in corso ha l’obiettivo di addestrare le forze Kurde in attività specialistiche per contrastare la presenza dei guerriglieri dell’ISIS in Iraq.

9755dd09-2dad-43fa-8d21-11799fc11163dsc_7982MediumLa missione Prima Parthica rientra nell’ambito della più ampia azione di contrasto a Guida Statunitense denominata “Coalition of Willing (COW) che ha l’obiettivo di fornire alle forze di sicurezza Irachene tutto il supporto necessario per sconfiggere lo stato Islamico e garantire la sicurezza della nazione.

In questo contesto nell’ambito della più specifica operazione “Ineherent resolve” l’Italia fornisce personale specializzato di staff ai comandi Multinazionali e assetti e capacità di Training alle forze armate irachene.

addestramento nei centri abitati (5)Questo secondo ciclo addestrativo che si è svolto e concluso a Erbil in favore dei Peshmerga è durato 8 settimane a favore di 1100 unità. Durante l’addestramento I soldati curdi hanno incrementato e perfezionato le conoscenze acquisite in diversi settori, tra cui il Counter-IED (riconoscimento e disinnesco ordigni esplosivi improvvisati), l’anti cecchinaggio tramite tiratori di precisione, l’uso dell’artiglieria in supporto alla manovra della fanteria.

Il corso si è concluso con una esercitazione a Tiger Valley, a sud di Erbil , che ha visto le unità impegnate in una operazione offensiva complessa con il supporto di artiglieria che ha dimostrato il buon esito della formazione e la capacità operativa dei battaglioni a muovere in attività complesse con efficacia e prontezza.

Alla missione Prima Parthica partecipano anche numerose istruttrici che si occupano della formazione della componente femminile dei battaglioni Peshmerga.

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Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

Bangladesh: proseguono le indagini dopo l’attentato

Asia/BreakingNews di

Continuano le indagini in Bangladesh per ricostruire la rete che ha fornito supporto logistico al commando di terroristi che nella notte di venerdì ha ucciso 20 civili, prevalentemente di nazionalità Italiana e giapponese, in un caffè della zona diplomatica della capitale Dacca.

L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico e sono state diffuse dalla stampa locale alcune foto che ritraggono il volto di 5 dei giovanissimi attentatori accanto alla bandiera nera di Daesh. I terroristi, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero in gran parte esponenti della borghesia di Dhaka, con un passato recente da studenti presso una rinomata università in lingua inglese della Capitale.

Le forze speciali erano intervenute sabato mattina, dopo quasi 12 ore di assedio, uccidendo sei membri del commando e riuscendo a portare in salvo 13 ostaggi. Cinque di essi sono ancora tenuti sotto custodia dalle autorità e nelle scorse ore sono stati interrogati dalla polizia per chiarire la loro posizione. Tra loro, secondo quanto riportato da fonti anonime della polizia, ci sarebbero un cittadino canadese di origini bengalesi ed un cittadino britannico nato in Bangladesh. Le autorità stanno svolgendo indagini ad ampio raggio interrogando anche amici e parenti delle persone trattenute.

La polizia vorrebbe chiarire soprattutto la posizione di un ostaggio Bengalese, rimasto intrappolato insieme a moglie e figli nel ristorante durante l’attacco. In alcuni video amatoriali ripresi dall’esterno del ristorante, si vedrebbe l’uomo parlare con alcuni degli attentatori prima di ricevere da questi l’autorizzazione ad allontanarsi con i familiari.

Si tratterebbe di un insegnante di un università privata di Dhaka, tornato in patria dopo 20 anni trascorsi in Inghilterra. La polizia sospetta che uno degli attentatori abbia studiato nello stesso dipartimento dove il professore tiene regolarmente le sue lezioni e vuole capire se i due potessero essere in contatto nel periodo precedente alla strage.

Inizialmente la polizia aveva insistito nel negare ogni collegamento tra il commando e i network del terrorismo internazionale. Dopo le prime rivendicazioni e la diffusione, su siti vicini a Daesh, di alcune foto che sembrano ritrarre gli interni dell’Holey Artisan Backery e la scena del massacro, la polizia ha cambiato parzialmente linea, dichiarando che le indagini in corso stanno cercando di stabilire se gli attentatori abbiano avuto legami con gruppi stranieri, negando però che l’attacco possa aver avuto una regia esterna.

