GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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luca marchesini

Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

Bangladesh: proseguono le indagini dopo l’attentato

Asia/BreakingNews di

Continuano le indagini in Bangladesh per ricostruire la rete che ha fornito supporto logistico al commando di terroristi che nella notte di venerdì ha ucciso 20 civili, prevalentemente di nazionalità Italiana e giapponese, in un caffè della zona diplomatica della capitale Dacca.

L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico e sono state diffuse dalla stampa locale alcune foto che ritraggono il volto di 5 dei giovanissimi attentatori accanto alla bandiera nera di Daesh. I terroristi, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero in gran parte esponenti della borghesia di Dhaka, con un passato recente da studenti presso una rinomata università in lingua inglese della Capitale.

Le forze speciali erano intervenute sabato mattina, dopo quasi 12 ore di assedio, uccidendo sei membri del commando e riuscendo a portare in salvo 13 ostaggi. Cinque di essi sono ancora tenuti sotto custodia dalle autorità e nelle scorse ore sono stati interrogati dalla polizia per chiarire la loro posizione. Tra loro, secondo quanto riportato da fonti anonime della polizia, ci sarebbero un cittadino canadese di origini bengalesi ed un cittadino britannico nato in Bangladesh. Le autorità stanno svolgendo indagini ad ampio raggio interrogando anche amici e parenti delle persone trattenute.

La polizia vorrebbe chiarire soprattutto la posizione di un ostaggio Bengalese, rimasto intrappolato insieme a moglie e figli nel ristorante durante l’attacco. In alcuni video amatoriali ripresi dall’esterno del ristorante, si vedrebbe l’uomo parlare con alcuni degli attentatori prima di ricevere da questi l’autorizzazione ad allontanarsi con i familiari.

Si tratterebbe di un insegnante di un università privata di Dhaka, tornato in patria dopo 20 anni trascorsi in Inghilterra. La polizia sospetta che uno degli attentatori abbia studiato nello stesso dipartimento dove il professore tiene regolarmente le sue lezioni e vuole capire se i due potessero essere in contatto nel periodo precedente alla strage.

Inizialmente la polizia aveva insistito nel negare ogni collegamento tra il commando e i network del terrorismo internazionale. Dopo le prime rivendicazioni e la diffusione, su siti vicini a Daesh, di alcune foto che sembrano ritrarre gli interni dell’Holey Artisan Backery e la scena del massacro, la polizia ha cambiato parzialmente linea, dichiarando che le indagini in corso stanno cercando di stabilire se gli attentatori abbiano avuto legami con gruppi stranieri, negando però che l’attacco possa aver avuto una regia esterna.

Le indagini hanno scatenato una caccia all’uomo contro 6 membri di Jamaatul Mujahideen Bangladesh (JMB), un gruppo islamista locale, sospettati di aver collaborato all’organizzazione del massacro e di aver avuto un ruolo centrale nella fase di indottrinamento dei giovani terroristi, quasi tutti istruiti e provenienti dalla media e dall’alta borghesia bengalese. Mentre le forze dell’ordine tentano di individuare e fermare i 6 sospettati, 130 membri dell’organizzazione islamista arrestati in precedenza vengono interrogati dalle autorità giudiziarie alla ricerca di informazioni utili alle indagini.

La polizia ovviamente conta di ottenere informazioni fondamentali da due sospetti (anche se inizialmente si era parlato di uno) che avrebbero preso parte all’attacco e che ora sono piantonati in ospedale.
Mentre le indagini procedono, nel tentativo di stabilire la natura locale o globale dell’attentato, Il Bangladesh e i suoi quasi 160 milioni di abitanti, musulmani per il 90%, si interrogano sulle ragioni che hanno spinto un gruppo di giovani studenti provenienti da famiglie liberali ed istruite (solo uno era di umili origini), ad imbracciare spade e fucili per uccidere e sacrificare il proprio stesso futuro. L’attacco di venerdì scorso segna un drammatico cambio di paradigma, che va oltre il possibile coinvolgimento dello Stato Islamico.

