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Libia: sì al governo di unità nazionale

Il governo di unità nazionale libico si farà. L’accordo, raggiunto nella tarda serata di giovedì 8 ottobre, è stato firmato da tutte le fazioni in gioco, compreso l’esecutivo di Tripoli, il quale, dopo molte reticenze, ha detto sì alla bozza del 21 settembre scorso avallata dalle altre parti in gioco. Il ruolo di Primo Ministro, secondo quanto annunciato dal delegato Onu Bernardino Leon, dovrebbe spettare a Fayez Serray, ex Ministro della Casa in uno degli esecutivi del dopo Gheddafi.

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“Esprimiamo la nostra gioia perché c’è almeno una chance – ha affermato Leon -. Secondo le agenzie Onu, 2,4 milioni di persone sono in una grave condizione umanitaria. A tutti loro vanno le nostre scuse per non essere stati capaci di proporre prima questo governo”.

Dopo circa un anno di trattative pronte a naufragare da un momento all’altro, Leon, a fine incarico in Libia, è riuscito a portare a termine l’accordo tanto atteso. Pur con i distinguo da parte delle ali estreme dei due esecutivi, i governi di Tobruk e Tripoli si sono impegnati a scegliere il futuro Consiglio dei Ministri. Mentre le Nazioni Unite hanno già nominato i tre vicepresidenti che comporranno, assieme al premier, il Consiglio di Presidenza.

Moussa Kony, indipendente e proveniente da Fezzan. Ahmed Maemq, membro del Congresso Generale Nazionale di Tripoli. Fatj Majbari, proveniente dalla Cirenaica ma non fedele al generale Khalifa Haftar.

La comunità internazionale ha accolto con soddisfazione l’accordo. Adesso, si apre la fase della formazione del governo e del possibile intervento militare, sotto l’egida delle Nazioni Unite e a possibile guida italiana, contro lo Stato Islamico: “Ora i partiti libici sostengano l’intesa che va incontro alle aspettative del popolo libico, nel cammino verso la pace e la prosperità. L’Ue -ha annunciato- è pronta a offrire un immediato e concreto sostegno finanziario di 100 milioni di euro al nuovo governo”, ha annunciato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini.

Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon auspica che “non venga sprecata questa opportunità per mettere il Paese sulla strada della costruzione di uno stato che rifletta lo spirito e le ambizioni della rivoluzione 2011″.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni, il quale ha espresso “soddisfazione per il risultato conseguito  nella notte dalle delegazioni delle formazioni libiche. Si tratta di un’importante tappa del percorso verso l’auspicabile creazione di un governo di unità nazionale. Ora è fondamentale che  tutte le parti approvino l’intesa raggiunta questa notte e procedano alla firma dell’accordo”.  – ha detto  il Ministro –  “L’Italia, nel riconoscere l’incessante sforzo compiuto dall’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon –  ha concluso Gentiloni –  continuerà a dare il suo sostegno alle prossime tappe verso la pace e la stabilità della Libia”.

Giacomo Pratali

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Libia: la comunità internazionale aspetta Tripoli

Settimana decisiva per la composizione del governo di unità nazionale. Il ministro degli Esteri Gentiloni e il mediatore Onu Leon sono in pressing sul premier Abusahmin. All’orizzonte si profila un possibile intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Isis però diffonde un video in cui minaccia l’esecutivo di Tobruk.

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“Questo è un avvertimento ad Haftar e ai suoi compagni, gli atei che si riuniscono nel Parlamento, noi non saremo tolleranti, avremo piacere a sgozzarvi”. Queste le parole pronunciate dal jihadista Abu Yahya Al-Tunsi in un video diffuso in rete dall’Isis libico e dal titolo “Messaggio di Sirte”. Le minacce dirette al governo di Tobruk arrivano nella settimana decisiva per la formazione del governo di unità nazionale, sul quale deve sciogliere le riserve l’esecutivo di Tripoli.

Proprio non più tardi del 1° agosto, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il mediatore Onu Bernardino Leon hanno incontrato il premier di Tripoli Nuri Abusahmin. Nell’incontro, avvenuto in Algeria, si è cercato di dare un seguito all’accordo di Shikat di due settimane fa in cui tutte le fazioni, a parte il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, hanno messo nero su bianco la firma per l’istituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante le molte difficoltà nei negoziati in questi ultimi mesi, il fatto che Tripoli abbia continuato a negoziare, può far presagire che l’accordo non sia poi così distante.

