Preoccupazione di Save the Children nella Repubblica democratica del Congo: nuovi casi di Ebola in un paese già segnato dalla guerra
Diamanti, Coltan, Oro, Cobalto, Rame, Niobio, risorse minerarie preziose nel sottosuolo, legni pregiati, risorse naturali del suolo, la seconda foresta più estesa del mondo e tanta tantissima terra coltivabile. Questo è ciò che possiede la Repubblica Democratica del Congo, questo scatena gli appetiti internazionali e questo sta alla base delle lotte interne di potere. Nella regione del Kivu sono all’ordine del giorno i conflitti “tutti contro tutti” fra l’esercito e il centinaio di bande armate e gruppi ribelli, inoltre si è registrata un impennata dei rapimenti; nella regione di Kinshasa si ripetono gli scontri fra i soldati e i militanti della setta mistico-politica Bundu dia Kongo; nella Provincia di Tanganyika e nell’Alto Katanga sono riprese le tensioni e le violenze fra etnie; nel Kasai è esploso un ulteriore conflitto fra i militari governativi e le milizie del gruppo Kamwina Nsapu che ha provocato centinaia di vittime; nella regione di Beni i civili sono stati presi di mira e uccisi, il 7 ottobre degli uomini armati hanno ucciso 22 persone. Ai conflitti si aggiunge il traffico di risorse del paese e lo sfruttamento da parte delle altre nazioni. Emblematico, curioso e controverso è il sequestro nel 2017 da parte delle autorità dello Zambia di 499 camion di proprietà dell’esercito congolese. I camion contenevano il cosiddetto “legno rosso”, chiamato cosi perché una volta tagliato assume una colorazione rosso sangue, ed è così emerso lo scandalo del traffico illegale di questo legname pregiato che finisce perlopiù in Cina, dove viene impiegato per la fabbricazione di mobili di lusso. È un attività illegale poiché è una specie arborea protetta che si stima porta l’abbattimento di 150 alberi nella sola Repubblica democratica del Congo, ciò simboleggia lo sfruttamento delle risorse del paese e un disastro ambientale. A ciò si aggiunge che questo clima di totale e diffusa instabilità e conflitto ha contributo al verificarsi di violazioni dei diritti umani, di abusi e di enormi crisi umanitarie.
La situazione a marzo 2018 contava 2,2 milioni di bambini gravemente malnutriti; 13,1 milioni di persone bisognose di aiuti per sopravvivere e oltre 4 milioni di civili sfollati a causa del conflitto. Recentemente Save the Children ha espresso forte preoccupazione per la conferma di cinque nuovi casi di Ebola identificati negli ultimi giorni nella Repubblica Democratica del Congo, due dei quali localizzati nella zona di Tchomia, nella provincia di Ituri, vicino al confine con l’Uganda. Tchomia, situata sul lago Alberto, si trova 62 km a sud del capoluogo di provincia di Bunia, a circa 200 chilometri da Beni, in Nord Kivu, l’area in cui si è sviluppato il decimo focolaio di Ebola in Repubblica Democratica del Congo. In queste zone nell’ultimo anno decine di gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a compiere omicidi, stupri, estorsioni e a saccheggiare illegalmente il territorio, allo scopo di sfruttarne le risorse naturali. Il conflitto in corso tra hutu e nande nel Nord Kivu ha causato morti, sfollati e distruzione d’infrastrutture, specialmente nelle aree di Rutshuru e Lubero. Save the Children sta lavorando in stretto coordinamento con il governo della Repubblica democratica del congo, le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie internazionali e i servizi sanitari locali per contenere la diffusione del virus Ebola. L’Organizzazione, inoltre, è impegnata nella sensibilizzazione della comunità locali per ridurre la paura della malattia, offrendo informazioni e tecniche su come le famiglie possono proteggersi dal virus. Nell’ambito della sua risposta al virus Ebola, Save the Children sta fornendo supporto anche alle comunità e alle autorità ugandesi, in modo da essere pronte nel caso in cui l’Ebola dovesse diffondersi oltre il confine, formando i team sanitari nei villaggi e predisponendo strutture per il lavaggio delle mani. Alla situazione si aggiunge che i forti timori della popolazione riguardo al virus Ebola hanno reso difficile l’accettazione da parte della comunità di organizzazioni umanitarie. Heather Kerr, direttore di Save the Children nella Repubblica Democratica del Congo, ha dichiarato “I nostri operatori sanitari stanno svolgendo un lavoro straordinario visitando le famiglie porta a porta e alleviando la paura riguardo all’Ebola. Se le persone arrivano in tempo in un centro di trattamento hanno buone possibilità di sopravvivere. Ma le famiglie hanno visto alcuni pazienti entrare nei centri e non uscirne e questo può scatenare la paura tra la comunità, causando anche la fuga di persone che presentano sintomi. Gli ultimi casi identificati rafforzano ancora di più la convinzione che in questo momento il nostro lavoro dentro e fuori Beni è particolarmente cruciale”.
Nella Repubblica democratica del Congo i bambini sono i più colpiti e l’Unicef ha denunciato che solo nel corso del 2017 vi sono stati 800 casi di abuso sessuale e il reclutamento di circa 3 mila bambini soldato da parte delle milizie. A causa del conflitto armato migliaia di bambini hanno preso i loro genitori, sono stati reclutati nell’esercito e nelle milizie e sono in generale vittime di violenza. Inoltre, Devono affrontare stress e traumi del passato. La situazione generale ha portato 60 mila congolesi nei soli primi tre mesi del 2018 a passare il confine con l’Uganda per fuggire. Al 10 novembre 2017, l’Uganda ospitava circa 1.379.768 tra rifugiati e richiedenti asilo di varie nazionalità e circa il 61% era costituito da minori, prevalentemente non accompagnati o separati dai loro genitori. I richiedenti asilo provenienti Repubblica democratica del Congo hanno ottenuto il riconoscimento automatico dello status di rifugiati (prima facie) e quelli di altre nazionalità sono stati esaminati secondo il processo di determinazione individuale dello status di rifugiati, condotto dal comitato di eleggibilità dei rifugiati. Ai sensi della legge sui rifugiati del 2006 e del regolamento sui rifugiati del 2010, i rifugiati godevano di una relativa libertà di movimento, degli stessi diritti dei cittadini ugandesi di accedere ad alcuni servizi essenziali, come istruzione primaria e assistenza medica, e del diritto di lavorare e di avviare un’impresa. Il sistema è entrato però in crisi nel maggio 2017 poiché è stato costretto a dimezzare le razioni di cereali a oltre 800 mila rifugiati. A ciò sono seguiti appelli di richiesta di fondi ai donatori internazionali per affrontare la crisi regionale dei rifugiati ma non hanno ottenuto risultati sufficienti.
Violenza domestica e violenza assistita, abbattiamo il muro del silenzio!