In Bangladesh, la radicalizzazione islamista non fa più breccia unicamente nelle menti di giovani poveri e diseredati, la cui unica istruzione consiste negli insegnamenti fondamentalisti impartiti dalle scuole coraniche attive nelle zone rurali. L’islamismo militante ed il richiamo alla morte, la propria e quella del nemico, seducono anche i pupilli della borghesia occidentalizzata e si insinuano attraverso le parole, rilanciate dai social media, di predicatori stranieri che parlano da luoghi lontani. E’ una sorta di indottrinamento autodidatta difficile da capire, difficile da prevenire e difficile da controllare che indica nella violenza anti-occidentale la soluzione ai tanti problemi che affliggono uno degli stati più poveri e popolati del pianeta.

 

Luca Marchesini

Notte di terrore a Dacca: uccisi 20 ostaggi

Asia/BreakingNews di

Un commando di islamisti probabilmente affiliati allo Stato Islamico ha assaltato con armi da fuoco e da taglio un ristorante frequentato da stranieri nella zona diplomatica della capitale del Bangladesh. Questa mattina alle 7,40, dopo una notte di stallo, le forze speciali dell’esercito sono intervenute con un blitz lampo uccidendo sei attentatori e liberando 13 ostaggi. Un settimo terrorista è stato arrestato. Due agenti polizia hanno perso la vita nel corso dell’operazione.

Sul pavimento del ristorante sono stati rinvenuti i corpi di 20 ostaggi, quasi tutti di nazionalità italiana e giapponese, secondo quanto riportato da fonti locali.

Molte delle vittime presenterebbero ferite fatali causate da armi da taglio. Un lavoratore delle cucine del ristorante, sfuggito al massacro, ha dichiarato che gli attentatori sono penetrati nel locale armati di pistole, bombe a mano e spade, alle 20.45 di venerdì, urlando “Dio è grande”, mentre 20 clienti di nazionalità straniera (tra cui diversi diplomatici e imprenditori italiani del settore del tessile) stavano cenando, insieme alla clientela locale.

Alle grida sono seguiti gli spari e le esplosioni. Molti membri dello staff, tra cui lo chef italiano dell’Holey Artisan Bakery, e alcune decine di clienti sono riusciti a mettersi in salvo prima che gli attentatori sbarrassero le porte e si asserragliassero dentro il ristorante. Secondo alcune fonti, ancora da verificare, gli attentatori si sarebbero poi dedicati al massacro, uccidendo brutalmente gli ostaggi incapaci di recitare a memoria passi del Corano.

Alcuni degli impiegati si sono asserragliati nei bagni, riuscendo a salvarsi e iniziando a comunicare con l’esterno attraverso i cellulari e i social media. Una folla di duecento persone circa, composta da curiosi, amici e parenti degli ostaggi, si è radunata nei pressi del ristorante mentre la polizia iniziava a delimitare l’area e a mettere in sicurezza il perimetro.

Il blitz di questa mattina ha messo fine a 10 ore di assedio. L’identità delle vittime deve ancora essere verificata.

I morti di oggi si sommano ai 40 uccisi nel paese asiatico dal 2013 in poi per mano di militanti islamisti. Le vittime, tra cui stranieri, blogger atei, militanti della comunità gay e esponenti di minoranze religiose, sono state spesso massacrate a colpi di machete, in una inedita fiammata di violenza organizzata e coordinata da gruppi terroristi con legami internazionali. La polizia ha risposto, nel corso degli ultimi mesi, con un giro di vite contro l’islamismo militante che ha portato all’arresto di oltre 10 mila persone in tutto il paese.

Finora, però, le autorità del Bangladesh avevano respinto l’idea che i gruppi locali potessero essere parte di un network islamista transnazionale. L’attentato di oggi le costringerà probabilmente a riconsiderare tale posizione.

