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Il piano di Francia e Germania per la ripresa dell’economia europea

EUROPA di

Il 18 maggio, i governi di Francia e Germania hanno presentato un ambizioso piano congiunto per la condivisione in Europa dei costi della crisi dovuta alla diffusione del Covid-19. In una videoconferenza la Cancelliera tedesca, Angela Merkel ed il Presidente francese, Emmanuel Macron, hanno annunciato varie proposte per aiutare l’UE ad uscire dalla crisi attuale, la più importante delle quali è la creazione di un “fondo per la ripresa” europeo-Recovery fund- dal valore di 500 miliardi di euro, finanziato da emissioni di debito comune. Dopo mesi di negoziazioni difficili in cui la posizione del blocco di paesi dell’Europa settentrionale, guidati dalla Germania, si opponeva a quella dei Paesi dell’Europa meridionale, guidati dalla Francia, si aprono nuovi scenari.

Un compromesso concreto

Quello raggiunto da Francia e Germania è il primo compromesso concreto per la condivisione del debito europeo, dopo le varie proposte circolate nelle ultime settimane e parzialmente discusse in seno all’ultimo Consiglio europeo, l’organo dell’Unione Europea che comprende i capi di stato e di governo degli Stati membri. Si tratta di un passo importante per la tanto discussa creazione degli eurobond, nonché del tentativo più significativo di affrontare la crisi economica congiuntamente a livello europeo e non unilateralmente da parte dei singoli stati.

La Cancelliera tedesca, Angela Merkel ed il Presidente francese, Emmanuel Macron hanno presentato il piano in una videoconferenza in cui hanno sottolineato la necessità di aiutare i paesi ed i settori economici maggiormente colpiti dalla crisi e l’importanza di farlo rafforzando l’Unione europea, creando un’unione più forte e coesa. Le proposte riguardano la creazione di un fondo per la ripresa europeo, una maggiore cooperazione tra i Paesi dell’UE in ambito sanitario, al fine di avere strategie comuni in caso di emergenza e una maggiore collaborazione nella ricerca e nella produzione di vaccini, maggiori investimenti per la digitalizzazione e per il rilancio del Green Deal europeo, nonché uno sforzo congiunto per rafforzare il mercato unico europeo e la libera circolazione tra i Paesi membri.

Il fondo per la ripresa

Il fondo per la ripresa, con un valore di 500 miliardi di euro, finanziato da emissioni di debito comune, rappresenta la proposta più rilevante del piano Merkel-Macron. Il fondo permetterebbe all’UE di avere uno strumento da poter impiegare a breve termine per sostenere la ripresa dall’attuale crisi dovuta al coronavirus ed al contempo pone al centro il bilancio settennale dell’UE per il 2021-2027.

A differenza del MES, il fondo proposto dalla Francia e dalla Germania, non prevederebbe prestiti da parte dell’Unione ai paesi in maggiore difficoltà, bensì sussidi a fondo perduto, da impiegare direttamente per sollevare l’economia europea. Affidato alla Commissione europea e finanziato a partire dai mercati finanziari a nome dell’Unione europea-costituendo dunque un debito pubblico comune- il fondo sarebbe ripagato equamente da tutti gli Stati membri negli anni successivi. Il meccanismo di finanziamento sarebbe così simile a quello discusso per i cosiddetti eurobond-i “titoli di stato europei” invocati dai paesi dell’Europa meridionale per aiutare le economie dei paesi più colpiti dalla pandemia- che aveva trovato, tuttavia, l’opposizione da parte dei paesi dell’Europa settentrionale, Germania compresa. Si tratta, infatti, della prima volta in cui la Germania sostiene la possibilità di creare debito pubblico comunitario. Infine, rileva che il fondo proposto da Merkel e Macron avrebbe un valore minore rispetto a quanto chiesto in passato- si era, infatti, parlato di 2.000 miliardi di euro- e nella nuova proposta la gestione spetterebbe alla Commissione europea e non direttamente agli stati membri, come ipotizzato inizialmente.

La Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha accolto con interesse la proposta: “Accolgo con favore la proposta costruttiva fatta da Francia e Germania. Riconosce la portata e le dimensioni della sfida economica che l’Europa deve affrontare e giustamente pone l’accento sulla necessità di lavorare su una soluzione con il bilancio europeo al centro” ha dichiarato.