Un padre rientra nervoso dal lavoro e incomincia a insultare la propria moglie. Nella sua mente non è stata una donna capace di sistemare la casa prima del suo rientro, non è stata capace di essere un perfetto robot delle pulizie ed è solo stata capace di “spendere soldi”. Le urla si fanno sempre più insistenti e si sente il fragore dei piatti che vengono lanciati. Dà la colpa di questo suo comportamento alla moglie: “sei tu che mi costringi”. Le colpe di cui viene accusata la moglie diventano sempre di più, non sarebbe capace di cresce il figlio secondo l’ideale del padre e ripete “mi fai schifo come madre, mi fai schifo come donna”. Urla che non gli frega nulla del figlio e se ne esce di casa sbattendo la porta. Nella stanza accanto, il bambino ascolta tutto nella penombra, forse cerca di tapparsi le orecchie per non ascoltare o forse cerca di nascondersi in un luogo che ritiene sicuro. Cerca di diventare invisibile o vorrebbe essere altrove. I suoi sfoghi diventano quei fogli dove dovrebbe disegnare i propri sogni e le proprie fantasie ma quei fogli diventano l’espressione dei propri disagi e incubi, oppure si sfoga strappando uno dei peluche che ha nella stanza. Possiamo solo avvicinarci alle emozioni che questo bambino sta passando. Potremmo pensare a quelle volte che litighiamo con qualcuno che amiamo o a quando abbiamo visto maltrattato un nostro amico o amica per capire il malessere che c’è dopo ma non sarebbe abbastanza. Questa, è la storia fatta di urla e violenza che troppo spesso diventa la storia silenziosa di molte case e di molte famiglie. Save the Children conta in Italia 427 mila bambini, in soli 5 anni, testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme e quasi sempre per mano dell’uomo; sono più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. A questo proposito è stata avviata l’iniziativa di sensibilizzazione “Abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su una piaga invisibile “Violenza assistita” che ha conseguenze devastanti sulla vita e sul futuro dei minori. A questo proposito dal 5 al 7 luglio, a Palazzo Merulana a Roma, vi è una installazione immersiva per provare in prima persona il dramma che tanti bambini vivono quotidianamente.
A questa si accompagna la pubblicazione, dopo un’indagine complessa, del rapporto “Abbattiamo il muro del silenzio” che cerca di analizzare la questione e riguardo al tema e all’iniziativa abbiamo intervistato Antonella Inverno, responsabile Policy and Law Save the Children e curatrice del rapporto.
EA: come nasce l’iniziativa “abbattiamo il muro del silenzio” e la mostra annessa?
Antonella Inverno: Noi abbiamo diversi servizi sul territorio che si occupano di mamme, abbiamo degli spazi mamme che sono dei centri aggregativi dove le mamme con i loro figli possono andare per ricevere un supporto, fare delle attività e anche per fare dei corsi di genitorialità positiva o rivolgersi ai nostri sportelli legali. Oltre a quello abbiamo un progetto sparso sul territorio nazionale che si chiama “fiocchi in ospedale” e che prevede un intervento precoce direttamente al momento del parto. Insomma, quindi un’osservazione precoce e un supporto per quelle donne che risultano essere più a rischio. Attraverso queste attività noi abbiamo un centro dedicato alle mamme vittime di violenza con figli e attraverso queste attività abbiamo constatato che il fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi. Da lì c’è venuta un’idea di fare un’iniziativa per sensibilizzare prima di tutto le mamme stesse e per non farle sentire sole ma anche per l’opinione pubblica e le istituzioni competenti.
EA: secondo lei per quale motivo spesso le stesse madri sono omertose e perché non se ne parla a livello di opinione pubblica? Come si interpretano i dati riguardo alla fascia di età e delle periferie urbane?
Antonella Inverno: Io più di omertà parlerei di Solitudine. Nel senso che le donne sono restie laddove si ritrovano isolate e non sono indipendenti economicamente e non vedono un’alternativa dentro quella casa dove stanno e subiscono la violenza. Proprio questo è il fattore su cui dovremmo tutti cercare di intervenire, nel senso che bisogna parlare di più. Purtroppo, l’Italia è un paese dove la condizione delle donne e delle mamme in particolare, è una condizione svantaggiata. Noi abbiamo pubblicato qualche mese fa un altro rapporto che si chiama “Le Equilibriste” e che parla proprio del difficilissimo lavoro che fanno le mamme in Italia. Sono donne che non riescono a conciliare il lavoro con la vita privata perché non ci sono adeguati servizi e che molto spesso vengono espulse dal mercato del lavoro quando diventano mamme e che si ritrovano a subire tutto il carico familiare sulle spalle. Non solo le cure dei figli ma anche quella dei propri genitori. Quindi questo è chiaro che le rende più deboli di fronte a una situazione di violenza perché non hanno modo di uscire, non c’è un sostegno per loro e per i loro figli. Per questo noi chiediamo che i servizi di sportelli, anche dei centri antiviolenza, siano strutturalmente rafforzati e che siano dedicate loro più risorse e che possano essere anche numericamente più consistenti sul territorio. Rispetto ai dati sui padri e sulle vittime diciamo che la percentuale è di poco maggiore in periferia che in centro, il dato che volevamo evidenziare è che è un fenomeno trasversale ovunque. Parliamo di pochi punti percentuali e tra l’altro il dato sul centro e periferia si riferisce solo alle risposte delle cittadine italiane, non anche a quelle straniere ed è un dato che però ci fa riflettere rispetto al fatto che spesso si è portati a pensare che la violenza sia un fenomeno legato alla povertà o all’ignoranza, alla non istruzione. Invece i dati dimostrano proprio che è un fenomeno trasversale. Ci sono nel rapporto anche i dati sul titolo di studio e si vede che non si salva nessuno. Dai reati, alle persone che hanno la quinta elementare, da chi vive in periferia, a chi vive al centro. Anche al centro delle città sono presenti queste situazioni che molto spesso rimangono anche meno visibili perché si preserva di più il buon nome e l’identità sociale che ci si è costruiti come nucleo familiare.
EA: A livello di istituzione, sia europee che italiane, cosa si potrebbe fare per il futuro e per quella che comunque ci ha descritto come una violenza generalizzata?
Antonella Inverno: In questo momento, sul tavolo del sottosegretario alle pari opportunità, al suo vaglio, c’è il piano nazionale contro la violenza di genere. Noi auspichiamo che questo percorso di introduzione di questo strumento possa andare avanti e dobbiamo però essere consapevoli che siamo tutti coinvolti. Le scuole sono un fattore fondamentale nella rivelazione dei disagi che i bambini possono presentare quando vivono una situazione di violenza dentro casa. Nessuno dovrebbe girarsi dall’altra parte quando sente delle urla nella casa del vicino. Noi pensiamo veramente che una maggiore attenzione a quelli che sono i segnali di violenza possa portare anche a un intervento sicuramente tempestivo, e questo fa molto nel caso dei bambini, ma anche più in rete tra i tanti attori coinvolti.
