GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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giacomo pratali - page 5

Egitto, leggi antiterrorismo: un nuovo “Inverno Arabo”?

Medio oriente – Africa di

Pena di morte per chi prende parte alla Jihad attraverso cellule organizzate. I giornalisti non possono dare informazioni diverse da quelle del governo. La presidenza al Sisi segna il ritorno al nazionalismo e alla repressione contro gli oppositori al regime. Ma questo pugno di ferro ha finora portato all’effetto opposto: il numero degli attentati nel Paese è aumentato in modo esponenziale negli ultimi due anni.

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Sì alla legislazione antiterrorismo. La linea dura del presidente egiziano al Sisi passa. All’interno dei 54 provvedimenti varati, spuntano la pena di morte per chi fonda o finanzia una cellula terroristica. Pugno di ferro anche contro i giornalisti, per cui sono previste multe da 23 mila a 58 mila euro per notizie false o informazioni diverse da quelle del governo in materia di terrorismo.

Se di fronte al mondo l’Egitto vuole dimostrare di essere tornato il primo interlocutore nei rapporti politici e commerciali, vedi l’allargamento del Canale di Suez, dall’altra il mostrarsi stabili agli occhi della comunità internazionale porta ad un clima di repressione interna non solo contro i jihadisti, ma anche contro gli oppositori politici, vedi i Fratelli Musulmani, e la carta stampata.

Una repressione iniziata nel giugno 2014, data d’insediamento dell’attuale presidente al Sisi. E proseguita con la continua ricerca dell’annientamento dei protagonisti della Primavera Araba. Molti avversari politici, considerati non terroristi durante il regime di Mubarak, adesso sono considerati criminali. L’esempio più fulgido è la condanna a morte dell’ex presidente Morsi, della guida suprema Badie e dei leader dei Fratelli Musulmani, su cui i legali d’ufficio hanno presentato ricorso il 16 agosto.

Questo tentativo di stabilizzare il Paese, strizzando l’occhio all’Occidente in vista di un possibile intervento delle Nazioni Unite e dell’Italia in Libia, porta con sé una regressione sul piano dei diritti fondamentali. Un atteggiamento bollato, da alcuni osservatori, come ancor più illiberale e militarista rispetto al regime di Mubarak.

Non solo. Tale lotta al terrorismo non sembra portare, nei numeri, un riscontro reale. Anzi, sembra controproducente. Come riportato dal Brookings Institution, i dati pubblicati in agosto dallo Egypt Center for Economic and Social Rights ci dicono che gli attacchi terroristici in Egitto sono aumentati in maniera esponenziale: dal 2011 a giugno 2013 sono stati 78; dal luglio 2013 fino al maggio 2014, 1223.. Dati chiari, ancora più inquietanti se rapportati alle decina di migliaia di arresti per motivi politici, agli almeno 300 scomparsi, agli omicidi di cariche istituzionali e al precipitare della situazione nel Sinai.

Una politica inconcludente e controproducente che, come sottolinea il Brookings Institute, potrebbe essere un regalo, in termini politici e propagandistici, allo Stato Islamico.
Giacomo Pratali

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Libia: pronto il piano d’intervento

Appello dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti dopo le stragi di Sirte per mano dei miliziani. In attesa dell’auspicata adesione di Tripoli al governo di unità nazionale, emergono alcuni dettagli sul piano d’azione a guida italiana in Libia: costruzione e protezione delle infrastrutture, missione di peace-keeping dei caschi blu, addestramento delle truppe regolari.

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Oltre 200 morti e almeno 500 feriti a seguito degli scontri avvenuti nell’ultima settimana a Sirte. Il susseguirsi delle stragi per mano dei miliziani affiliati all’Isis ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e orrore. Crimini, come la crocifissione di 12 miliziani salafiti o i 22 pazienti di un ospedale morti a seguito di un incendio appiccato dai jihadisti, che hanno fatto gridare al “genocidio” il governo di Tobruk.

“Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti – afferma il comunicato congiunto dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti -. Facciamo appello a tutte le fazioni libiche che desiderano un Paese unificato e in pace affinché uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi”, conclude la nota.

La necessità del governo di unità nazionale, auspicata dalla comunità internazionale, è quanto mai di attualità. Le Nazioni Unite attendono con ansia la decisione di Tripoli, dopo l’accordo tra le restanti fazioni del Paese. C’è un piano da attuare per frenare l’avanzata dell’Isis in Libia.

