GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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giacomo pratali - page 8

Immigrazione: l’Ue muove i primi, ma incerti passi

EUROPA di

La vera partita tra gli Stati membri si gioca attorno alle quote di redistribuzione dei rifugiati siriani ed eritrei. Le altre nuove misure, tra cui l’allargamento del raggio d’azione di Frontex, potrebbero essere il primo passo verso una europeizzazione della questione migratoria.

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L’emergenza immigrazione nel Mediterraneo è divenuta un punto fisso dell’agenda Ue nell’ultimo mese. Per la prima volta, la questione viene trattata a livello comunitario. L’allargamento del raggio di competenza e l’istituzione di una nuova base logistica a Catania stanno portando Frontex, e di conseguenza le operazioni Triton e Poseidon Sea, sugli stessi livelli di Mare Nostrum. La vera partita tra gli Stati Membri, però, ruota attorno alla ricollocazione delle persone sbarcate sulle coste italiane e greche quest’anno.

Oltre 30000 sono stati i migranti sbarcati in Italia fino ad ora. La stessa cifra raggiunta, a sorpresa, dalla Grecia, divenuta meta privilegiata per siriani (la maggioranza) e iracheni che, passando attraverso la Turchia, non passano per la Libia, ma optano per la più sicura rotta verso le isole greche del Mar Egeo (Mitilene, Chios, Leros, Samos) situate a pochi chilometri dalle coste dall’Anatolia.

La ricetta proposta dal collegio dei commissari europei consta di vari punti. Quello più importante riguarda la redistribuzione dei profughi siriani ed eritrei sbarcati dopo il 15 aprile 2015. Anche se da Bruxelles non parlano di questione di “quote, ma di solidarietà minima”, il 15 e 26 giugno, prima il Consiglio dei Ministri Ue, poi il vertice dei leader, saranno le due date decisive per avvallare questa ricollocazione.

Nella proposta di legge, dei 40 mila profughi siriani ed eritrei totali (24mila sbarcati in Italia, 16 in Grecia) 8763 rifugiati dovrebbero spettare alla Germania, 6752 alla Francia e 4288 alla Spagna. Gli altri 20 Paesi si accollerebbero la restante parte. Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca non sono state previste in quanto contrarie. Mentre Parigi e Madrid, scettici su questo provvedimento, dovrebbero, secondo fonti europee, comunque accettare.

Gli altri punti riguardano l’introduzione dell’obbligo delle impronte digitali per tutti i migranti. La lotta al reinsediamento di 20mila campi profughi. L’istituzione di un ufficio dell’Unione Europea in Niger che valuti in loco le richieste d’asilo politico. Il nuovo piano Frontex, come detto prima.

Ma è il nodo quote che lascia perplessi. Se il caso greco ha raggiunto numeri impressionanti solo nel 2015, l’Italia ha visto, dopo le Primavere Arabe e la caduta di Gheddafi nel 2011, un progressivo aumento degli sbarchi sulle coste meridionali. Nel 2014, infatti, ben 170 mila sono stati gli sbarchi. Numeri destinati ad aumentare se le stime del Ministero degli Interni italiano, 200 mila arrivi entro il 2015, dovessero essere confermate.

Se andiamo al dato del 2014, possiamo osservare che solo il 7% dei migranti sarebbe preso in considerazione. Nel 2015, invece, circa 41mila siriani ed eritrei rappresenterebbero circa il 31%. Numeri risibili rispetto alla realtà dei fatti.

La ricerca di un piano strutturale da parte dell’Europa cozza con il numeri messi in campo. Sebbene l’intervento diretto nel contesto africano e l’allargamento e l’aumento dei fondi a Frontex vadano nella giusta direzione, quello che manca è una visione comune sulla questione migratoria. Una visione comune che viene meno perché, in apparenza, il problema sembra solo per Italia e Grecia.

Nella realtà dei fatti, il problema è europeo. Perchè non solo per i siriani Roma e Atene sono luoghi di passaggio. Da tempo, ormai, la maggioranza dei migranti di tutte le nazionalità ambiscono a raggiungere Germania, Norvegia e Svezia per due fattori. Il primo è perché sono i tra i Paesi europei più sviluppati e con una maggiore qualità della vita. Il secondo, non meno importante, è perché molti parenti e amici dei nuovi arrivati, essendosi stabiliti lì da molti anni, costituiscono un punto d’appoggio per iniziare una nuova vita.

