GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Azerbaigian-Armenia: scontri nel Tovuz per le rotte energetiche

SICUREZZA di

I due Paesi hanno fatto passi indietro rispetto al processo di pace avviato negli ultimi anni. Mentre entrambi i Governi si accusano reciprocamente di aver dato inizio alle ostilità e di colpire zone con residenti civili, i morti sono arrivati a sedici (quindici militari e un civile).

Gli scontri, iniziati lo scorso 12 luglio, si stanno svolgendo nel Tovuz, territorio riconosciuto internazionalmente come azero, al confine tra i due Paesi. Il fatto che gli scontri si accendano non nel Nagorno-Karabakh – regione da sempre protagonista del conflitto – ma  sul confine meridionale, confermerebbe la tesi espressa da Elshad Nasirov, vicepresidente della società energetica statale azera Socar.

Durante una teleconferenza, Nasirov ha spiegato che alcune infrastrutture energetiche di grande importanza si trovano nelle vicinanze delle zone coinvolte dalle attuali operazioni militari che vedono coinvolti militari azeri e membri dell’esercito armeno. L’azero ha specificato che gli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyhan, Baku-Supsa, Baku-Tbilisi-Erzrum e altre infrastrutture di grande importanza strategica sono localizzate non lontano dai territori caldi. L’intera infrastruttura per la distribuzione delle risorse energetiche dell’Azerbaigian nei Paesi occidentali e nel mercato mondiale si trova nel distretto di Tovuz. Nasirov ha fatto anche riferimento al Gasdotto Transadriatico (TAP). In fase di costruzione, il gasdotto dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, sul versante adriatico. Quest’ultima infrastruttura è ritenuta fondamentale anche dall’Europa, perché il suo completamento e la sua operatività – prevista tra ottobre e novembre di quest’anno – ridurrebbe la dipendenza dalle forniture di gas russe.

Il Ministero degli Esteri azero ha rilasciato una dichiarazione qualche giorno fa in cui denunciava i tentativi di attacco da parte delle forze militari armene su basi dell’Azerbaigian, bombardando strutture civili nei villaggi di Aghdam, Dondar Gushchu e Vahidli, sempre nel Tovuz, con armi di grosso calibro e artiglieria. Sempre nel comunicato rilasciato dal Ministero azero si legge: “La leadership armena, nel tentativo di nascondere la sua fallita politica interna, tenta di rafforzare la sua  politica estera aggressiva e di distogliere l’attenzione della comunità internazionale dalla responsabilità dell’occupazione dei territori azerbaigiani, ma deve rendersi conto che l’Azerbaigian non accetterà mai l’occupazione dei suoi territori riconosciuti a livello internazionale e non un centimetro della nostra terra sarà lasciata sotto occupazione. L’Azerbaigian ha sempre dichiarato il suo sostegno a una soluzione politica al conflitto, ma ciò non deve essere inteso come una continuazione senza fine dei negoziati. L’Azerbaigian sostiene colloqui orientati ai risultati e si aspetta che gli sforzi di mediazione dei co-presidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE siano in questa direzione. La leadership armena è pienamente responsabile della tensione sul fronte e di tutte le conseguenze che può causare”.

Qualche giorno fa il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo azero, Elmar Mammadyarov (rimosso il giorno dopo e sostituito dal Ministro della Pubblica istruzione). Al centro della conversazione la lotta alla pandemia di coronavirus e le tensioni che si stanno registrando con l’Armenia. In linea con gli appelli lanciati dal Segretario Generale dell’Onu, dell’Unione Europea e dell’Ocse, Di Maio ha incoraggiato ogni possibile iniziativa per favorire un ritorno al dialogo politico e la fine delle ostilità.