C’è tuttavia urgenza da parte delle istituzioni internazionali. Un’istituzione governativa stabile, infatti, darebbe il via libera ad una possibile missione militare, ormai chiesta a gran voce dalla comunità internazionale, sotto l’egida Onu. I Paesi in campo sarebbero l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano La Repubblica, fornirebbero solo l’appoggio logistico all’operazione.

Intanto, il 3 agosto un altro video è stato diffuso in rete. Il filmato documenta le torture subite da Saadi Gheddafi, secondogenito del Rais, nel carcere di Tripoli. Immagini quanto mai eloquenti e quanto mai dure che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura Generale di Tripoli.
Giacomo Pratali

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Libia: l’accordo è monco

Primo passo nelle trattative per la costituzione di un esecutivo di unità nazionale, dirette dal mediatore Onu Leon. Il governo di Tobruk e i rappresentanti delle altre fazioni hanno ufficializzato il proprio consenso dopo mesi di trattative. Ma manca ancora l’adesione indispensabile di Tripoli.

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Domenica 12 luglio, è stato messo nero su bianco l’accordo per il governo di unità nazionale libico. A Skhirat (Marocco) il governo di Tobruk e i rappresentanti di Zintan, Misurata e di altre fazioni hanno sottoscritto il patto già nell’aria dal 3 luglio scorso. Un passo in avanti, visto il lungo lavoro del mediatore Onu Bernardino Leon. Ma un’intesa monca, visto che manca il consenso dell’esecutivo di Tripoli.

Le reazioni, tuttavia, sono state positive. Per Leon e e per i rappresentanti di Tobruk si tratta di “un primo ed importante passo verso la pace”. Mentre il governo italiano, attraverso il ministro degli Affari Esteri Gentiloni, saluta l’accordo come “un motivo di speranza e ci incoraggia a proseguire nell’impegno negoziale. Tocca adesso a Tripoli compiere un gesto importante e responsabile, aderendo all’accordo proposto dal Rappresentante Speciale ONU Bernardino Leon, con il pieno sostegno anche dell’Italia”, conclude il titolare della Farnesina.

Intanto, sul fronte interno, Derna, città portuale della Cirenaica, è ormai stata “persa dallo Stato Islamico”, come ha ammesso un miliziano dal volto coperto in un video diffuso sul web. Mentre gli Stati Uniti stessi, consapevoli dell’impasse politico-istituzionale del Paese, hanno deciso di rompere gli indugi e, in accordo con altri Stati africani, sarebbero pronti ad impiegare droni contro le roccaforti del Daesh in Libia. Sia il presidente Obama sia il premier della Gran Bretagna Cameron hanno evidenziato, nelle uscite pubbliche di questi giorni, che l’Isis si può sconfiggere. Ma, al tempo stesso, hanno entrambi escluso l’impiego di forze militari tradizionali a vantaggio di tecnologie che non implichino l’utilizzo diretto di truppe.
Giacomo Pratali

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Libia, Gentiloni: “Nessun intervento militare”

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Il titolare della Farnesina respinge l’ipotesi di una risoluzione Onu a favore di un’eventuale operazione armata. Intanto, il tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti da Leon rischia di saltare a causa dell’ostilità di Haftar.

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“Nessun intervento militare è stato deciso né dall’Unione Europea né dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Con queste parole, pronunciate venerdì 15 maggio durante la trasmissione Agorà su Rai3, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni smentisce l’ipotesi di un’operazione armata da condurre presso le coste libiche, nell’ambito del contrasto alla crescente immigrazione proveniente dal continente africano. Ipotesi trapelata attraverso la stampa italiana ed internazionale.

Il Capo della Farnesina ha comunque precisato che, un’eventuale risoluzione positiva delle Nazioni Unite lunedì 18 maggio, “autorizzerebbe solo la confisca e il sequestro di barconi in mare e l’individuazione attraverso meccanismi di intelligence in acque territoriali prima che vengano imbarcati i migranti”. Questo perchè “bisogna organizzare combattere la criminalità rendere più sopportabili le condizioni nei Paesi di origine”. Un’azione possibile solo se viene suddividiso “il peso della situazione tra i Paesi europei: in questo senso è stato fatto qualche passo avanti”, ha precisato Gentiloni.

Se il governo di Tripoli sembra accogliere in senso positivo la discussione dell’Europa e della comunità internazionale, altrettanto non si può dire per l’esecutivo di Tobruk. Khalifa Haftar, Capo delle Forze Armate, si è dichiarato preoccupato da una possibile “azione militare contro le nostre coste”. Non solo. Passando dalle parole ai fatti, lunedì 11 maggio ha dato il via libera per il bombardamento di una nave mercantile turca, rea di “non aver rispettato l’ordine di non avvicinarsi alla città di Derna”, ha affermato ancora l’ex agente della Cia. L’azione ha causato l’uccisione di un membro dell’equipaggio, mentre Ankara ha fatto sapere che ricorrerà in sede giudiziaria a livello internazionale.