Violenza assistita significa guardare, ascoltare, vivere l’angoscia, esserne investiti, contagiati e sovrastati senza poter far nulla. Significa esporre un bambino a qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative all’interno di ambienti domestici e familiari. È un fenomeno ancora sommerso, quasi “invisibile”, contraddistinto da segnali plurimi, i cui effetti possono essere devastanti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale dei bambini. L’esposizione alla violenza all’interno delle mura domestiche può provocare una grave instabilità emozionale nei bambini e tradursi in molteplici sentimenti negativi, come ansia, paura, angoscia, senso di colpa, insicurezza. Può inoltre provocare disturbi del comportamento, tra cui l’isolamento, la depressione, l’impulsività e l’aggressività e può portare gravi disturbi nell’alimentazione. Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children, ha dichiarato che “La casa dovrebbe essere per ogni bambino il luogo più sicuro e protetto e invece per tanti si trasforma in un ambiente di paura e di angoscia permanente. Per un bambino assistere ad un atto di violenza nei confronti della propria mamma è come subirlo direttamente. Moltissimi bambini e adolescenti sono vittime di questa violenza silenziosa, che non lascia su di loro segni fisici evidenti, ma che ha conseguenze devastanti: dai ritardi nello sviluppo fisico e cognitivo alla perdita di autostima, da ansia, sensi di colpa e depressione all’incapacità di socializzare con i propri coetanei. Un impatto gravissimo e a lungo termine che tuttavia, nel nostro Paese, è ancora sottovalutato. Ề indispensabile mettere in campo un sistema di protezione diffuso capillarmente che non lasci mai da sole le donne ad affrontare il complesso e doloroso percorso di liberazione dalla violenza domestica e che si prenda cura immediatamente dei bambini fin dalle prima fasi in cui questa emerge, senza attendere la conclusione degli iter giudiziari. Ề poi fondamentale che tutti gli adulti che sono a contatto con i minori – a partire dalle scuole e dai servizi sanitari – assumano una responsabilità diretta per far emergere queste situazioni sommerse, attrezzandosi per riconoscere tempestivamente ogni segnale di disagio, senza trascurarlo o minimizzarlo”.
Dal rapporto emerge che tra le donne che in Italia hanno subito violenza nella loro vita (oltre 6,7 milioni secondo l’Istat), più di 1 su 10 ha avuto paura che la propria vita o quella dei propri figli fosse in pericolo. In quasi la metà dei casi di violenza domestica (48,5%), inoltre, i figli hanno assistito direttamente ai maltrattamenti, una percentuale che supera la soglia del 50% al nord-ovest, al nord-est e al sud, mentre in più di 1 caso su 10 (12,7%) le donne dichiarano che i propri bambini sono stati a loro volta vittime dirette dei soprusi per mano dei loro padri. Per quanto riguarda gli autori delle violenze, i dati sulle condanne con sentenza irrevocabile per maltrattamento in famiglia – più che raddoppiate negli ultimi 15 anni, passando dalle 1.320 nel 2000 alle 2.923 nel 2016 – evidenziano che nella quasi totalità dei casi (94%) i condannati sono uomini e che la fascia di età maggiormente interessata è quella tra i 25 e i 54 anni, l’arco temporale nel quale solitamente si diventa padri o lo si è già. Il tasso di occupazione in Italia varia sensibilmente non soltanto al genere, ma anche rispetto al fatto di essere o meno genitori e al numero di figli. Essere madre significa riuscire a conciliare la vita lavorativa con quella famigliare con tutte le sfide che questa società impone. Investire sul futuro significa garantire che i genitori, e in particolare le madri, siano sostenuti da adeguate politiche che favoriscono la genitorialità e la conciliazione tra vita privata e professionale, a partire da forme di lavoro flessibile, congedi parentali e di paternità e una adeguata copertura dei servizi educativi per l’infanzia. Ma a questo occorre aggiungere che sono oltre 1,4 milioni le madri che nel corso della loro vita hanno subito maltrattamenti in casa da parte dei loro mariti o compagni. Tra queste, più di 446.000 vittime vivono ancora con il partner violento e spesso non vedono possibili vie di uscita dalla relazione, spesso anche perché non indipendenti dal punto di vista economico. 174.000 mamme che hanno subito violenza dal loro attuale compagno dichiarano che i figli hanno visto o subito direttamente i maltrattamenti. Si tratta, in particolare, di donne che nel 97% dei casi sono sposate, nel 71% sono italiane, nel 41% hanno tra i 30 e i 49 anni, nel 40% dei casi sono casalinghe e in quasi 4 casi su 10 (34%) hanno il diploma superiore. Prendendo invece in considerazione le oltre 455.000 madri che non vivono più con l’ex partner violento e che hanno dichiarato che i propri bambini hanno visto o subito la violenza, 7 su 10 sono separate o divorziate, 8 su 10 sono italiane, nel 42% dei casi hanno 30-49 anni di età, mentre più di 1 su 3 (34%) è dirigente, imprenditrice, libera professionista, quadro o impiegata, e quasi la metà (46%) ha conseguito il diploma superiore.
La famiglia dovrebbe essere il luogo dell’amore e degli affetti ma c’è un lato oscuro che porta a dire che “la violenza fra i membri della famiglia probabilmente è tanto diffusa quanto l’amore”. Il problema è caratterizzato dal fatto che in molti uomini vi è la concezione del dominio maschile all’interno del matrimonio. Gli uomini con una visione tradizionale o non egualitaria nei confronti dei ruoli di genere all’interno delle relazioni, sono più disposti ad accettare l’uso della violenza nei confronti delle mogli. Gli episodi di violenza hanno maggiori probabilità di verificarsi nelle famiglie in cui il potere decisionale si concentra nelle mani del marito. Quando le donne dispongono di maggiori risorse sociali ed economiche, come ad esempio un lavoro che permetta loro di essere indipendenti economicamente, hanno probabilità minori di subire abusi e più possibilità di lasciare un uomo che abusa di loro. A ciò si aggiunge che una donna con pochi contatti con persone diverse dal coniuge ha minori possibilità di definire tale abuso come ingiustificato e di chiedere aiuto. Del totale di donne che in Italia hanno ripetutamente subito forme di violenza domestica per mano di partner o ex partner – più di 1,6 milioni di donne secondo i dati elaborati dall’Istat per Save the Children – solo il 7% (pari a 118.330 vittime) si è mostrata molto consapevole del reato subito e ha attivato dei percorsi di uscita dalla violenza. Si tratta, in particolare, di donne che in ben il 75% dei casi sono anche madri e che sono state vittime di violenze fisiche molto evidenti: nell’81% dei casi hanno riportato ferite, nel 36% hanno subito maltrattamenti durante la gravidanza, in più del 19% delle situazioni il partner era in possesso di un’arma e in oltre il 43% era sotto l’effetto di alcool o sostanze stupefacenti. Su queste donne, molto gravi sono state poi le conseguenze stesse dei maltrattamenti: 1 su 4 ha fatto ricorso ai medicinali, 2 su 5 sono andate in terapia psicologica o psichiatrica, circa 1 su 5 (22%) ha pensato al suicidio e a forme di autolesionismo o non è riuscita a portare avanti le normali attività quotidiane o andare al lavoro per un certo periodo; presentano, inoltre, difficoltà nella gestione dei propri figli (35%), hanno sviluppato forme d’ansia (70%) e disturbi del sonno e dell’alimentazione (65%).Di queste donne, quasi 9 su 10 considerano la violenza subita un reato e nella quasi totalità dei casi (99%) hanno denunciato la violenza subita, ricevendo conseguentemente il supporto necessario per attivare percorsi di uscita dalla violenza che in oltre il 58% dei casi le hanno portate a lasciare il partner violento. Accanto a queste donne fortemente consapevoli delle violenze subite, tuttavia, ce ne sono moltissime – più di 548.000, il 33% del totale di coloro che hanno subito ripetutamente la violenza domestica – che, nonostante riportino ferite o altri segni di maltrattamenti e subiscano le conseguenze, anche a lungo termine, dei soprusi perpetrati da partner o ex partner, faticano a dichiarare che i propri figli hanno assistito alle violenze, preferiscono chiudersi nel silenzio e non denunciare quanto subito. Di queste, più della metà (56%) ha figli o convive ancora con il marito o il partner violento, quasi 6 su 10 (57%) considerano la violenza subita solo come qualcosa di sbagliato, ma non un reato, e solo nel 4% delle situazioni hanno sporto denuncia e nel 2% si sono rivolte a un medico o a un consultorio.