Intanto i Paesi vicini mostrano preoccupazione per l’evolversi della situazione. L’Iran ha espresso interesse ad assumere un ruolo attivo nel processo negoziale: il Ministro degli Esteri iraniano Zarif avrebbe sentito entrambi le parti per incoraggiare un riavvio dei colloqui e del negoziato di pace. La Turchia di Erdogan avrebbe espresso il pieno sostegno all’Azerbaigian, definendo quello armeno un “attacco deliberato contro gli azeri e una violazione illegittima dei confini”. Anche la Russia, attraverso il capo della diplomazia Lavrov, ha fatto appello al buonsenso dei due governi, sollecitando un immediato cessate il fuoco.

Libia: pronto il piano d’intervento

Appello dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti dopo le stragi di Sirte per mano dei miliziani. In attesa dell’auspicata adesione di Tripoli al governo di unità nazionale, emergono alcuni dettagli sul piano d’azione a guida italiana in Libia: costruzione e protezione delle infrastrutture, missione di peace-keeping dei caschi blu, addestramento delle truppe regolari.

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Oltre 200 morti e almeno 500 feriti a seguito degli scontri avvenuti nell’ultima settimana a Sirte. Il susseguirsi delle stragi per mano dei miliziani affiliati all’Isis ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e orrore. Crimini, come la crocifissione di 12 miliziani salafiti o i 22 pazienti di un ospedale morti a seguito di un incendio appiccato dai jihadisti, che hanno fatto gridare al “genocidio” il governo di Tobruk.

“Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti – afferma il comunicato congiunto dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti -. Facciamo appello a tutte le fazioni libiche che desiderano un Paese unificato e in pace affinché uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi”, conclude la nota.

La necessità del governo di unità nazionale, auspicata dalla comunità internazionale, è quanto mai di attualità. Le Nazioni Unite attendono con ansia la decisione di Tripoli, dopo l’accordo tra le restanti fazioni del Paese. C’è un piano da attuare per frenare l’avanzata dell’Isis in Libia.

Già da mesi, si mormora di un intervento militare a guida italiana e sotto l’egida dell’Onu. Un piano d’azione già redatto dalla Farnesina e su cui sta lavorando alacremente lo stesso Bernardino Leon, ancora più indispensabile dopo la conquista di Sirte, le stragi a ripetizione e l’emergenza migratoria.

Come emerso nelle ultime ore, questo piano d’azione riguarda la fase successiva alla costituzione del governo di unità nazionale. In primis, tale esecutivo dovrebbe fare richiesta ufficiale di aiuti internazionale. Così, potrebbe scaturire il sostegno finanziario, ma soprattutto militare, indispensabile per stabilizzare la Libia e contrastare lo Stato Islamico.

Oltre che ai sussidi per la costruzione di infrastrutture come strade e aeroporti, oltre alla protezione degli impianti petroliferi e gasiferi, il clou di questo piano sarebbe l’intervento sul campo dei caschi blu Onu come forza di peace-keeping e l’addestramento delle truppe dell’esercito regolare libico.

L’abbattimento dei flussi migratori verso Italia e Grecia e la sconfitta dell’Isis passano, perciò, attraverso una stabilizzazione istituzionale, politica ed economica della Libia, come spiegato dal ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni: “L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese”. Tripoli, dunque, deve sbrigarsi. Il tempo, oramai, stringe.

Giacomo Pratali

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Iran, stop sanzioni: i riflessi geopolitici ed economici

Con il sì del Consiglio di Sicurezza Onu, finisce l’embargo imposto a Teheran. Per il governo statunitense è “l’unica chance per fermare il piano nucleare”, mentre per l’Europa e l’Italia si apre un’importante opzione commerciale.

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Grazie alla risoluzione Onu del 20 luglio, il Consiglio di Sicurezza ha detto sì all’accordo e alla fine delle sanzioni contro l’Iran decise dalla stessa assemblea nel 2006. Via libera dunque al patto siglato tra il 5+1 e Teheran a Vienna il 14 luglio scorso. Il documento entrerà in vigore non prima di 90 giorni.