Le indagini hanno scatenato una caccia all’uomo contro 6 membri di Jamaatul Mujahideen Bangladesh (JMB), un gruppo islamista locale, sospettati di aver collaborato all’organizzazione del massacro e di aver avuto un ruolo centrale nella fase di indottrinamento dei giovani terroristi, quasi tutti istruiti e provenienti dalla media e dall’alta borghesia bengalese. Mentre le forze dell’ordine tentano di individuare e fermare i 6 sospettati, 130 membri dell’organizzazione islamista arrestati in precedenza vengono interrogati dalle autorità giudiziarie alla ricerca di informazioni utili alle indagini.

La polizia ovviamente conta di ottenere informazioni fondamentali da due sospetti (anche se inizialmente si era parlato di uno) che avrebbero preso parte all’attacco e che ora sono piantonati in ospedale.
Mentre le indagini procedono, nel tentativo di stabilire la natura locale o globale dell’attentato, Il Bangladesh e i suoi quasi 160 milioni di abitanti, musulmani per il 90%, si interrogano sulle ragioni che hanno spinto un gruppo di giovani studenti provenienti da famiglie liberali ed istruite (solo uno era di umili origini), ad imbracciare spade e fucili per uccidere e sacrificare il proprio stesso futuro. L’attacco di venerdì scorso segna un drammatico cambio di paradigma, che va oltre il possibile coinvolgimento dello Stato Islamico.

In Bangladesh, la radicalizzazione islamista non fa più breccia unicamente nelle menti di giovani poveri e diseredati, la cui unica istruzione consiste negli insegnamenti fondamentalisti impartiti dalle scuole coraniche attive nelle zone rurali. L’islamismo militante ed il richiamo alla morte, la propria e quella del nemico, seducono anche i pupilli della borghesia occidentalizzata e si insinuano attraverso le parole, rilanciate dai social media, di predicatori stranieri che parlano da luoghi lontani. E’ una sorta di indottrinamento autodidatta difficile da capire, difficile da prevenire e difficile da controllare che indica nella violenza anti-occidentale la soluzione ai tanti problemi che affliggono uno degli stati più poveri e popolati del pianeta.

 

Luca Marchesini

Notte di terrore a Dacca: uccisi 20 ostaggi

Asia/BreakingNews di

Un commando di islamisti probabilmente affiliati allo Stato Islamico ha assaltato con armi da fuoco e da taglio un ristorante frequentato da stranieri nella zona diplomatica della capitale del Bangladesh. Questa mattina alle 7,40, dopo una notte di stallo, le forze speciali dell’esercito sono intervenute con un blitz lampo uccidendo sei attentatori e liberando 13 ostaggi. Un settimo terrorista è stato arrestato. Due agenti polizia hanno perso la vita nel corso dell’operazione.

Sul pavimento del ristorante sono stati rinvenuti i corpi di 20 ostaggi, quasi tutti di nazionalità italiana e giapponese, secondo quanto riportato da fonti locali.

Molte delle vittime presenterebbero ferite fatali causate da armi da taglio. Un lavoratore delle cucine del ristorante, sfuggito al massacro, ha dichiarato che gli attentatori sono penetrati nel locale armati di pistole, bombe a mano e spade, alle 20.45 di venerdì, urlando “Dio è grande”, mentre 20 clienti di nazionalità straniera (tra cui diversi diplomatici e imprenditori italiani del settore del tessile) stavano cenando, insieme alla clientela locale.

Alle grida sono seguiti gli spari e le esplosioni. Molti membri dello staff, tra cui lo chef italiano dell’Holey Artisan Bakery, e alcune decine di clienti sono riusciti a mettersi in salvo prima che gli attentatori sbarrassero le porte e si asserragliassero dentro il ristorante. Secondo alcune fonti, ancora da verificare, gli attentatori si sarebbero poi dedicati al massacro, uccidendo brutalmente gli ostaggi incapaci di recitare a memoria passi del Corano.