Raffaella Milano ha poi affermato che “Ề impressionante il numero di donne con bambini, che pur in presenza di continue violenze non denuncia. Questo dato interpella le istituzioni e la comunità civile sulla necessità di garantire ad ogni mamma un clima di fiducia e un sostegno concreto e tempestivo, tale da spezzare la catena della violenza e consentire di riconquistare una vita autonoma e serena. Troppe mamme, ancora oggi, continuano a subire in silenzio con i loro bambini perché si sentono in trappola e non vedono alternative. In questo senso, è più che mai urgente e necessario strutturare una strategia di contrasto alla violenza assistita, a partire dal pieno rispetto della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata nel 2013. Occorre creare una vera e propria rete di prevenzione, emersione e protezione che coinvolga istituzioni, enti locali, scuole, servizi territoriali e associazioni. Allo stesso tempo, è necessario potenziare su tutto il territorio nazionale la rete antiviolenza e i servizi psico-sociali territoriali. Ề importante inoltre il coinvolgimento delle scuole, sia sul piano educativo nei confronti dei bambini e dei genitori, che per il riconoscimento precoce delle vittime della violenza domestica, attraverso percorsi formativi qualificati. Ề inoltre essenziale garantire la protezione giuridica dei minori coinvolti nella violenza per consentire l’avvio tempestivo di una presa in carico volta al recupero dei danni subiti, senza attendere l’iter dei processi”.
Per contrastare la violenza assistita, a fine 2016, Save the Children ha avviato nel territorio di Biella il progetto “I Germogli”: un intervento integrato di accoglienza, prevenzione, sostegno e accompagnamento all’autonomia di nuclei mamma- bambino vittime di violenza assistita. Il progetto consiste in una comunità mamma-bambino in cui vengono ospitate e supportate in un percorso di autonomia e reinserimento sociale, mamme vittime di violenza domestica, ed in un centro polifunzionale che offre percorsi laboratoriali, educativi e di supporto alla genitorialità per le donne del territorio. Il progetto “Germogli” si inserisce all’interno della più ampia azione dell’Organizzazione di sostegno alle famiglie e ai bambini che si trovano in condizioni di vulnerabilità sociale, educativa ed economica, realizzata attraverso la rete di Punti Luce, Spazi Mamme e Fiocchi in Ospedale attivati da Save the Children su tutto il territorio nazionale.
L’installazione “La stanza di Alessandro” è possibile visitarla a Palazzo Merulana giovedì 5 luglio dalle ore 18 alle ore 20; venerdì 6 luglio dalle ore 14 alle ore 20; sabato 7 luglio dalle ore 14 alle ore 20.
Per partecipare è necessario prenotarsi cliccando qui. L’installazione immersiva è stata ideata dall’agenzia di comunicazione The Embassy, in collaborazione con ECCETERA, BC TODAY e con il coinvolgimento degli studenti della “Scuola Politecnica di Design”.
Siria: Bombardate le scuole supportate da Save the Children
Il conflitto armato siriano dura da sette anni e tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno commesso impunemente crimini di guerra, altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e violazioni dei diritti umani. Per esempio, le forze governative e le forze loro alleate, comprese quelle russe, hanno compiuto attacchi indiscriminati e attacchi diretti contro la popolazione civile e obiettivi civili, effettuando bombardamenti aerei e lanci di artiglieria, anche con armi chimiche e di altro genere vietate dal diritto internazionale, provocando centinaia di morti e feriti. Inoltre, hanno mantenuto lunghi assedi su aree densamente popolate, limitando l’accesso di migliaia di civili agli aiuti umanitari e ai soccorsi medici. Secondo l’Ngo Physicians for Human Rights le forze governative hanno lanciato raid aerei contro tre ospedali nel governatorato di Idleb, attacchi aerei nelle ore diurne contro un grande mercato ad Atareb e raid aerei e attacchi d’artiglieria contro i civili stretti d’assedio a Ghouta Est. A ciò si aggiunge che il 30 giugno, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha concluso che in questo attacco la popolazione di Khan Sheikhoun era stata esposta al sarin, un agente nervino vietato. Però la Russia ha continuato a bloccare i tentativi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di perseguire la giustizia e l’accertamento delle responsabilità. Il 12 aprile, la Russia ha posto il veto a una risoluzione che condannava l’uso di armi chimiche in Siria e chiedeva il perseguimento giudiziario dei responsabili. Il 17 novembre, ha posto il veto a una risoluzione che estendeva il mandato dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche-Meccanismo investigativo congiunto delle Nazioni Unite, creato sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2015, con l’incarico d’indagare sugli attacchi con armi chimiche e di accertare la responsabilità per l’uso di queste armi in Siria. Poi le forze governative e i governi esteri hanno negoziato accordi su base locale che hanno determinato lo sfollamento forzato di migliaia di civili, in seguito ai prolungati assedi e gli attacchi illegali. Le forze di sicurezza hanno arrestato e continuato a detenere decine di migliaia di persone, compresi attivisti pacifici, operatori umanitari, avvocati e giornalisti, molti dei quali sono stati sottoposti a sparizione forzata, tortura e altro maltrattamento, talvolta con esiti letali. I gruppi armati d’opposizione hanno bombardato indiscriminatamente e stretto in lunghi assedi aree abitate prevalentemente da civili, limitando l’accesso delle agenzie umanitarie e dei soccorsi medici. Il gruppo armato Stato islamico (Is) si è reso responsabile di uccisioni illegali e lanci d’artiglieria pesante contro i civili, utilizzandoli anche come scudi umani. Le forze della coalizione a guida statunitense hanno lanciato attacchi contro l’Is nei quali sono rimasti uccisi o feriti civili e che in alcuni casi si sono configurati come violazione del diritto internazionale umanitario. A fine 2017, il conflitto aveva causato almeno 400.000 morti; le persone sfollate internamente alla Siria o che avevano cercato rifugio in altri paesi erano complessivamente più di 11 milioni.