Un tira e molla continuo che di fatto non favorisce le estenuanti trattative condotte da oltre due mesi dal delegato Onu Bernardino Leon. Il suo ottimismo circa un accordo tra i governi e le fazioni contrapposte a beneficio dell’unità nazionale libica sembra scontrarsi con la realtà.

Una realtà che parla di guerra civile. Una realtà che coinvolge anche i bambini. Dopo i 3 morti di qualche giorno fa, altri 7 innocenti sono stati uccisi poche ore fa da un colpo di mortaio nella città di Bengasi. Secondo Associated Press, il fatto sarebbe attribuibile allo Stato Islamico e Ansar al Sharia e riguarderebbe in tutto 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia.

 

Giacomo Pratali

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Cina, Maitra: “Nessuna politica antiIslam: Xinjiang motore dello sviluppo economico”

Asia di

Lo sviluppo verso ovest. La questione degli Uiguri. La rinascita della Via della Seta. I rapporti con i Stati confinanti. Dal 2000, lo Xinjiang è divenuto per la Cina uno dei motori al servizio della sua preponderante crescita economica. Ma è anche una terra in cui l’identità e la religione locale, l’Islam, rischiano di scontrarsi con gli Han, la maggioranza etnica del Paese. Per affrontare questi temi, European Affairs ha intervistato Ramtanu Maitra, analista presso la sede statunitense della rivista Eir. Inoltre, egli collabora regolarmente con tre trimestrali indiani nel settore della Difesa: Aakrosh, Agni e The Indian Defence Review. In passato, ha scritto per la redazione online di Asia Times.

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Per gli Uiguri, le questioni indipendentiste e religiose vanno di pari passo?

“La religione non è sicuramente la questione più importante per gli Uiguri. Essi non sembrano pronti a sacrificare le proprie vite per salvaguardare la loro religione. Ma quando altri fattori entrano in gioco, come lo spostamento in massa degli Han nello Xinjiang da parte di Pechino, l’identità religiosa viene messa in mostra. In particolar modo, i seguaci dell’Islam, molti dei quali sono stati vittime del colonialismo occidentale in passato, hanno iniziato a riaffermarsi negli ultimi anni e a mostrare la forza della propria religione come un’arma efficace. Pechino ha mostrato poca sensibilità nei rapporti con i musulmani e non sembra comprendere che disonorarli, perfino in un Paese come la Cina dove i musulmani sono un ridottissima minoranza. Non permettere agli Uiguri, perfino a quei pochi impiegati come dipendenti, di non digiunare durante il Ramadan è una pratica che potrebbe ricompattare gli Uiguri più determinati e portarli in diretto contatto con gli islamici più radicali, i quali sono pronti a dichiarare la Jihad contro qualsiasi Paese non islamico”.

“Sono dell’opinione che la maggioranza degli Uiguri non abbia interesse ad arrivare all’indipendenza. Ci potrebbe essere qualcuno che, invece, è interessato, ma la gran parte di loro non vuole semplicemente essere inglobato dagli Han. Da quando Pechino ha adottato la politica dello sviluppo almeno di una minima parte dell’ovest del Paese (ovvero lo Xinjiang), in modo da poter accedere all’Asia Centrale, Meridionale e Sudorientale, questo ha portato con sé, e lo porterà anche in futuro, molti Han ad emigrare verso lo Xinjiang. Questi Han sono lavoratori qualificati, hanno una migliore retribuzione e sono arrivati nello Xinjiang con l’intento di radicare il più possibile le proprie famiglie”.

“Questi sono i problemi riguardanti gli Uiguri. Tuttavia, mentre molti di essi assistono passivamente a questo cambiamento demografico, penalizzante nei confronti della maggioranza etnica nello Xinjiang (un caso non differente da quello che è accaduto e che accadrà in Tibet), alcuni di ribelleranno a questa politica di stato tesa a distruggere la loro identità, la loro cultura, il loro stile di vita e ad imporre la cultura della riverenza verso gli Han. Quest’ultimo gruppo di Uiguri potrebbe parlare di indipendenza, ma essi non possono montare un caso per giustificare la loro indipendenza contro una grande potenza come la Cina. Allo stesso tempo, gli Uiguri di ieri e di oggi, che hanno vissuto o vivono una vita molto dura, accolgono con favore lo sviluppo che Pechino sta portando nello Xinjiang. Non esiste la possibilità che gli Uiguri si uniscano sotto un solo ombrello in una causa molto astratta come l’indipendenza dalla Cina”.
Il ripopolamento dello Xinjiang, attraverso lo spostamento in loco degli Han avvenuto negli ultimi 15 anni, ha avuto l’effetto contrario rispetto alla volontà del governo di sopprimere le istanze degli Uiguri?