Alcuni degli impiegati si sono asserragliati nei bagni, riuscendo a salvarsi e iniziando a comunicare con l’esterno attraverso i cellulari e i social media. Una folla di duecento persone circa, composta da curiosi, amici e parenti degli ostaggi, si è radunata nei pressi del ristorante mentre la polizia iniziava a delimitare l’area e a mettere in sicurezza il perimetro.

Il blitz di questa mattina ha messo fine a 10 ore di assedio. L’identità delle vittime deve ancora essere verificata.

I morti di oggi si sommano ai 40 uccisi nel paese asiatico dal 2013 in poi per mano di militanti islamisti. Le vittime, tra cui stranieri, blogger atei, militanti della comunità gay e esponenti di minoranze religiose, sono state spesso massacrate a colpi di machete, in una inedita fiammata di violenza organizzata e coordinata da gruppi terroristi con legami internazionali. La polizia ha risposto, nel corso degli ultimi mesi, con un giro di vite contro l’islamismo militante che ha portato all’arresto di oltre 10 mila persone in tutto il paese.

Finora, però, le autorità del Bangladesh avevano respinto l’idea che i gruppi locali potessero essere parte di un network islamista transnazionale. L’attentato di oggi le costringerà probabilmente a riconsiderare tale posizione.

Gli Usa mettono in guardia la Cina

Asia/BreakingNews di

Gli Stati Uniti hanno deciso di mostrare i muscoli nel Mar Cinese Meridionale per rassicurare gli alleati regionali e lanciare un chiaro messaggio alla Cina, le cui mire sull’area appaiono sempre più esplicite.

Due Carrier Strike Group americani, composti ognuno da una portaerei e diverse navi militari di grandi dimensioni, hanno iniziato sabato scorso una serie di esercitazioni militari nelle acque territoriali delle Filippine, alleato chiave nella disputa per il controllo dei mari asiatici meridionali.

I drill hanno coinvolto le portaerei a propulsione nucleare Ronald Reagan e John C. Stennis, 12 mila marinai, 140 velivoli e altre sei navi da battaglia, a pochi giorni dalla sentenza che una corte internazionale si appresta a emettere in merito alle rivendicazioni cinesi sul tratto di mare conteso. Il messaggio è chiaro: gli USA non intendono lasciare campo all’avversario cinese e gli alleati regionali, a partire dalle Filippine, non saranno lasciati soli di fronte alle pressioni di Pechino.

Le navi americane hanno iniziato a svolgere esercitazioni di difesa aerea, sorveglianza marittima e attacco a lungo raggio, mettendo in mostra la propria potenza di fuoco a poca distanza dalle acque contese, nelle quali la Cina continua le proprie attività costruttive di atolli artificiali a scopo civile e militare.

L’intento delle esercitazioni, nel linguaggio formale dei bollettini informativi della marina militare, sarebbe quello di promuovere la libertà di navigazione e di sorvolo nelle acque e nei cieli dell’area. Le dichiarazioni che giungono dai comandi chiariscono meglio lo scopo dei drill: “Questa è per noi una grande opportunità, per prepararci ad operare con CSG (Carrier Strike Group) multipli all’interno di un ambiente conteso”, ha spiegato l’ammiraglio John Alexander.

Da parte filippina, la mobilitazione militare è la dimostrazione lampante che gli Stati Uniti sono determinati a prestare fede all’”impegno corazzato”, ribadito in più occasioni, in favore dell’alleato asiatico. “Accogliamo con favore la cooperazione e la forte partnership con i nostri amici ed alleati, alla luce della disputa nella quale i nostri legittimi diritti sono stati oltrepassati”, ha affermato Peter Galvez, portavoce del Dipartimento di Difesa filippino.

Il riferimento è alla sentenza, attesa nel giro di poche settimane, con cui la Corte di Arbitrato Permanente dell’Aia dovrà esprimersi sulla legittimità delle rivendicazioni di Pechino nei confronti delle acque del Mar Cinese Meridionale, una delle aree navigabili più importanti del mondo, sotto il profilo economico e strategico, sulla quale affacciano anche Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan e su cui convergono gli interessi di Cina, USA e Giappone.