In questo contesto una scuola supportata da Save the Children a Dara’a e frequentata da circa 536 studenti è stata gravemente danneggiata in un attacco aereo avvenuto poche ore dopo che le lezioni erano state sospese per motivi di sicurezza a seguito di una escalation della violenza. A questa si aggiunge anche un’altra scuola e, nella settimana, un’aula allestita in una tenda gestita da Olive Branch. La tenda è stata distrutta durante un bombardamento che ha colpito un campo di sfollati. Tutte le 52 strutture educative gestite dai partner di Save the Children nel sud della Siria sono state costrette a chiudere temporaneamente a causa di attacchi aerei diffusi e della crescente instabilità. Nella scorsa settimana un attacco aveva distrutto varie parti di un “Centro di apprendimento alternativo”, che forniva l’istruzione a bambini tra i 3 e i 15 anni. Il centro era un servizio di vitale importanza per la comunità locale essendo di fatto una scuola per l’infanzia e per i corsi di recupero per i bambini che non hanno più la possibilità di frequentare le normali scuole e che spesso hanno perso anni di istruzione a causa del conflitto. Secondo le Nazioni Unite almeno 50.000 persone, molte delle quali donne e bambini, sono dovute fuggire dalle loro case e molte altre saranno costrette a farlo nei prossimi giorni.
Sonia Khush, Direttore per la Siria di Save the Children, riguardo alla situazione ha dichiarato: “Le scuole sono pensate per essere un rifugio sicuro per i bambini, anche in zone di guerra. Questi centri hanno fornito istruzione essenziale a centinaia di bambini vulnerabili, molti dei quali sono già stati costretti a perdere mesi o anni di scuola a causa del conflitto e ora sono ridotti a un cumulo di macerie. I bambini della Siria meridionale stanno affrontando il terrore e l’incertezza a causa dei pesanti bombardamenti in alcune aree e decine di migliaia di persone sono state costrette a fuggire. È essenziale che i civili siano protetti e che le armi esplosive non vengano utilizzate nelle aree popolate, dove i bambini e le strutture su cui fanno affidamento sono più vulnerabili agli attacchi. Se le violenze continueranno, saremo costretti a sospendere i nostri programmi e ad assistere ad altre scuole distrutte dagli attacchi”.
Save the Children chiede un immediato cessate il fuoco, in linea con l’accordo negoziato per il sud della Siria da Russia, Giordania e Stati Uniti proprio l’anno scorso. Tutte le parti devono rispettare il diritto internazionale umanitario e proteggere dagli attacchi le scuole, gli ospedali e le altre infrastrutture civili di vitale importanza. I bambini sono particolarmente vulnerabili quando si tratta di armi esplosive e tutte le parti in conflitto dovrebbero fare un particolare sforzo per proteggerli. Occorre ricordare che questi episodi segnano una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni e che hanno posto delle regole alla guerra. Se questo non viene più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, vi è un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di morti ma anche di persone che perdono la casa e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. In questi anni abbiamo assistito a guerre che colpiscono di proposito la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Viene sempre più a mancare il rispetto alla vita umana e la possibilità che i giovani possano avere un futuro nel proprio paese poiché li si traumatizza e gli si preclude ogni possibilità di educazione e infanzia. Save the Children lavora nel Paese dal 2013 fornendo aiuti salvavita, cibo, acqua pulita, ripari temporanei e fa tutto il possibile per proteggere i bambini. Inoltre, portano avanti programmi sanitari attraverso la gestione di cliniche mobili, centri di cure primarie, un reparto maternità e la realizzazione di campagne di vaccinazione contro la poliomielite e il morbillo. A ciò si aggiunge l’aiuto ai più piccoli per affrontare i traumi quotidiani in Spazi a Misura di Bambino attraverso il sostegno psicologico e le attività ludico-ricreative.
Ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani
Il 18 giugno il Centro studio Roma 3000 ha tenuto il convegno “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi” ed è stata l’occasione per riflettere con ospiti importanti su ciò che succede e su cosa occorrerebbe fare. Le aree di crisi sono ovunque e di molti tipi. Possiamo pensare ai conflitti armati che si svolgono nel mondo, agli scenari dovuti all’economia e alle crisi economiche o a ciò che succede dopo i disastri ambientali. Il filo conduttore vede disagi, necessità di assistenza, diritti negati che hanno bisogno di tutela per uomini, donne e bambini.
Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), ha sottolineato che ormai nella nostra società è sempre più importante e inevitabile porre l’attenzione alle relazioni internazionali e ai fenomeni collegati. A ciò si collega la necessità di coinvolgere e rendere partecipe l’opinione pubblica poiché certi fenomeni, come i conflitti che cadono in larga misura nel nord africa e nel Medioriente, assumono carattere di cronicità. Nella maggior parte dei casi vi sono attori che hanno interesse a mantenere il caos in casi come quelli del conflitto arabo-israeliano, quello siriano e quello libico. In questi contesti, come ha evidenziato Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), si aggiungono questioni come la pericolosità per gli operatori umanitari. A riguardo abbiamo scambiato qualche rapida domanda:
EA: ultimamente viene messo in risalto la sicurezza degli operatori sanitari, cosa sta accadendo?
Rosario Valastro: ci troviamo in un periodo in cui veramente sembra che le norme del vivere civile abbiano avuto un’involuzione clamorosa di oltre un secolo e mezzo. Abbiamo delle problematiche di pericolo di tutela degli operatori sanitari dove esistono dei conflitti in questo momento. La Siria è quella che purtroppo va alla ribalta per la quantità dei numeri, abbiamo circa 90 tra volontari e operatori che hanno perso la vita in questi anni. Anni in cui anche l’ONU ha perso il conto di quanti civili sono stati uccisi durante la guerra. Ma quello della Siria, ripeto, è alla ribalta per l’enormità dei numeri ma questo accade anche in Yemen, accade anche altrove e pone un serio problema circa la reale volontà delle parti di tutelare la popolazione civile. Noi sappiamo che la tutela degli operati sanitari, delle strutture sanitarie e del materiale sanitario è funzionale alla cura della popolazione civile e alla cura dei soldati feriti. Per questo le strutture sanitarie di per sé sono riconosciute come neutrali, non sono riconosciute come parti del conflitto e vanno tutelate. Se viene a mancare, come sta venendo a mancare, con gli esempi che ho fatto e con altri che si possono fare, allora anche la guerra diventa qualcosa di non più governabile nei confronti delle popolazioni inermi.
EA: può dirci a cosa può essere legata questa escalation?
Rosario Valastro: certamente c’è una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni. Cioè la guerra, chiunque parli della guerra, ha nel suo immaginario qualcosa che non ha delle regole. In realtà, la guerra ha delle regole che sono state costruite nel corso di questo secolo e mezzo dalle convenzioni di Ginevra in poi. Se questo non è più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, e quindi comunque l’obiettivo è vincere a discapito dei morti che riesco a fare, allora queste escalation producono un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di vittime, quindi morti, ma anche di persone che perdono le case e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. Un aumento esponenziale di vulnerabilità che ben poco ha a che vedere con la guerra. La guerra è, come noi sappiamo, colpisci le zone strategiche del nemico, colpisci i depositi di armamenti, colpisci quartier generali. Non colpisci la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Se tu lo fai, come è stato anche fatto durante alcuni conflitti in Europa negli anni ’90, lo fai con delle idee di genocidio, di pulizia etnica, che sono fuori dall’orbita umanitaria.
