GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Paola Fratantoni

29° summit della Lega Araba – Leader uniti su Palestina e Iran

 

 

Si è concluso domenica scorsa il summit della Lega Araba, giunto alla sue 29esima edizione. L’incontro, tenutosi a Dharan (Arabia Saudita) ha visto riunirsi i 21 membri attivi della lega e personalità di spicco dello scenario internazionale, come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, il presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki e il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Unico membro assente la Siria, sospesa dalla Lega nel novembre del 2011, quando iniziarono le rivolte nel paese ed in seguito alle azioni repressive condotte dal regime di Assad a danno della popolazione civile.

I vari paesi membri erano rappresentati dai capi di stato e di governo, ad eccezione del Qatar che, invece, ha inviato il proprio rappresentate presso la Lega Araba. Un gesto, questo, accolto non molto positivamente dal resto della comunità araba. Ricordiamo, infatti, che da parecchi mesi i rapporti della monarchia con i paesi arabi e mediorientali si sono fortemente incrinati, determinando una crisi diplomatica proprio tra vicini di casa. In particolare, lo scorso 5 giugno, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar, accusando quest’ultimo di fornire supporto a gruppi estremisti e terroristi. L’invito del Qatar a partecipare al summit era arrivato insieme all’annuncio che la crisi diplomatica non sarebbe stata posta nell’agenda dell’evento. L’assenza dell’emiro del Qatar, è stata, dunque, percepita come un segno di arroganza, che ha gettato ulteriore benzina su un fuoco ancora molto ardente.

Il vertice si è concentrato maggiormente sui temi in agenda, mostrando come vi sia una notevole unità di pensiero tra i leader su temi d’importanza cruciale per il contesto arabo e mediorientale e gli equilibri tra la regione e gli attori esterni.

Tre i grandi temi trattati: la questione israelo-palestinese, la guerra in Yemen e la pericolosa influenza dell’Iran. Non sono, invece, stati messi in agenda, come accennato, né la crisi diplomatica con il Qatar né la guerra in Siria. Tuttavia, un comunicato stampa pubblicato dalla Lega Araba al termine del summit invoca la conduzione di “independent International investigation to guarantee the application of International law against anyone proven to have used chimical weapons”. Da notare, infatti, che il summit ha avuto inizio 24 ore dopo l’attacco di USA, Gran Bretagna e Francia sui alcuni siti militari siriani. Tale azione nasce in risposta ad un presunto attacco chimico condotto dal regime contro alcuni ribelli, attacco per altro negato dal presidente Bashar e l’alleato russo.

 

PALESTINA E ISRAELE

Riflettori puntati su Palestina ed Israele, tema che ha portato alla luce una posizione peculiare dei paesi arabi. Da un lato, la ferma opposizione alla decisione del presidente statunitense Donald Trump di spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima come capitale della nazione israeliana. Per un paese come gli Stati Uniti, che ha sempre giocato un ruolo di mediazione nel conflitto arabo-israeliano, un gesto simile viene visto dai leader mediorientali come uno spostare la propria posizione di neutralità verso quella di terza parte in causa, un passo decisamente significativo (e se vogliamo, pericoloso) in un contesto delicato come quello del Medio Oriente. Come sottolineato dal re Salman -che ha rinominato il vertice “Jerusalem summit” proprio per sottolineare la solidarietà verso il popolo palestinese- i leader arabi riconoscono il diritto del popolo palestinese di stabilire un proprio stato indipendente, con Gerusalemme come capitale. La stessa Gerusalemme Est appartiene, a loro opinione, ai territori palestinesi. In aggiunta, il re Salman ha annunciato la donazione di 150 milioni di dollari all’amministrazione religiosa che gestisce i siti religiosi musulmani a Gerusalemme, come la moschea Al-Aqsa e di altri 50 milioni per i programmi condotti dalle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente.

Dall’altro lato, invece, i leader arabi –ad eccezione del presidente Abbas- si sono espressi a favore del piano di pace proposto da Trump per il conflitto tra i due popoli. I dettagli di questo piano, tuttavia, non sono ancora stati resi noti, ma potrebbe prevedere una soluzione a due stati.

 

GUERRA IN YEMEN

Altro tema caldo è stato la guerra civile che da circa tre anni logora lo Yemen, e vede coinvolti (sul campo e a livello di interessi in gioco) diversi attori mediorientali accanto a potenze straniere come Russia e Stati Uniti. Il paese è teatro di scontri tra le forze fedeli al governo di Hadi, che di fatto ha perso il controllo di numerose porzioni del territorio nazionale, e i ribelli Houthi, alleati con l’ex presidente Saleh e supportati militarmente e finanziariamente dall’Iran. In campo, inoltre, una coalizione militare a guida saudita, che vede impegnati paesi occidentali (USA; Francia, GB) e alleati mediorientali, come gli Emirati Arabi.  Ancora una volta i leader arabi hanno riaffermato il loro supporto alla nazione e l’obiettivo di ripristinare l’unità, l’integrità, la sicurezza, la sovranità e l’indipendenza della nazione yemenita. La totale responsabilità attribuita ai ribelli Houthi, rimanda ad un altro tema centrale del summit: l’Iran e la politica aggressiva sul piano internazionale.

 

L’AGGRESSIVITÀ’ DELL’IRAN

Non sono mancate nel corso della giornata condanne alle politiche condotte all’estero dall’Iran, dettate da atteggiamenti aggressivi e perpetuate violazioni dei principi del diritto internazionale. Diretto riferimento al supporto ai ribelli Houthi in Yemen, ma anche al regime di Bashar al Assad in Siria. Chiaro il tentativo del re Salman di sfruttare il summit per allineare i paesi arabi contro lo storico rivale Iran. L’Iran, ad oggi, è visto come la principale causa di instabilità nella regione, “colpevole” di destinare le proprie risorse finanziarie e militari per alimentare guerre per procura in paesi dilaniati da anni di guerra civile, come appunto Siria e Yemen. In Siria, come detto, le milizie shiite iraniane supportano le forze governative di Assad, regime anche questo shiita. Similmente in Yemen, l’esperienza militare e le armi iraniane sostengono i ribelli Houthi, che hanno nel corso del conflitto conquistato diverse porzioni del territorio nazionale, compresa la capitale Sana’a. Non è mancata la risposta iraniana: il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Bahram Qasemi ha, infatti, dichiarato che le accuse sollevate in occasione del summit sono solo il risultato della pressione esercitata dal suo più grande nemico, l’Arabia Saudita, paese ospite del summit.