Questo punto, unito alla fitta immigrazione proveniente dai confini dell’Europa orientale, dovrebbero fare riflettere sulla necessità di non limitare la ricollocazione ai soli rifugiati siriani ed eritrei.

Giacomo Pratali

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Frontex: “Triton estesa a 138 miglia a sud della Sicilia”

Difesa/EUROPA di

Il raggio di azione di Frontex sarà esteso a partire da quest’estate. In aggiunta, 3 aeroplani, 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri saranno a disposizione di Triton.

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“Abbiamo deciso di incrementare il numero dei mezzi nel Mediterraneo centrale per supportare al meglio le autorità italiane, impegnate nelle operazioni di controllo delle coste e di salvataggio delle vite umane, troppe delle quali hanno già tragicamente perso la loro vita quest’anno” – afferma Fabrice Leggeri, Direttore di Frontex -. “Il ruolo degli ufficiali militari risulta fondamentale perché mettono assieme i loro lavori d’intelligence svolti nei confronti dei criminali che operano in Libia e in altri paesi di passaggio”, aggiunge.

E ancora: “In questo modo, Frontex sta assistendo al meglio le autorità italiane e l’Europol nelle loro indagini e nei loro sforzi per smantellare le reti di trafficanti che lucrano sulle persone disperate”, conclude.

Dopo la decisione di aumentare i fondi nell’ultimo Consiglio Europeo, Triton in Italia e Poseidon Sea in Grecia saranno rispettivamente incrementati a 38 e 18 milioni di euro di finanziamenti da parte della Commissione Europea. La stessa che innalzerà a 45 milioni di euro i fondi con cui Frontex finanzierà entrambe le missioni.

26 Paesi europei, infine, contribuiranno, con i loro esperti e i loro mezzi tecnici, all’operazione Triton: Austria, Belgio, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, France, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito.
Giacomo Pratali

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Ucraina: 7 morti e 15 feriti nelle ultime 24 ore

EUROPA di

Tra le vittime ci sono ribelli filorussi, civili e un soldato dell’esercito. Nella giornata di domenica altri 7 militari separatisti sono rimasti uccisi in un attentato.

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Altre 7 morti e almeno 15 feriti tra lunedì 25 e martedì 26 maggio nel Donbass. Questo il bilancio degli scontri che continuano nell’est dell’Ucraina. Tra le vittime ci sono 4 miliziani, 2 civili (a seguito dei bombardamenti contro l’impianto siderurgico di Avdiyivka) e 1 soldato. A riportare le cifre sono stati Andrii Lisenko, Portavoce dell’esercito di Kiev, ed Eduard Basurin, Viceministro della Difesa di Donetsk.

Ma la tregua sancita dagli accordi di Minsk di febbraio continua a scricchiolare. Domenica 24 maggio, infatti, 7 soldati separatisti sono rimasti uccisi a seguito di un attentato sull’autostrada Lugansk-Perevalsk. Tra questi, Alexiei Mozgovoi, Comandante della ‘Brigata Fantasma’ e tra i più influenti leader del fronte filorusso. Le accuse sono ricadute fin da subito sul governo ucraino, ma Kiev ha risposto che l’omicidio sarebbe avvenuto dopo un regolamento di conti interno tra i ribelli.
Giacomo Pratali

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Libia: governo Tobruk colpisce petroliera a largo di Sirte

L’esecutivo riconosciuto a livello internazionale si è reso protagonista di una azione militare simile a quella contro il mercantile turco l’11 maggio scorso. I servizi segreti britannici, intanto, rivelano che la Francia e l’Italia sono diventate le corsie preferenziali dei foreign fighters che si arruolano tra le fila dell’Isis in Libia. Sullo sfondo, a sorpresa, si prospetta un intervento di ispezione e sequestro per i barconi partenti dalle coste libiche, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

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Ancora un bombardamento, stavolta contro una petroliera vicino a Sirte. Dopo l’attacco contro un mercantile turco l’11 maggio scorso, alcuni caccia del governo di Tobruk hanno colpito la nave che, secondo l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale, stava trasportando il greggio per un centrale elettrica in mano ad un gruppo terrorista vicino al governo di Tripoli. In più, c’era il sospetto che l’imbarcazione trasportasse con sé armamenti per i ribelli. Due componenti dell’equipaggio sono rimasti feriti.