Già da mesi, si mormora di un intervento militare a guida italiana e sotto l’egida dell’Onu. Un piano d’azione già redatto dalla Farnesina e su cui sta lavorando alacremente lo stesso Bernardino Leon, ancora più indispensabile dopo la conquista di Sirte, le stragi a ripetizione e l’emergenza migratoria.

Come emerso nelle ultime ore, questo piano d’azione riguarda la fase successiva alla costituzione del governo di unità nazionale. In primis, tale esecutivo dovrebbe fare richiesta ufficiale di aiuti internazionale. Così, potrebbe scaturire il sostegno finanziario, ma soprattutto militare, indispensabile per stabilizzare la Libia e contrastare lo Stato Islamico.

Oltre che ai sussidi per la costruzione di infrastrutture come strade e aeroporti, oltre alla protezione degli impianti petroliferi e gasiferi, il clou di questo piano sarebbe l’intervento sul campo dei caschi blu Onu come forza di peace-keeping e l’addestramento delle truppe dell’esercito regolare libico.

L’abbattimento dei flussi migratori verso Italia e Grecia e la sconfitta dell’Isis passano, perciò, attraverso una stabilizzazione istituzionale, politica ed economica della Libia, come spiegato dal ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni: “L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese”. Tripoli, dunque, deve sbrigarsi. Il tempo, oramai, stringe.

Giacomo Pratali

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Libia: tra il possibile accordo e l’emergenza migratoria senza fine

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Come concordato in Svizzera, le parti cercheranno una soluzione politica di unità nazionale entro settembre. Giallo sulle dimissione del premier al Thinni. Continua l’emergenza migratoria: per Oim, il Canale di Sicilia è la rotta migratoria più pericolosa nel Mediterraneo.

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Riavvicinamento a Ginevra tra le diverse fazioni libiche, compreso il governo di Tripoli. Nella due giorni presieduta dal delegato Onu Bernardino Leon, le parti in causa si sono dette concordi nel trovare una soluzione politica di unità nazionale tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Manca ancora l’accordo ufficiale, dunque. Ma, dopo l’accordo di luglio raggiunto in Algeria, adesso anche il Congresso Nazionale Libico potrebbe fare la sua parte. Anche se lo scoglio più grande sarà trovare un punto d’incontro tra le milizie di Misurata e le truppe del generale Haftar.

Intanto, è giallo a Tobruk. Appena due giorni fa, infatti, il premier Abdullah al Thinni aveva annunciato le proprie dimissioni ad una tv libica. Ma, poche ore dopo, un portavoce dell’esecutivo ha smentito la notizia.

Non c’è, però, più tempo da perdere nelle trattative. Oltre alla lotta interna contro il Daesh, la rotta migratoria verso le coste italiane è rovente. Oltre 2000 sono stati gli arrivi tra Sicilia e Calabria negli ultimi tre giorni. Il 10 agosto scorso, la nave Fiorillo della Guardia Costiera è riuscita a salvare almeno 400 persone. Così come oltre 150 dalla nave Fenice della Marina Militare. O i 450 migranti giunti ad Augusta. E così come molti sono stati gli arresti di scafisti da parte delle autorità italiane. Le condizioni disumane e le morti in mare sono ormai una costante.

Numero dei morti che, appunto, si aggiorna rispetto agli oltre 2000 di inizio agosto, certificati dall’Oim. Rispetto alla rotta greca, “la maggior parte dei migranti ha perso la vita nel Canale di Sicilia, lungo la rotta centrale del Mediterraneo che collega la Libia all’Italia: è proprio in questo tratto di mare che le imbarcazioni usate dai trafficanti, in pessime condizioni già al momento di partire, rischiano di naufragare”, racconta l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

La rotta del Canale di Sicilia è “sproporzionatamente più pericolosa delle altre. Nonostante l’Italia e la Grecia siano entrambe interessate da flussi migratori molto significativi (rispettivamente circa 97.000 e 90.500), i tassi di mortalità sono molto diversi: sono stati circa 1.930 i migranti morti nel tentativo di arrivare in Italia, mentre sono stati circa 60 i migranti morti sulla rotta verso la Grecia”.