 

Vediamo, quindi, come le acque nel Medio Oriente continuino ad essere piuttosto agitate. Sebbene si possa intravedere un’unità d’intenti in alcuni ambiti, i temi caldi sono ancora molti ma soprattutto manca allo stato attuale un vero e proprio “corse of action” per raggiungere gli obiettivi raggiunti. È auspicabile, dunque, che questo messaggio di allineamento dei paesi arabi si trasformi ora in un’azione pratica, che possa portare, step by step, a garantire una maggiore sicurezza e stabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

Arabia Saudita: prima tappa del viaggio di Trump

Donald Trump ha inaugurato ieri il suo primo viaggio internazionale come Presidente degli Stati Uniti. L’agenda prevende un tour di nove giorni in Europa e Medio Oriente, con visite al Vaticano, in Israele e a Bruxelles. L’Arabia Saudita è la prima tappa di questo viaggio, una scelta ben calcolata che mostra chiaramente l’approccio adottato dalla nuova amministrazione verso uno dei più storici e strategicamente importanti alleati degli Stati Uniti.

Il viaggio internazionale del Presidente è un impegno politico molto importante, soprattutto per un presidente neo-eletto. Soprattutto per un presidente neo-eletto che sta già avendo scandali politici nel proprio paese. Questo viaggio rappresenta un’ottima opportunità per incontrare molteplici capi di stato e rappresentanti di governo in tutto il mondo, nonché un’occasione chiave per rafforzare le alleanze del paese e dare nuovo respiro alla posizione degli USA nell’arena politica internazionale.

La scelta dell’Arabia Saudita come tappa inaugurale è, perciò, un segno abbastanza inequivocabile del percorso che il Presidente Trump desidera intraprendere. L’Arabia Saudita è sempre stata uno degli alleati statunitensi più importanti nella regione e i due paesi condividono interessi economici, politici e strategici. I loro rapporti sono stati solitamente molto stretti e amichevoli, mostrando un’intesa reciproca nonché la volontà di cooperare in diversi settori. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, questo matrimonio felice ha attraversato un periodo piuttosto difficile, spesso descritto dai rappresentanti sauditi come il peggiore nella storia delle relazioni tra i due paesi. La decisione di Trump sembra, quindi, essere una mossa intelligente per mostrare all’Arabia Saudita e al mondo interno l’intento della nuova amministrazione di ripristinare quel rapporto solido e leale tra le due nazioni, dopo i tempi critici di Obama.

Diverse motivazioni si celano dietro questa scelta, che possono essere lette sia nel quadro delle relazioni USA-Arabia Saudita, ma anche nel più ampio contesto della strategia statunitense in Medio Oriente.

Considerando i rapporti bilaterali, interessi economici e di sicurezza sono i temi più importanti in tavola. Si parla nuovamente di accordi economici per la vendita di armi e sistemi di difesa, interrotti in passato da Obama, preoccupato che la monarchia saudita potesse influenzare -o per meglio dire supportare militarmente in modo significativo- la guerra in Yemen (ricordiamo che l’Arabia Saudita è a guida di una coalizione internazionale a sostegno del governo yemenita contro i ribelli Houthi). Trump non sembra condividere le stesse preoccupazioni: proprio ieri è stato firmato un contratto del valore di 350 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni, 110 miliardi con effetto immediato. Tali accordi prevedono un sistema di difesa missilistica, il Terminal High Altitude Area Defence (THAAD), un software per i centri di comando, controllo e comunicazione, il C2BMC, nonché diversi satelliti, tutto fornito dalla Lockheed. È al vaglio anche la fornitura di veicoli da combattimento prodotti dalla BAE Systems PLC, incluso il Bradley e l’M109. Contrariamente alla precedente amministrazione, gli USA sembrano supportare un ruolo saudita più interventista nella regione. Accanto agli accordi commerciali, Washington e Riad intendono promuovere “best practices” nel settore della sicurezza marittima, aerea e ai confini.

 

Se guardiamo alla strategia statunitense in Medio Oriente, la visita in Arabia Saudita appare ancora più logica.

Sin dal suo insediamento, Trump ha definito la lotta contro lo Stato Islamico (ISIS) come la priorità numero uno per la sicurezza nazionale. Come il presidente ha reso ben chiaro, l’ISIS -e il terrorismo in genere- non è un problema unicamente regionale, bensì una piaga che colpisce l’intera comunità internazionale, andando, perciò, a danneggiare anche gli interessi statunitensi sia in patria che oltreoceano. Simili considerazioni emergono relativamente alle condizioni di sicurezza in Medio Oriente, essenziali per proteggere gli interessi economici e strategici della potenza americana nella regione. Questi motivi hanno portato Trump a riconsiderare il ruolo degli USA in Medio Oriente. Se Obama aveva fatto un passo indietro, cercando di mettere distanza tra la politica statunitense e gli affari mediorientali, dando così l’impressione che gli USA stessere voltando le spalle ai propri alleati nella regione, il Presidente Trump ha chiaramente mostrato intenzioni opposte.

Gli Stati Uniti intendono ripristinare la propria posizione nel Medio Oriente, forse mirando proprio a quel ruolo di garante della sicurezza che ha svolto per anni, con la missione di portare sicurezza e stabilità nella regione e, di conseguenza, a livello globale. La linea dura assunta con l’Iran e i tentativi di riassicurare gli alleati nel Golfo possono chiaramente essere letti in quest’ottica.

Ma cosa significa tutto ciò in termini di sicurezza regionale e di giochi politici internazionali?