Intanto, i foreign fighters, secondo il rapporto pubblicato dall’intelligence britannica, hanno sviluppato una nuova strategia per arruolarsi nello Stato Islamico in Libia. Per evitare i rigidi controlli aeroportuali, questi aspiranti jihadisti giungono in Francia via mare e, una volta in Italia, partono alla volta di Tunisi via traghetto. Da qui, poi, raggiungono Sirte e Derna, le città controllate dall’Isis.

Oltre alla partita dei combattenti di origine occidentale reclutati dal Califfato, l’altro fronte caldo è quello relativo all’immigrazione. Mercoledì 20 maggio, il governo di Tobruk ha spedito una lettera alle Nazioni Unite in cui apre ad un’azione comune assieme all’Unione Europea “al fine di sviluppare un piano d’azione per affrontare la crisi degli immigrati nel Mediterraneo”.

Una sostanziale ammissione di “incapacità della Libia di ridurre le migrazioni illegali”. Ma anche parole importanti, che vanno ad assecondare quello che la risoluzione Onu in materia dovrebbe dire: no al bombardamento e sì all’ispezione dei barconi prima che partano dalla Libia.

Una missione che, secondo fonti diplomatiche, dovrebbe avere il consenso di tutte le
parti in causa libiche e, quindi, anche del governo di Tripoli. In questo senso, la missione del mediatore Bernardino Leon di ricucire lo strappo istituzionale libico diventa cruciale.

Il futuro della Libia e la questione migratoria appaiono dunque correlati. “Il punto principale è decidere le operazioni europee in mare per smantellare le reti criminali e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. L’accordo tra i due governi è essenziale”, ha affermato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini, in missione a New York per sollecitare la comunità internazionale a prendere una decisione rapida sulla politica da attuare nel Mediterraneo.

La partita interna al Consiglio di Sicurezza sarà decisiva nei prossimi giorni. Anche se, forse, già segnata. Tra i membri permanenti, la Russia è quella che si è opposta ad un intervento militare. Ma il Cremlino, così come Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina, hanno dato il benestare ad un’operazione di polizia internazionale la quale, con solide basi legali, dia la “possibilità di ispezionare, sequestrare e neutralizzare le barche che sono sospettate di essere utilizzate per il traffico di migranti”, come recita il capitolo 7 della Carta Onu.
Giacomo Pratali

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Ucraina: soldati russi catturati “erano armati, ma non avevano ordine di sparare”

EUROPA di

L’Osce rende noti i dettagli della missione dei militari di Mosca, sorpresi a combattere con i ribelli del Donbass. Nonostante la quotidiana inosservanza del cessate il fuoco, la guerra civile appare in una fase di stallo. Mentre la Casa Bianca e il Cremlino fanno prove di disgelo, il prossimo inverno appare decisivo per le sorti del conflitto.

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“Erano armati, ma non avevano l’ordine di sparare. Uno di loro ha detto di avere ricevuto ordini dalla sua unità militare di andare in Ucraina”. È quanto comunicato dall’Osce dopo che, lunedì 18 maggio, due soldati russi erano stati catturati sul suolo ucraino mentre combattevano a fianco delle milizie filorusse. Dopo l’arrivo dei convogli militari lo scorso inverno, intercettati dai satelliti Usa, questa è la conferma definitiva di un’ingerenza esterna nella guerra civile nel Donbass. Un’ingerenza che fa seguito al video, risalente al gennaio 2015, in cui un soldato americano è stato filmato tra le fila dell’esercito di Kiev.

Ma la crisi in Ucraina, tuttavia, sembra essere ancora in fase di stallo. Malgrado i continui scontri, soprattutto nei pressi dell’aeroporto di Donetsk e attorno alla città portuale di Mariupol, confermino la fallacia del cessate il fuoco decretato dagli accordi di Minsk di febbraio. La vera resa dei conti sembra essere rinviata al prossimo inverno, quando tornerà in gioco la questione delle forniture di gas da parte di Mosca.

