GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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giacomo pratali - page 3

Papa Francesco: i rischi del viaggio in Africa

Massima allerta per la visita del Papa in Africa, in programma dal 25 al 30 novembre. Si inizia domani con il Kenya, per proseguire poi con l’Uganda e terminare con la Repubblica Centrafricana, dove il rischio attentati è alto, come ribadito, da almeno due mesi, dai servizi francesi presenti nel Paese.

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Nonostante i 148 morti di aprile nel campus universitario in Kenya, è la Repubblica Centrafricana a destare le maggiori preoccupazioni sia presso la Santa Sede sia presso l’esercito francese, capofila della missione delle Nazioni Unite. Il picco di massima allerta sarà raggiunto il 29 novembre, in occasione dell’apertura del Giubileo per l’Africa da parte del Pontefice.

Se il rischio per Francesco I è già evidente da molte settimane, i fatti di Parigi e, in special modo, gli attentati all’Hotel Radisson in Mali alzano ulteriormente il livello della tensione.

Tensione palpabile nelle parole pronunciate dal cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato del Vaticano: “Il Papa vuole fortemente fare il viaggio in Africa, anche nella sua tappa più critica, la Repubblica Centrafricana, dove sono ripresi gli scontri”, ma “se ci dovessero essere scontri in atto, sarebbe difficile pensare di andare per la sicurezza del Pontefice, ma anche della popolazione”.

Tensione, tuttavia, che non scoraggia il Pontefice, “pronto – come dichiarato ieri – a sostenere il dialogo interreligioso per incoraggiare la convivenza pacifica nel vostro Paese”.

La Repubblica Centrafricana, come altri Stati africani, convive un conflitto interno a causa della guerra civile scoppiata due anni e mezzo fa. Inizialmente, non era un conflitto di tipo religioso, ma di stampo politico tra le milizie presenti nel Paese. Dopo la deposizione dell’ex presidente Bozizè, la guerra civile è divenuta uno scontro confessionale.

Facendo un breve excursus, analizzando la geografia della Repubblica Centrafricana, il Centro-Sud è più sviluppato e abitato in prevalenza da cristiani, i quali rappresentano l’80% della popolazione totale. Il Nord, invece, è meno sviluppato e a maggioranza musulmana. La mancanza di attenzione e di politiche verso quest’area da parte della capitale Bangui, hanno favorito il riversarsi di milizie non regolari dall’estero attraverso la parte settentrionale del Paese.

Dal 2003 al 2013 il protagonista della scena politica centroafricana è stato l’ex presidente Bozizè, eletto per due volte e per due volte protetto dall’esercito francese (nel 2003 e nel 2006) nel corso delle due guerre civili.

La prima, nel 2003-2007 in cui aveva come rivale il politico e militare Michel Djotodia. La seconda, malgrado gli accordi di pace, nel 2012, quando le guardie presidenziali lo abbandonano. Dopo la crisi umanitaria che deriva da questi anni di guerra civile, Bozizè scappa in Camerun. A cacciarlo è il gruppo ribelle “Seleka” (coalizione), composto da centrafricani, ma anche da ciadiani e sudanesi. Prima di andarsene dal Paese, l’ormai ex presidente aveva richiesto l’intervento della Francia a sua protezione, ma Hollande ha rifiutato.

L’altro fattore che ha contribuito alla deposizione di Bozizè è stato il mancato appoggio del presidente del Ciad Deby, il quale, dal 2010, gli aveva tolto l’appoggio esterno e aveva favorito la creazione di un gruppo ribelle di matrice islamica che si dirigesse contro la capitale Bangui.

Nel 2013, i ribelli diventano esercito regolare. Tuttavia, questa nuova situazione non fa altro che esasperare gli animi e le violenze all’interno del Paese. Violenze che sfociano nella terza guerra civile dal 2003. Nel dicembre dello stesso anno, però, l’Onu vota una risoluzione per un intervento militare nella Repubblica Centrafricana a guida francese.