“Nonostante queste tragedie, l’OIM riconosce gli sforzi straordinari delle forze navali presenti nel Mediterraneo, che continuano a salvare vite umane ogni giorno. Il numero di decessi è diminuito in maniera significativa negli ultimi mesi e ciò è dovuto in gran parte al potenziamento dell’operazione Triton: il Mediterraneo è ora pattugliato da un maggior numero di imbarcazioni che si possono spingere fino a dove partono le richieste di soccorso”.
“Sono quasi 188.000 i migranti salvati nel Mediterraneo fino ad ora e l’OIM sostiene con forza il proseguimento di tali attività. L’Organizzazione ritiene che il numero di migranti in arrivo aumenterà nei prossimi mesi e che la soglia dei 200.000 sarà raggiunta molto presto”, conclude il comunicato di Oim.
Giacomo Pratali

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Ucraina: il fallimento di Minsk 2 è dietro l’angolo

EUROPA di

Gli scontri tra esercito e separatisti sono tornati ai livelli precedenti a febbraio. Sul fronte interno, l’accordo appare lontano. Sul fronte internazionale, Nato e Russia continuano a mostrare i muscoli.

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Complici le miti temperature estive, il conflitto nell’Ucraina orientale è tornato ad essere cruento. L’avvicinarsi dell’inverno, con la questione delle forniture di gas che tornerà centrale nell’agenda di tutti i Paesi europei, acuisce i sintomi di un’ulteriore intensificazione delle violenze. Il 3 agosto scorso, tre soldati dell’esercito di Kiev sono morti a seguito degli scontri con i separatisti. In contemporanea, si è materializzato il fallimento dei negoziati per la costituzione di una zona cuscinetto tra i gruppi di contatto degli accordi di Minsk 2.

I sintomi di una escalation di violenze, appunto. Di natura interna, tra gli ucraini, che chiedono la deposizione delle armi ai filorussi in cambio di concessioni autonomiste nella carta costituzionale, e i separatisti, intenzionati a non cedere e a volere partecipare al processo legislativo.

Di natura internazionale. Come rigurgiti di una Guerra Fredda tornata di attualità, la guerra civile ucraina non è altro che il terreno di una resa dei conti a livello internazionale. Con la Nato, intenzionata ad intensificare sempre di più l’apporto di unità speciali nei Paesi dell’Est Europa. Con Stati Uniti e Unione Europea, decisi a non cedere sulle sanzioni nei confronti di Mosca. Con la Russia, infine, determinata ad uscire dal progressivo isolamento rispetto ai partner occidentali.

La guerra a colpi di sanzioni economiche potrebbe spingere il Cremlino a non retrocedere. L’aumento del numero di addestramento dei separatisti del Donbass ne è un chiaro indicatore. Infine, i rapporti privilegiati con Siria e Iran, i nuovi canali economici e commerciali istituiti con Cina e India, potrebbero indurre Washington ad ammorbidirsi. La degenerazione del conflitto ucraino e la conseguente caduta nel caos del Paese sono dietro l’angolo.
Giacomo Pratali

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Libia: la comunità internazionale aspetta Tripoli

Settimana decisiva per la composizione del governo di unità nazionale. Il ministro degli Esteri Gentiloni e il mediatore Onu Leon sono in pressing sul premier Abusahmin. All’orizzonte si profila un possibile intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Isis però diffonde un video in cui minaccia l’esecutivo di Tobruk.

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“Questo è un avvertimento ad Haftar e ai suoi compagni, gli atei che si riuniscono nel Parlamento, noi non saremo tolleranti, avremo piacere a sgozzarvi”. Queste le parole pronunciate dal jihadista Abu Yahya Al-Tunsi in un video diffuso in rete dall’Isis libico e dal titolo “Messaggio di Sirte”. Le minacce dirette al governo di Tobruk arrivano nella settimana decisiva per la formazione del governo di unità nazionale, sul quale deve sciogliere le riserve l’esecutivo di Tripoli.

Proprio non più tardi del 1° agosto, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il mediatore Onu Bernardino Leon hanno incontrato il premier di Tripoli Nuri Abusahmin. Nell’incontro, avvenuto in Algeria, si è cercato di dare un seguito all’accordo di Shikat di due settimane fa in cui tutte le fazioni, a parte il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, hanno messo nero su bianco la firma per l’istituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante le molte difficoltà nei negoziati in questi ultimi mesi, il fatto che Tripoli abbia continuato a negoziare, può far presagire che l’accordo non sia poi così distante.