Un accordo storico per l’Occidente dal punto di vista geopolitico ed economico. Geopolitico in particolar modo per gli Stati Uniti, come ricordato il 23 luglio dal segretario di Stato Kerry: “Non potevamo di certo aspettarci la capitolazione dell’Iran – ha riferito al Congresso -. Ma era l’opzione migliore. Spero che il Congresso (rivolgendosi al Partito Repubblicano, ndr) approvi perché questa è l’unica chance per fermare il piano nucleare ed evitare il rischio di uno scontro militare”, ha poi concluso.

Ma oltre agli aspetti geopolitici e strategici nel mondo arabo, gli sbocchi sono anche commerciali. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale di Saras (azienda italiana di raffinazione del petrolio) Dario Scaffardi, in un summit su business e finanza, oltre a sottolineare i benefici che il calo del prezzo del petrolio ha già portato sul mercato internazionale, ha riferito che, a seguito della fine dell’embargo, il proprio gruppo è stato contattato dall’Iran, tornatoad essere attore protagonista del mercato di greggio internazionale. Come già prospettato dopo l’accordo di Vienna, il ritorno alla produzione di greggio da parte di Teheran “potrà portare un milione di barili di greggio al giorno sul mercato una volta tolte le sanzioni. Con la possibilità di aggiungere altri 0,5-1 milione di barili abbastanza velocemente”, ha affermato il manager dell’industria della famiglia Moratti.

Sul fronte italiano, inoltre, i prossimi 4 e 5 agosto, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni e il titolare dello Sviluppo Economico Federica Guidi si recheranno in Iran assieme ai rappresentati dei più grandi gruppi industriali italiani. Il fine è quello di mettere nero su bianco un interscambio commerciale significativo con Teheran. Infatti, prima della rivoluzione del 1979, l’Europa era il primo partner in termini di import-export dell’ex Persia. Primato che, al momento, dagli anni’90 appartiene alla Russia, la quale, oltre ai rapporti geopolitici di amicizia, ha effettuato importanti investimenti nei settori petrolifero e gasifero del Paese mediante la società Gazprom.

 

Giacomo Pratali

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Usa-Russia: Obama conduce il gioco

EUROPA di

Dal G7, passando per il tour di Putin in Italia, finendo con gli allarmismi di una possibile degenerazione del conflitto in Ucraina. Il banco dei rapporti tra Nato e Russia sta rischiando più volte di saltare, anche se la palla, al momento, sembra essere nelle mani di Obama.

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Se la strategia di Washington in Medio Oriente nell’ultimo anno è stata quella di non fare emergere uno Stato predominante in termini di forza economica e leadership nel mondo arabo, in Europa le mosse sono state diverse. L’esclusione di Putin dal G7 e le dichiarazioni dei leader europei sul vincolo di nuove sanzioni verso Mosca se non venissero rispettati gli accordi di Minsk nascono da una precisa volontà.

Sulla disputa in Ucraina, sul nucleare in Iran, sui rapporti con l’Occidente, sotto il profilo dell’aumento delle postazioni Nato nei Paesi confinanti con la Russia, la strategia statunitense è una sola. Ovvero, Mosca deve trattare direttamente con Washington. E, quindi, tornare a quel bilateralismo conciso tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Con l’Europa, divisa anche sulle questioni di politica estera, costretta ancora di più ad un ruolo marginale. Con Stati come la Polonia o i Paesi Baltici che trovano negli Stati Uniti i primi difensori della propria sovranità nazionale. Con la stessa Casa Bianca che utilizza la crisi del Rublo e la forte inflazione russa come capi di imputazione nei confronti del Cremlino.

E l’Europa? Se la Cina costituisce un corridoio per non bloccare del tutto i rapporti commerciali con la Russia danneggiati dalle stesse sanzioni, dall’altra sta divenendo sempre di più un partner privilegiato per quanto concerne le questioni energetiche. Recente è, infatti, il secondo accordo, denominato “Western Route”, consistente nella costruzione di un gasdotto che colleghi la Siberia Occidentale a Pechino.

Se l’Europa ha, come si evince dal G7, accettato il ruolo di comprimario degli Stati Uniti, è ancora più evidente che il danneggiamento dei rapporti commerciali bilaterali ma, soprattutto, il possibile degenerare della questione del gas, potrebbero fare cambiare rotta politica ai leader del Vecchio Continente.