Gli Usa mettono in guardia la Cina

Asia/BreakingNews di

Gli Stati Uniti hanno deciso di mostrare i muscoli nel Mar Cinese Meridionale per rassicurare gli alleati regionali e lanciare un chiaro messaggio alla Cina, le cui mire sull’area appaiono sempre più esplicite.

Due Carrier Strike Group americani, composti ognuno da una portaerei e diverse navi militari di grandi dimensioni, hanno iniziato sabato scorso una serie di esercitazioni militari nelle acque territoriali delle Filippine, alleato chiave nella disputa per il controllo dei mari asiatici meridionali.

I drill hanno coinvolto le portaerei a propulsione nucleare Ronald Reagan e John C. Stennis, 12 mila marinai, 140 velivoli e altre sei navi da battaglia, a pochi giorni dalla sentenza che una corte internazionale si appresta a emettere in merito alle rivendicazioni cinesi sul tratto di mare conteso. Il messaggio è chiaro: gli USA non intendono lasciare campo all’avversario cinese e gli alleati regionali, a partire dalle Filippine, non saranno lasciati soli di fronte alle pressioni di Pechino.

Le navi americane hanno iniziato a svolgere esercitazioni di difesa aerea, sorveglianza marittima e attacco a lungo raggio, mettendo in mostra la propria potenza di fuoco a poca distanza dalle acque contese, nelle quali la Cina continua le proprie attività costruttive di atolli artificiali a scopo civile e militare.

L’intento delle esercitazioni, nel linguaggio formale dei bollettini informativi della marina militare, sarebbe quello di promuovere la libertà di navigazione e di sorvolo nelle acque e nei cieli dell’area. Le dichiarazioni che giungono dai comandi chiariscono meglio lo scopo dei drill: “Questa è per noi una grande opportunità, per prepararci ad operare con CSG (Carrier Strike Group) multipli all’interno di un ambiente conteso”, ha spiegato l’ammiraglio John Alexander.

Da parte filippina, la mobilitazione militare è la dimostrazione lampante che gli Stati Uniti sono determinati a prestare fede all’”impegno corazzato”, ribadito in più occasioni, in favore dell’alleato asiatico. “Accogliamo con favore la cooperazione e la forte partnership con i nostri amici ed alleati, alla luce della disputa nella quale i nostri legittimi diritti sono stati oltrepassati”, ha affermato Peter Galvez, portavoce del Dipartimento di Difesa filippino.

Il riferimento è alla sentenza, attesa nel giro di poche settimane, con cui la Corte di Arbitrato Permanente dell’Aia dovrà esprimersi sulla legittimità delle rivendicazioni di Pechino nei confronti delle acque del Mar Cinese Meridionale, una delle aree navigabili più importanti del mondo, sotto il profilo economico e strategico, sulla quale affacciano anche Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan e su cui convergono gli interessi di Cina, USA e Giappone.

La sentenza sarà probabilmente favorevole alle Filippine, che si erano rivolte al tribunale internazionale per tentare di contrastare l’espansionismo cinese. La Cina, dal canto suo, ha deciso di ignorare la corte, alla quale non riconosce alcuna giurisdizione sulla materia, e non ha preso parte al dibattimento.

 

Luca Marchesini

 

La diga dell’amicizia indo-afghana e l’incognita del Pakistan

Asia/BreakingNews di

 

L’onda lunga della guerra che ha inaugurato l’era post 11 settembre ha finito per deteriorare gravemente i rapporti tra Afghanistan e Pakistan, il cui confine comune, labile e poroso, è da anni teatro di incursioni di milizie talebane e tensioni crescenti tra Kabul e Karachi.

Nello spazio creato dal lento processo di allontanamento si sta progressivamente inserendo l’India di Narendra Modi, lo storico nemico del Pakistan. L’inedita cooperazione tra India e Afghanistan viaggia ora su un duplice binario, militare ed economico, con forniture di armamenti ed investimenti infrastrutturali per un miliardo di dollari.  Nuova Dheli ha messo sul piatto le risorse per costruire una nuova Assemblea Nazionale a Kabul, rinnovare la rete stradale e potenziare le linee elettriche del vicino asiatico martoriato da decenni di conflitti, investendo risorse anche su iniziative di carattere umanitario.