C’è tuttavia urgenza da parte delle istituzioni internazionali. Un’istituzione governativa stabile, infatti, darebbe il via libera ad una possibile missione militare, ormai chiesta a gran voce dalla comunità internazionale, sotto l’egida Onu. I Paesi in campo sarebbero l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano La Repubblica, fornirebbero solo l’appoggio logistico all’operazione.

Intanto, il 3 agosto un altro video è stato diffuso in rete. Il filmato documenta le torture subite da Saadi Gheddafi, secondogenito del Rais, nel carcere di Tripoli. Immagini quanto mai eloquenti e quanto mai dure che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura Generale di Tripoli.
Giacomo Pratali

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Nigeria: l’esercito libera 178 ostaggi

Blitz contro le postazioni di Boko Haram. Già nei giorni scorsi erano state liberate 71 donne. Il Benin, intanto, annuncia di mettere 800 soldati a disposizione della coalizione africana per sconfiggere l’organizzazione jihadista.

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Sono 178 gli ostaggi liberati dall’esercito nigeriano a seguito di un’offensiva contro le postazioni di Boko Haram avvenuta domenica 2 agosto. Tra i sequestrati, 67 erano donne e 101 i bambini. L’aviazione di Lagos ha poi comunicato di aver compiuto diversi raid nei pressi della città di Maiduguri, uccidendo un nutrito numero di miliziani. Già il 31 luglio, altre 71 donne erano state liberate.

Poche ore prima, il Benin ha comunicato di mettere a disposizione circa 800 soldati per sconfiggere Boko Haram. Uomini che si aggiungeranno alla zoppicante (per scarsità di fondi) coalizione africana composta da Nigeria, Niger, Ciad e Camerun. Un contingente chiamato a fare fronte alla pesante controffensiva dei jihadisti degli ultimi mesi, responsabile di oltre 800 uccisioni dall’insediamento del presidente Buhari a febbraio.

Non solo i musulmani, ma anche i cittadini di fede cristiana sono entrati nel mirino dell’organizzazione jihadista affiliata all’Isis. Non più tardi di giovedì 30 luglio, infatti, 20 pescatori, originari del Ciad, sono stati decapitati in Nigeria: “Era un drappello di quattro uomini, ma armato di mitragliatori e machete. Hanno spiegato che i pescatori sono emuli di Issa (il nome di Gesù nelle pagine del Corano), un profeta che con le sue parole ha attirato tante persone stolte, tentando di corrompere il mondo”, ha spiegato un 16enne sopravvissuto alla strage.
Giacomo Pratali

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Boko Haram: 29 cristiani uccisi

Medio oriente – Africa di

Raid del gruppo islamista in due villaggi nel nord-est della Nigeria. Nelle ultime settimane, anche Camerun e Ciad sono stati vittime di numerosi attacchi. Nessun appoggio militare da parte degli Stati Uniti agli eserciti della coalizione africana.

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29 cristiani sono stati uccisi, nella giornata di martedì 28 luglio, in due villaggi dello Stato del Borno al confine con il Camerun. L’offensiva, portata avanti da Boko Haram, ha lasciato pochi sopravvissuti, mentre le case sono state date alle fiamme. La notizia giunge a poche ore dal salvataggio dell’esercito nigeriano di 30 persone rapite a Dikwa alla cellula islamista.

I raid jihadisti sono ormai all’ordine del giorno. Spesso i protagonisti sono bambini e ragazzi. Come nel caso della bambina di 9 anni fattasi saltare in aria in un locale notturno a Maroua (Camerun). O la ragazzina fattasi esplodere nel mercato di Damaturo (Nigeria). Azioni che hanno portato ad una cinquantina di morti e a decine di feriti.

La guerra contro Boko Haram riguarda più territori. Il governo camerunense, infatti, ha disposto la chiusura temporanea di moschee e scuole islamiche nei villaggi al confine con la Nigeria. In Ciad, dove la mano violenta del gruppo jihadista si è spinta fino alla capitale Djamena, l’esercito regolare ha risposto sul campo, uccidendo circa 20 miliziani. Mentre gran parte degli abitanti degli isolotti del Lago Ciad, preso di mira le scorse settimane, hanno evacuato le proprie abitazioni.