Nel gennaio 2014 viene eletta presidente Catherine Samba-Panza, prima donna a ricoprire quella carica, cristiana ma neutrale. Le violenze tra musulmani e cristiani però continuano fino ad oggi. Le Nazioni Unite, l’UNICEF e altre ONG denunciano una escalation di scontri che vedono coinvolti i bambini sia nelle vesti di soldato sia nelle vesti di vittime.

 

Giacomo Pratali

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Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

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Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

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Libia: “Impossibile soluzione politica rapida”

Medio oriente – Africa di

La profanazione del cimitero italiano a Tripoli e il presunto confinamento di alcune imbarcazioni italiane nelle acque territoriali libiche. In questo scorcio di novembre, i rapporti diplomatici tra Italia e Libia hanno subito un brusco raffreddamento. Per trattare questi temi, European Affairs ha intervistato la dottoressa Giovanna Ortu, Presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, espulsa da Gheddafi, assieme ad altri 20mila connazionali, nel 1970.

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Dopo la devastazione del cimitero italiano in Libia, qual è stata la posizione assunta dal governo italiano? Avete ricevuto sostegno?

“Sono andata dal sottosegretario agli Esteri Mario Giro, con il quale avevo in programma un appuntamento già prima che accadesse questo episodio: ho trovato molta disponibilità ma anche preoccupazione circa il contesto creatosi in quel Paese. Nel frattempo, c’è stato anche il fallimento del mediatore ONU Bernardino Leon. La situazione tra le diverse fazioni si è ormai troppo incartata. Secondo me, il prolungarsi di questa dualità tra Tripoli e Tobruk ha aumentato le frizioni: se l’accordo, invece, fosse stato raggiunto prima, non ci sarebbe stato il tempo per i gheddafiani di riprendersi e per le altre organizzazioni di radicarsi sul territorio”.

 

Non è la prima volta che il cimitero italiano in Libia è stato vittima di azioni simili. L’ultimo caso risale al gennaio 2014. Crede che questi episodi siano mossi da un sentimento antitaliano o siano gesti politici premeditati?

“A mio parere, non sono fatti mossi da sentimento antitaliano. I fatti criminosi accaduti fino agli anni 2000, che poi ci indussero a restaurarlo nel 2004, sono collegabili alla microcriminalità. Anche l’episodio del gennaio 2014 o altri più recenti sono dello stesso tenore. Tuttavia, non posso giudicare se l’ultimo fatto sia di stampo politico. Quello che è certo è che già da diverso tempo la nostra associazione temeva che le devastazioni e i furti presso il sacrario italiano in Libia potessero divenire oggetto di strumentalizzazione politica”.

 

Il recente incidente diplomatico tra Italia e Libia è una chiara strategia internazionale atta a volere escludere il nostro Paese dal ruolo guida di un’eventuale azione militare sotto l’egida dell’Onu?

“In questo momento, noto una grande dicotomia tra il sentimento del popolo libico e chi intende speculare sulle divisioni interne per mettere in crisi i rapporti tra Italia e Libia che, in fondo, si erano rimessi sulla giusta strada nella fase finale della dittatura di Gheddafi. Mi chiedo: quanto tempo ci vorrà per ritornare a quella identità di sentimenti e vedute che ha caratterizzato gli ultimi 100 anni dei rapporti tra italiani e libici?
Tornando all’incidente diplomatico di qualche giorno fa, ritengo che, mentre tutti lodano Berlusconi per il trattato firmato con Gheddafi nel 2008 che sembrava così a favore dell’Italia, gli altri partner europei si siano ingelositi di quel rapporto tra Italia e Libia, dato che questo Paese è ricco dal punto di vista energetico e fonte di enormi commesse per il settore delle grandi opere. Quel trattato aveva tolto una fetta troppo grossa agli altri Stati europei. Comunque, non avrei mai creduto che i Paesi occidentali si lanciassero in una guerra, come accaduto nel 2011, senza avere un piano istituzionale ed economico postbellico”.

 

Lei che conosce il contesto sociale libico, crede che vi siano margini per la creazione di un governo di unità nazionale? Ormai la presenza dello Stato Islamico è radicalizzata: davvero questa organizzazione rispecchia la cultura religiosa del popolo libico?