La controproposta dei “frugal four”

I due leader hanno dichiarato di essere giunti alla proposta dopo aver discusso a lungo sia con i Paesi dell’Europa meridionale che con quelli dell’Europa settentrionale. In tale ottica, il fondo si pone come un compromesso da cui partire per trovare un accordo tra tutti gli Stati membri dell’UE: il passaggio dal meccanismo di prestiti a quello dei sussidi dovrebbe trovare l’approvazione di paesi come Italia e Spagna, mentre le dimensioni ridotte del fondo per la ripresa e la gestione da parte della Commissione europea rappresenteranno una garanzia per i paesi scettici agli eurobond come Olanda ed Austria. Tuttavia, dopo la proposta franco-tedesca, proprio l’Austria si è posta come leader dell’opposizione dei “frugal four”- Austria, Danimarca, Olanda e Svezia- mostrando ostilità al piano di Merkel e Macron e con l’obiettivo di tornare all’originaria proposta del meccanismo di prestiti e scongiurare l’allargamento del budget europeo 2021-2027. Il Cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, ha, così, annunciato che lavorerà ad una controproposta rispetto al piano franco-tedesco insieme agli altri paesi del “club dei frugali”. La proposta dovrebbe essere presentata in tempi stretti e comunque prima del 27 maggio, la data di presentazione del “vero” fondo per la ripresa da parte della Commissione, l’istituzione incaricata di fare sintesi fra le posizioni dei vari paesi in un’unica proposta.

La posizione dell’Italia e dell’Europa meridionale

All’estremo opposto dei “frugal four” vi sono i Paesi che invocano proprio la misura più avversata dal gruppo guidato da Kurz: uno sforzo comune per l’Unione europea, che si concretizza nel sostegno alla mutualizzazione del debito sotto forma di bond emessi a livello comunitario. Tra questi, l’Italia, tramite il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ricordato di aver inviato una lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in favore dei cosiddetti coronabond e di aver ottenuto l’adesione di otto paesi: Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna. Conte ha invitato la Commissione europea a dar vita ad un piano ancora più ambizioso di quello prospettato da Merkel e Macron, in quanto la loro proposta non esplicita la dimensione attesa per il recovery fund. Quanto alla modalità di erogazione degli aiuti, il Presidente del Consiglio italiano ha insistito sul ricorso ai “grants”, le sovvenzioni, criticando gli stereotipi sulla spaccatura Nord-Sud Europa ed evidenziando come la caduta verticale dell’economia Ue richieda una risposta congiunta ed immediata dei 27.

 

 

 

 

 

 

Cancellati 222 voli verso l’Afghanistan, in Germania i piloti si rifiutano di rimpatriare i migranti

SICUREZZA di

Diventa un caso quello che coinvolge almeno 6 compagne aeree e 222 piloti. “I comandanti possono decidere di non far salire i passeggeri sull’aereo, appellandosi alla sicurezza del volo”. Tra i mesi di gennaio e settembre 2017, infatti, sono stati cancellati 222 voli di ripatrio diretti in Afghanistan. Le cifre sono state diffuse dal partito tedesco Die Linke.

Le decisioni sono state prese direttamente dai piloti che si sono rifiutati di rimpatriare i migranti a cui è stato negato asilo politico nel territorio tedesco. Azioni individuali dunque, ma che molti in Germania vedono come atti di “coraggio civile”, per non partecipare ad azioni ritenute ingiuste. Infatti come spiega un portavoce della compagna aerea Lufthansa, “i piloti non possono opporsi giuridicamente all’imbarco ma possono decidere arbitrariamente di far scendere un passeggero qualora venga ritenuto un pericolo per la sicurezza del volo”, queste le sue parole, citate dai media internazionali.