La guerra fredda che ne consegue ha intanto dato i primi, timidi segnali di disgelo. Gli incontri di metà maggio tra il segretario di Stato Usa Kerry e il presidente Putin, la prima visita ufficiale sul suolo russo dall’inizio della crisi ucraina, mostrano la volontà di dialogo tra le due parti.

Oltre ad avere parlato del caso Siria, della possibile vendita dei missili russi S-300 all’Iran e del conflitto in corso in Yemen, il futuro dell’Ucraina è stato al centro del dialogo intercorso tra le due amministrazioni. Gli Stati Uniti vogliono entrare a tutti gli effetti nel tavolo delle trattative composto da Russia, Ucraina, Francia e Germania, che ha portato al Protocollo di Minsk di febbraio.

Nell’incontro con il ministro degli Affari Esteri Lavrov, Kerry si è dimostrato concorde nell’evidenziare che, il rispetto di tali accordi, dovrebbe portare alla fine del conflitto civile nel Donbass. Ma altrettanto evidente è stato l’imbarazzo sulla volontà di Kiev di riprendersi manu militari Donetsk, nonché sulle sanzioni economiche imposte a Mosca.

La presenza, in questo caso ufficiale, delle truppe militari statunitense nella base Nato di Javorov (vicina al confine con la Polonia) è motivo di frizioni con la Russia. Qui, da aprile, sono in corso l’addestramento di quasi 1000 milizie dell’esercito ucraino. Ed è proprio questo punto a frenare una vera e totale distensione tra Washington e Mosca.

Se a questo, aggiungiamo le continue dichiarazioni antirusse del presidente ucraino Poroshenko e del premier Yatseniuk, vediamo che la definizione di questa crisi geopolitica appare distante. Da una parte, Kiev accusa il Cremlino di avere mire antioccidentali e chiede aiuti economici e militari a Stati Uniti ed Unione Europea. Dall’altra parte, Mosca non intende rinunciare alle regioni russofone in territorio ucraino (Donetsk, Lugansk e la Crimea), che considera la risposta allo schieramento di forze e armamenti militari Nato negli Stati un tempo facenti parte del Patto di Varsavia.
Giacomo Pratali

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Moas, Xuereb: “L’immigrazione nel Mediterraneo è una questione internazionale che richiede una soluzione globale”

EUROPA di

L’Unione Europea e le Nazioni Unite stanno trattando questa emergenza nell’intento di non lasciare sole Italia e Malta. Riguardo a queste questioni, European Affairs ha intervistato Martin Xuereb, Direttore Migrants Offshore Aid Station (Moas), l’organizzazione non governativa impegnata nel salvataggio dei migranti in arrivo dall’Africa.

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Quando e perché è stato fondato Moas?

“Moas è stato fondato nel 2014. l’idea è venuta a Regina e Christopher Catambrone dopo il naufragio di 400 migranti avvenuto vicino alle coste di Lampedusa durante l’estate del 2013. Dopo la visita del Papa, sempre nel 2013, quando egli chiese fortemente di aiutare queste persone in qualsiasi modo, Regina e Christopher hanno avuto la scintilla. Essi hanno iniziato a pensare ad un’organizzazione che salvasse la vite a rischio nel Mediterraneo. Io sono stato coinvolto nel febbraio 2015, quando mi è stato chiesto aiutare, prestare soccorsi e salvare i migranti. Noi siamo un ente privato e dipendiamo dalle donazioni fatte dalle persone. Speriamo che il nostro messaggio, che la vita è preziosa e non importa a chi appartiene, sia fonte d’ispirazione per gli altri affinché donino”.

 

In cosa consiste la vostra attività?

“Noi abbiamo iniziato a lavorare lo scorso anno. Dopo 16 giorni di operazioni in mare aperto, avevamo già salvato 3000 persone. Poi, siamo tornati a settembre e a fine ottobre abbiamo iniziato a pensare alla missione del 2015. Adesso, a differenza dello scorso anno, collaboriamo con Msf. Essi hanno il compito di provvedere all’assistenza e al salvataggio delle persone. Moas, invece, possiede una nave di 40 metri (Phoenix), due Remote Piloted Aircraft e due Rhibs: questi ultimi hanno la possibilità di spostarsi e volare se abbiamo necessità di avere informazioni urgenti. Tutti questi mezzi vengono diretti dal Rescue Coordination Center. In più, abbiamo due gommoni che possono servono quando un’imbarcazione in alto mare necessita di assistenza. La scelta di fare salire a bordo i migranti viene fatta sempre assieme al Rescue Coordination Center. Quando le persone sono a bordo, Msf, con i loro dottori, infermieri e mezzi logistici, provvede alle loro cure mediche e li tiene costantemente monitorati”.