In questo senso, l’Ucraina, dove gli scontri sono ripresi ad un livello quasi pari alla fase precedente agli accordi di Minsk, diviene ancora una volta il pomo della discordia: “Se la crisi in Ucraina si aggrava – dichiara Maros Sefcovic, Vicepresidente della Commissione Europea e Responsabile Energy Union – e se la Russia chiude i gasdotti destinati all’Europa, possiamo resistere per 6 mesi. Ma credo che non convenga a Mosca, visto che siamo il loro principale cliente”, rivela ancora.

Le somme si tireranno verso settembre, con l’inverno ormai alle porte. Ma, al netto del sangue che continua a scorrere nel Donbass, il parziale riconoscimento delle autonomie delle regioni filorusse, a cominciare dalla Crimea, potrebbe, come in parte lasciano intendere gli accordi di Minsk, esse il motore per porre fine alla guerra civile in Ucraina, quindi alle sanzioni contro il Cremlino, quindi al braccio di ferro in stile guerra fredda tra Stati Uniti e Russia.

Il viaggio di Putin in Italia ha, in questo senso, un significato politico importante. Se con Renzi è stato ribadito l’importanza di un ritorno agli storici rapporti commerciali ed economici tra Roma e Mosca, ancora più rilevante è stata la visita presso Papa Francesco. Il leader russo spera di trovare u n appiglio nel Pontefice e nella sua volontà di una distensione tra mondo cattolico e ortodosso.

I rapporti con il Vaticano, la necessità di mantenere l’Europa come primo partner per la fornitura di gas, l’ostacolo delle sanzioni ad una ripresa economica russa. Se da una parte ci potrebbe essere un riconoscimento a livello internazionale delle autonomie delle regioni filorusse in Ucraina, la fine delle ostilità con Kiev e il rapporto diretto con Washington saranno determinanti per Putin affinché la Russia esca da questo isolamento.

Giacomo Pratali

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Ucraina: soldati russi catturati “erano armati, ma non avevano ordine di sparare”

EUROPA di

L’Osce rende noti i dettagli della missione dei militari di Mosca, sorpresi a combattere con i ribelli del Donbass. Nonostante la quotidiana inosservanza del cessate il fuoco, la guerra civile appare in una fase di stallo. Mentre la Casa Bianca e il Cremlino fanno prove di disgelo, il prossimo inverno appare decisivo per le sorti del conflitto.

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“Erano armati, ma non avevano l’ordine di sparare. Uno di loro ha detto di avere ricevuto ordini dalla sua unità militare di andare in Ucraina”. È quanto comunicato dall’Osce dopo che, lunedì 18 maggio, due soldati russi erano stati catturati sul suolo ucraino mentre combattevano a fianco delle milizie filorusse. Dopo l’arrivo dei convogli militari lo scorso inverno, intercettati dai satelliti Usa, questa è la conferma definitiva di un’ingerenza esterna nella guerra civile nel Donbass. Un’ingerenza che fa seguito al video, risalente al gennaio 2015, in cui un soldato americano è stato filmato tra le fila dell’esercito di Kiev.

Ma la crisi in Ucraina, tuttavia, sembra essere ancora in fase di stallo. Malgrado i continui scontri, soprattutto nei pressi dell’aeroporto di Donetsk e attorno alla città portuale di Mariupol, confermino la fallacia del cessate il fuoco decretato dagli accordi di Minsk di febbraio. La vera resa dei conti sembra essere rinviata al prossimo inverno, quando tornerà in gioco la questione delle forniture di gas da parte di Mosca.

La guerra fredda che ne consegue ha intanto dato i primi, timidi segnali di disgelo. Gli incontri di metà maggio tra il segretario di Stato Usa Kerry e il presidente Putin, la prima visita ufficiale sul suolo russo dall’inizio della crisi ucraina, mostrano la volontà di dialogo tra le due parti.