L’emblema di questo rinnovato rapporto, a cui il Pakistan guarda con evidente ostilità, è stata l’inaugurazione, due giorni fa, della “Diga dell’Amicizia” (Salma Dam), alla presenza del Presidente Modi e del suo omologo afghano Ashraf Ghani. Il grande impianto idroelettrico della provincia di Herat, danneggiato gravemente durante la guerra civile degli anni ’90, è stato interamente ricostruito. Il progetto è stato finanziato con un investimento di 300 milioni di dollari e alla sua realizzazione hanno preso parte 1500 ingegneri afghani ed indiani.

Alta oltre 100 metri e lunga più di mezzo chilometro, la diga sarà in grado di generare 42 megawatt di potenza e contribuirà all’irrigazione di 75 mila ettari di terreno agricolo, secondo quanto affermato dallo steso Presidente Modi. L’elettricità generata dall’impianto illuminerà le case e le strade di 560 villaggi e 260 mila famiglie della regione.

I due presidenti hanno inaugurato ufficialmente la diga premendo insieme il bottone di accensione. La diga, ha scritto in un post il presidente Ghani dopo la cerimonia, “è un altro grande passo sulla via del rafforzamento e dell’allargamento delle relazioni tra Afghanistan e India”. Per Modi sarà il simbolo dell’amicizia tra i due grandi vicini  e “porterà speranza, luce nelle case, nutrimento per le fertili terre di Herat e prosperità ai popoli della regione.”

Nel triangolo delle relazioni centroasiatiche resta l’incognita del terzo elemento, l’amico allontanato che vede il suo nemico subentrare nel rapporto. L’Afghanistan è stato a lungo sottoposto alla sfera di influenza del Pakistan e l’India ha spesso preferito tenersi a distanza. Questo avvicinamento tra Nuova Dheli e Kabul, anche sul piano della cooperazione militare, non può che mettere in agitazione il governo pachistano ed il potente sistema di servizi militari, che per anni hanno considerato l’Afganistan come il cortile di casa. Anche sull’annosa questione del Kashmir potrebbe esserci ripercussioni, poiché l’Afghanistan, con le sue propaggini orientali, si affaccia sulla regione contesa. 

 

Luca Marchesini

Cina: Xinjiang, bilinguismo per ridurre tensioni etniche

Asia/BreakingNews di

L’apice della tensione etnica nella Regione autonoma dello Xinjiang, in Cina, si raggiunse nel luglio 2009, quando nella capitale Urumqi  migliaia di uiguri si scontrarono con gruppi di etnia han. Le forze di polizia, inviate a sedare gli scontri, si trovarono ben presto a fronteggiare entrambi gli schieramenti e risposero duramente. Secondo le cifre ufficiali diffuse dalle autorità cinesi le sommosse si conclusero con 197 morti e 1721 feriti. Altre fonti, vicine agli Uiguri, affermano che le vittime furono in realtà alcune centinaia. La stessa Human Rights Watch testimoniò che vi furono rastrellamenti della polizia nei giorni successivi agli scontri, con la successiva scomparsa di decine di militanti di etnia uigura.

La tensione tra Uiguri e Han va avanti da molti decenni, di fatto da quando, nel 1949, l’Esercito di Liberazione Popolare prese il controllo di quella che veniva chiamata la Seconda Repubblica del Turkestan Orientale, annettendola alla nascente Repubblica Popolare Cinese. Che si sia trattato di invasione imperialista o di annessione pacifica con il beneplacito degli abitanti è da allora tema di discussione e scontro. Di certo, il forte movimento indipendentista che dice di rappresentare il 45% della popolazione di etnia uigura e religione musulmana contro l’invadenza sociale e demografica della Cina degli Han, il gruppo principale dell’intero paese, si è sempre battuto per preservare la specificità culturale delle minoranze dello Xinjiang arrivando più volte allo scontro aperto con le autorità dello stato centrale.