 

Quanto sono determinanti le competenze professionali acquisite durante le operazioni di salvataggio umanitario in mare aperto?

“Cercare di salvare le persone in un contesto così difficile è molto impegnativo. Servono capacità, conoscenze e attitudine al rischio. Ovviamente, serve passione per un lavoro del genere, ma ancora più importante è l’essere capaci di lavorare professionalmente perché in gioco ci sono le vite delle persone”.

 

Quali risultati avete conseguito?

“3000 persone sono state salvate nei 60 giorni di operazioni svoltesi nel 2014. Nel 2015, dopo essere partiti il 2 maggio, abbiamo salvato 1441 persone da imbarcazioni alla deriva nel Mediterraneo: di questi, 106 bambini, 211 donne e 1124 uomini”.

 

Con quali istituzioni ed enti collaborate?

“Prima di tutto con il Rome’s Maritime Rescue Coordination Centre e con il centro omologo maltese. Essi hanno il compito di coordinare le missioni di salvataggio e noi, a nostra volta, siamo ben lieti di collaborare con loro. Essi sono molto soddisfatti delle nostre capacità e del fatto che non utilizziamo solamente imbarcazioni per il mare aperto, bensì anche droni e cliniche mediche a bordo. Infatti, come tutte le altre navi, anche noi abbiamo l’obbligo per legge di prestare soccorso ad imbarcazioni alla deriva. Ma, la differenza tra noi e le navi mercantili, è che il salvataggio delle vite umane è la nostra missione”.

 

Dopo che il Consiglio Europeo ha deciso di triplicare i fondi per “Triton”, l’immigrazione è davvero divenuto un tema europeo?

“Io ritengo che questa sia una questione internazionale che richiede una soluzione globale. Noi volgiamo dire che l’Europa deve dimostrarsi più attiva in questa vicenda. Vorremmo intravedere una prospettiva di largo respiro. Penso che tutti dovrebbero essere consapevoli che, la maggior parte dei salvataggi, viene condotta in acque internazionali. Per questo motivo, perché l’Italia dovrebbe prendersi da sola tutta la responsabilità? Queste operazioni dovrebbero essere coordinate da qualcun altro. E credo anche che non solo gli stati, ma anche aziende private ed enti dovrebbe interessarsi alla questione. Come Moas, assieme a Msf, vogliamo portare sul tavolo un nuovo modus operandi”.

 

Giacomo Pratali

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Libia, Gentiloni: “Nessun intervento militare”

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Il titolare della Farnesina respinge l’ipotesi di una risoluzione Onu a favore di un’eventuale operazione armata. Intanto, il tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti da Leon rischia di saltare a causa dell’ostilità di Haftar.

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“Nessun intervento militare è stato deciso né dall’Unione Europea né dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Con queste parole, pronunciate venerdì 15 maggio durante la trasmissione Agorà su Rai3, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni smentisce l’ipotesi di un’operazione armata da condurre presso le coste libiche, nell’ambito del contrasto alla crescente immigrazione proveniente dal continente africano. Ipotesi trapelata attraverso la stampa italiana ed internazionale.

Il Capo della Farnesina ha comunque precisato che, un’eventuale risoluzione positiva delle Nazioni Unite lunedì 18 maggio, “autorizzerebbe solo la confisca e il sequestro di barconi in mare e l’individuazione attraverso meccanismi di intelligence in acque territoriali prima che vengano imbarcati i migranti”. Questo perchè “bisogna organizzare combattere la criminalità rendere più sopportabili le condizioni nei Paesi di origine”. Un’azione possibile solo se viene suddividiso “il peso della situazione tra i Paesi europei: in questo senso è stato fatto qualche passo avanti”, ha precisato Gentiloni.