Le procedure di rimpatrio sono cominciate a seguito delle considerazioni del governo di Berlino, che vedrebbero nell’Afghanistan un paese sicuro, e dunque in grado a tutti gli effetti di poter accogliere i respingimenti. La situazione sul territorio afgano è però diversa. Il paese è martoriato dal terrorismo ormai da tempo, con la forte presenza dei talebani e dei fondamentalisti dell’Isis. Ad essere sotto accusa in questo momento, oltre alle tratte dirette in Afghanistan anche quelle verso i paesi del medio oriente Siria e Iraq. Le persone coinvolte sarebbero circa 30.000

Secondo Amnesty International, associazione internazionale per i diritti umani, il bilancio delle vittime civili nel territorio afgano, nei mesi scorsi, è “drammaticamente alto”, circa undicimila l’anno scorso, ottomila tra gennaio e ottobre 2017. L’associazione inoltre sconsiglia vivamente ai governi europei di procedere con le operazioni di rimpatrio, affermando che nessuna parte del paese è sicura.

Stando alle cifre riportate dal “Corriere della Sera”, a opporsi sono stati principalmente i piloti della Lufthansa, in 63 casi, e quelli delle compagne low cost da essa controllata Eurowings e Germanwings. A seguire Air Berlin, Air Algerie e Qatar Airwais. I voli erano in programma soprattutto dall’aeroporto che rappresenta il principale polo del traffico aereo in Germania, quello di Francoforte, con una parte di questi in programma a Dusseldorf.

 

Parigi e Berlino alla prova sulla Difesa UE

EUROPA/POLITICA/SICUREZZA di

In Unione Europea, Francia e Germania sono i paesi (insieme all’Italia) con le Forze Armate più grandi, i primi due Stati per bilancio della Difesa (escluso il fuoriuscente Regno Unito) e, infine, Parigi detiene il primato per la flotta navale più numerosa. Viene da sè, quindi, che, quando si tratta di Difesa e Sicurezza dell’UE, Parigi e Berlino sono i due interlocutori principali.


Angela Merkel e Emmanuel Macron durante la visita del secondo a Berlino.

Negli ultimi anni, le possibilità di progresso dell’integrazione aperte dal Trattato di Lisbona in ambito di azione esterna sembrano aver iniziato a concretizzarsi. Fattori endogeni e fattori esogeni hanno contribuito a questo risultato. Tra i primi:

  1. Una cittadinanza in Francia e Germania favorevole (o almeno non ostile) all’integrazione UE in materia di Difesa e Sicurezza.
  2. L’elezione di Macron, sostenitore (almeno durante la campagna elettorale) dell’integrazione in sede comunitaria.
  3. La possibilità di approfondire tale integrazione senza dover cambiare i trattati vigenti.

Tra i secondi:

  1. La crescente instabilità nel vicinato Sud (primavere arabe, terrorismo, state-failures, migrazioni) ed Est (Ucraina in particolare).
  2. L’esito referendario sulla Brexit, che porterà il Regno Unito, attore tradizionalmente ostile all’integrazione di difesa e sicurezza, fuori dall’UE.
  3. L’ondata di incertezza circa l’affidabilità della garanzia di sicurezza nord-americana seguita sia in Francia che in Germania all’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca.

L’azione congiunta franco-tedesca sul dossier ucraino e il neonato attivismo tedesco in Africa, in cui storicamente non si è mai invischiata, testimoniano, infine, una moderata, parziale ma importante convergenza strategica.

Un passaggio chiave in cui Berlino e Parigi dovranno dimostrare solidità e lungimiranza sarà quello della Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO). Nel luglio 2017, infatti, il Consiglio Europeo ha approvato il lancio della PESCO delegando agli Stati membri dell’UE la definizione di criteri per l’accesso a questa “Unione della Difesa”. Il Trattato sull’UE all’articolo 42, infatti, recita: “gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative instaurano una cooperazione strutturata permanente nell’ambito dell’Unione”. La presentazione dei criteri deve avvenire entro 3 mesi. Francia e Germania dovranno essere capaci di presentare congiuntamente criteri realistici, ambiziosi e inclusivi, in questo che potremmo definire un vero e proprio “trilemma”. Un segnale positivo potrebbe essere arrivato dal vertice congiunto di luglio ma si attendono ancora sviluppi concreti.

Il principale ostacolo rimangono, però, le diverse percezioni, culture strategiche e ambizioni dei paesi UE. Le principali linee di faglia nella visione franco-tedesca sono: Europeismo e Nazionalismo per la Francia, Europeismo-Multilateralismo e Isolazionismo militare e politico per la Germania. Diverse visioni si scontrano anche sul ruolo della forza militare tra i paesi più forti in Europa: in Francia persiste un generale interventismo (almeno a livello esecutivo e nonostante una politica di tagli massicci alla difesa) mentre in Germania, dopo il 1989, vige un principio di “less is better” per le forze armate.