Nel corso dell’intervento ha poi sottolineato che il diritto internazionale umanitario è nato per garantire l’incolumità di operatori umanitari, civili e feriti di guerra ma ad oggi sembra essere ritornati a quei tempi in cui tutto ciò non era garantito. È messo tutto in discussione e stiamo registrando l’imbarbarimento delle condizioni di vita dei civili nelle zone di guerra. Dobbiamo ricordarci che senza gli operatori umanitari si indeboliscono i civili poiché viene meno il rispetto della vita umana, ovvero la condizione principe per il rispetto del diritto dell’uomo.
Grazie all’intervento di padre Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia) è stato possibile approfondire la questione e affrontare il tema delle migrazioni di cui noi assistiamo solo il fenomeno più visibile, quello degli sbarchi. Il tema degli sbarchi è un tema divisivo della politica e dei rapporti tra stati e all’interno degli stati. È un tema che richiama la necessità di adeguate misure di accoglienza per persone che altrimenti rimangono senza futuro, senza storia e senza la possibilità di dare un futuro ai propri figli. A questo proposito abbiamo potuto chiedere un commento sui recenti fatti dell’Aquarius:
EA: può dirci, secondo lei, cosa può significare quello che è successo con la nave Aquarius?
Padre Mussie Zerai: La settimana appena trascorsa, il fatto che l’Aquarius con tutto il suo carico umano è stata respinta, non è un segnale positivo. Non era il modo di gestire o di fare un braccio di ferro con l’unione europea o con malta per arrivare a una soluzione perché usare persone già provate dal viaggio, persone in cerca di protezione e di sicurezza, usate come “armi di ricatto” verso l’Europa non è il modo di fare politica, non è il modo gestire le cose umanamente e civilmente. Io spero che sia una forma provocatoria e isolata che però al tavolo dell’unione europea alla fine mese, in cui i vari paesi o ministri che si incontreranno, troveranno una soluzione complessiva e basata soprattutto sulla solidarietà e non sulle chiusure ed esternalizzazione delle frontiere o su tentativi di scaricare il peso su paesi già fragili sia economicamente che politicamente. Perché scaricare tutto sui paesi del nord africa o dell’africa subsahariana, pesa in tutti i sensi perché quei paesi sono già democraticamente fragili e alcuni addirittura non garantiscono il minimo standard del rispetto dei diritti umani. Vuol dire consegnare queste persone nelle mani di chi violerà questi diritti. Abbiamo visto anche gli accordi fatti con la Libia e i Lager che ci sono nella Libia, sono la chiara testimonianza.
EA: Tramite questa criminalizzazione delle ong e con questo gioco di forza su associazioni che non rappresentano un governo, viene messo in dubbio quel principio di sussidiarietà del privato, ovvero viene messa in discussione anche la nostra capacità di portare il nostro contributo li dove lo stato non riesce o non aiuta dove mette in difficoltà le stesse associazioni?
Padre Mussie Zerai: questo è il tentativo di scaricare le proprie responsabilità perché le ong sono intervenute li dove gli stati hanno lasciato un vuoto. Dopo la chiusura di mare nostrum, si è creato un vuoto da colmare perché la gente continuava a morire. Ecco, la società civile, anche con la presenza delle ong, è venuta in soccorso. Anche tramite l’aiuto delle ong che hanno soccorso, l’Italia, oltre che ha potuto continuare a salvare le vite umane, ha anche risparmiato un miliardo di euro che altrimenti avrebbe dovuto spendere per sforzarsi a salvare vite umane se non si vuole lasciar morire queste persone. Quindi sia sull’aspetto morale etico e civile ma anche sull’aspetto economico, la presenza delle ong per l’Italia e l’Europa è stato di grande aiuto. Criminalizzarli vuol dire scaricare su di loro le proprie responsabilità. Bisognerebbe chiedere agli stati perché hanno lasciato quel vuoto, perché nessun altro programma simile al mare nostrum è subentrato a fare quel lavoro che mare nostrum faceva. Ricordiamo che mare nostrum è nato dopo due grandi tragedie successe a distanza di una settimana nel 2013, il 3 ottobre e successivamente l’11 di ottobre. Che cosa si doveva continuare a vedere? Si voleva continuare a raccogliere cadaveri? Non è quello status che l’Unione Europea, la sua fondazione e i suoi valori gridati corrispondevano a quella realtà che stavamo assistendo per cui il mediterraneo è diventato un cimitero a cielo aperto e quindi le ong hanno salvato la faccia e l’onore di tutta l’Europa. Criminalizzarli significa essere responsabili.
Padre Mussie Zerai ha poi sottolineato che il diritto dei deboli è di fatto un diritto debole perché non viene rispettato tanto che oggi parliamo di dover tutelare le leggi e le convenzioni. 27 anni fa padre Mussie è arrivato come minore non accompagnato e venne affidato al comune di Roma ma ricevette aiuti non previsti dalla legge. Ad oggi molti minori scappano dai centri perché si sentono in gabbia e non vedono una prospettiva per il proprio futuro, in molti spariscono e non si sa che fine fanno. È quello che succede a chi arriva per mare nei casi di respingimento, soprattutto nei casi di respingimento in Libia dove non sono assicurati i diritti umano e dove le persone (soprattutto chi migra) possono essere soggette a trattamenti inumani e degradanti. A ciò si aggiunge che la corte internazionale dovrebbe pronunciarsi dato che l’ONU ha recentemente condannato uno di quei comandanti con cui ci si sono fatti accordi per contenere i flussi migratori. È una di quelle persone che di giorno indossano la divisa e di notte lavorano con e come trafficanti. È un fenomeno che per poter essere risolto ha bisogno di prevenzione e lavoro costante nel lungo termine. L’Eritrea è l’esempio che anche la dittatura crea dei rifugiati. Una dittatura che usa la presenza di un vicino scomodo come giustificazione per costringere i giovani a una leva obbligatoria indeterminata che non dà futuro. In Eritrea non vi è una costituzione che tutela i cittadini, non vi è una stampa libera, non vi è libertà di movimento o libertà religiosa. Tutto questo produce una fuga di massa verso il paese più vicino ma spesso trovano condizioni peggiori e, non potendo tornare a casa, proseguono il viaggio. Una delle poche soluzioni perseguibili è quello di risolvere, certamente nel lungo termine, i conflitti ma spesso vi è un’immobilità politica. Per esempio, l’Etiopia ha comunicato di voler fare pace con l’Eritrea ma l’Italia, che è tra i garanti per la pace di Algeri, non ha fatto alcuna mossa. Se si facesse questa pace cadrebbe ogni alibi del regime e finirebbe l’esodo di giovani e giovanissimi che scappano prima che scatti l’obbligo della leva. Ultimamente si parla di istituire degli Hotspot dell’Unione Europea in Africa, campi di identificazione, ma non si tiene conto che ci sono tanti campi rifugiati che hanno un problema di sicurezza. Anzi, gli stessi campi sono il centro del traffico degli esseri umani come accade tra il Sudan e il Sinai: il campo era sotto gestione dell’UNHCR ma i militari sudanesi, addetti alla sicurezza, erano pagati dai trafficanti. I militari la notte facevano entrare i trafficanti che sceglievano le persone da vendere o a cui togliere gli organi per il traffico di organi. Le prove si hanno grazie al lavoro di BBC e CNN che ha documentato il ritrovamento dei corpi abbandonati nel deserto e che, dopo un’attenta autopsia, riportavano l’estrazione di organi.