“La politica di Pechino di portare l’etnia Han ad abitare nello Xinjiang non mira ad indebolire l’etnia Uiguri. Come ho fatto notare in precedenza, la Cina ha bisogno di sviluppare un’infrastruttura che le consenta l’accesso verso la parte occidentale del Paese, dove ci sono grandi giacimenti di petrolio e gas che Pechino potrebbe utilizzare per sostenere e far crescere la sua economia. Il processo ha fatto riversare la migrazione di una enorme quantità di Han nello Xinjiang, la terra degli Uiguri. Il processo ha anche modernizzato, e continuerà a farlo ulteriormente, molte parti dello Xinjiang. Gli Uiguri trarranno beneficio da tutto ciò, ma, al tempo stesso, entreranno quotidianamente in contatto con gli Han, molti dei quali non hanno ancora ben compreso le cose da fare e da non fare nella religione islamica, la loro cultura e l’attitudine isolazionista degli Uiguri. Alcuni Han potrebbero sentirsi in qualche modo superiori agli Uiguri. Queste differenze potrebbero portare a scontri e conflitti di tanto in tanto, ma non c’è nessuna ragione per credere che, nel corso dei prossimi anni, questi due gruppi etnici non saranno in grado di vivere fianco a fianco”.

“Tornando al tema della domanda, io ritengo che la politica messa in campo da Pechino non abbia lo scopo di sopprimere l’etnia Uiguri, anche se non è comprensiva nei loro confronti. Pechino ha ritenuto che non ci fossero ragioni di fare sforzi a livello sociale per integrare gli Uiguri con il resto della Cina. D’altra parte, se la Cina volesse sopprimere gli Uiguri, perché non gli Han sono stati fatti emigrare nello Xinjiang tra il 1950 e il 2000? Questo non è accaduto semplicemente perché non aveva ancora adottato la nuova politica di sviluppo economico relativamente alla Via della Seta”.
Il fatto che dal 2012 oltre 200 cinesi siano andati a combattere in Siria, fa della Cina uno degli Stati più a rischio a proposito della minaccia jihadista?

“No, questo è assurdo. Se migliaia di fondamentalisti islamici non hanno rappresentato una seria minaccia per 64 milioni di britannici, perché 200 islamisti dovrebbero rappresentare un qualche problema per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti? Questo non accadrà. La Cina non vuole utilizzare la forza per dialogare con gli Uiguri. La Cina vuole una “ascesa pacifica”. Atti violenti per frenare le rivolte degli Uiguri, per quanto piccole possano essere, verrebbero sottolineati con titoli da prima pagina dai media occidentali e sarebbero colte dai poteri forti in Occidente che intendono mostrare la Cina come spietata, intollerante agli altri gruppi religiosi e pronta ad esercitare l’uso della forza qualora non venisse seguito il proprio volere”.
Il passaggio della nuova Via della Seta e la presenza di risorse di gas e petrolio: l’aspetto economico è il vero motore della politica antiIslam di Pechino nello Xinjiang?

“In parte sì e in parte no. La Cina dovrà muoversi verso ovest se vuole arrivare al gas e al petrolio dell’Asia Centrale e della Penisola Arabia. Ma la Cina avrà anche bisogno di fare fruttare le risorse minerarie in funzione delle sue aziende produttrici in serie di una grande varietà di prodotti. Ma questa non sarà l’unica strada da perseguire. La Cina, con la sua ampia ed efficiente base di produzione, sarà attivamente alla ricerca di mercati in Asia Centrale e Sudoccidentale, Russia, Ucriana, Bielorussia, Crimea, Europa. Già nel Kyrgyzstan quasi tutti i prodotti venduti nei mercati hanno impressa la scritta “Made in China”. Questa è la parte affermativa della mia risposta”.

“La parte negativa, invece, è che la Cina non sta mettendo in atto nessuna politica antiIslam nello Xinjiang. Tutti i Paesi ad ovest di Pechino che sono in attesa di fornire alla Cina un accesso alle loro risorse energetiche e alle molte risorse di minerali, con l’eccezione d Russia e Georgia, sono tutte nazioni musulmane: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e l’intera Penisola Arabica”.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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