  • Con l’appoggio degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, le monarchie del Golfo possono rafforzare la propria posizione dinnanzi allo Stato Islamico e agi altri gruppi terroristici. Questi, infatti, hanno cercato nel tempo di destabilizzare tali monarchie. Da un lato, sfruttando le minoranze religiose e le differenze sociali interne ai paesi; dall’altro, beneficiando di una strategia europea inconsistente ed inefficace e di un’amministrazione americana più concentrata sui problemi di autoritarismo e sul mancato rispetto dei diritti umani all’interno di tali monarchie, piuttosto che sull’obiettivo finale della loro azione, ovvero la lotta all’ISIS. Trump sembra aver stabilito -e voler rispettare- priorità e confini: combattere l’ISIS e il terrorismo è l’obiettivo principale; democrazia e tendenze autoritarie sono problemi domestici dei quali gli Stati Uniti non devono necessariamente occuparsi ora. Per sconfiggere l’Islamic State servono paesi stabili, punto. Come lo stesso Segretario di Stato Rex Tillerson ha recentemente affermato “When everything is a priority, nothing is a priority. We must continue to keep our focus on the most urgent matter at hand.”
  • Un più arido rapport con l’Iran. Se l’amministrazione Obama verrà ricordata su tutti i libri di storia per l’accordo multilaterale sul nucleare stretto con la Repubblica Islamica, è abbastanza improbabile che quella Trump segua la stessa direzione. Come primo passo, Trump ha, infatti, intensificato le sanzioni contro l’Iran, mandando così un chiaro messaggio che i tempi sono cambiati e sarà bene che l’Iran si comporti a dovere. Diversi comunicati stampa hanno denunciato il comportamento ostile di Teheran, definendo il paese come una piaga per il Medio Oriente e per gli interessi statunitensi nella regione. Nessuna sorpresa, dunque, se l’atteggiamento di intesa e conciliazione di Obama lascerà il posto all’approccio duro e allo scontro, senz’altro ben accolto dai paesi arabi.
  • Firmando nuovi accordi per la fornitura di armi a Riad, gli Stati Uniti mostrano indirettamente di appoggiare la coalizione a guida saudita impegnata nella guerra in Yemen, un conflitto che coinvolge anche l’Iran. La Repubblica Islamica fornisce, infatti, supporto militare ai ribelli Houthi contro il governo yemenita. Come accennato sopra, l’Iran è considerato una minaccia reale per la stabilità del Medio Oriente.
  • Un impegno più consistente in Medio Oriente non può omettere il conflitto arabo-israeliano. Trump sostiene l’importanza di proseguire le trattative di pace tra Israele e Palestina nell’ottica di raggiungere un accordo stabile e duraturo. La soluzione a due stati-ovvero uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, in cambio della stabilità e la sicurezza di Israele- è stata la colonna portante della politica estera statunitense per decenni. Tuttavia, Trump si dichiara ora disponibile ad accettare anche un accordo diverso, dove Israele sarebbe l’unico stato indipendente e sovrano e i Palestinesi diventerebbero cittadini israeliani o sarebberro condannati ad una condizione di occupazione perenne senza godere del diritto di voto. “I’m happy with the one they [Israelis and Palestinians] like the best” ha affermato il Presidente. Difficile capire, tuttavia, come i Palestinesi possano mai accettare la seconda.
  • La visita di Trump in Arabia Saudita, non solo un paese musulmano ma anche la sede di alcuni tra i più simbolici siti religiosi islamici, può essere letta come una mossa strumentale per il ruolo che gli Stati Uniti mirano ad esercitare nel Medio Oriente. Con l’implementazione delle politiche immigratorie negli USA e diverse dichiarazioni contro i Musulmani, Trump ha attirato critiche molto severe, che descrivono il presidente e le sue politiche come anti-musulmane. Di certo non la miglior premessa per qualcuno che intende svolgere un maggior ruolo di garante della sicurezza nella regione. Iniziare il tour diplomatico nella monarchia saudita vuole mostrare come gli USA e gli arabi musulmani possano in realtà formare una parrtnership, cooperando in diverse aree.
  • A primo impatto, si può pensare che una politica americana più interventista nella regione possa in qualche modo infastidire la Russia. Su diversi argomenti-come Yemen e Siria- Russia e USA hanno visioni notoriamente divergenti e si posizionano ai fronti opposti dello scontro. Un’amministrazione americana desiderosa di assumere il ruolo di “poliziotto” nella regione e -magari- intervenire con forze militari on the ground non è esattamente ciò che il Cremlino vorrebbe vedere. Tuttavia, lo scandalo che ha recentemente colpito la Casa Bianca-relativo alla condivisioni di importanti informazioni classificate con i Russi- pone diverse domande su quali siano i reali rapporti tra Mosca e Washington.

 

In conclusione, l’incontro di Trump con i leader sauditi va al di là delle visite diplomatiche di routine, in quanto contiene anche un forte messaggio politico per i paesi arabi ed il mondo intero. Si apre una nuova pagina nella politica estera statunitense, che ha l’obiettivo di recuperare la gloria passata e la leadership nel Medio Oriente. Sembrerebbe che la nuova amministrazione abbia una strategia chiara e precisa alle spalle; ciò nonostante, su alcuni argomenti pare quasi che Trump stia procedendo un po’ “a tentoni”, reagendo giorno per giorno ai fatti che si verificano. Sorge, dunque, spontanea una domanda: Trump ha realmente una strategia? Gli Stati Uniti sono una nazione molto potente e -volenti o nolenti-le loro azioni hanno un impatto rilevante in tutto il mondo. Ci auguriamo che ci sia qualche asso nascosto nella manica: l’ultima cosa che il mondo vorrebbe vedere sono gli Stati Uniti vagare senza avere una chiara idea su cosa fare. È il momento di assumere una posizione, di prendere decisioni e Trump sembra abbastanza a suo agio nel farlo. Tuttavia, decisioni e azioni devono essere indirizzate: serve una strategia, un progetto a lungo termine che abbia un obiettivo ben specifico. Ci auguriamo che l’amministrazione americana ne abbia effettivamente una.

 

Paola Fratantoni

Arabia Saudita: verso la diversificazione economica

SA

 

Nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata al centro di intense trattative diplomatiche, rivolte prevalentemente a stringere importanti accordi economici per il paese. Non è una coincidenza, infatti, che alcuni degli attori coinvolti in queste trattative siano proprio le tre più forti economie mondiali: Stati Uniti, Cina e Giappone. Infatti, mentre Re Salman bin Abdulaziz Al Saud ha intrapreso un viaggio di sei settimane in Asia, il suo Ministro dell’Energia Khalid Al-Falih si è recato a Washington, dove ha incontrato il Presidente americano Donald Trump.

Una così intensa attività va al di là delle normali “routine” diplomatiche, soprattutto se si considera che la visita del monarca saudita in Giappone rappresenta la prima visita di un sovrano del Medio Oriente negli ultimi cinquant’anni. Cosa si cela, perciò, dietro questa agenda ricca di appuntamenti? Sicuramente il petrolio. Per decenni, la vasta disponibilità di petrolio unita alle rigide regolamentazioni imposte dalla monarchia saudita -che hanno ripetutamente scoraggiato gli investimenti stranieri nei mercati del regno- hanno fatto del petrolio l’unica e sola fonte di entrate del regno.

Tuttavia, il recente crollo del prezzo del petrolio ha preoccupato Riad. E le previsioni del Fondo Monetario Internazionale non hanno rincuorato particolarmente: si prevede, infatti, un calo della crescita economica della monarchia dal 4% allo 0,4% nel corso del anno corrente. Di conseguenza, l’Arabia Saudita sta esplorando nuovi sentieri economici, non ultimo attirare capitali stranieri e sviluppare diversi settori industriali. La strategia di breve termine prevede, infatti, investimenti e sviluppo delle infrastrutture, in particolare elettricità e trasporti. Nel lungo termine, invece, il progetto “Vision 2030” presenta obiettivi e aspettative basati su tre pilastri principali: mantenere un ruolo di leadership nel mondo arabo e musulmano, diventare un centro di investimenti a livello globale e un ponte di collegamento tra Asia, Europa e Africa.

Date queste premesse, diventa più comprensibile l’intenso sforzo condotto dalla monarchia saudita per diversificare la propria economia. Tuttavia, è bene analizzare anche le implicazioni politiche che tali visite diplomatiche e accordi commerciali possono avere.