Se il governo di Tripoli sembra accogliere in senso positivo la discussione dell’Europa e della comunità internazionale, altrettanto non si può dire per l’esecutivo di Tobruk. Khalifa Haftar, Capo delle Forze Armate, si è dichiarato preoccupato da una possibile “azione militare contro le nostre coste”. Non solo. Passando dalle parole ai fatti, lunedì 11 maggio ha dato il via libera per il bombardamento di una nave mercantile turca, rea di “non aver rispettato l’ordine di non avvicinarsi alla città di Derna”, ha affermato ancora l’ex agente della Cia. L’azione ha causato l’uccisione di un membro dell’equipaggio, mentre Ankara ha fatto sapere che ricorrerà in sede giudiziaria a livello internazionale.

Un tira e molla continuo che di fatto non favorisce le estenuanti trattative condotte da oltre due mesi dal delegato Onu Bernardino Leon. Il suo ottimismo circa un accordo tra i governi e le fazioni contrapposte a beneficio dell’unità nazionale libica sembra scontrarsi con la realtà.

Una realtà che parla di guerra civile. Una realtà che coinvolge anche i bambini. Dopo i 3 morti di qualche giorno fa, altri 7 innocenti sono stati uccisi poche ore fa da un colpo di mortaio nella città di Bengasi. Secondo Associated Press, il fatto sarebbe attribuibile allo Stato Islamico e Ansar al Sharia e riguarderebbe in tutto 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia.

 

Giacomo Pratali

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Cina, Maitra: “Nessuna politica antiIslam: Xinjiang motore dello sviluppo economico”

Asia di

Lo sviluppo verso ovest. La questione degli Uiguri. La rinascita della Via della Seta. I rapporti con i Stati confinanti. Dal 2000, lo Xinjiang è divenuto per la Cina uno dei motori al servizio della sua preponderante crescita economica. Ma è anche una terra in cui l’identità e la religione locale, l’Islam, rischiano di scontrarsi con gli Han, la maggioranza etnica del Paese. Per affrontare questi temi, European Affairs ha intervistato Ramtanu Maitra, analista presso la sede statunitense della rivista Eir. Inoltre, egli collabora regolarmente con tre trimestrali indiani nel settore della Difesa: Aakrosh, Agni e The Indian Defence Review. In passato, ha scritto per la redazione online di Asia Times.

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Per gli Uiguri, le questioni indipendentiste e religiose vanno di pari passo?

“La religione non è sicuramente la questione più importante per gli Uiguri. Essi non sembrano pronti a sacrificare le proprie vite per salvaguardare la loro religione. Ma quando altri fattori entrano in gioco, come lo spostamento in massa degli Han nello Xinjiang da parte di Pechino, l’identità religiosa viene messa in mostra. In particolar modo, i seguaci dell’Islam, molti dei quali sono stati vittime del colonialismo occidentale in passato, hanno iniziato a riaffermarsi negli ultimi anni e a mostrare la forza della propria religione come un’arma efficace. Pechino ha mostrato poca sensibilità nei rapporti con i musulmani e non sembra comprendere che disonorarli, perfino in un Paese come la Cina dove i musulmani sono un ridottissima minoranza. Non permettere agli Uiguri, perfino a quei pochi impiegati come dipendenti, di non digiunare durante il Ramadan è una pratica che potrebbe ricompattare gli Uiguri più determinati e portarli in diretto contatto con gli islamici più radicali, i quali sono pronti a dichiarare la Jihad contro qualsiasi Paese non islamico”.

“Sono dell’opinione che la maggioranza degli Uiguri non abbia interesse ad arrivare all’indipendenza. Ci potrebbe essere qualcuno che, invece, è interessato, ma la gran parte di loro non vuole semplicemente essere inglobato dagli Han. Da quando Pechino ha adottato la politica dello sviluppo almeno di una minima parte dell’ovest del Paese (ovvero lo Xinjiang), in modo da poter accedere all’Asia Centrale, Meridionale e Sudorientale, questo ha portato con sé, e lo porterà anche in futuro, molti Han ad emigrare verso lo Xinjiang. Questi Han sono lavoratori qualificati, hanno una migliore retribuzione e sono arrivati nello Xinjiang con l’intento di radicare il più possibile le proprie famiglie”.