Oltre ad avere parlato del caso Siria, della possibile vendita dei missili russi S-300 all’Iran e del conflitto in corso in Yemen, il futuro dell’Ucraina è stato al centro del dialogo intercorso tra le due amministrazioni. Gli Stati Uniti vogliono entrare a tutti gli effetti nel tavolo delle trattative composto da Russia, Ucraina, Francia e Germania, che ha portato al Protocollo di Minsk di febbraio.

Nell’incontro con il ministro degli Affari Esteri Lavrov, Kerry si è dimostrato concorde nell’evidenziare che, il rispetto di tali accordi, dovrebbe portare alla fine del conflitto civile nel Donbass. Ma altrettanto evidente è stato l’imbarazzo sulla volontà di Kiev di riprendersi manu militari Donetsk, nonché sulle sanzioni economiche imposte a Mosca.

La presenza, in questo caso ufficiale, delle truppe militari statunitense nella base Nato di Javorov (vicina al confine con la Polonia) è motivo di frizioni con la Russia. Qui, da aprile, sono in corso l’addestramento di quasi 1000 milizie dell’esercito ucraino. Ed è proprio questo punto a frenare una vera e totale distensione tra Washington e Mosca.

Se a questo, aggiungiamo le continue dichiarazioni antirusse del presidente ucraino Poroshenko e del premier Yatseniuk, vediamo che la definizione di questa crisi geopolitica appare distante. Da una parte, Kiev accusa il Cremlino di avere mire antioccidentali e chiede aiuti economici e militari a Stati Uniti ed Unione Europea. Dall’altra parte, Mosca non intende rinunciare alle regioni russofone in territorio ucraino (Donetsk, Lugansk e la Crimea), che considera la risposta allo schieramento di forze e armamenti militari Nato negli Stati un tempo facenti parte del Patto di Varsavia.
Giacomo Pratali

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Cina, Maitra: “Nessuna politica antiIslam: Xinjiang motore dello sviluppo economico”

Asia di

Lo sviluppo verso ovest. La questione degli Uiguri. La rinascita della Via della Seta. I rapporti con i Stati confinanti. Dal 2000, lo Xinjiang è divenuto per la Cina uno dei motori al servizio della sua preponderante crescita economica. Ma è anche una terra in cui l’identità e la religione locale, l’Islam, rischiano di scontrarsi con gli Han, la maggioranza etnica del Paese. Per affrontare questi temi, European Affairs ha intervistato Ramtanu Maitra, analista presso la sede statunitense della rivista Eir. Inoltre, egli collabora regolarmente con tre trimestrali indiani nel settore della Difesa: Aakrosh, Agni e The Indian Defence Review. In passato, ha scritto per la redazione online di Asia Times.

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Per gli Uiguri, le questioni indipendentiste e religiose vanno di pari passo?

“La religione non è sicuramente la questione più importante per gli Uiguri. Essi non sembrano pronti a sacrificare le proprie vite per salvaguardare la loro religione. Ma quando altri fattori entrano in gioco, come lo spostamento in massa degli Han nello Xinjiang da parte di Pechino, l’identità religiosa viene messa in mostra. In particolar modo, i seguaci dell’Islam, molti dei quali sono stati vittime del colonialismo occidentale in passato, hanno iniziato a riaffermarsi negli ultimi anni e a mostrare la forza della propria religione come un’arma efficace. Pechino ha mostrato poca sensibilità nei rapporti con i musulmani e non sembra comprendere che disonorarli, perfino in un Paese come la Cina dove i musulmani sono un ridottissima minoranza. Non permettere agli Uiguri, perfino a quei pochi impiegati come dipendenti, di non digiunare durante il Ramadan è una pratica che potrebbe ricompattare gli Uiguri più determinati e portarli in diretto contatto con gli islamici più radicali, i quali sono pronti a dichiarare la Jihad contro qualsiasi Paese non islamico”.