Continui attacchi che dimostrano ancora di più una strategia già evidente. In primis, Boko Haram è alle prese con una prova di forza intenta a dimostrare la sua radicalizzazione nel nord-est della Nigeria. Inoltre, in risposta all’alleanza di Lagos con Camerun e Ciad, l’organizzazione, affiliata allo Stato Islamico, ha varcato definitivamente i confini dello Stato del Borno.

La comunità internazionale, intanto, rimane alla finestra. L’appoggio a parole del presidente degli Stati Uniti Obama al suo omologo nigeriano Buhari, fornito nell’incontro a Washington del 21 luglio, appare debole. All’atto pratico, alla richiesta di un aiuto sul piano militare, l’inquilino della Casa Bianca ha rifiutato facendo appello ad una norma statunitense che vieta l’appoggio a stati che non rispettano i diritti umani. Di contro, Buhari ha commentato duramente la risposta parlando di “appoggio all’operato di Boko Haram” da parte degli Usa. Il rischio è che, sulla scia di Siria e Libia, anche questa porzione di Africa cada vittima di un caos geopolitico difficilmente rimediabile.
Giacomo Pratali

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Iran, stop sanzioni: i riflessi geopolitici ed economici

Con il sì del Consiglio di Sicurezza Onu, finisce l’embargo imposto a Teheran. Per il governo statunitense è “l’unica chance per fermare il piano nucleare”, mentre per l’Europa e l’Italia si apre un’importante opzione commerciale.

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Grazie alla risoluzione Onu del 20 luglio, il Consiglio di Sicurezza ha detto sì all’accordo e alla fine delle sanzioni contro l’Iran decise dalla stessa assemblea nel 2006. Via libera dunque al patto siglato tra il 5+1 e Teheran a Vienna il 14 luglio scorso. Il documento entrerà in vigore non prima di 90 giorni.

Un accordo storico per l’Occidente dal punto di vista geopolitico ed economico. Geopolitico in particolar modo per gli Stati Uniti, come ricordato il 23 luglio dal segretario di Stato Kerry: “Non potevamo di certo aspettarci la capitolazione dell’Iran – ha riferito al Congresso -. Ma era l’opzione migliore. Spero che il Congresso (rivolgendosi al Partito Repubblicano, ndr) approvi perché questa è l’unica chance per fermare il piano nucleare ed evitare il rischio di uno scontro militare”, ha poi concluso.

Ma oltre agli aspetti geopolitici e strategici nel mondo arabo, gli sbocchi sono anche commerciali. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale di Saras (azienda italiana di raffinazione del petrolio) Dario Scaffardi, in un summit su business e finanza, oltre a sottolineare i benefici che il calo del prezzo del petrolio ha già portato sul mercato internazionale, ha riferito che, a seguito della fine dell’embargo, il proprio gruppo è stato contattato dall’Iran, tornatoad essere attore protagonista del mercato di greggio internazionale. Come già prospettato dopo l’accordo di Vienna, il ritorno alla produzione di greggio da parte di Teheran “potrà portare un milione di barili di greggio al giorno sul mercato una volta tolte le sanzioni. Con la possibilità di aggiungere altri 0,5-1 milione di barili abbastanza velocemente”, ha affermato il manager dell’industria della famiglia Moratti.

Sul fronte italiano, inoltre, i prossimi 4 e 5 agosto, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni e il titolare dello Sviluppo Economico Federica Guidi si recheranno in Iran assieme ai rappresentati dei più grandi gruppi industriali italiani. Il fine è quello di mettere nero su bianco un interscambio commerciale significativo con Teheran. Infatti, prima della rivoluzione del 1979, l’Europa era il primo partner in termini di import-export dell’ex Persia. Primato che, al momento, dagli anni’90 appartiene alla Russia, la quale, oltre ai rapporti geopolitici di amicizia, ha effettuato importanti investimenti nei settori petrolifero e gasifero del Paese mediante la società Gazprom.

 

Giacomo Pratali

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Grecia, Spannaus: «Perché l’Ue insiste su una politica che non funziona?”