Iniziamo dal Giappone, la prima tappa di re Salman. Come accennato prima, l’arrivo del re saudita nell’isola giapponese non è un evento così frequente, malgrado i paesi godano di buoni rapporti e la monarchia saudita sia il maggiore fornitore di petrolio del paese. Questa volta re Salman ha, però, deciso di recarsi personalmente a Tokyo, dove ha incontrato il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. I due leader hanno, così, firmato l’accordo “Saudi-Japan Vision 2030”, un progetto governativo che mira a rafforzare la cooperazione economica tra i due paesi.

L’implementazione del progetto porterà Arabia Saudita e Giappone ad essere partner strategici eguali, e assicurerà alle compagnie nipponiche una zona economica protetta nel regno saudita, in modo da facilitare i flussi in entrata nel regno e le partnership commerciali. I progetti di sviluppo presentati nel documento sono legati sia al settore pubblico che privato.

Quest’ultimo vede coinvolti nomi importanti. Toyota sta valutando la possibilità di produrre automobili e componenti meccaniche in Arabia Saudita; Toyobo, invece, collaborerà nello sviluppo di tecnologie per la desalinizzazione delle acque. Diverse banche -tra cui la Mitsubishi Tokyo UFJ Bank- promuoveranno investimenti nel regno, mentre il Softbank Group prevede la creazione di un fondo di investimenti nel settore tecnologico del valore di 25 miliardi di dollari.

Il Giappone si pone, dunque, come attore chiave per la diversificazione economica della monarchia saudita. Tuttavia, a supportare queste più intense relazioni tra i due paesi vi sono anche motivazioni politiche. Il governo nipponico cerca, infatti, di sostenere la stabilità economica e politica dell’Arabia Saudita, in quanto fattore chiave per mantenere la stabilità nella regione. La competizione tra Arabia Saudita ed Iran per la leadership nel Medio Oriente sta deteriorando la sicurezza e la stabilità della regione ormai da decenni. Il Giappone possiede relazioni amichevoli con entrambi i paesi e invita gli stessi ad intraprendere un dialogo produttivo che possa portare ad una pacifica soluzione delle loro controversie. Aiutare l’Arabia Saudita a rafforzare la propria economia, specialmente in un momento così critico per il mercato dell’oro nero, è essenziale al fine di mantenere una sorta di equilibrio tra le due potenze mediorientali, considerando, inoltre, come i rapporti con gli Stati Uniti -storico alleato e colonna portante della politica estera saudita- abbiano recentemente attraversato un periodo piuttosto difficile.

Proseguendo verso ovest, re Salman ha raggiunto la Cina, com’è noto secondo maggior importatore del petrolio saudita e terza maggiore economia mondiale. Come per il Giappone, la monarchia saudita è la fonte primaria per il fabbisogno energetico della Repubblica. Le due nazioni hanno ampliamente rafforzato i propri rapporti firmando accordi economici e commerciali per un valore di circa 65 miliardi di dollari. All’interno di questa partnership troviamo investimenti nei settori manifatturiero ed energetico, nonché nelle attività petrolifere. Inoltre, tali accordi includono anche un Memorandum of Understanding (MoU) tra la compagnia petrolifera Saudi Aramco e la Cina North Industries Group Corp (Norinco) per quanto riguarda la costruzione di impianti chimici e di raffinazione in Cina. Sinopec e Saudi Basic Industries Corp (SABIC) hanno stretto un accordo per lo sviluppo dell’industria petrolchimica sia in Arabia Saudita che in Cina.

Bisogna sottolineare che una più stretta relazione economica tra la monarchia saudita e la Cina giochi a beneficio di entrambi i paesi. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita può intravedere nuove opportunità di commercio in settori diversi da quello petrolifero, pur confermando il suo ruolo di maggior partner energetico della Cina; dall’altro lato, il mercato cinese può godere degli ulteriori investimenti arabi, nonché della posizione strategica dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente. Infatti, l’influenza politica, religiosa ed economica della monarchia saudita nel mondo arabo è fattore fondamentale per l’iniziativa cinese “One belt, one road”, che mira a rafforzare la cooperazione tra Eurasia e Cina.

Anche l’Arabia Saudita, però, ottiene i vantaggi strategici desiderati. Limitatamente alla sua sicurezza nazionale, la monarchia ha sempre fatto un forte affidamento sull’alleanza con la potenza americana e la presenza militare di questa nel Golfo. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, i rapporti tra i due paesi si sono progressivamente incrinati. Motivo principale la mancanza -ad occhi di Riad- di determinazione nel gestire i tentativi dell’Iran di potenziare le proprie capacità nucleari, mettendo, così, ulteriormente a rischio la stabilità della regione. In passato la Cina ha sempre evitato di interferire nelle dinamiche mediorientali, cercando di mantenere una posizione neutrale tra i due rivali -Arabia Saudita e Iran- e sottolineando la necessità di un dialogo tra questi. Tuttavia, ci sono stati alcuni cambiamenti.

Nel 2016, la Cina ha offerto la propria cooperazione militare al regime di Bashar al-Assad e supportato il governo yemenita contro i ribelli Houthi, sostenuti a loro volta dall’Iran (l’Arabia Saudita è, inoltre, a guida di una coalizione militare a favore del governo). Infine, il governo cinese ha recentemente firmato un accordo per la creazione di una fabbrica di droni “hunter-killer” (cacciatore-assassino) in Arabia Saudita, tra l’altro la prima in Medio Oriente.

Vedremo, dunque, progressivamente la Cina rimpiazzare gli Stati Uniti in Medio Oriente? Ancora presto per dirlo, soprattutto dati gli ultimi avvenimenti in Siria. In ogni caso, sembra evidente che Pechino abbia tutto l’interesse ad assumere un ruolo preponderante nella promozione della sicurezza e della stabilità della regione, forte delle capacità militari ed economiche che consentono di poterlo fare.

E giungiamo dunque, all’ultimo grande pezzo di questo puzzle: gli Stati Uniti. Come citato precedentemente, l’amministrazione Obama ha messo a dura prova i rapporti tra la potenza occidentale e la monarchia saudita. Il nodo centrale delle tensioni riguarda la firma con l’Iran dell’accordo multilaterale sul nucleare, che consente alla Repubblica Islamica di vendere petrolio potendo controllarne più liberamente il prezzo, nonché di attirare investimenti nel settore energetico, alimentando, così, la competizione con il maggiore esportatore, ovvero l’Arabia Saudita. È vero, altresì, che la nuova presidenza ha mostrato da subito un approccio piuttosto diverso verso l’Iran, imponendo immediatamente sanzioni contro alcune entità coinvolte nel programma nucleare.