Dal 2009 non si sono più ripetuti episodi di simile gravità, ma gli incidenti non sono mancati e le tensioni permangono. Gli Han, che rappresentano il 41 % della popolazione contro il 45 % degli Uiguri, lamentano discriminazioni su vari fronti, tra cui quello lavorativo. Gli Uiguri e le altre minoranze della la più grande divisione amministrativa della Repubblica Popolare continuano invece ad opporsi a quello che considerano l’imperialismo culturale cinese, il cui principale strumento viene identificato nell’imposizione della lingua mandarina come idioma ufficiale ai danni delle lingue autoctone di derivazione turcomanna.

Per allentare le tensioni e tentare di avviare un processo di pacificazione etnica, le autorità centrali hanno deciso di promuovere una campagna per la diffusione del bilinguismo in età prescolare, così da permettere alle nuove generazioni di padroneggiare sia il mandarino che la lingua indigena. Lo Xinjiang potrà dunque usare fondi del governo centrale per portare da due a tre anni il periodo di educazione prescolare bilingue previsto per le aree rurali nel quadriennio 2016-2020. Lo scopo è portare l’85% dei bambini della regione, entro il 2020, ad avere accesso a questi programmi.

Lo stanziamento previsto per il primo anno è di 154 milioni di dollari, per la costruzione di 552 asili bilingue nella regione autonoma, a partire dalle zone rurali del sud.

 

Luca Marchesini

Il Congresso rafforza il potere di Kim Jong-Un

Asia/BreakingNews di

Il Congresso Generale del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, iniziato venerdì scorso a 36 anni di distanza dal precedente, prosegue secondo programma, consolidando ulteriormente il potere del presidente Kim Jong-Un, succeduto nel 2011 al padre Kim Jong-Il.

Domenica 8 maggio la televisione di stato ha trasmesso un lungo discorso con il quale leader supremo, di fronte a 3400 delegati giunti da ogni angolo del paese, ha annunciato un nuovo piano quinquennale per restituire slancio alla sofferente economia nazionale. Nonostante l’enfasi con il quale è stato presentato, il nuovo piano non fa intravedere cambiamenti profondi né a livello politico né sul piano economico.

In effetti, il presidente nord-coreano è stato avaro di dettagli, riferendosi vagamente alla necessità di una maggiore automazione dell’industria e del settore agricolo e ad un incremento della produzione di carbone nel corso del prossimo lustro. Gran parte del discorso si è focalizzato sulla celebrazione degli sforzi e dei progressi fatti dal paese negli ultimi 36 anni, con frequenti riferimenti all’ideologia della Juche, centrata sui concetti di autonomia e autosufficienza. Al contempo, il leader ha auspicato un incremento del commercio estero, mostrando scarsa considerazione per l’irrigidimento delle sanzioni economiche voluto dall’ONU dopo i test nucleari condotti nel gennaio scorso.

In un paese che, nonostante tutto, cresce di circa un punto percentuale di PIL ogni anno, Jong-Un ha sottolineato il bisogno di individuare nuove risorse energetiche che possano generare elettricità a sufficienza per sostenere lo sviluppo, in un paese da sempre alle prese con frequenti black-out, che interessano anche la capitale PJongyang. A tale scopo, la Corea del Nord intende puntare sul nucleare e sull’incremento di fonti energetiche rinnovabili.

Il presidente ha fatto anche riferimento all’arsenale nucleare, sul cui sviluppo si stanno concentrando gli sforzi maggiori del regime. In una dichiarazione dal sapore distensivo, Kim ha assicurato che la Corea del Nord non intende fare ricorso alle armi atomiche, a meno che “la sua sovranità non sia messa in pericolo dall’aggressione di altre potenze nucleari”.

Un approccio insolitamente diplomatico ha caratterizzato anche i riferimenti alla Corea del Sud, con la quale il regime vorrebbe tornare a dialogare per abbassare il livello di tensione. Un’offerta aspramente respinta, a stretto giro di boa, dal Ministro per l’Unificazione del Sud: “mentre parla di dialogo inter-coreano continua a sviluppare il suo arsenale nucleare”, ha affermato, bollando le dichiarazioni di Kim Jong-Un come mera propaganda.