Lorenzo Termine

Guarda anche l’infografica “I recenti sviluppi in materia di Difesa UE

Bookreporter, puntata del 22 settembre 2017

BOOKREPORTER di

Un nuovo appuntamento con il nostro programma radiofonico Book Reporter, in onda su Radio GODOT

Come sempre in compagnia di Alessandro Conte,Laura Sacher,Aurora Vena e Laura Laportella, quelli di BookReporter !

Nella prima parte della puntata con l’ospite Fulco Lanchester, Professore ordinario di Diritto costituzionale presso “La Sapienza” Università di Roma, con cui parleremo della Germania.

Nella seconda parte della programmazione, dopo la biografia della Premier Merkel redatta da Aurora e la presentazione del film “The arrival” con Laportella avremo modo di confrontarci con il nostro Testimone, Fabio Polese, giornalista e fotoreporter, che ha realizzato reportage in Irlanda del Nord, Belgio, Libano, Kosovo, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam.

Buon ascolto!

 

Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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Migranti: al via la fase 2 di EUNAVFOR MED

Difesa/Medio oriente – Africa di

E’ iniziata ad ottobre la seconda fase di EUNAVFOR MED, “Sofia”, che prende il nome da una bimba somala nata durante un viaggio della speranza nel Mediterraneo e salvata da una nave tedesca lo scorso agosto. Scopo dell’intervento, bloccare il traffico di esseri umani intercettando gli scafisti via mare.

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Il monitoraggio delle acque internazionali, volto a cercare, controllare e sequestrare imbarcazioni sospette, è affidato a navi militari, elicotteri e droni. Il tutto, nel quadro degli obiettivi enunciati a luglio dall’Unione europea per arginare la crisi dei migranti nel Mediterraneo: individuare, fermare e mettere fuori uso le imbarcazioni e i mezzi usati dai trafficanti.

Ad oggi, sei navi da guerra europee sono impegnate al largo della Libia: una italiana, una inglese, una francese, una spagnola e due tedesche, ma entro fine mese altri tre mezzi dovrebbero essere messi a disposizione da Inghilterra, Belgio e Slovenia. A questi, si aggiungeranno quattro elicotteri, molti droni e 1300 militari.

Secondo l’ammiraglio Enrico Credendino, a capo della missione, “il mandato è imporre la legge con l’uso della forza per disarticolare il business dei trafficanti. Mentre la fase 1 mirava a reperire le informazioni necessarie sulla rete criminale transnazionale, la fase 2 prevede l’abbordaggio dei natanti, la loro ispezione, l’accoglienza dei migranti, l’arresto degli scafisti e la distruzione delle loro imbarcazioni. Tutto ciò, però, restando in acque internazionali, a 12 miglia nautiche dalla costa libica. Occorre una decisione delle Nazioni Unite o un invito del governo libico per poter operare direttamente nelle acque territoriali. La prossima fase 3 consentirebbe il temporaneo sbarco sul terreno per la distruzione degli assetti degli scafisti”.

Quest’ultima fase, che non ha ancora ricevuto il via libera dell’UE, sarebbe in realtà la più efficace, poiché è in acque libiche che opera la maggioranza dei contrabbandieri, ma – fa sapere il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni – “nel Consiglio di Sicurezza Onu non ci sono spazi per autorizzare un simile intervento senza espressa richiesta libica”.
Sono 14 le nazioni europee che partecipano ad EUNAVFOR MED: Italia, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Slovenia, Grecia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Ungheria, Lituania, Paesi Bassi, Svezia. I costi dell’intervento militare – al di là di contributo europeo annuo pari a circa 12 milioni di euro – sono a carico dei singoli Paesi partecipanti. L’Italia ha contribuito alla missione con uno stanziamento di 26 milioni di euro e l’impiego di 1.020 soldati.
Viviana Passalacqua

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UE, quote e hotspot: un via libera forzato

EUROPA/POLITICA di

I Paesi occidentali votano sì alla redistribuzione di 120mila rifugiati arrivati in Italia e Grecia, le quali dovranno rendere efficienti i centri d’identificazione entro novembre. Ostruzionismo degli Stati dell’Est. Via libera ai raid contro gli scafisti.