“Questi sono i problemi riguardanti gli Uiguri. Tuttavia, mentre molti di essi assistono passivamente a questo cambiamento demografico, penalizzante nei confronti della maggioranza etnica nello Xinjiang (un caso non differente da quello che è accaduto e che accadrà in Tibet), alcuni di ribelleranno a questa politica di stato tesa a distruggere la loro identità, la loro cultura, il loro stile di vita e ad imporre la cultura della riverenza verso gli Han. Quest’ultimo gruppo di Uiguri potrebbe parlare di indipendenza, ma essi non possono montare un caso per giustificare la loro indipendenza contro una grande potenza come la Cina. Allo stesso tempo, gli Uiguri di ieri e di oggi, che hanno vissuto o vivono una vita molto dura, accolgono con favore lo sviluppo che Pechino sta portando nello Xinjiang. Non esiste la possibilità che gli Uiguri si uniscano sotto un solo ombrello in una causa molto astratta come l’indipendenza dalla Cina”.
Il ripopolamento dello Xinjiang, attraverso lo spostamento in loco degli Han avvenuto negli ultimi 15 anni, ha avuto l’effetto contrario rispetto alla volontà del governo di sopprimere le istanze degli Uiguri?

“La politica di Pechino di portare l’etnia Han ad abitare nello Xinjiang non mira ad indebolire l’etnia Uiguri. Come ho fatto notare in precedenza, la Cina ha bisogno di sviluppare un’infrastruttura che le consenta l’accesso verso la parte occidentale del Paese, dove ci sono grandi giacimenti di petrolio e gas che Pechino potrebbe utilizzare per sostenere e far crescere la sua economia. Il processo ha fatto riversare la migrazione di una enorme quantità di Han nello Xinjiang, la terra degli Uiguri. Il processo ha anche modernizzato, e continuerà a farlo ulteriormente, molte parti dello Xinjiang. Gli Uiguri trarranno beneficio da tutto ciò, ma, al tempo stesso, entreranno quotidianamente in contatto con gli Han, molti dei quali non hanno ancora ben compreso le cose da fare e da non fare nella religione islamica, la loro cultura e l’attitudine isolazionista degli Uiguri. Alcuni Han potrebbero sentirsi in qualche modo superiori agli Uiguri. Queste differenze potrebbero portare a scontri e conflitti di tanto in tanto, ma non c’è nessuna ragione per credere che, nel corso dei prossimi anni, questi due gruppi etnici non saranno in grado di vivere fianco a fianco”.

“Tornando al tema della domanda, io ritengo che la politica messa in campo da Pechino non abbia lo scopo di sopprimere l’etnia Uiguri, anche se non è comprensiva nei loro confronti. Pechino ha ritenuto che non ci fossero ragioni di fare sforzi a livello sociale per integrare gli Uiguri con il resto della Cina. D’altra parte, se la Cina volesse sopprimere gli Uiguri, perché non gli Han sono stati fatti emigrare nello Xinjiang tra il 1950 e il 2000? Questo non è accaduto semplicemente perché non aveva ancora adottato la nuova politica di sviluppo economico relativamente alla Via della Seta”.
Il fatto che dal 2012 oltre 200 cinesi siano andati a combattere in Siria, fa della Cina uno degli Stati più a rischio a proposito della minaccia jihadista?

“No, questo è assurdo. Se migliaia di fondamentalisti islamici non hanno rappresentato una seria minaccia per 64 milioni di britannici, perché 200 islamisti dovrebbero rappresentare un qualche problema per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti? Questo non accadrà. La Cina non vuole utilizzare la forza per dialogare con gli Uiguri. La Cina vuole una “ascesa pacifica”. Atti violenti per frenare le rivolte degli Uiguri, per quanto piccole possano essere, verrebbero sottolineati con titoli da prima pagina dai media occidentali e sarebbero colte dai poteri forti in Occidente che intendono mostrare la Cina come spietata, intollerante agli altri gruppi religiosi e pronta ad esercitare l’uso della forza qualora non venisse seguito il proprio volere”.
Il passaggio della nuova Via della Seta e la presenza di risorse di gas e petrolio: l’aspetto economico è il vero motore della politica antiIslam di Pechino nello Xinjiang?