“Sono molto pessimista per una soluzione positiva nel breve termine. Infatti, anche le analisi moderatamente ottimistiche fatte da esperti di geopolitica sono state smentite dai fatti. La Libia che conosco è quella di molti decenni fa. Tuttavia, nelle tre volte che ho avuto occasioni di tornare a Tripoli, i giovani incontrati erano pieni di sentimenti ma poco alfabetizzati e a contatto con il mondo esterno attraverso la televisione italiana. Quello che mi aveva colpito era stato il trovare donne che lavoravano nelle istituzioni e nei ministeri a volto scoperto. Però, non è possibile uscire da 40 anni di dittatura indenne. La popolazione, vulnerabile, è stata vittima di organizzazioni come il Daesh, insediatesi nel tessuto sociale libico”.
Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Parigi sotto assedio: l’11 settembre europeo

BreakingNews/Varie di

Almeno 127 e 197 feriti, di cui almeno 80 in condizioni gravi. Sono questi i drammatici numeri, destinati a salire di ora in ora, della serie di attentanti al grido di “questo è per la Siria” o “Allahu Akbar” che hanno sconvolto Parigi venerdì 13 novembre. 7 le azioni compiute nel cuore della capitale francese rivendicate dallo Stato Islamico.
Il più importante al teatro Bataclan, dove circa 1500 persone stavano assistendo ad un concerto rock. Qui, tre terroristi sono entrati in azione, prendendo inizialmente in ostaggio un centinaio di persone, mentre 30 sono riuscite a scappare subito. Gli attentatori hanno poi fatto fuoco sulla folla. Il blitz della polizia a tarda notte ha portato alla loro uccisione, ma anche al drammatico ritrovamento di 118 cadaveri.

Questo l’episodio più grave. Ma il terrore è durato per molte ore, nel corso delle quali si sono temute ulteriori azioni. E lo stato d’allerta, a cui ha fatto seguito la mobilitazione di oltre 1500 unità dell’esercito francese, ha riguardato molti punti del centro parigino. E di conseguenza il sangue e il numero di vittime è salito. 18 al bar La Belle Equipe, 15 a bar Le Carillon e al ristorante Le Petit Cambodge, 5 alla pizzeria La Casa Nostra, 3 all’esterno dello Stade France, dal cui interno, nel corso della partita amichevole Francia-Germania, sono stati uditi tre forti boati causati da altrettante esplosioni. Sull’altro fronte, oltre ai tre terroristi uccisi al Bataclan, sette si sono fatti esplodere.

Il presidente francese Francoise Hollande, presente alla partita, è stato fatto subito uscire per motivi di sicurezza e ha convocato un Consiglio dei Ministri straordinario. Nel discorso a rete unificate, il Capo di Stato ha chiesto ai parigini di aprire le loro case e di non fare mancare la solidarietà verso chi è stato coinvolto in questa serie di attentati. Ha dichiarato lo stato d’allerta alfa e annunciato la parziale chiusura e l’intensificazione dei controlli alle frontiere (nella mattinata è stato chiuso il valico del Monte Bianco che collega Italia e Francia).

“Nel momento in cui vi parlo sono in corso attacchi terroristici senza precedenti nella zona di Parigi. E’ una terribile prova che ancora una volta ci colpisce. Dobbiamo dare prova di sangue freddo. La Francia di fronte al terrore deve essere forte e grande. Rinforzi militari convergono sulla regione di Parigi per evitare nuovi attentati” , ha dichiarato Hollande.

 

Giacomo Pratali

Egitto aereo caduto: gli effetti socioeconomici

Medio oriente – Africa di

La decisione di Vladimir Putin di interrompere i voli sull’Egitto. La conferma dell’intelligence britannica che il volo 7K9268 caduto il 31 ottobre sia stato fatto esplodere da una bomba. La rivendicazione dello Stato Islamico e l’esultanza sul web di siti vicini al Daesh. L’apertura all’ipotesi attentato fatta dal governo de Il Cairo. L’aereo schiantatosi sul Sinai, nel quale sono morte 224 persone, rischia di destabilizzare le istituzioni e l’economia di un Paese già fragile.