EUROPA/Varie di

La crisi del debito greco è uno dei temi geopolitici più caldi. La Germania ha imposto il pacchetto di salvataggio la scorsa settimana. Mentre gli Stati Uniti ha svolto un’opera di dissuasione politica nei confronti della Ue, per evitare che Atene si spostasse nell’orbita di Mosca. Per parlare di queste questioni, European Affairs hanno intervistato Andrew Spannaus, giornalista e Direttore di Transatlantico.info.

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Con la cessione di Tsipras su tutta la linea, la Grecia diventa di fatto un protettorato di Bruxelles o, per meglio dire, di Berlino?

“Si è persa una grande occasione, almeno per ora. Dopo aver parlato della necessità di passare dalla fase dell’austerità a quella della crescita, nella sostanza non è cambiato nulla. L’establishment europea – guidata dalla Germania, ma troppo facile dare la colpa solo a lei – ha raddoppiato, adoperando ogni ricatto possibile pur di non ammettere il fallimento del modello economico degli ultimi vent’anni.
Si tratta di una sconfitta non solo per la Grecia, ma per l’Europa stessa, in quanto si mostra 1. di non essere disposti a rivedere i propri errori, pur di non mettere in discussione i dogma dell’economia finanziaria; 2. che questa Europa non è compatibile con la democrazia.
La domanda più grossa è chi comanda a Bruxelles e a Berlino? Perché si segue una politica che chiaramente non funziona? Gli errori del passato sono una cosa, ma decidere di peggiorare la situazione continuando con la politica tagli e tasse dimostra che c’è qualcos’altro in ballo. L’Europa si è allontanata dalla propria storia e ora risponde ad interessi diversi”.

 

“Nonostante gli errori in questi 5 mesi, sono orgoglioso di avere difeso i diritti del nostro popolo”. Questa è la dichiarazione di Tsipras al Parlamento greco, chiamato a pronunciarsi sulle misure imposte dall’Europa: secondo lei, Syriza ha tradito sia il mandato elettorale sia l’esito del referendum?

“Il Governo greco si è alternato tra posizioni dure e posizioni più accomodanti negli ultimi mesi. Lo scopo è sempre stato di influenzare le trattative e di portare a casa qualche concessione. Ad un certo punto sembrava che Tspiras avesse deciso di fare sul serio: prima le aperture verso la Russia, e poi il referendum. Alla fine però ha ceduto ai ricatti e ha dimostrato di non essere disposto a rischiare la rottura.
Il popolo greco aveva chiaramente respinto l’austerità; il problema è che in teoria voleva anche rimanere in Europa. Dunque mentre si può sicuramente criticare Tsipras, rimane il fatto che le due cose non erano compatibili: Europa = austerità, dunque non c’era soluzione.
I giochi comunque non sono finiti. Se sarà attuato il piano imposto alla Grecia la situazione peggiorerà ancora, quindi il problema potrebbe riproporsi presto. In più, il dibattito politico è cambiato: non si possono più nascondere le contraddizioni e la debolezza della politica economica attuale. Prima o poi qualche leader politico, qualche paese, deciderà che non si può più andare avanti così”.

 

Il Fondo Monetario Internazionale ha definito il debito greco insostenibile:il piano Ue andrà comunque avanti?

“Il piano andrà avanti, ma non funzionerà. I primi “salvataggi” della Grecia – in cui i soldi pubblici sono andati a salvare i bilanci delle banche private, soprattutto tedeschi e francesi – dovevano creare le condizioni per far ripartire l’economia. La stessa cosa si è detta per l’Italia. La realtà invece è stato un pesante calo del Pil, nel caso greco a livelli catastrofici (-30%). Pensare di ripagare un debito di questo tipo tagliando ancora la spesa è semplicemente folle. La soluzione corretta è di ristrutturare e cancellarne una parte, e soprattutto di attuare una politica di investimenti per creare la crescita. Questo significa disattendere certi dogmi, puntando per esempio sull’importanza della spesa pubblica mirata. I debiti giusti – una parte – possono essere ripagati solo se si rilancia l’economia; con la politica attuale questo non potrà avvenire”.

 

Quanto è stato decisivo il ruolo degli Stati Uniti nello sbloccare la trattativa tra Ue e Grecia? E’ esistita, o esiste tuttora, una reale possibilità che Atene si avvicinasse a Mosca?