La visita del ministro saudita a Washington sembra, infatti, aprire una nuova fase nei rapporti USA-Arabia Saudita. Il Ministro dell’Energia Khalid Al’Falih e il vice principe ereditario Mohammed bin Salman hanno incontrato il Presidente Trump alla Casa Bianca. Come ribadito dal ministro saudita, le relazioni tra USA e la monarchia sono essenziali per la stabilità a livello globale, e sembrano ora ad un ottimo livello, come mai raggiunto in passato. Infatti, i due paesi sono allineati sui temi di maggiore importanza, come affrontare l’aggressione iraniana e combattere l’ISIS, ma godono, inoltre, dei benefici derivanti dai buoni rapporti personali che intercorrono tra il presidente e il vice principe ereditario.

A livello economico, si prospettano nuovi investimenti nel settore energetico, industriale, tecnologico e delle infrastrutture. Secondo quanto riportato dal Financial Times, l’Arabia Saudita sarebbe pronta ad investire fino a 200 miliardi di dollari nell’infrastruttura americana, pilastro fondamentale dell’agenda politica di Trump. “Il programma infrastrutturale di Trump e della sua amministrazione-spiega Falih- ci interessa molto, in quanto allarga il nostro portfolio di attività e apre nuovi canali per investimenti sicuri, a basso rischio ma con un cospicuo ritorno economico, esattamente ciò che stiamo cercando”.

 

Queste sono soltanto alcuni degli accordi e trattative commerciali che l’Arabia Saudita sta al momento conducendo, ma aiutano a capire il nuovo corso economico del paese. Tali accordi rappresentano, infatti, un “piano B” contro il crollo del reddito derivante dal petrolio, nonché la possibilità di rafforzare e diversificare le capacità economiche del paese, che può contare non solo sul greggio, ma anche su altre risorse, tra cui il fosfato, l’oro, l’uranio ed altri minerali. Sviluppare nuovi settori permette, inoltre, di attirare investimenti stranieri e di creare opportunità di lavoro per la popolazione locale giovane ed ambiziosa.

Uno dei maggiori rischi di un così vasto network di trattative economiche è chiaramente la reazione che i diversi partner posso avere in relazione ad accordi stipulati con altri paesi. È risaputo che gli accordi commerciali abbiano ripercussioni anche a livello politico. Di conseguenza, una delle maggiori sfide per i leader sauditi consiste proprio nel perseguire i propri obiettivi in campo economico, cercando, tuttavia, di mantenere una posizione di equilibrio nei rapporti con i suoi alleati e nazioni amiche, soprattutto lì dove alcuni di questi partner non godono di relazioni troppo amichevoli.

Un chiaro esempio è la Cina. Nonostante il decennale mancato interesse per le questioni mediorientali, la Cina si pone ora come attore chiave nella regione, come mostra il supporto offerto in Yemen e Siria, ma anche il tour condotto da una nave da guerra cinese nelle acque del Golfo (gennaio 2017). Ovviamente, l’Arabia Saudita accoglie in modo positivo un tale supporto, in quanto può aiutare a contenere l’influenza dell’Iran. È, tuttavia, importante non creare attriti con lo storico alleato USA. La nuova amministrazione ha mostrato, infatti, un approccio totalmente opposto ai problemi della regione -Siria ed Iran- e potrebbe essere un grave errore strategico avvicinarsi eccessivamente ad un nuovo alleato. Un simile atteggiamento potrebbe dare l’impressione che un nuovo garante della sicurezza della regione abbia rimpiazzato gli Stati Uniti, un cambiamento che il Presidente Trump potrebbe non accettare facilmente.

 

In conclusione, la diversificazione dell’economia saudita è senza dubbio una mossa intelligente e necessaria. Tuttavia, essa si proietta al di là della mera sfera economica, andando a definire la posizione politica della nazione, come potenza regionale ma anche nei suoi rapporti con gli altri attori stranieri coinvolti nelle vicende politiche del Medio Oriente. Sembra che Riad stia cercando di stringere i legami proprio con quei paesi che hanno maggiore interesse -ma anche capacità economiche e militari- a contribuire alla stabilità regionale, cercando, altresì, di ottenere da questi il maggior supporto possibile contro il nemico numero uno, l’Iran. Cina e Stati Uniti sono in primo piano, ma non bisogna dimenticare la Russia, che negli ultimi anni ha ampliamente sviluppato i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e possiede, inoltre, forti interessi politici e strategici in Medio Oriente Da monitorare, infine, lo sviluppo della guerra in Siria, soprattutto dopo il lancio del missile americano Tomahawk sulla base aerea siriana, particolarmente gradito da Riad.

È probabile che la futura strategia economica del Regno seguirà le necessità politiche e strategiche del paese, confermando ancora una volta la forte correlazione tra la dimensione economica e politica, ma anche l’importanza che un’economia forte ed indipendente ha nel mantenere un ruolo leader nella regione.

 

Paola Fratantoni

La rappresaglia saudita: raid aerei colpiscono Sana’a

Varie di

Il 20 settembre scorso, le autorità saudita autorizzano attacchi aerei contro le postazioni dei ribelli Houthi nella capitale yemenita Sana’a. Circa una dozzina tra bombe e missili hanno colpito la sede del Dipartimento di Sicurezza Nazionale (National Security Bureau) – è la prima volta dall’inizio del conflitto- il ministero della difesa, un checkpoint nella periferia nord-ovest della città e due campi militari dei ribelli nel distretto sud-orientale di Sanhan.

L’attacco nasce come risposta ad un missile lanciato dai ribelli nella serata di lunedì. Secondo l’Arabia Saudita, il missile, modello Qaher-1, aveva come obiettivo la base aerea King Khalid, 60 km a nord del confine yemenita, nella città di Khamees Mushait. La monarchia saudita sostiene che il missile sia stato intercettato dalle difese aeree del regno prima di poter causare danni alla base stessa o alle zone limitrofe, mentre la Saba News Agency, controllata dai ribelli, dichiara che il missile abbia effettivamente colpito il bersaglio.

La monarchia saudita ha immediatamente reagito, causando -secondo le testimonianze raccolte- almeno una vittima tra i civili e alcuni feriti. Non è la prima volta che il conflitto provoca morti civili , dando adito ancora una volta alle pesanti critiche sollevate in diverse occasioni circa l’elevato numero di morti civili registrato dall’inizio della campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita.

 

Gli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative risalgono già al 2004, ma è soltanto nel 2014 che scoppia una vera e propria guerra civile. Nel settembre del 2014, infatti, gli Houthi -un gruppo ribelle conosciuto come Ansar Allah (Partigiani di Dio) che aderisce alla branchia dell’Islam shiita chiamata Zaidismo- prende il controllo di Sana’a, capitale yemenita, costringendo il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e il governo a rifuggiarsi temporaneamente a Riyhad.

Le forze di sicurezza del paese si schierano in due gruppi: chi a sostegno del governo di Hadi, riconosciuto internazionalmente, chi a favore dei ribelli. Lo scenario è aggravato ulteriormente dall’emergere di altri due attori. Da un lato, al-Qaeda nella penisola Arabica (AQAP), che guadagna terreno nella zona meridionale e sud-orientale del paese. Dall’altro, un gruppo yemenita affiliato allo Stato Islamico, che si contrappone allo stesso AQAP per il predominio sul territorio.