La sentenza sarà probabilmente favorevole alle Filippine, che si erano rivolte al tribunale internazionale per tentare di contrastare l’espansionismo cinese. La Cina, dal canto suo, ha deciso di ignorare la corte, alla quale non riconosce alcuna giurisdizione sulla materia, e non ha preso parte al dibattimento.

 

Luca Marchesini

 

La diga dell’amicizia indo-afghana e l’incognita del Pakistan

Asia/BreakingNews di

 

L’onda lunga della guerra che ha inaugurato l’era post 11 settembre ha finito per deteriorare gravemente i rapporti tra Afghanistan e Pakistan, il cui confine comune, labile e poroso, è da anni teatro di incursioni di milizie talebane e tensioni crescenti tra Kabul e Karachi.

Nello spazio creato dal lento processo di allontanamento si sta progressivamente inserendo l’India di Narendra Modi, lo storico nemico del Pakistan. L’inedita cooperazione tra India e Afghanistan viaggia ora su un duplice binario, militare ed economico, con forniture di armamenti ed investimenti infrastrutturali per un miliardo di dollari.  Nuova Dheli ha messo sul piatto le risorse per costruire una nuova Assemblea Nazionale a Kabul, rinnovare la rete stradale e potenziare le linee elettriche del vicino asiatico martoriato da decenni di conflitti, investendo risorse anche su iniziative di carattere umanitario.

L’emblema di questo rinnovato rapporto, a cui il Pakistan guarda con evidente ostilità, è stata l’inaugurazione, due giorni fa, della “Diga dell’Amicizia” (Salma Dam), alla presenza del Presidente Modi e del suo omologo afghano Ashraf Ghani. Il grande impianto idroelettrico della provincia di Herat, danneggiato gravemente durante la guerra civile degli anni ’90, è stato interamente ricostruito. Il progetto è stato finanziato con un investimento di 300 milioni di dollari e alla sua realizzazione hanno preso parte 1500 ingegneri afghani ed indiani.

Alta oltre 100 metri e lunga più di mezzo chilometro, la diga sarà in grado di generare 42 megawatt di potenza e contribuirà all’irrigazione di 75 mila ettari di terreno agricolo, secondo quanto affermato dallo steso Presidente Modi. L’elettricità generata dall’impianto illuminerà le case e le strade di 560 villaggi e 260 mila famiglie della regione.

I due presidenti hanno inaugurato ufficialmente la diga premendo insieme il bottone di accensione. La diga, ha scritto in un post il presidente Ghani dopo la cerimonia, “è un altro grande passo sulla via del rafforzamento e dell’allargamento delle relazioni tra Afghanistan e India”. Per Modi sarà il simbolo dell’amicizia tra i due grandi vicini  e “porterà speranza, luce nelle case, nutrimento per le fertili terre di Herat e prosperità ai popoli della regione.”

Nel triangolo delle relazioni centroasiatiche resta l’incognita del terzo elemento, l’amico allontanato che vede il suo nemico subentrare nel rapporto. L’Afghanistan è stato a lungo sottoposto alla sfera di influenza del Pakistan e l’India ha spesso preferito tenersi a distanza. Questo avvicinamento tra Nuova Dheli e Kabul, anche sul piano della cooperazione militare, non può che mettere in agitazione il governo pachistano ed il potente sistema di servizi militari, che per anni hanno considerato l’Afganistan come il cortile di casa. Anche sull’annosa questione del Kashmir potrebbe esserci ripercussioni, poiché l’Afghanistan, con le sue propaggini orientali, si affaccia sulla regione contesa. 

 

Luca Marchesini

Cina: Xinjiang, bilinguismo per ridurre tensioni etniche

Asia/BreakingNews di

L’apice della tensione etnica nella Regione autonoma dello Xinjiang, in Cina, si raggiunse nel luglio 2009, quando nella capitale Urumqi  migliaia di uiguri si scontrarono con gruppi di etnia han. Le forze di polizia, inviate a sedare gli scontri, si trovarono ben presto a fronteggiare entrambi gli schieramenti e risposero duramente. Secondo le cifre ufficiali diffuse dalle autorità cinesi le sommosse si conclusero con 197 morti e 1721 feriti. Altre fonti, vicine agli Uiguri, affermano che le vittime furono in realtà alcune centinaia. La stessa Human Rights Watch testimoniò che vi furono rastrellamenti della polizia nei giorni successivi agli scontri, con la successiva scomparsa di decine di militanti di etnia uigura.