Il giorno successivo, quasi a confermare le diffidenze sud-coreane, il Partito dei Lavoratori ha deciso formalmente, durante il congresso, di rafforzare ulteriormente l’arsenale nucleare del paese “a scopo di auto-difesa”, sfidando nuovamente l’Onu e il suo sistema di sanzioni.

Benché non sia stata ancora ufficializzata una data di chiusura, il congresso dovrebbe proseguire ancora per alcuni giorni. I media stranieri sono stati invitatati a presenziare allo storico evento ma, fino ad oggi, i giornalisti non hanno potuto varcare le porte del grande Palazzo della Cultura, la cui platea si estende su una superficie pari a due campi da calcio. I cronisti hanno preso parte ad alcune visite guidate, sotto lo sguardo attento dei funzionari del partito ma, di fatto, non hanno ancora potuto svolgere il lavoro per il quale erano stati accreditati.

Il clima, per la stampa, non è comunque facile. Lo scorso venerdì i membri di un team della BBC, inviato a coprire il congresso, sono stati posti in stato di arresto e successivamente espulsi. Secondo quanto riportato da un’agenzia di stampa cinese, i britannici sono stati accusati di aver “attaccato il sistema della DPRK (Repubblica Democratica Popolare di Corea) e di aver riportato i fatti in modo non-obiettivo”.

Mentre la stampa straniera fa i conti con l’idea nord-coreana di obiettività, il leader supremo del paese rafforza ulteriormente il suo potere. Lunedì, infatti,i delegati hanno insignito Kim Jong-Un di un nuovo titolo: Presidente del Partito dei Lavoratori, carica che si affianca a quella di primo segretario.

 

Luca Marchesini

Cina: rinnovato sistema sorveglianza cittadini

Asia di

La Cina, come tutti i sistemi autoritari, ha la necessità costante di tenere sotto controllo i propri cittadini, per monitorarne i comportamenti, anticipare possibili conflitti e predisporre soluzioni adeguate ai problemi.

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L’ostacolo principale, per il gigante asiatico, è la sua stessa dimensione. Approntare standard di sorveglianza efficaci per un miliardo e 375 milioni di abitanti non è evidentemente un compito semplice. Le autorità del governo centrale hanno però messo a punto un nuovo sistema che potrebbe rendere i meccanismi di controllo maggiormente efficienti.

Il suo nome è “sistema di gestione a griglia” e, una volta implementato su scala nazionale, potrebbe consentire al Partito Comunista Cinese di esercitare una capacità di sorveglianza mai sperimentata prima.

Fino ad oggi, le informazioni raccolte dalle autorità cinesi provenivano da una pluralità di fonti diverse. L’eccessiva articolazione, unita alla spaventosa mole delle informazioni, rendevano l’analisi dei dati raccolti complessa e farraginosa. Negli ultimi cinque anni la Cina ha dunque lavorato su un programma all’avanguardia capace di razionalizzare tale analisi, facendo affidamento su un database ordinato e coerente al suo interno.

Il cardine del nuovo sistema è l’amministratore di griglia. Su ogni centro abitato viene applicata una griglia, composta da un certo numero di quadranti. Nel caso di una grande città, i settori saranno anche migliaia. Ogni amministratore, su mandato delle autorità, ha il compito di tenere sotto controllo un quadrante e le abitazioni al suo interno, fino a un massimo di duecento.

Il funzionario raccoglie informazioni relative ad ogni caseggiato di sua competenza e le inserisce in un apposito formulario che andrà poi a comporre, insieme agli altri, un enorme database complessivo.  I dati possono riguardare i prezzi degli affitti, il numero di abitanti, i loro luoghi di lavoro, a che ora escono da casa e a che ora rientrano.

