L’armistizio che diede il via ad un’altra guerra

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L’immagine che meglio rende l’idea di che cosa ha rappresentato e come sia stato vissuto l’otto settembre del 1943 è senza dubbio la scena del celeberrimo film di Luigi Comencini, Tutti a Casa. Il sottotenente interpretato da Alberto Sordi che, con il suo manipolo di soldati, si trova sotto il fuoco dei tedeschi, comunica al suo comando una notizia incredibile: “I tedeschi si sono alleati con gli americani.” Che cosa altro avrebbe dovuto pensare lui come tutti gli altri italiani, che come lui, non erano informati di ciò che stava accadendo e non sapevano che cosa fare?

Il film presenta un’incongruenza storica. La notizia dell’armistizio, firmato a Cassibile, frazione di Siracusa che oggi conta circa 6.500 abitanti, venne data alle 19.43 e non durante le ore del mattino come si deduce dalle scene, ma ciò non cambia la sostanza di quanto avvenne in quei giorni. 

La decisione di chiedere un armistizio fu quasi certamente diretta conseguenza del bombardamento di Pisa, avvenuto il 31 agosto. La città toscana fu scelta come obiettivo in quanto centro strategico e snodo dei trasporti, principalmente per la stazione ferroviaria che sulla linea che collegava Genova a Napoli, ma anche per la presenza di alcune fabbriche di armamenti. 

Vi erano stato altri bombardamenti in precedenza: Civitavecchia, Livorno, Foggia, Cagliari ed il 19 luglio anche Roma. Gravi conseguenze su tutte le città ma, probabilmente, quello di Pisa fu il più pesante. Sette minuti per sganciare da quota 9.000 metri mille e cento bombe con quattrocento tonnellate di esplosivo; Stazione e case distrutte e un numero di mori che oscilla tra 982 e, addirittura, forse, 2.500.

In ogni caso il bombardamento dette la spinta decisiva a quella che, seppur chiamata armistizio, fu una resa totale da parte dell’Italia non più fascista alle potenze alleate.

Esaustivo e chiaro il messaggio lanciato da Badoglio nel suo proclama radiofonico quando parla di “impossibilità di continuarela impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria”. Piena invece di illusioni la parte in cui il Maresciallo d’Italia sosteneva che la scelta era dettata dal voler risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione.

La reazione tedesca era quantomeno prevedibile; chissà se poteva essere in qualche modo scongiurata o esistessero gli strumenti per difendere la popolazione. È un dato di fatto che la fuga del Re fece crollare in molti la fiducia nell’unica istituzione che, teoricamente, avrebbe potuto rappresentare una forma di garanzia per la stabilità di un’Italia nella quale, viceversa, esplosero le differenze ideologiche, non troppo latenti, che il fascismo aveva voluto far tacere. 

Non è un caso che si sia parlato di “morte della patria”; espressione coniata dal Giurista Salvatore Satta e ripresa da Ernesto Galli della Loggia e Renzo De Felice. Quel giorno, sicuramente, venne meno quel sentimento patriottico (e non da tutti condiviso) nato durante il risorgimento e probabilmente maturato dopo il primo conflitto mondiale.

Quel giorno iniziarono la Resistenza, la Guerra di liberazione dal nazifascismo, la Campagna d’Italia degli alleati e, anche se la storia non può essere fatta con i “se”, una diversa gestione da parte del Governo in carica e del Re dell’armistizio, non avremmo assistito alla strage di Cefalonia, alle Fosse Ardeatine e agli altri massacri di dell’ultimo anno e mezzo di conflitto la cui propaggine di lotta fra opposte fazioni di Italiani si protrasse ben oltre il 25 aprile 1945.

Non dimentichiamo, infatti, che la resistenza italiana era formata da anime diverse tra loro in uno schieramento che spaziava dalla Brigata Osoppo, fondata nel seminario arcivescovile di Udine a formazioni comuniste che appoggiavano le rivendicazioni della allora Jugoslavia.

Una circostanza, tuttavia, su cui riflettere è che nonostante la guerra ancora in corso e le spaccature profonde territoriali e politiche, la macchina dell’amministrazione pubblica non si fermò. L’anno scolastico iniziò regolarmente e gli stipendi ai dipendenti pubblici venivano pagati. Anche navigando in rete sene trova conferma e, tra tutte le testimonianze, spicca quella della direttrice di una scuola di Lissone, la quale informa che si faranno dei turni il mattino e il pomeriggio, dato l’esiguo numero di aule disponibili e solo per le classi quinte le lezioni sono di tre ore giornaliere in quanto le scuole sono «occupate interamente o in massima parte dai sinistrati».

L’Italia c’era ancora.

Bookreporter Settembre

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