La tensione tra Uiguri e Han va avanti da molti decenni, di fatto da quando, nel 1949, l’Esercito di Liberazione Popolare prese il controllo di quella che veniva chiamata la Seconda Repubblica del Turkestan Orientale, annettendola alla nascente Repubblica Popolare Cinese. Che si sia trattato di invasione imperialista o di annessione pacifica con il beneplacito degli abitanti è da allora tema di discussione e scontro. Di certo, il forte movimento indipendentista che dice di rappresentare il 45% della popolazione di etnia uigura e religione musulmana contro l’invadenza sociale e demografica della Cina degli Han, il gruppo principale dell’intero paese, si è sempre battuto per preservare la specificità culturale delle minoranze dello Xinjiang arrivando più volte allo scontro aperto con le autorità dello stato centrale.

Dal 2009 non si sono più ripetuti episodi di simile gravità, ma gli incidenti non sono mancati e le tensioni permangono. Gli Han, che rappresentano il 41 % della popolazione contro il 45 % degli Uiguri, lamentano discriminazioni su vari fronti, tra cui quello lavorativo. Gli Uiguri e le altre minoranze della la più grande divisione amministrativa della Repubblica Popolare continuano invece ad opporsi a quello che considerano l’imperialismo culturale cinese, il cui principale strumento viene identificato nell’imposizione della lingua mandarina come idioma ufficiale ai danni delle lingue autoctone di derivazione turcomanna.

Per allentare le tensioni e tentare di avviare un processo di pacificazione etnica, le autorità centrali hanno deciso di promuovere una campagna per la diffusione del bilinguismo in età prescolare, così da permettere alle nuove generazioni di padroneggiare sia il mandarino che la lingua indigena. Lo Xinjiang potrà dunque usare fondi del governo centrale per portare da due a tre anni il periodo di educazione prescolare bilingue previsto per le aree rurali nel quadriennio 2016-2020. Lo scopo è portare l’85% dei bambini della regione, entro il 2020, ad avere accesso a questi programmi.

Lo stanziamento previsto per il primo anno è di 154 milioni di dollari, per la costruzione di 552 asili bilingue nella regione autonoma, a partire dalle zone rurali del sud.

 

Luca Marchesini

Iraq, concluso addestramento polizia iraqena

Asia/Difesa di

Sono oltre 800 gli appartenenti alle forze di polizia iraqena che gli istruttori della task force carabinieri  hanno addestrato e formato  per circa due mesi a baghdad e che ieri hanno completato il loro ciclo addetrativo.

Presso la base camp dublin a baghdad, circa 800 poliziotti 550 hanno preso parte alla cerimonia di chiusura (graduation ceremony) del 4° corso “law and order”

Nel 2015 sono stati circa 3000 gli agenti di polizia addestrati dai 90 uomini della Task Force italiana frequentando corsi basici e specialistici che hanno compreso la tutela del patrimonio culturale, corsi di anti-terrorismo e di contrasto alla criminalità organizzata.

Il Comandante Generale della Federal Police ha avuto parole di elogio per l’impegno dell’Italia in Iraq e di apprezzamento per la professionalità dell’Arma dei Carabinieri nella preparazione dei polizotti iracheni, appartenenti a tutte le etnie, destinati ad operare nei territori liberati dal controllo di Daesh. Il dott. Mura ha sottolineato gli ottimi risultati raggiunti dai corsisti ed il delicato ruolo che avranno nella controllo del territorio del Paese una volta ritornati ai reparti di appartenenza.

L’evento ha visto la pa partecipazione di autorità civili e militari, irachene ed internazionali, tra le quali il Comandante Generale della Federal Police, Gen. C.A. Mohamed Raed ed i Direttori dei Training Department della Federal Police, Gen. B. Modafar e del Ministero dell’Interno, Gen.D. Abdulkareem Hatim.  il Primo Consigliere dell’Ambasciata Italiana in Iraq, dott. Patrick Mura Erano.

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Alessandro Conte
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