Il conflitto si intensifica a partire da marzo 2015, quando la monarchia saudita e i suoi alleati lanciano un’intensa campagna aerea in Yemen, con lo scopo di ripristinare il governo Hadi. Da allora, più di 6.600 persone sono rimaste uccise nel conflitto, mentre il numero degli sfollati ha raggiunto i 3 milioni.

Ad oggi, gli scontri continuano e la situazione in Yemen rimane instabile. Le Nazioni Unite hanno più volte pubblicato dati allarmanti in riferimento alle morti civili, recentemente accusando l’Arabia Saudita di aver provocato i 2/3 delle casualità, mentre gli Houthi sarebbero responsabili di uccisioni di massa legate all’assedio della città di Taiz.

Inoltre, molti paesi stranieri -seppur con modi e mezzi differenti- hanno progressivamente preso parte al conflitto. La coalizione internazionale vede schierati Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Senegal. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sostengono la coalizione in termini di armi e formazione delle milizie saudite, con la potenza americana impegnata altresì nei bombardamenti aerei contro ISIS e AQAP. Dall’altro lato, l’Iran è stato ripetutamente accusato di fornire armi ai ribelli Houthi, sebbene Tehran abbia sempre negato ogni tipo di coinvolgimento.

E’ bene sottolineare come lo scontro in Yemen non possa essere ridotto meramente ad una guerra civile o ad un teatro di scontro tra terroristi; bensì, si tratta del prodotto di dinamiche molteplici e conflittuali, che coinvolgono diversi attori e interessi spesso contrastanti. Infatti, al di là della guerra civile e della minaccia terroristica, lo Yemen è il teatro della guerra per procura in corso tra le due maggiori potenze del Medio Oriente, Arabia Saudita ed Iran, trascinando così sulla scena alleanze e giochi di potere che contribuiscono ad esacerbare tensioni ed alimentare l’instabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

 

 

 

Iran: nessuna negoziazione sulla difesa

Difesa/Medio oriente – Africa di

Chiunque pensasse che l’Iran, dopo la firma dell’accordo sul nucleare e il ritiro di alcune sanzioni internazionali, si sarebbe trasformato in un docile alleato pronto a sottostare ai desideri delle potenze occidentali, probabilmente ha fatto male i suoi conti. Ciò che stiamo vedendo nelle ultime settimane, invece, è una nazione decisa e resoluta, votata a riprendersi la scena internazionale e a perseguire i propri interessi, no matter what!

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Riflettori puntati sulla Repubblica Islamica in particolare per quanto riguarda i recenti test di missili balistici, che hanno destato nuovamente timori e preoccupazioni tra i paesi occidentali e le monarchie del Golfo. Il mese scorso, infatti, durante un’esercitazione militare –nome in codice Eqtedar-e-Velayet-, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) ha testato due missili balistici modello Qadr, il Qadr-H e il Qadr-F. Entrambi i missili sono stati lanciati dai massicci montuosi situati nella regione settentrionale dell’Iran, le East Alborz Mountains, colpendo obiettivi collocati lungo le coste sudorientali del paese. Secondo i report, i missili avrebbero una gittata rispettivamente di 1.700 e 2.000 km.

Non si è fatta attendere la reazione internazionale, ancora una volta profondamente divisa. Da un lato la condanna di Stati Uniti e Europa, che hanno visto i test come una violazione della risoluzione ONU 2231; dall’altro la Russia, che, invece, sostiene come le esercitazioni condotte non violino in alcun modo i dettami del documento. È fallito, infatti, il tentativo delle potenze occidentali di sollevare, proprio in sede ONU, azioni contro l’Iran. Sembra, inoltre, che Washington stessa abbia fatto marcia indietro sulle prime dichiarazioni circa i test, confermando che questi non rappresentino nei fatti alcuna infrazione alla risoluzione.

Stando al testo di quest’ultima, infatti, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Il problema nasce qualora tali tecnologie –come Israele sostiene- siano potenzialmente in grado di trasportare testate nucleari. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ribadiscono come il paese non sia attualmente dotato di missili in grado di trasportare tali testate.

Diversi sono gli esponenti iraniani che si sono espressi  sull’argomento. Il Segretario dell’Expediency Council (EC) Mohsen Rezaei ha ribadito che il programma missilistico iraniano è esclusivamente a scopo deterrente e rientra a pieno titolo nel diritto all’autodifesa del paese in caso di attacco armato. Secondo il Segretario è facilmente comprensibile come il disarmo non sia una via percorribile per l’Iran: qualora si abbandonasse l’investimento nella difesa, infatti, il paese diventerebbe facilmente attaccabile e sono numerosi i nemici che ne potrebbero approfittare.

Più rigida la posizione del generale Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aeree delle IRGC. La Repubblica Islamica continuerà a potenziare le sue capacità difensive e missilistiche, che servono a garantire la sicurezza del paese e a dissuadere i nemici dall’attaccare l’Iran. Sono proprio questi nemici ad aver cercato di minare il sistema di difesa iraniano per più di 30 anni e le stesse sanzioni approvate dagli USA all’indomani dei test ne sono una costante conferma. Le capacità missilistiche sono una questione di sicurezza nazionale e l’Iran mette in chiaro come non vi sia spazio per negoziazione o compromesso. “Nessuna persona saggia negozierebbe sulla sicurezza del proprio paese” ha affermato il Vice Ministro degli Esteri per gli Affari Legali ed Internazionali Abbas Araqchi.

È chiaro che simili dichiarazioni possano destare particolari timori specialmente tra paesi come Israele e le monarchie del Golfo. Il primo, infatti, è nel mirino di Teheran sin dai tempi dell’Ayatollah Khomeini e la stessa retorica dell’annientamento del paese ebraico viene spesso riproposta. I paesi del Golfo non vedono di buon occhio la crescita (economica e militare) di un paese che non solo mira all’egemonia della regione, ma supporta ed alimenta diversi gruppi fondamentalisti, fattori destabilizzanti della sicurezza regionale. Tensioni e attriti sono altamente probabili nei prossimi mesi: resta, infatti, da vedere come i vari stati arabi risponderanno ad un Iran poco incline alla cooperazione e propenso a raggiungere i propri obiettivi nazionali, le ripercussioni che ciò può avere nelle relazioni tra i vari attori ed il ruolo che potenze come Stati Uniti o Russia possono giocare nel favorire o ostacolare questi rapporti.

