Era il 28 agosto 1963; sono passati oltre cinquant’anni da uno dei discorsi più celebri della storia. Martin Luther King aveva trentaquattro anni, ed era già conosciuto per la sua attività volta a far ottenere i diritti civili agli afroamericani.
Erano anni difficili per chi era nato, come lui, negli stati in cui razzismo e segregazionismo erano più che parole all’ordine del giorno; ma quel 28 agosto, il reverendo King, davanti ad oltre duecentomila persone, radunatesi a Washington, al Lincoln Memorial, parlò per circa quindici minuti lanciando un messaggio che sembra ancora oggi risuoni. Un discorso sicuramente studiato, ben preparato, che toccò tutti gli argomenti di maggior interesse in quel momento: l’inizio degli anni sessanta, la contestazione, un cambiamento culturale che si stava avviando e di cui ancora oggi si avverte un’onda lunga probabilmente dei suoi effetti peggiori.
Il discorso di King è stato oggetto sicuramente di fin troppe analisi e citato più volte anche a sproposito. Molte delle sue parole sono state strumentalizzate non sempre correttamente. Ma di quel discorso forse alcuni aspetti non sono stati ben compresi, iniziando dalla circostanza che in quel momento il presidente americano era John Kennedy, altra icona del liberalismo che era probabilmente il primo destinatario delle parole del leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Kennedy avrebbe messo in atto quello che poi fu emanato dal suo successore, Lyndon Johnson? È decisamente probabile, ma la storia purtroppo non viene fatta con i forse, e resta il fatto che anni prima Kennedy stesso non si era espresso in maniera favorevole ad una legge sull’argomento; circostanza contestatagli dallo stesso King alla quale l’allora candidato democratico alla presidenza rispose di avere cambiato idea.
In ogni caso quel giorno, King, senza bisogno di slide o di volantini su cui troneggiasse il suo volto o uno slogan, scosse non solo gli Stati Uniti. Aveva trentaquattro anni, un’età in cui oggi, in molti, ancora non hanno (e spesso non per loro colpa) un lavoro, una famiglia, una dimensione. Altri tempi, altre situazioni. Impossibile fare paragoni, ma sono aspetti che impongono a riflettere. King si era laureato in sociologia e aveva ottenuto un dottorato in filosofia; un percorso probabilmente indispensabile per diventare pastore battista. Fece poi la sua scelta per i diritti civili nei luoghi e nei momenti dove era più difficile farlo. Una sfida nella sfida.
King fece le sue scelte e i suoi discorsi in un momento in cui la copertura mediatica era limitata a quella classica di radio, TV ancora non pienamente diffusa e giornali che, sicuramente, non erano tutti dalla sua parte. Non esisteva internet, e neppure i social. Tutto ciò rende la battaglia di King, come quella del suo predecessore Gandhi, sicuramente un’impresa di cui difficilmente riusciamo a comprendere la portata.
King avrebbe avuto una carriera politica se non fosse stato assassinato nel successivo 1968? Avrebbe avuto un futuro come deputato o senatore negli Stati Uniti? È probabile, e non dimentichiamo che il primo afroamericano eletto al senato americano era stato Hiram Rhodes Revels nel 1870, a guerra di secessione finita da pochi anni e con presidente Ulysses Grant. Jesse L. Jackson, collaboratore di King, tentò di ottenere la nomination alla presidenza negli anni 80.
Ma ciò che viene da chiedersi, è se oggi esista ancora chi ha il coraggio di un Martin Luther King per affrontare una battaglia come quella, con i mezzi che aveva a disposizione, affrontando in prima persona arresti e violenze. King e tutti quelli schierati con lui, notiamolo bene e ricordiamolo, lo facevano a volto scoperto, mettendoci non solo la faccia. Non si facevano seguire da sabotatori o disturbatori che facessero perdere peso al messaggio che veniva lanciato. King aveva già dimostrato nella sua attività precedente, nei precedenti discorsi e, in primis, nella “Lettera dalla prigione di Birmingham”, scritta mentre si trovava in carcere. Martin Luther King scelse un modo leale, pulito, diretto per affrontare la sfida che aveva lanciato. Non si nascondeva dietro un monitor e, rivedendo quelle immagini, aveva quelli che oggi chiameremmo follower che erano consapevoli di ciò che stavano facendo ed a cui andavano incontro. Compreso l’arresto. Gli studenti americani avevano scritto nel 1962 il Manifesto di Port Huron che è una delle pietre miliari del movimento degli anni 60 e che in pochi ricordano o neppure conoscono. Difficile credere che qualcuno sarebbe sceso in piazza senza una piena consapevolezza di ciò che stesse accadendo e le ragioni che muovevano una protesta. Non erano i cortei e le manifestazioni di oggi che si muovono a ritmo di samba e di slogan ripetuti a ritmi rap, spesso preconfezionati, dove ci si limita ad essere semplicemente contro o, peggio, si “invitano” altri a fare. Ed il verbo “invitare” è un eufemismo. Specialmente da chi manifesta a volto coperto o partecipa con immagini che sembrano santini stampati in tipografie seriali; e l’immagine di Greta è la versione social di quella del Che, con il dovuto rispetto per la giovane svedese e la sua scelta opportunamente cavalcata da altri.
Oggi però risuonano ancora quelle parole. Abbiamo tutti noi un sogno, e per realizzarlo, come fece King, è necessario fare. Non chiedere che altri facciano.
Caro Gianni la differenza sostanziale tra la battaglia di King e le cosidette icone del terzo millennio , salvo rari casi , come precisi tu nell accenno alla Greta , e’ che i personaggi del mondo globalizzato , dai grandi attori ai piccoli egocentrici che vogliono diventare grandi , sono al servizio di lobby di potere finanziario e capitalistico che hanno precisi scopi di orientare l opinione pubblica . Guido