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Via libera alla quota di 120mila rifugiati, alla creazione di hotspot entro novembre, ai raid contro gli scafisti. Tra il 22 e 24 settembre, durante la riunione straordinaria dei ministri degli Interni della Ue e il Consiglio Europeo, il pacchetto di proposte della Commissione Europea sull’immigrazione è stato accolto nelle sue linee guida. Come prevedibile e già manifestato in più occasioni nel corso di questo 2015, lo schieramento di Paesi dell’Est (“Visegrad”), composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia più la Romania, ha votato contro la ripartizione dei profughi.

Sulla distribuzione dei 120mila rifugiati giunti in Italia e Grecia, infatti, è stato necessario il ricorso alla maggioranza qualificata, data l’impossibilità di raggiungere l’unanimità. A loro volta, i due Stati del Mediterraneo si sono impegnati al rafforzamento dei centri d’identificazione, i quali dovrebbero essere pronti entro novembre, come deciso dal Consiglio Europeo.

L’obiettivo è snellire le procedure di rimpatrio per chi non detiene il diritto d’asilo e facilitare lo smistamento di tutti coloro che invece ne posseggono i requisiti. È una misura di valore storico poiché di fatto annulla la norma comunitaria del Trattato di Dublino che consente al rifugiato di potere risiedere solo presso lo Stato nel quale ha fatto domanda d’asilo.

Il Consiglio Europeo che ha poi detto sì ai raid contro gli scafisti provenienti dalla Libia. Tale operazione navale, attiva dal prossimo 7 ottobre, rientra nella seconda fase della EunavFor e prevede l’abbordaggio, la perquisizione e il sequestro delle imbarcazioni con a bordo migranti.

Piccolo passo in avanti anche nei rapporti con gli enti internazionali e i Paesi vicini. La Ue ha infatti predisposto un piano di aiuti del valore di 1 miliardo di euro a favore delle agenzie Onu che aiutano i profughi. Mentre, sul fronte del trust fund, l’Europa ha chiesto un maggiore sforzo agli Stati membri, visto che i fondi per i Paesi esposti alle crisi, Siria e Iraq in primis, non sono sufficienti.

Le decisioni prese in questi due vertici sono state salutate positivamente da una parte d’Europa. Dai vertice dell’Unione Europea, passando per Italia e Francia, fino ad arrivare alla Germania, con la cancelliera Angela Merkel che ha parlato di “passo in avanti decisivo”.

Dichiarazioni a cui ha fatto seguito la replica, di certo non conciliante, del premier ungherese Orban, che ha parlato di “moralismo imperialista”. E sono proprio queste parole che evidenziano al meglio il clima che si respira tra i leader dell’Est Europa. A partire dal primo ministro slovacco Robert Fico il quale, in rappresentanza del gruppo Visegrad, ha annunciato di un’azione legale contro la norma sulla ripartizione dei rifugiati.

Ma ciò che evidenzia ancora di più la spaccatura è il comportamento dell’Ungheria. Dopo le leggi antiimmigrazione e la costruzione del muro al confine con la Serbia, il governo ha annunciato di volere innalzare un’ulteriore barriera al confine con la Croazia. Notizia che, aggiunta alle migliaia di profughi arrivati in Serbia, stanno riportando a galla le antiche ruggini tra Belgrado e Zagabria.

Sulle politiche immigratorie, così come già dimostrato sul versante economico, l’Europa viaggia a doppia velocità. Nella fattispecie, la spaccatura tra Ovest ed Est affonda le sue radici nella storia moderna e contemporanea europea. Più che il Comunismo, gli Stati orientali, come evidenziato da più fonti internazionali, sono contrari all’accoglienza perché la loro indipendenza reale è stata raggiunta recentemente, con il ricordo ancora presente del sangue versato per la propria patria. Questo divario tra le due aree dell’Unione Europea sottolinea quanto l’unità politica continentale sia ancora molto distante.
Giacomo Pratali

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Crisi Ucraina: autunno decisivo

EUROPA di

Il summit delle Nazioni Unite del 24-30 settembre e il vertice tra Germania, Francia, Ucraina e Russia del 2 ottobre sono due appuntamenti cruciali sia per un cessate il fuoco definitivo tra Kiev e i separatisti, sia per i rapporti futuri tra Washington e Mosca.