 

Paola Fratantoni

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La Francia annuncia il ritiro dalla RCA

Difesa/Medio oriente – Africa di

La notizia arriva dal Ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian in occasione della visita nella capitale centrafricana Bangui. L’Operazione Sangaris, lanciata dalla Francia nel dicembre del 2013 in risposta alla risoluzione ONU n2127 (5 dicembre 2013), verrà ultimata entro la fine del 2016. “Finalmente –sottolinea il ministro- possiamo vedere il paese riemergere da un lungo periodo di disordini ed incertezza”. In due anni la missione è riuscita a ripristinare la stabilità nel paese, portando a compimento i suoi obiettivi. Ragione per cui la Francia sembra pronta a ritirare i propri contingenti.

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Lo stato di disordine nella Repubblica Centrafricana inizia nel marzo del 2013, quando un movimento musulmano di ribelli, denominato Seleka, rovescia il governo dell’allora presidente cristiano Francois Bozize, rimpiazzandolo con il proprio leader Michel Djotodia. Il governo Djotodia resta in carica per 10 mesi, durante i quali la violenza etnica tra la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana dilaga profondamente nel paese, provocando la morte di migliaia di persone.

La comunità internazionale reagisce unanime e approva la suddetta risoluzione. Tale risoluzione non solo condanna la spirale di violenza etnica e religiosa alimentata dai gruppi ribelli, ma autorizza anche  lo spiegamento della missione MISCA, (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine), autorizzando le forze francesi presenti ad adottare tutte le misure necessarie –nel rispetto del mandato- per realizzare i tre obiettivi principali della missione : disarmo dei gruppi armati, ripristino delle autorità civili e supporto nella preparazione delle elezioni.

Iniziata con l’invio di 1.600 militari, l’Operazione Sangaris arriva a contare fino a 2.500 uomini nei periodi di maggior crisi. Il governo Djotodia si dimostra, infatti, incapace di mantenere sotto controllo i ribelli che lo avevano portato al potere, trascinando così il paese nel baratro della guerra civile. La situazione migliora dopo le dimissioni del Presidente e la nomina di un governo di transizione guidato da Catherine Samba-Panza, prima donna presidente del paese. I miglioramenti del contesto centroafricano inducono il governo francese a ridurre progressivamente le forze in campo, mantenendo però il supporto alla missione internazionale.

Oggi, la Francia conta 900 unità stanziate nella Repubblica Centrafricana. Il ministro Le Drian sottolinea che 300 militari rimarranno in loco anche dopo la fine dell’Operazione. Queste truppe supporteranno la missione ONU MINUSCA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic) e parteciperanno alla missione d’addestramento guidata dall’Unione Europea (EUTM RCA). Alcune unità si occuperanno di garantire la sicurezza in punti nevralgici come gli aeroporti, altre saranno invece di base in Costa d’Avorio e nella regione del Sahel pronte per un eventuale intervento.

Come lo stesso Le Drian ha sottolineato, il contesto di sicurezza del paese è decisamente migliorato, ma tutt’ora vi sono problematiche da risolvere. Il disarmo dei movimenti ribelli e la realizzazione di un esercito legittimo ed efficiente sono le maggiori sfide che il neo-eletto presidente Faustine Archange Touadera si troverà ad affrontare. Ciò spiega la permanenza delle missioni internazionali e dei contingenti francesi. Com’è noto, infatti, la Francia cura molto le relazioni con i territori una volta appartenenti ai domini coloniali ed è più volte intervenuta in situazioni di crisi interne mandando in aiuto le proprie forze armate.

Il ritiro dei contingenti da Bangui non è, certo, una sorpresa. La missione francese ha avuto sin dalle sue origini un carattere temporaneo e nel corso degli anni la Francia ha cercato di alleggerire- quando le condizioni lo hanno reso possibile- la propria presenza militare nel paese. Garantire, tuttavia, la continua presenza di alcune unità anche in futuro sottolinea ancora una volta l’impegno francese all’estero, segno evidente che, nonostante la situazione internazionale e le continue minacce al paese, la Francia difende i propri valori di nazione libera e la sua posizione influente nell’ex impero coloniale.

 

Paola Fratantoni

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Al via l’offensiva economica di Teheran

L’accordo sul nucleare, reso esecutivo nel mese di gennaio, ha visto terminare molte delle sanzioni economiche che da decenni gravavano sulla Repubblica Islamica, decretando così il suo ufficiale reinserimento nella competizione economica internazionale. Tuttavia, come riferisce il Consiglio per il Discernimento, l’ostilità di molti paesi è ancora viva, così come la volontà di frenare la ripresa economica del paese. Parallelamente, la stessa fiducia dell’Iran nei confronti, ad esempio, di alcuni partner europei, dovrà essere riconquistata gradatamente. In altre parole, la scelta di Teheran verte ancora sull’ormai decennale strategia dell’economia di resistenza, che ha insegnato al paese a migliorare lo sfruttamento delle risorse interne e minimizzare la vulnerabilità e i danni derivanti dalle misure sanzionatorie. È proprio questa politica, infatti, che ha permesso all’economia iraniana di sopravvivere a decenni di isolamento, rimanendo (in termini di PIL) la seconda del Medio Oriente e la settima in Asia.

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L’apertura verso l’estero sarà, dunque, molto mirata: l’obiettivo è potenziare i settori chiave, continuando a sfruttare il patrimonio interno che ad oggi ha garantito buoni frutti, come ad esempio le infrastrutture industriali e l’industria petrolchimica. Priorità è data, perciò, agli investimenti dall’estero, all’aumento delle esportazioni di prodotti non petroliferi e al come ovviare al problema delle riserve di valuta estera ancora congelate dalle sanzioni. Nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla lotta all’ISIS, Teheran inizia la propria “offensiva” economica, gettando le basi per intese commerciali soprattutto con paesi asiatici e africani.

Per quanto concerne l’import-export, Iran e Russia stanno studiando la creazione di una zona di libero scambio, come ha affermato il ministro dell’Energia russo Alexsandr Novak. La prima bozza del progetto indica prodotti metallici e chimici come oggetto principale dell’export russo verso l’Iran; dall’Iran, invece, arriverebbero rifornimenti di frutta e verdure per un ammontare annuo di un miliardo di dollari, una crescita rilevante rispetto ai circa 194 milioni attuali.

Accordi significativi anche con il Vietnam. I due paesi mirano a incrementare il volume dei rapporti commerciali da 350 milioni a 2 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, con progetti in diversi settori, dall’agricoltura, al turismo, all’energia alle innovazioni tecnologiche. Al fine di favorire la cooperazione, è stato siglato anche un Memorandum of Understanding tra le rispettive banche centrali. Trattative in corso anche con la Turchia di Erdogan, la Costa d’Avorio e diversi paesi africani, che si dichiarano propensi a potenziare i rapporti economici con la Repubblica Islamica. I progressi compiuti da quest’ultima nel settore energetico, sanitario, tecnologico e delle infrastrutture la rende, infatti, un partner ideale per soddisfare le diverse esigenze del continente nero.