L’Africa non ha bisogno di aiuto in denaro, è ricco di risorse già di suo, ma serve aiuto per trasformare la ricchezza in democrazia e diritti. L’Africa perde 190 miliardi in risorse naturali e umane ogni anno e ne riceve 30 dai donatori. Il vero peso delle migrazioni è quindi nei paesi di partenza poiché il costo del viaggio può essere sostenuto solo da pochi. Per esempio, in Etiopia un visto per l’Italia costa 10.000 dollari, un visto Schengen costa 15.000 dollari, mentre la tratta che fanno milioni di persone per arrivare da noi costa 5.000 dollari. Occorre che quei 190 miliardi siano trasformati in dignità, diritti e futuro. Occorre, poi, ricordare che la guerra in Libia non è stata una guerra libica ma una guerra tra stati dell’Europa, i libici sono stati sotto Gheddafi per 42 anni. Lo stesso vale per la guerra in Sud Sudan in cui combatte chi ha investito nelle pipeline per portarle nel Mar Rosso o nel Mar Indiano. Ciò che va sottolineato è che nessuno paese africano produce armi e che queste vengono comprate da paesi come la Russia, la Germania, la Cina, gli Stati Uniti e dalla stessa Italia (solo per citarne alcuni) e che andrebbe vietata la vendita di armi in queste zone.
Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia) ha portato sul piatto della discussione anche i conflitti che sono ancora aperti nella nostra Europa e di cui si parla troppo poco come quello in Ucraina e nella regione del Donbass (a riguardo il Centro Studi Roma 3000 ha tenuto un convegno a novembre). L’ambasciatore spera che quella che viene chiamata “guerra silenziosa” non diventi la “guerra dimenticata” poiché sono state riscontrate gravi violazioni di diritti umani nella penisola della Crimea dove avvengono sistematiche restrizioni alle libertà di espressione, di credo, di riunione e di partecipazione. In questo senso vi è un’impossibilità di avere un’educazione o una formazione nella propria lingua (tataro o ucraino), vi è la chiusura dei mezzi di informazione e vi sono 64 cittadini prigionieri politici tra tatari e registi e scrittori ucraini che dal 2014 sono in condizioni paragonabili ai Gulag sovietici. Oltre a questo vi è il reclutamento di giovani ucraini da parte dei russi. Il 14 giugno il parlamento europeo ha votato una risoluzione per cui chiede il rispetto dei principi democratici e la libertà per Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia.
In tutti queste problematiche vi sono anche i bambini, come l’intervento di Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”) ha sottolineato. Un miliardo e 500 mila bambini ad oggi non hanno una protezione, cioè più della metà dei bambini al mondo, e 357 milioni di bambini vivono in aree di conflitto (1 bambino su 6), ciò rappresenta un aumento del 75% dagli anni Novanta. Queste guerre lunghe e croniche colpiscono i bambini e spesso vengono colpiti volontariamente per tattica. Colpire loro vuol dire colpire l’infanzia, le famiglie, la comunità e il futuro. Le guerre vedono concentrare i propri obiettivi sulle scuole e gli ospedali, quelli che una volta erano i luoghi sacri di protezione e assistenza a civili e ai feriti. La relatrice recentemente è stata nel campo profughi di “Zaatari” dove si sono rifugiati i bambini o dove sono nati. Solo in questo campo nascono 80 bambini a settimana e la permanenza media è di 15 anni. Le persone che vi ci sono rifugiate all’inizio pensavano di tornare in Siria in breve tempo, poi sono state prese dallo sconforto e infine hanno sviluppato la resilienza. I genitori intervistati nei campi pensano che dare un’educazione ai bambini è un’arma per poter tornare a casa, in Siria, dove il sistema scolastico e quello sanitario è collassato completamente. In questo senso è importante lavorare anche dopo la guerra dato che deve essere stimolata e assistita la resilienza delle persone in modo da poter avere un futuro e una prospettiva.
Nei contesti di crisi, come evidenziato da Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”) nel suo intervento, può essere importante l’apporto delle aziende. In questo senso è importante l’aspetto privatistico che emerge nel rapporto “datore di lavoro – lavoratore”: i datori di lavoro, ancora prima del rapporto stesso, non devono avere una condotta discriminatoria verso le persone per etnia, religione o orientamento sessuale. Tutto ciò rientra anche a livello internazionale tramite l’impegno dell’ILO nel dettare linee guida per le aziende come quella che riguarda la tutela e la libertà di associazione e sindacati in quanto necessari per tutelare i propri diritti. Nelle linee guida vengono prese in considerazioni tematiche quali il lavoro minorile e le categorie vulnerabili come migranti, donne incinte o donne di ritorno dalla maternità. Inoltre, è importante l’aspetto pubblicistico rappresentato dal rapporto “Azienda – Stato”. In questo senso deve esserci una responsabilità sociale delle imprese che da una parte, tramite l’esportazione di lavoro all’estero, hanno opportunità di business e dall’altra possono portare forme di sviluppo economico per quei paesi in via di sviluppo o in crisi. L’apporto di imprese rispettose dei diritti umani è importante per evitare quei fenomeni che vanno dal disastro del Rana Plaza ai campi di Rosarno, in cui lo sfruttamento e la violazione dei diritti umani viene fatta in nome del profitto. Oltre a questi aspetti le imprese che lavorano in aree di crisi, magari essendo imprese di ricostruzione edile o di ristorazione, possono apportare il proprio sostegno alle varie Ong.