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Situazione di stand-by nell’ambito della guerra civile in Ucraina. Nel corso del mese di settembre, il cessate il fuoco tra esercito e combattenti filorussi ha retto. Mentre è in corso la visita del segretario generale Nato Jens Stoltenberg a Kiev, dove ha incontrato il presidente Petro Poroshenko: “La Russia sta continuando ad armare i ribelli separatisti nonostante la tregua”, hanno ammonito i due. Ma il clima che si respira è di attesa verso il vertice del 2 ottobre, quando i leader di Germania, Francia, Ucraina e Russia si incontreranno per fare tracciare un bilancio della flebile tregua imposta dall’accordo di Minsk/2.

Se a questo vertice si aggiunge quello delle Nazioni Unite del 24-30 settembre, si intuisce che questo autunno potrebbe essere decisivo per il contesto ucraino, oltre che per altri scenari geopolitici. La crisi finanziaria e di sistema hanno infatti spinto il governo ucraino ad accelerare, a fine agosto, quelle riforme costituzionali che mirano a dare più autonomia alla regioni del Donbass, in linea con gli accordi di Minsk, e a siglare un accordo di ristrutturazione del debito con i creditori.

Dall’altro lato, c’è la Russia. Una Russia colpita duramente dal crollo dei prezzo del petrolio e che ha visto calare di oltre il 20% il valore del Rublo negli ultimi quattro mesi. Uno scenario dove le sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea non sono la principale causa della crisi, ma fattori tuttavia importanti, soprattutto nell’ottica dello sviluppo energetico.

Se il Cremlino, infatti, ha il coltello dalla parte del manico verso l’Europa per quanto concerne la fornitura di gas, dall’altro lato le sanzioni costituiscono un intralcio ai progetti di sviluppo petrolifero e gasifero nel Mar Artico. Programmi di cui l’economia russa ha bisogno per mantenere alto il proprio livello di produzione attuale.

La crisi ucraina, pertanto, potrebbe vivere di riflesso degli esiti dei vertici del 24-30 settembre e 2 ottobre. Nel primo, sarà importante l’incontro tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, dove verrà evidenziato l’intervento russo in Siria al fianco del governo ma, soprattutto, contro lo Stato Islamico. Nel secondo, il vertice di Vladimir Putin con Angela Merkel e Francoise Hollande servirà ad ammorbidire Germania e Francia. In entrambi i casi, l’obiettivo è uno solo: arrivare alla riduzione delle sanzioni economiche contro la Russia a partire dal biennio 2016/17.

Tuttavia, i passi falsi da ambo le parti continuano. Sul fronte ucraino, si registra l’aumento del coinvolgimento di combattenti nelle brigate paramilitari di estrema destra che combattono al fianco dell’esercito di Kiev. Mentre il Consiglio Nazionale per la Sicurezza ha redatto una nuova lista nera che ha messo al bando 34 giornalisti stranieri, di cui 3 della Bbc, oltre all’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, reo di avere preso parte alla visita in Crimea assieme a Putin.

Sul fronte russo, infine, il Cremlino è stato smentito da un articolo, pubblicato per sbaglio (poi rimosso) dalla testata Delovaia Zhizn e ripreso per primo da Forbes, in cui è stato svelato il numero di soldati russi morti nel conflitto in Ucraina: 2000. Mentre Mosca ha sempre negato il coinvolgimento diretto.

Ma la riunione Onu del 24-30 settembre e il vertice europeo a quattro del 2 ottobre, assieme all’accentuarsi delle crisi geopolitiche in Siria e Libia, potrebbero indurre le parti in causa a giungere ad una soluzione che porti non solo alla fine della guerra civile in Ucraina, ma al “riscaldamento” dei gelidi rapporti tra Stati Uniti e Russia.
Giacomo Pratali

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Libia: pronto il piano d’intervento

Appello dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti dopo le stragi di Sirte per mano dei miliziani. In attesa dell’auspicata adesione di Tripoli al governo di unità nazionale, emergono alcuni dettagli sul piano d’azione a guida italiana in Libia: costruzione e protezione delle infrastrutture, missione di peace-keeping dei caschi blu, addestramento delle truppe regolari.