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Già nel corso della scorsa estate, la strategia dei gruppi jihadisti del Sinai, affiliati al Califfato, era chiara: colpire gli obiettivi internazionali presenti in Egitto, in modo da minare l’economia del Paese nordafricano, spinta soprattutto dal turismo.

Come riportato da Il Fatto Quotidiano, infatti, nel 2014 il turismo ha costituito il 14% del Pil egiziano. L’11,6% della popolazione è impiegata in questo settore. Circa 10 milioni di turisti stranieri, di cui 2 milioni russi, hanno visitato le Piramidi o hanno soggiornato in località come Sharm El-Sheik lo scorso anno.

Proprio adesso che inizia l’alta stagione, l’incidente dell’airbus russo rischia di piegare l’economia e di incidere negativamente sulla disoccupazione. In poche parole, dopo la caduta del regime di Mubarak e l’elezione di Morsi, poi arrestato, al Sisi rischia di non poter più tenere a bada una popolazione che, anche a causa delle condizioni di povertà, era stata protagonista della Primavera Araba nel 2011. E forse, come accaduto in un altro incidente aereo nel 1999, la conferma ufficiale da parte dell’autorità egiziane non arriverà mai.

Alla radice di tutto ciò, la messa al bando della Fratellanza Musulmana e l’intervento militare in Libia a difesa del governo di Tobruk hanno provocato la reazione e una duplice strategia di quell’altra parte dell’Islam, quella riconducibile al Daesh.

Sul fronte egiziano, la strategia del Califfato è quella di minare la stabilità del Paese, come già fatto in Siria e Iraq, in modo che esso non sia più un attore che dialoga con l’Occidente, come accaduto durante il regime di Mubarak e come sta accadendo ora.

Per quanto riguarda il contesto geopolitico, l’obiettivo è quello di evitare l’eventuale stabilizzazione della vicina Libia. Il che passa dalla mancata creazione di un governo di unità nazionale, ma anche dall’eliminare un possibile alleato di un eventuale intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Il plebiscito ottenuto da al Sisi nelle elezioni in corso e lo sfoggio di potere dimostrato dal presidente egiziano in occasione dell’inaugurazione dell’allargamento del Canale di Suez potrebbero diventare un ricordo se il Paese assistesse ad un tracollo sociale ed economico.
Giacomo Pratali

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NATO: la Mitteleuropa alza la voce

Difesa di

L’Europa dell’Est alza la voce. A molti mesi ancora dal vertice NATO di Varsavia del luglio 2016, Polonia e Paesi Baltici sono in prima fila per l’aumento delle truppe atlantiche schierate ai confini con la Russia. Il vertice di Bucarest dei Paesi dell’Europa Orientale aderenti alla NATO del 3 e 4 novembre è il manifesto di una mai sopita paura verso il “nemico russo” di stampo novecentesco.

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Secondo le indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal e riprese dalla stampa internazionale, in seno alla NATO sussiste un’alta fibrillazione in merito alle nuove misure sulla difesa da introdurre. Polonia e Paesi Baltici sono i capolinea di una proposta che vedrebbe pesantemente militarizzati i confini con la Russia. Infatti, a farsi largo, è l’ipotesi di istituire un battaglione di 800-1000 soldati in tutti e quattro gli Stati.

Inoltre, fonti vicine al governo americano parlano di un possibile piano che prevederebbe il dislocamento di 150 truppe da impiegare, a rotazione, in questi quattro Paesi. Un’ipotesi che richiederebbe, però, anche l’utilizzo di truppe di altri Stati membri.

Lo spostamento del focus dello scontro tra NATO/Stati Uniti e Russia dall’Ucraina alla Siria non ha diminuito le ansie dei governi dell’Est Europa e dei Paesi Scandinavi. In più, l’annuncio del segretario generale Jens Stoltenberg sulla creazione imminente di due nuove basi atlantiche in Ungheria e Slovacchia, non è servito certo ad abbassare i toni dello scontro: “La Russia ha a lungo avvertito della indesiderabilità del pericolo”, ha affermato Dmitri Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin.