“In parte sì e in parte no. La Cina dovrà muoversi verso ovest se vuole arrivare al gas e al petrolio dell’Asia Centrale e della Penisola Arabia. Ma la Cina avrà anche bisogno di fare fruttare le risorse minerarie in funzione delle sue aziende produttrici in serie di una grande varietà di prodotti. Ma questa non sarà l’unica strada da perseguire. La Cina, con la sua ampia ed efficiente base di produzione, sarà attivamente alla ricerca di mercati in Asia Centrale e Sudoccidentale, Russia, Ucriana, Bielorussia, Crimea, Europa. Già nel Kyrgyzstan quasi tutti i prodotti venduti nei mercati hanno impressa la scritta “Made in China”. Questa è la parte affermativa della mia risposta”.

“La parte negativa, invece, è che la Cina non sta mettendo in atto nessuna politica antiIslam nello Xinjiang. Tutti i Paesi ad ovest di Pechino che sono in attesa di fornire alla Cina un accesso alle loro risorse energetiche e alle molte risorse di minerali, con l’eccezione d Russia e Georgia, sono tutte nazioni musulmane: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e l’intera Penisola Arabica”.
Giacomo Pratali

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Immigrazione: attesa per la riunione Onu del 18 maggio

Per l’Ue sarà decisivo il parere del Consiglio di Sicurezza sulle misure militari da adottare per arginare il fenomeno migratorio. Prodi bolla questa possibilità come “inappropriata e dannosa”. Intanto, si continuano a contare i morti nel Canale di Sicilia.

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I 1500 migranti morti dall’inizio del 2015 e i continui sbarchi sulle coste italiane e maltesi delle ultime ore hanno portato le Nazioni Unite a convocare un Consiglio di Sicurezza straordinario previsto per lunedì 18 maggio. Dopo il Consiglio Europeo del 23 aprile, in cui sono stati triplicati i fondi per “Triton”, l’Unione Europea attende questa riunione per mettere sul tavolo nuove misure militari per combattere alla radice questa ondata migratoria direttamente collegata al caos politico, istituzionale e sociale della Libia. Il vertice sarà aperto da Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’Ue.

A confermare la necessità di una incombente discussione a livello internazionale sulla questione migratoria, ci sono i fatti. Nelle ultime 24 ore, Malta e Messina hanno accolto 98 e 300 migranti a testa dopo essere stati soccorsi dalle marine militari. Non solo. La Procura di Catania sta indagando sulla presunta strage, raccontata dai sopravvissuti e denunciata da Save The Children, di circa 40 persone annegate a largo delle coste siciliane nella notte tra il 4 e il 5 maggio, poco tempo prima che le autorità italiane prestassero i soccorsi.

A rigettare, però, la soluzione militare nei confronti della Libia per arginare il flusso migratorio previsto per i prossimi mesi, è l’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea Romano Prodi: “L’azione bellica – ha affermato nel corso dell’audizione presso la Commissione Esteri del Senato nella giornata di martedì – è inappropriata e dannosa, oltre che irrealistica. Adesso, la vera priorità è ripristinare la statualità in Libia”.

Intanto, l’Italia si sta muovendo in primis per cercare di arginare la situazione. Nell’incontro tra Antonello Cracolici, Presidente della Commissione Affari Istituzionali, ed Ezzedine al Awani, Ambasciatore libico in rappresentanza del governo di Tobruk, è stata prospettata una collaborazione tra il Paese nordafricano e la Sicilia in materia di sviluppo economico, immigrazione e protezione delle marinerie.

Giacomo Pratali

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“Expo e i Territori”: l’Italia chiama gli “aussies”

EUROPA di

Il console italiano Cerbo espone un’iniziativa che, attraverso itinerari personalizzati, mira a fare scoprire realtà regionali come Abruzzo, Calabria, Sicilia e Veneto.

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“Expo e i Territori”. È questa l’iniziativa presentata a Melbourne dal console italiano Marco Maria Cerbo davanti a 50 osservatori, tra giornalisti e tour operator. L’obiettivo è quello di far scoprire agli australiani i paesaggi, le bellezze artistiche e i costumi regionali, partendo da una vetrina d’importanza globale come l’evento milanese.

Sotto la lente d’ingrandimento sono state messe Abruzzo, Calabria, Sicilia e Veneto, da cui il visitatore potrà partire per costruire un itinerario personalizzato. Un turismo da incrementare, ma che parte già da una buona base. Infatti, anche a causa della forte presenza italo-australiana, circa un milione di “aussies” ogni anno decide di visitare il Bel Paese.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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