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Oltre 200 morti e almeno 500 feriti a seguito degli scontri avvenuti nell’ultima settimana a Sirte. Il susseguirsi delle stragi per mano dei miliziani affiliati all’Isis ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e orrore. Crimini, come la crocifissione di 12 miliziani salafiti o i 22 pazienti di un ospedale morti a seguito di un incendio appiccato dai jihadisti, che hanno fatto gridare al “genocidio” il governo di Tobruk.

“Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti – afferma il comunicato congiunto dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti -. Facciamo appello a tutte le fazioni libiche che desiderano un Paese unificato e in pace affinché uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi”, conclude la nota.

La necessità del governo di unità nazionale, auspicata dalla comunità internazionale, è quanto mai di attualità. Le Nazioni Unite attendono con ansia la decisione di Tripoli, dopo l’accordo tra le restanti fazioni del Paese. C’è un piano da attuare per frenare l’avanzata dell’Isis in Libia.

Già da mesi, si mormora di un intervento militare a guida italiana e sotto l’egida dell’Onu. Un piano d’azione già redatto dalla Farnesina e su cui sta lavorando alacremente lo stesso Bernardino Leon, ancora più indispensabile dopo la conquista di Sirte, le stragi a ripetizione e l’emergenza migratoria.

Come emerso nelle ultime ore, questo piano d’azione riguarda la fase successiva alla costituzione del governo di unità nazionale. In primis, tale esecutivo dovrebbe fare richiesta ufficiale di aiuti internazionale. Così, potrebbe scaturire il sostegno finanziario, ma soprattutto militare, indispensabile per stabilizzare la Libia e contrastare lo Stato Islamico.

Oltre che ai sussidi per la costruzione di infrastrutture come strade e aeroporti, oltre alla protezione degli impianti petroliferi e gasiferi, il clou di questo piano sarebbe l’intervento sul campo dei caschi blu Onu come forza di peace-keeping e l’addestramento delle truppe dell’esercito regolare libico.

L’abbattimento dei flussi migratori verso Italia e Grecia e la sconfitta dell’Isis passano, perciò, attraverso una stabilizzazione istituzionale, politica ed economica della Libia, come spiegato dal ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni: “L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese”. Tripoli, dunque, deve sbrigarsi. Il tempo, oramai, stringe.

Giacomo Pratali

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Grecia, Spannaus: «Perché l’Ue insiste su una politica che non funziona?”

EUROPA/Varie di

La crisi del debito greco è uno dei temi geopolitici più caldi. La Germania ha imposto il pacchetto di salvataggio la scorsa settimana. Mentre gli Stati Uniti ha svolto un’opera di dissuasione politica nei confronti della Ue, per evitare che Atene si spostasse nell’orbita di Mosca. Per parlare di queste questioni, European Affairs hanno intervistato Andrew Spannaus, giornalista e Direttore di Transatlantico.info.

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Con la cessione di Tsipras su tutta la linea, la Grecia diventa di fatto un protettorato di Bruxelles o, per meglio dire, di Berlino?

“Si è persa una grande occasione, almeno per ora. Dopo aver parlato della necessità di passare dalla fase dell’austerità a quella della crescita, nella sostanza non è cambiato nulla. L’establishment europea – guidata dalla Germania, ma troppo facile dare la colpa solo a lei – ha raddoppiato, adoperando ogni ricatto possibile pur di non ammettere il fallimento del modello economico degli ultimi vent’anni.
Si tratta di una sconfitta non solo per la Grecia, ma per l’Europa stessa, in quanto si mostra 1. di non essere disposti a rivedere i propri errori, pur di non mettere in discussione i dogma dell’economia finanziaria; 2. che questa Europa non è compatibile con la democrazia.
La domanda più grossa è chi comanda a Bruxelles e a Berlino? Perché si segue una politica che chiaramente non funziona? Gli errori del passato sono una cosa, ma decidere di peggiorare la situazione continuando con la politica tagli e tasse dimostra che c’è qualcos’altro in ballo. L’Europa si è allontanata dalla propria storia e ora risponde ad interessi diversi”.