L’amministratore ha anche il compito di tenere occhi ed orecchie aperte, per registrare eventuali lamentele o proteste da parte dei cittadini, su qualunque argomento. Ogni rimostranza viene poi trascritta sul database come possibile minaccia. Le autorità, locali o centrali, analizzando i dati così aggregati, potranno capire se in un certo territorio si stanno manifestando espressioni diffuse di malcontento ed intervenire d’anticipo, prima che la protesta monti ulteriormente. La risposta non sarà necessariamente poliziesca; quel che conta, per le autorità, è la prevenzione di ogni forma organizzata di conflitto e la salvaguardia della stabilità sociale.

La capacità di controllo sarà un elemento sempre più importante per il governo centrale, dal momento che il rallentamento della crescita economica e il consolidamento di un feroce sistema industriale sembrano destinati ad esacerbare le diseguaglianze economiche e sociali fra i cittadini e ad alimentare il fuoco della protesta.

 

Luca Marchesini

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Mitsubishi: dati emissioni truccate

Asia di

Un nuovo “caso VolksWagen” si profila sull’orizzonte del sol Levante, seppur su scala minore. E’ di ieri la notizia che la Mitsubishi Motors, storica casa giapponese di automobili (e non solo), ha ammesso di aver truccato i dati relativi all’efficienza energetica di alcuni suoi veicoli.

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Il presidente del gruppo Tetsuro Aikawa ha indetto una conferenza stampa a Tokio per scusarsi con i clienti, e gli stakeholders della Mitshubishi, rivelando che i dati relativi a 625 mila veicoli sono stati manipolati in modo improprio per aumentare i valori del chilometraggio e simulare un minore consumo di carburante. 157 mila di questi sarebbero marchiati Mitsubishi, mentre i restanti 468 mila sarebbero stati prodotti per la Nissan. In tutti i casi si tratta di mini auto con una cilindrata di 660 cc, molto popolari sul mercato nipponico.

La compagnia ha inoltre ammesso di aver violato la legge nipponica, adottando metodologie di test irregolari sin dal 2002. La rivelazione ha spinto  Ministero dei trasporti giapponese ad avviare un’indagine giudiziaria per verificare l’effettiva portata della falsificazione e del danno relativo inflitto ai consumatori.

L’unica danno certo, per ora, è quello che la Mitsubishi ha inflitto al valore delle sue stesse azioni: dopo la conferenza stampa di Aikawa, infatti, il valore di capitalizzazione sulla borsa di Tokio è crollato del 15 per cento: una dura battuta di arresto per i profitti del sesto produttore giapponese di veicoli a motore, fino a quel momento sospinti dalla crescita della domanda globale di automobili.

I problemi, del resto, potrebbero non limitarsi ai veicoli fino ad ora identificati, poiché il gruppo sta svolgendo ulteriori indagini interne per stabilire se anche le macchine vendute fuori dal Giappone siano state testate con le stesse irregolari metodologie.

Secondo una prima stima fatta da un analista di JP Morgan, lo scandalo potrebbe costare alla holding circa 50 milioni di Yen (450 milioni di dollari), comprensivi dei risarcimenti e dei costi di sostituzione delle parti non a norma delle auto. Ma il vero danno, per la casa nipponica, potrebbe essere la compromissione dell’affidabilità del brand, le cui ricadute in termini economici non sono al momento quantificabili.

Le rivelazioni hanno prodotto un’immediata reazione da parte delle autorità giapponesi. La polizia ha condotto un blitz in una delle sedi principali della Mitsubishi Motors, nella città di Okazaki, per raccogliere documentazione ed ha intimato alla società di fornire, entro il limite tassativo del 27 aprile, un rapporto dettagliato sulla situazione e sui test fino ad ora condotti sui veicoli. Lo scopo delle autorità è capire come siano stati falsificati i test e verificare che lo scandalo non abbia proporzioni maggiori di quelle fino ad oggi emerse.