“Esiste una leggenda in Europa, su come gli Stati Uniti sono contro l’Euro e hanno paura dell’Unione Europea. Ebbene, la realtà è che, anche a volere essere “cattivi”, cioè a pensare che gli americani non vogliano vedere un’Europa forte, non c’è proprio nulla da temere fino a quando vige la politica economia attuale. Nel nome dell’unione si sta rovinando la forza e anche la coesione tra i paesi europei. L’Ue è nata su altre basi, ma dagli anni Novanta si è passati al modello del cosiddetto libero mercato e della grande finanza. Questo fa bene a pochi, non crea benessere diffuso.
In secondo luogo, questo mito è stato sfatato dalla posizione americana in questa crisi: gli Stati Uniti non volevano vedere una rottura dell’Europa, proprio per via di un possibile sconvolgimento degli equilibri geopolitici. Tsipras ha mostrato di aver capito la vera posta in gioco quando da San Pietroburgo ha ha parlato di “un nuovo mondo economico emergente” in cui “il centro dello sviluppo economico si sta spostando verso altre aree”.
L’Occidente ha deciso di fare quadrato, per evitare di offrire una sponda al “nemico” Putin. In realtà però la politica europea di ulteriore austerità rischia di rendere ancora più attrativa l’alternativa dei Brics: numerosi paesi si stanno già smarcando dalle istituzioni finanziarie occidentali proprio per evitare di essere succubi di un sistema dominato dalla grande finanza”.

Giacomo Pratali

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Ue, migranti: retromarcia sulle quote e l’Italia tace

EUROPA di

Scende da 40mila a 32mila il numero dei migranti, sbarcati quest’anno in Italia e Grecia, da ricollocare. Il provvedimento sarà in vigore da ottobre. I duri scontri del vertice sull’immigrazione del 26 giugno scorso lasciano lo spazio ad una tacita rassegnazione di Roma.

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Passo indietro sul fronte delle quote di migranti da redistribuire tra i Paesi dell’Unione Europea. Nella riunione tra i 28 membri di Bruxelles del 20 luglio, è stato deciso che il numero di migranti totali da accogliere saranno 32mila e non 40mila come previsto dalla proposta della Commissione Europea del 26 giugno. A questi, si devono aggiungere le 20mila persone, siriani ed eritrei, provenienti dai campi profughi.

La dura trattativa della nottata tra il 25 e 26 giugno appare un lontano ricordo. La presa di posizione del presidente del Consiglio Ue Tusk contrapposta alla reprimenda del presidente della Commissione Juncker al termine dei negoziati di un mese fa assomigliano ad un teatrino. Così come le tanto attese quote, proclamate all’epoca come “obbligatorie”, altro non sono che “volontarie”.

Mancano dunque circa 20mila migranti da ricollocare rispetto a quanto prefigurato a giugno. Intanto, da ottobre, circa 32mila persone giunte in Italia e Grecia saranno ricollocate in altri Paesi. Oltre agli annunciati no delle sempre più antieuropeiste Austria e Ungheria, stupisce il sì parziale dell’Irlanda, esentata secondo i trattati europei assieme a Gran Bretagna e Danimarca, all’accoglienza di 600 persone. In vetta, invece, troviamo la Germania con circa 10mila, la Francia con quasi 7000, l’Olanda con circa 2000.

Sul fronte ricollocamento dei profughi, le cifre appaiono diverse perché diverso, in senso positivo, è stato l’atteggiamento degli Stati membri Ue. Oltre ad Italia, Germania e Francia, spiccano a sorpresa la Gran Bretagna, l’Austria e la Spagna, oltre anche alla presenza di Paesi non-Ue come Svizzera e Norvegia.

A parte la suddivisione dei 20mila profughi, il resto del quadro resta opaco. Oltre all’accordo al ribasso, i 28 Paesi membri non si sono pronunciati sulle quote previste per il 2016, delle quali si riparlerà a fine 2015. L’accoglienza tiepida, ma “positiva dell’Italia”, secondo le parole del ministro degli Interni Alfano, stonano con i toni duri espressi nell’incontro di un mese fa dal primo ministro Renzi: “Se non siete d’accordo sulla distribuzione dei 40 mila migranti, non siete degni di chiamarvi Europa. Se volete la volontarietà, tenetevela”. A cosa è dovuto questo cambio di atteggiamento da parte di Roma?
Giacomo Pratali

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