 

“Nonostante gli errori in questi 5 mesi, sono orgoglioso di avere difeso i diritti del nostro popolo”. Questa è la dichiarazione di Tsipras al Parlamento greco, chiamato a pronunciarsi sulle misure imposte dall’Europa: secondo lei, Syriza ha tradito sia il mandato elettorale sia l’esito del referendum?

“Il Governo greco si è alternato tra posizioni dure e posizioni più accomodanti negli ultimi mesi. Lo scopo è sempre stato di influenzare le trattative e di portare a casa qualche concessione. Ad un certo punto sembrava che Tspiras avesse deciso di fare sul serio: prima le aperture verso la Russia, e poi il referendum. Alla fine però ha ceduto ai ricatti e ha dimostrato di non essere disposto a rischiare la rottura.
Il popolo greco aveva chiaramente respinto l’austerità; il problema è che in teoria voleva anche rimanere in Europa. Dunque mentre si può sicuramente criticare Tsipras, rimane il fatto che le due cose non erano compatibili: Europa = austerità, dunque non c’era soluzione.
I giochi comunque non sono finiti. Se sarà attuato il piano imposto alla Grecia la situazione peggiorerà ancora, quindi il problema potrebbe riproporsi presto. In più, il dibattito politico è cambiato: non si possono più nascondere le contraddizioni e la debolezza della politica economica attuale. Prima o poi qualche leader politico, qualche paese, deciderà che non si può più andare avanti così”.

 

Il Fondo Monetario Internazionale ha definito il debito greco insostenibile:il piano Ue andrà comunque avanti?

“Il piano andrà avanti, ma non funzionerà. I primi “salvataggi” della Grecia – in cui i soldi pubblici sono andati a salvare i bilanci delle banche private, soprattutto tedeschi e francesi – dovevano creare le condizioni per far ripartire l’economia. La stessa cosa si è detta per l’Italia. La realtà invece è stato un pesante calo del Pil, nel caso greco a livelli catastrofici (-30%). Pensare di ripagare un debito di questo tipo tagliando ancora la spesa è semplicemente folle. La soluzione corretta è di ristrutturare e cancellarne una parte, e soprattutto di attuare una politica di investimenti per creare la crescita. Questo significa disattendere certi dogmi, puntando per esempio sull’importanza della spesa pubblica mirata. I debiti giusti – una parte – possono essere ripagati solo se si rilancia l’economia; con la politica attuale questo non potrà avvenire”.

 

Quanto è stato decisivo il ruolo degli Stati Uniti nello sbloccare la trattativa tra Ue e Grecia? E’ esistita, o esiste tuttora, una reale possibilità che Atene si avvicinasse a Mosca?

“Esiste una leggenda in Europa, su come gli Stati Uniti sono contro l’Euro e hanno paura dell’Unione Europea. Ebbene, la realtà è che, anche a volere essere “cattivi”, cioè a pensare che gli americani non vogliano vedere un’Europa forte, non c’è proprio nulla da temere fino a quando vige la politica economia attuale. Nel nome dell’unione si sta rovinando la forza e anche la coesione tra i paesi europei. L’Ue è nata su altre basi, ma dagli anni Novanta si è passati al modello del cosiddetto libero mercato e della grande finanza. Questo fa bene a pochi, non crea benessere diffuso.
In secondo luogo, questo mito è stato sfatato dalla posizione americana in questa crisi: gli Stati Uniti non volevano vedere una rottura dell’Europa, proprio per via di un possibile sconvolgimento degli equilibri geopolitici. Tsipras ha mostrato di aver capito la vera posta in gioco quando da San Pietroburgo ha ha parlato di “un nuovo mondo economico emergente” in cui “il centro dello sviluppo economico si sta spostando verso altre aree”.
L’Occidente ha deciso di fare quadrato, per evitare di offrire una sponda al “nemico” Putin. In realtà però la politica europea di ulteriore austerità rischia di rendere ancora più attrativa l’alternativa dei Brics: numerosi paesi si stanno già smarcando dalle istituzioni finanziarie occidentali proprio per evitare di essere succubi di un sistema dominato dalla grande finanza”.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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