Non è la prima volta che la Mitsubishi si trova costretta a riconquistare la fiducia dei consumatori. All’inizio degli anni 2000 il colosso giapponese dovette affrontare un altro scandalo, quando emerse che alcune sue automobili presentavano una serie di gravi difetti, con freni e frizioni mal funzionanti e serbatoi che si staccavano dal veicolo durante la marcia.

Lo scandalo Walkswagen, costato alla casa di Wolfsburg 6,7 miliardi di dollari e la perdita di importanti quote di mercato, non è dunque rimasto un caso isolato e solo il futuro ci dirà quanti altri produttori hanno truccato i dati sulle emissioni, truffando i consumatori, per aggiungere qualche zero ai propri profitti.

 

Luca Marchesini

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Aung San Suu Kyi vuole liberare i prigionieri politici

Asia di

Dopo il giuramento di Htin Kyaw, il primo presidente democraticamente eletto del Myanmar dopo 56 anni di dittatura militare, continua il percorso di cambiamento del paese del sud-est asiatico.

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Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), di cui il governo è diretta espressione, non ha potuto assumere il ruolo di Primo Ministro a causa di una norma costituzionale che era stata introdotta dalla giunta militare per scongiurare il rischio di una sua salita al potere. L’”Orchidea di acciaio” però, fin dalla campagna elettorale conclusasi con le elezioni dello scorso novembre, aveva promesso ai cittadini del Myanmar che, in caso di vittoria, avrebbe governato il paese anche senza essere premier.

Per permetterle di rispettare l’impegno, il nuovo Parlamento ha creato una posizione ad hoc per San Suu Kyi, assegnandole il ruolo di Consulente di Stato. In tale veste ufficiale, la leader del partito può direttamente contattare e convocare ministri, dipartimenti, organizzazioni, associazioni e singoli individui per discutere delle questioni al centro dell’agenda di governo. Una posizione che, di fatto, permette a Suu Kyi di governare indirettamente, attraverso il Presidente “delegato” Htin Kyaw.

Una delle prime questioni su cui Aung San Suu Kyi intende far valere il suo peso è quella dei prigionieri politici. Giovedì scorso il premio nobel, con un post su Facebook, ha affermato la sua intenzione di impegnarsi per un’amnistia di massa che permetta la liberazione dei prigionieri politici, degli attivisti  e degli studenti incarcerati dalla giunta militare nel corso degli ultimi anni.

L’incarcerazione arbitraria di migliaia di attivisti per la democrazia è stata una drammatica costante durante i decenni della dittatura, e la stessa Suu Kyi ha vissuto per 15 anni agli arresti domiciliari. Anche molti dei parlamentari recentemente eletti hanno provato sulla propria pelle la repressione del regime e le privazioni  della vita del carcere.

Il governo di transizione semi-civile, che è stato al potere dal 2011 al 2015, aveva già concesso la libertà a centinaia di detenuti politici, ma secondo le stime ci sono ancora 90 attivisti imprigionati e altri 400 in attesa di giudizio. Circa 70 di questi sono studenti arrestati prima delle elezioni dello scorso novembre con l’accusa di aver partecipato ad assemblee illegali o di aver preso parte, nel marzo 2015, alle proteste di piazza contro la riforma scolastica, duramente represse dalla polizia. Dopo più di un anno, i processi in molti casi devono ancora giungere a sentenza.

La decisa iniziativa di Suu Kyi, che fa presagire un intervento diretto, a breve, da parte del premier Kyaw, potrebbe spingere il pubblico ministero a far cadere le accuse contro gli studenti. Le difficoltà però sono ancora molte, considerando anche le profonde inefficienze del sistema giudiziario del Myanmar.

Il primo dei problemi, ancora una volta, è rappresentato dall’esercito, a cui l’attuale costituzione garantisce un quarto dei seggi parlamentari e la  guida di alcuni tra i ministeri più importanti. Il potere dei militari, in Myanmar, è stato mutilato ma è ancora forte e diffuso. Ogni riforma democratica dovrà inevitabilmente fare i conti con le loro resistenze.

 

Luca Marchesini

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Luca Marchesini
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