“Sono dell’opinione che la maggioranza degli Uiguri non abbia interesse ad arrivare all’indipendenza. Ci potrebbe essere qualcuno che, invece, è interessato, ma la gran parte di loro non vuole semplicemente essere inglobato dagli Han. Da quando Pechino ha adottato la politica dello sviluppo almeno di una minima parte dell’ovest del Paese (ovvero lo Xinjiang), in modo da poter accedere all’Asia Centrale, Meridionale e Sudorientale, questo ha portato con sé, e lo porterà anche in futuro, molti Han ad emigrare verso lo Xinjiang. Questi Han sono lavoratori qualificati, hanno una migliore retribuzione e sono arrivati nello Xinjiang con l’intento di radicare il più possibile le proprie famiglie”.

“Questi sono i problemi riguardanti gli Uiguri. Tuttavia, mentre molti di essi assistono passivamente a questo cambiamento demografico, penalizzante nei confronti della maggioranza etnica nello Xinjiang (un caso non differente da quello che è accaduto e che accadrà in Tibet), alcuni di ribelleranno a questa politica di stato tesa a distruggere la loro identità, la loro cultura, il loro stile di vita e ad imporre la cultura della riverenza verso gli Han. Quest’ultimo gruppo di Uiguri potrebbe parlare di indipendenza, ma essi non possono montare un caso per giustificare la loro indipendenza contro una grande potenza come la Cina. Allo stesso tempo, gli Uiguri di ieri e di oggi, che hanno vissuto o vivono una vita molto dura, accolgono con favore lo sviluppo che Pechino sta portando nello Xinjiang. Non esiste la possibilità che gli Uiguri si uniscano sotto un solo ombrello in una causa molto astratta come l’indipendenza dalla Cina”.
Il ripopolamento dello Xinjiang, attraverso lo spostamento in loco degli Han avvenuto negli ultimi 15 anni, ha avuto l’effetto contrario rispetto alla volontà del governo di sopprimere le istanze degli Uiguri?

“La politica di Pechino di portare l’etnia Han ad abitare nello Xinjiang non mira ad indebolire l’etnia Uiguri. Come ho fatto notare in precedenza, la Cina ha bisogno di sviluppare un’infrastruttura che le consenta l’accesso verso la parte occidentale del Paese, dove ci sono grandi giacimenti di petrolio e gas che Pechino potrebbe utilizzare per sostenere e far crescere la sua economia. Il processo ha fatto riversare la migrazione di una enorme quantità di Han nello Xinjiang, la terra degli Uiguri. Il processo ha anche modernizzato, e continuerà a farlo ulteriormente, molte parti dello Xinjiang. Gli Uiguri trarranno beneficio da tutto ciò, ma, al tempo stesso, entreranno quotidianamente in contatto con gli Han, molti dei quali non hanno ancora ben compreso le cose da fare e da non fare nella religione islamica, la loro cultura e l’attitudine isolazionista degli Uiguri. Alcuni Han potrebbero sentirsi in qualche modo superiori agli Uiguri. Queste differenze potrebbero portare a scontri e conflitti di tanto in tanto, ma non c’è nessuna ragione per credere che, nel corso dei prossimi anni, questi due gruppi etnici non saranno in grado di vivere fianco a fianco”.

“Tornando al tema della domanda, io ritengo che la politica messa in campo da Pechino non abbia lo scopo di sopprimere l’etnia Uiguri, anche se non è comprensiva nei loro confronti. Pechino ha ritenuto che non ci fossero ragioni di fare sforzi a livello sociale per integrare gli Uiguri con il resto della Cina. D’altra parte, se la Cina volesse sopprimere gli Uiguri, perché non gli Han sono stati fatti emigrare nello Xinjiang tra il 1950 e il 2000? Questo non è accaduto semplicemente perché non aveva ancora adottato la nuova politica di sviluppo economico relativamente alla Via della Seta”.
Il fatto che dal 2012 oltre 200 cinesi siano andati a combattere in Siria, fa della Cina uno degli Stati più a rischio a proposito della minaccia jihadista?