Ma è il rinnovato protagonismo in campo geopolitico di alcuni Stati membri NATO a balzare agli occhi, nonostante le riserve delle altre cancellerie europee, Germania in primis, non inclini a trattare Mosca come un nemico permanente e fuori dalle logiche continentali.

La Polonia, dal canto suo, ha annunciato lo stanziamento di 30 miliardi di euro per l’aggiornamento del settore militare, oltre all’accordo di cooperazione firmato con la Svezia e alla creazione, entro la fine del 2015, di un “counter intelligence of excellence”, ovvero un centro di addestramento per accrescere le capacità di controspionaggio.

Ma non è solo il protagonismo putiniano in Ucraina ad avere riacceso la fiamma dello scontro tra Mosca e i suoi vicini europei. La crescente presenza russa nel Mar Artico, infatti, ha spinto la Norvegia ad incrementare di 20 miliardi di euro le spese destinate alla difesa: “Il nostro vicino in oriente ha aumentato la sua capacità militare, anche nelle zone a noi vicine. Ha dimostrato di essere disposto ad usare la forza militare per raggiungere ambizioni politiche”, si mormora in ambienti vicini alla Marina norvegese.

Il pugno di ferro dimostrato da Polonia, Ungheria e altri Paesi dell’Est in temi caldi come l’immigrazione e i rapporti con la Russia, unito alla grande popolarità di cui gode adesso la destra ultranazionalistica, stanno riportando l’Europa ad un clima da guerra fredda, a cui, probabilmente, neppure un’eventuale soluzione politica alla guerra in Ucraina potrebbe porre fine.

Le conseguenze delle invasioni, delle sottomissioni e dell’indipendenza degli Stati della Mitteleuropa, che hanno segnato l’epoca moderna e contemporanea, le vediamo nel 2015. Il nemico russo e la voglia di indipendenza da Bruxelles, come dimostrato dalle ultime elezioni polacche, rischiano di mandare all’aria il già delicato equilibrio internazionale tra Occidente e Russia.
Giacomo Pratali

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Egitto: elezioni di facciata

Medio oriente – Africa di

Dopo il primo turno delle elezioni legislative che hanno sancito una netta e prevedibile vittoria del partito “Per amore dell’Egitto” del presidente Fattah al Sisi e, al contempo, un’affluenza ferma a meno del 25%, martedì 27 ottobre gli egiziani sono tornati alle urne per il ballottaggio riservato agli oltre 200 candidati non eletti il 17 e 18 ottobre.

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Secondo gli analisti locali ed internazionali, la popolarità di al Sisi andrebbe misurata in base all’affluenza elettorale: pertanto, la misura del consenso per l’ex generale è palese. Dopo la rivoluzione e le elezioni del 2012, sancite dalla vittoria del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, l’Egitto è tornato a rieleggere il proprio parlamento. La sete di libertà della maggioranza del popolo egiziano, testimoniata dalla rivoluzione del 2011, è stata però fermata dall’attuale regime.

Quasi l’80% dei 55 milioni aventi diritto, infatti, è rimasto a casa nella prima tornata per le azioni illiberali di al Sisi. Salito al potere nel 2014 dopo il golpe in cui è stato destituito Morsi, l’attuale leader dell’Egitto ha bollato i Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica, facendo arrestare e condannare a morte l’ex presidente stesso e i leader di questo movimento.

A questo, si aggiunge l’entrata in vigore della nuova costituzione. Se a prima vista contiene alcuni principi liberali, come la eleggibilità per massimo due mandati consecutivi e l’apertura alle minoranze pur mantenendo l’Islam come religione di Stato, un’analisi in profondità mette a nudo la subalternità dell’assemblea legislativa rispetto al presidente, chiamata ad approvare i decreti del capo dello Stato.