Per quanto riguarda il settore energetico, due i progetti principali in ballo. Il primo riguarda la costruzione di un gasdotto sottomarino che colleghi l’Iran all’India: 1.400 km di infrastruttura che permetterà di aggirare la zona economica esclusiva pakistana, portando in India fino a 31,5 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento importante, circa 4,5 miliardi di dollari, che conferma –e premia- le buone relazioni mantenute tra le due nazioni anche durante il regime delle sanzioni. La seconda novità riguarda una collaborazione scientifica e tecnologica tra l’Elettra Sincrotone di Trieste e l’Institute for Research in Fundamental Sciences di Teheran. Punti nevralgici la formazione del personale tecnico scientifico iraniano e la progettazione congiunta di una nuova linea di luce, da impiegare sia nello studio di fenomeni chimici e biologici, ma anche nel settore industriale.

Dal Pakistan arriva una svolta importante nel settore bancario. Essendo alcune sanzioni ancora vigenti, il pagamento in dollari dei prodotti importati dall’Iran non risulta ancora fattibile. Da qui la decisione da parte degli imprenditori pakistani di aprire lettere di credito (LC) in euro, anziché nella valuta americana. In questo modo, non saranno più le banche americane ad essere le intermediare, bensì quelle europee, che non avranno dunque motivo di non autorizzare il pagamento.

Sembra, dunque, che l’Iran abbia una chiara strategia economica in mente. Da un lato puntare sulle ricchezze interne, come ad esempio il petrolio – l’Iran inizierà a collaborare con gli altri paesi produttori circa il congelamento della produzione soltanto quando l’output iraniano raggiungerà la quota di 4 milioni di barili al giorno; dall’altro, potenziare settori economici chiave, intensificando i rapporti con le medie e grandi potenze asiatiche, privilegiandole sui paesi del Medio Oriente ed occidentali, segno evidente che la diffidenza nei confronti di chi più ha beneficiato delle sanzioni è lungi dall’essere superata.

 

Paola Fratantoni

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Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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Digitalizzazione in crescita per l’UE

EUROPA/INNOVAZIONE di

Il 25 febbraio scorso la Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’edizione 2016 dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI). Notizie incoraggianti, dati i progressi registrati nel complesso; tuttavia, siamo ancora distanti dal pieno sviluppo delle nostre potenzialità digitali.

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Di cosa si tratta?

Il DESI (Digital Economy and Society Index) è uno strumento online che permette di misurare i progressi compiuti dai paesi membri dell’Unione Europea nel campo della digitalizzazione economica e sociale. Più di 30 indicatori vengono utilizzati per definire il DESI e sono raggruppati in cinque distinte aree: connettività (25% del valore totale), capitale umano/abilità digitali (25%), utilizzo di internet (15%), integrazione della tecnologia digitale (20%), servizio pubblico digitale (15%). Questo indice serve, dunque, ad individuare quali sono i settori in cui il paese di riferimento necessita maggiori investimenti per poter migliorare le proprie performance.

L’indice non solo dipinge il quadro generale dell’UE, ancora lontana dai livelli di digitalizzazione di potenze come gli Stati Uniti o il Giappone, ma mette anche in risalto le differenze notevoli tra i paesi membri. Danimarca, Svezia e Finlandia occupano i primi posti non solo a livello europeo ma anche nelle classifiche mondiali. Fanalini di coda, invece, Repubblica Ceca, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Ungheria, Polonia e Slovacchia, che non solo hanno un DESI decisamente inferiore alla media UE, ma mostrano anche un ritmo di crescita lento, che porterà a distanziare maggiormente questi paesi dal resto dell’Europa. Il DESI, infatti, indica anche il ritmo di crescita delle nazione nel campo delle tecnologie digitali. Ed è proprio qui che si può notare, ancora una volta, un’Europa a più velocità.

Alcuni paesi presentano un indice DESI superiore alla media europea e registrano anche una crescita più veloce nell’arco dell’ultimo anno. Parliamo di Austria, Estonia, Malta, Portogallo, Germania e Paesi Bassi. Buoni i ritmi di crescita anche in Italia, Croazia, Lituania, Romania, Slovenia e Spagna, anche se l’indice DESI rimane attualmente sotto la media. Tuttavia, secondo gli analisti, vi sono buone le speranze per questi paesi di ridurre le distanze da quelli più digitalmente avanzati. In calo, invece, la crescita di Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lituania e Irlanda, che mantengono, tuttavia, un indice elevato.

Cosa si può fare, dunque, per migliorare la situazione? Lo scorso anno l’UE ha approvato la strategia per il mercato unico digitale, una serie di azioni che i paesi dovranno portare a termine entro la fine del 2016 volte a coordinare e standardizzare il processo di digitalizzazione nei vari paesi. Tale strategia verte su tre pilastri: migliorare l’accesso ai beni e ai servizi digitali per consumatori e imprese in tutta Europa; creare un contesto favorevole e pari opportunità per lo sviluppo delle reti digitali; massimizzare il potenziale di crescita nel settore.

Nei fatti, sembra che la strategia attuata stia dando i suoi frutti. Il 71% delle famiglie europee ha ora accesso alla banda larga ad alta velocità (nel 2014 solo il 62%) e sono in aumento anche il numero degli abbonati alla banda larga mobile con 75 contratti registrati per ogni 100 abitanti (a fronte dei 64 dell’anno precedente). È vero, tuttavia, che c’è ancora molto da lavorare, soprattutto in alcuni settori. Come emerge dal rapporto DISE, ad esempio, quasi il 45% degli europei non possiede competenze digitali di base, come l’uso della posta elettronica o degli strumenti di editing principali. L’e-commerce è una realtà ancora lontana per le piccole medie imprese: soltanto il 16% vende i propri prodotti online e solo il 7,5% anche oltre la frontiera. Non è sufficiente promuovere l’acquisto online: bisogna, altresì, stimolare maggiormente il commercio elettronico, approvando in sede europea una legislazione che protegga adeguatamente i consumatori, specialmente negli acquisti transfrontalieri. Non del tutto soddisfacenti, infine, i dati relativi ai sevizi pubblici: a fronte di una maggior varietà di servizi resi disponibili online dalle Pubbliche Amministrazioni, pare che soltanto il 32% degli utenti usufruisca di queste piattaforme.

Da un lato, dunque, è importante che l’UE fornisca una legislazione coerente ed efficace, che tuteli sia i cittadini che le imprese; dal canto loro, gli stati membri devono sostenere la creazione del mercato unico digitale, investendo in quei settori maggiormente arretrati e promuovendo la digitalizzazione tra la società civile. Realizzare quest’obiettivo permette non solo di rilanciare l’economia europea in generale e di dare nuova competitività al nostro mercato, ma consente anche ai singoli membri di sfruttare al meglio il potenziale inespresso, creando nuove opportunità (soprattutto transfrontaliere) per le imprese ma anche per i singoli.

 

Paola Fratantoni

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Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Paola Fratantoni
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