“No, questo è assurdo. Se migliaia di fondamentalisti islamici non hanno rappresentato una seria minaccia per 64 milioni di britannici, perché 200 islamisti dovrebbero rappresentare un qualche problema per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti? Questo non accadrà. La Cina non vuole utilizzare la forza per dialogare con gli Uiguri. La Cina vuole una “ascesa pacifica”. Atti violenti per frenare le rivolte degli Uiguri, per quanto piccole possano essere, verrebbero sottolineati con titoli da prima pagina dai media occidentali e sarebbero colte dai poteri forti in Occidente che intendono mostrare la Cina come spietata, intollerante agli altri gruppi religiosi e pronta ad esercitare l’uso della forza qualora non venisse seguito il proprio volere”.
Il passaggio della nuova Via della Seta e la presenza di risorse di gas e petrolio: l’aspetto economico è il vero motore della politica antiIslam di Pechino nello Xinjiang?

“In parte sì e in parte no. La Cina dovrà muoversi verso ovest se vuole arrivare al gas e al petrolio dell’Asia Centrale e della Penisola Arabia. Ma la Cina avrà anche bisogno di fare fruttare le risorse minerarie in funzione delle sue aziende produttrici in serie di una grande varietà di prodotti. Ma questa non sarà l’unica strada da perseguire. La Cina, con la sua ampia ed efficiente base di produzione, sarà attivamente alla ricerca di mercati in Asia Centrale e Sudoccidentale, Russia, Ucriana, Bielorussia, Crimea, Europa. Già nel Kyrgyzstan quasi tutti i prodotti venduti nei mercati hanno impressa la scritta “Made in China”. Questa è la parte affermativa della mia risposta”.

“La parte negativa, invece, è che la Cina non sta mettendo in atto nessuna politica antiIslam nello Xinjiang. Tutti i Paesi ad ovest di Pechino che sono in attesa di fornire alla Cina un accesso alle loro risorse energetiche e alle molte risorse di minerali, con l’eccezione d Russia e Georgia, sono tutte nazioni musulmane: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e l’intera Penisola Arabica”.
Giacomo Pratali

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Ucraina: è default

ECONOMIA/EUROPA di

I dati sanciscono il fallimento ufficiale di Kiev. La guerra civile in atto è però la punta della piramide delle concause che hanno portato l’ex Stato sovietico a questo tracollo finanziario. Una situazione che, di fatto, mina l’unità statuale a vantaggio di Russia e Occidente.

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“Il default del debito ucraino è virtualmente certo”. Queste le spietate parole utilizzate da Standard&Poor il 10 aprile 2015. Parole che vanno ad aggiungersi ai drammatici dati forniti dal Comitato Statale della Statistica di Kiev: inflazione annua al 35%, deficit al 10,3%, reddito annuo svalutatosi del 6,8% nel 2014 e che scenderà almeno di altri 12 punti nel 2015, Grivnia che ha perso il 70% del suo valore negli ultimi dodici mesi.

Al contrario delle apparenze, non è la sola guerra civile la causa di questo tracollo. I numeri sopracitati mettono in evidenza il fallimento di un’intera classe dirigente politica dal 1991, anno dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, ad oggi. La corruzione, la mancanza di una politica industriale e soprattutto energetica, l’inefficienza del settore pubblico, la caduta dell’intero sistema bancario, la mancanza di sbocco occupazionale: sono questi i punti a cui ruota il tracollo dello Stato ucraino. Uno Stato che sembra sul punto di implodere e che non riesce a tutelare né le proprie prerogative sugli oligarchi interni, né a difendere i confini orientali.

Negli ultimi venti anni, il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato ben dieci piani di sostegno a Kiev. L’ultimo, di 17 miliardi di dollari, ha, tra le clausole previste, il taglio del debito pubblico da quasi 20 a 3 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Una situazione che pone l’Ucraina alla mercè della Russia, creditrice di 3 miliardi di dollari, e di Unione Europea e Nato, interessate a porre Kiev sotto il proprio ombrello istituzionale e a fermare la lunga mano di Putin che, oltre all’ex stato sovietico, si sta allungando anche verso la Grecia.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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