In più, le grandi opere, l’apertura ai capitali esteri e l’interventismo in Libia per accattivarsi i consensi presso la comunità internazionale, tre motivi del paragone con Nasser, contrastano con la totale mancanza di welfare e la vicinanza de facto all’ex presidente Hosni Mubarak.

In attesa dell’affluenza e dell’esito del ballottaggio, il primo turno fornisce ulteriori indicazioni sullo stato di salute dell’Egitto. Oltre alla già citata scarsa partecipazione degli elettori, la tornata del 17 e 18 ottobre scorso ha consentito al partito di al Sisi di portare a casa 60 seggi su 60. Mentre, il “Partito degli egiziani liberi” del magnate delle telecomunicazioni Naguib Sawiris e di presunto stampo laico e liberale, che ospita, assieme all’alleato “Per amore dell’Egitto”, alcuni esponenti dell’ex regime di Mubarak, ha eletto subito 5 candidati, mentre 65 sono andati al secondo turno.

“Non è stato facile creare un partito forte senza l’ingerenza del governo. Per noi la coalizione non ha alcuna importanza, sono loro che ci hanno chiesto di entrare per avere più credibilità”, ha affermato Sawiris a Le Monde.

Ottimi risultati, poi, di “Per il futuro della nazione”, formazione politica composta da giovani collegati al golpe del 2013, per i liberali del WAFD. Sconfitta, invece, per “Al Nour”, unico partito in gioco dichiaratamente islamista dopo l’uscita di scena dei “Fratelli Musulmani”, che ha minacciato più volte di ritirarsi a causa di presunti brogli.

Dopo il ballottaggio, l’altra tornata elettorale si terrà il 22 e 23 novembre. Mentre i risultati saranno resi pubblici a dicembre. Tuttavia, l’esito certo è che, dopo la Primavera Araba e la presidenza Morsi, l’Egitto è tornato ad un regime simile a quello di Mubarak, tormentato però dalla presenza ormai stabile di organizzazioni islamiste affiliate al Califfato e operanti soprattutto nella regione del Sinai.
Giacomo Pratali

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Libia: accordo in bilico

Medio oriente – Africa/Varie di

Tobruk boccia il Consiglio di Presidenza, ma non si esprime sulla proposta del 9 ottobre. C’è attesa per la risposta di Tripoli. La formazione del governo di unità nazionale rischia di saltare. Tuttavia, il mandato di Leon in scadenza e la radicalizzazione del Daesh in alcuni centri nevralgici del Paese richiedono un cambio di rotta in tempi rapidi.

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L’ottimismo mostrato dal delegato Onu in Libia Bernardino Leon al termine delle positive trattative dello scorso 9 ottobre, in cui era stata stilata la bozza dell’accordo e i nomi del nuovo governo di unità nazionale, cozzano con la bocciatura del 19 ottobre del Parlamento di Tobruk dei nomi del Consiglio di Presidenza presentati dalle Nazioni Unite.

Non un voto formale contro l’accordo, dunque. Ma i 153 deputati dell’Assemblea hanno comunque lanciato un messaggio forte alle Nazioni Unite e a Tripoli. Un malcontento che conterebbe una settantina di rappresentanti, pronti, secondo quanto riportato dal Libyan Herald, a defilarsi rispetto alle posizioni del governo di Tobruk.

Adesso, c’è attesa per la risposta di Tripoli, anche se le premesse del 16 ottobre scorso, data della bocciatura dell’accordo di Skhirat da parte del Presidente del Congresso Nuri Abu Sahimin, l quale ha condanato “l’essere stato invitato a New York alla presenza del Ministro degli Esteri di Tobruk, sostenuto da un parlamento illegale poiché sciolto dalla Corte Costituzionale, di un delegato libico presso l’Onu rimosso dal Congresso e dei ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati”.

Tuttavia, se uno spiraglio è ancora aperto, il mandato del Parlamento di Tobruk è ufficialmente scaduto proprio lunedì 19 ottobre (anche se poi è stato prorogato). Così come per Leon, a cui succederà il tedesco Martin Kobler e vicino al fallimento della sua missione libica. E il piano militare, economico e sociale a sostegno di un eventuale governo di unità nazionale e dei libici dell’Unione Europea, annunciato dall’alto rappresentante Federica Mogherini lo scorso 20 ottobre, appare utopistico se Tobruk e Tripoli non diranno sì alla bozza delle Nazioni Unite.

Oltre alla dichiarazione congiunta di molti Paesi Onu dei giorni scorsi, le reazioni delle ultime ore tendono a minimizzare quanto è accaduto a Tobruk: “Non ha né approvato né bocciato. È stato solo deciso di non sottoporre la proposta al voto della Camera dei Rappresentanti, ha affermato il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni. Mentre Leon ha ribadito che “la minoranza non terrà in ostaggio il processo negoziale. La soluzione politica è l’unica possibile”.

Al netto delle dichiarazioni, tuttavia, le prossime ore appaiono decisive. Le varie scadenze istituzionali ma, soprattutto, la radicalizzazione del Daesh in una città strategica come Bengasi pongono come urgente una soluzione politica univoca per la Libia.

Giacomo Pratali

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Libia: sì al governo di unità nazionale

Il governo di unità nazionale libico si farà. L’accordo, raggiunto nella tarda serata di giovedì 8 ottobre, è stato firmato da tutte le fazioni in gioco, compreso l’esecutivo di Tripoli, il quale, dopo molte reticenze, ha detto sì alla bozza del 21 settembre scorso avallata dalle altre parti in gioco. Il ruolo di Primo Ministro, secondo quanto annunciato dal delegato Onu Bernardino Leon, dovrebbe spettare a Fayez Serray, ex Ministro della Casa in uno degli esecutivi del dopo Gheddafi.

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“Esprimiamo la nostra gioia perché c’è almeno una chance – ha affermato Leon -. Secondo le agenzie Onu, 2,4 milioni di persone sono in una grave condizione umanitaria. A tutti loro vanno le nostre scuse per non essere stati capaci di proporre prima questo governo”.

Dopo circa un anno di trattative pronte a naufragare da un momento all’altro, Leon, a fine incarico in Libia, è riuscito a portare a termine l’accordo tanto atteso. Pur con i distinguo da parte delle ali estreme dei due esecutivi, i governi di Tobruk e Tripoli si sono impegnati a scegliere il futuro Consiglio dei Ministri. Mentre le Nazioni Unite hanno già nominato i tre vicepresidenti che comporranno, assieme al premier, il Consiglio di Presidenza.

Moussa Kony, indipendente e proveniente da Fezzan. Ahmed Maemq, membro del Congresso Generale Nazionale di Tripoli. Fatj Majbari, proveniente dalla Cirenaica ma non fedele al generale Khalifa Haftar.

La comunità internazionale ha accolto con soddisfazione l’accordo. Adesso, si apre la fase della formazione del governo e del possibile intervento militare, sotto l’egida delle Nazioni Unite e a possibile guida italiana, contro lo Stato Islamico: “Ora i partiti libici sostengano l’intesa che va incontro alle aspettative del popolo libico, nel cammino verso la pace e la prosperità. L’Ue -ha annunciato- è pronta a offrire un immediato e concreto sostegno finanziario di 100 milioni di euro al nuovo governo”, ha annunciato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini.

Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon auspica che “non venga sprecata questa opportunità per mettere il Paese sulla strada della costruzione di uno stato che rifletta lo spirito e le ambizioni della rivoluzione 2011″.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni, il quale ha espresso “soddisfazione per il risultato conseguito  nella notte dalle delegazioni delle formazioni libiche. Si tratta di un’importante tappa del percorso verso l’auspicabile creazione di un governo di unità nazionale. Ora è fondamentale che  tutte le parti approvino l’intesa raggiunta questa notte e procedano alla firma dell’accordo”.  – ha detto  il Ministro –  “L’Italia, nel riconoscere l’incessante sforzo compiuto dall’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon –  ha concluso Gentiloni –  continuerà a dare il suo sostegno alle prossime tappe verso la pace e la stabilità della Libia”.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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