In Afghanistan sono morti 10.000 civili, in Yemen 50.000, in Siria non ci sono dati ufficiali dell’ONU ma la Croce Rossa Italiana conta la morte di 70 operatori umanitari, nel 2017 Save the Children ha perso 4 persone in un attacco kamikaze nel centro operativo in Afghanistan, in Donbass negli ultimi 3 anni si contano più di 10.000 vittime e di 1 milione e 700 mila persone spostane nel proprio paese. A questi numeri si aggiungono quelli che vedono la nascita, solo quest’anno, di 18.000 bambini nei campi profughi e nelle pessime condizioni dei campi. Questi sono numeri ma i vari interventi hanno trovato un punto fondamentale di incontro, dietro a questi numeri ci sono le storie di persone, di uomini, di donne, di bambini e di famiglie. Dall’incontro esce la volontà di voler parlare innanzitutto delle persone e delle vite delle persone e si ricorda che l’assistenza ai più deboli è richiesta degli stessi pilastri dell’unione europea e della nostra cultura. Questi pilastri ci impongono di aiutare chi è in difficoltà, di mettere le persone al centro del dibattito, di mettere il singolo con la propria storia di fronte all’enormità del numero e di mettere al centro le persone e non il profitto. Parlare di persone nei vari casi dibattuti ci permette di lottare la disumanizzazione che spesso viene fatta anche involontariamente e di tutelare il diritto dei più deboli per renderlo il diritto più forte perché spesso si fa abuso della parola sicurezza ma sono i più vulnerabili ad averne bisogno. Occorre ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani e rispettare la vita, perché tutte le vittime che abbiamo ricordato sono vittime della mancanza di rispetto alla vita.
Durante il convegno sono intervenuti: Alessandro Conte (presidente Centro Studi Roma 3000), Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”), Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia), Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia), Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”).
I bambini in situazione di conflitto: a Gaza il 95% dei bambini presenta sintomi di grave sofferenza psicologica
Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini che, senza avere nessuna responsabilità per i conflitti, subiscono l’impatto del trauma e della violenza a livelli incalcolabili. Il conflitto minaccia la salute e la felicità dei più piccoli, ma anche la loro possibilità di sperimentare l’infanzia ed è quello che sta succedendo, oltre che in altri scenari di conflitto, a Gaza. Basti pensare ai giorni dell’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, in cui almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste e 1.000 sono rimasti feriti. In questo contesto un’intera generazione di bambini a Gaza è in equilibrio sul filo del rasoio e uno shock in più potrebbe avere conseguenze permanenti devastanti. Molti bambini a Gaza non conoscono altro che l’embargo, la guerra e la deprivazione: vivono ogni giorno con incertezza, stress e ansia, senza contare che molti sono stati feriti o hanno assistito a violenze. Una nuova ricerca di Save the Children, condotta nel mese di febbraio (prima delle proteste), rileva che depressione, iperattività, predilezione per la solitudine e aggressività sono condizioni riportate dal 95% dei bambini di Gaza. La combinazione di tutti questi sintomi consiste in una profonda sofferenza psicologica, con oltre il 96% dei famigliari intervistati nell’ambito dell’indagine che riconosce tutti e quattro i gruppi di sintomatologie nei figli o nipoti. La ricerca ha coinvolto 150 caregiver e 150 bambini che vivono a Gaza e l’età media delle bambine e dei bambini intervistati è 14 anni. I bambini di Gaza mostravano segnali di sofferenza quali incubi e difficoltà nel dormire. La minaccia della guerra, la paura delle bombe, l’insicurezza costante causata dall’instabilità politica, sono la maggiore fonte di stress per i bambini ascoltati e il 60% dei famigliari ha dichiarato che tutto ciò sta avendo delle ripercussioni sui minori. Bambine e bambini hanno affermato di essere “spaventati” o di sentirsi “insicuri” dal rumore degli aerei a causa della prospettiva di una guerra o dei bombardamenti che possono colpire loro e le loro famiglie. Tali timori hanno spinto alcuni di loro ad aver paura di dormire e a far fatica a prender sonno per “proteggersi dagli incubi”. Negli ultimi 10 anni le famiglie hanno affrontato l’embargo imposto da Israele e tre conflitti, ciò ha posto sotto enorme sforzo l’economia e i servizi essenziali. La situazione vede una carenza di energia generalizzata ed è stata citata come il fattore negativo maggiore. I minori hanno spesso espresso “rabbia” rispetto al taglio dell’energia elettrica o hanno detto di sentirsi ansiosi, soli e come “se nessuno fosse con loro” durante la notte, a luci spente. Da una parte le preoccupazioni dei bambini ma dall’altra c’è anche quella dei familiari rispetto alla deteriorata situazione economica. Negli ultimi 15 anni il tasso di povertà è salito dal 30% a oltre il 50%, la disoccupazione è passata dal 35 al 43% e ora è al 60% tra i giovani. Meno di 20 anni fa il 96% delle persone aveva acqua potabile, mentre ora il 93% non ne ha affatto. Scorte di medicinali e cibo scarseggiano e sono costosi e i permessi per lasciare Gaza per ricevere cure sono sempre più difficili da ottenere.
Save the Children è profondamente preoccupata che la crescente violenza vissuta dai bambini, insieme all’aumento del senso di insicurezza provato, metta fine anche alla loro resilienza. La ricerca ha però rilevato che la maggior parte di loro mostra ancora segni di resilienza: più dell’80% dice di poter parlare dei problemi con la famiglia e con gli amici e il 90% afferma di sentirsi supportato dai genitori. Marcia Brophy, esperta in salute mentale di Save the Children in Medio Oriente ha spiegato che “Una significativa parte del senso di sicurezza provato dai bambini è legato alla stabilità che le famiglie sono state in grado di offrire, con oltre l’80% dei 150 bambini intervistati che non si sentirebbe al sicuro lontano dai genitori. Durante le ultime settimane in migliaia hanno visto il padre, la madre o un parente ferito o ucciso: una tale perdita di equilibrio a livello familiare, in un ambiente che è già caratterizzato dall’insicurezza, mette a dura prova la salute mentale dei bambini e costituisce una grave minaccia per i loro fragili meccanismi di difesa. Questo li espone a un alto rischio di stress tossico, la più pericolosa forma di risposta allo stress, provocata da una forte o prolungata esposizione alle avversità”. Venti anni fa uno studio sui bambini e i conflitti armati ha rilevato che i bersagli primari di guerra sono diventati i bambini. A ciò si aggiunge il fatto che è aumentata la possibilità di sfollamento dei bambini e che la natura sempre più mortale dei moderni conflitti armati intensifica anche la natura del trauma che i bambini sperimentano. L’esposizione agli eventi traumatici può portare a un aumento dei disturbi a lungo termine della salute mentale come il disturbo depressivo maggiore (MDD), il disturbo d’ansia da separazione (SAD), il disturbo overanxious (OAD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo la fine del conflitto. Tuttavia, mentre il conflitto persiste, l’esperienza combinata di eventi traumatici estremi con forme più sottili di minaccia (come abuso fisico e verbale, esposizione alla violenza, paura del rapimento) e privazione (come povertà, fame e abbandono cronico) che molti bambini possono vivere quotidianamente, li espongono ad un alto rischio di vivere in uno stato di stress tossico. Lo stress tossico è definito come la “forma più pericolosa di risposta allo stress” che può verificarsi quando i bambini subiscono avversità forti, frequenti o prolungate senza un adeguato sostegno degli adulti. La risposta allo stress tossico continuo e le molteplici cause di questo stress possono durare per tutta la vita e impattare sulla salute mentale e fisica dei bambini, incluso il loro sviluppo cognitivo, socioemotivo e fisico. Questo inoltre aumenta la probabilità che i bambini abbiano ritardi nello sviluppo o problemi di salute più avanti nella vita. La lentezza dello stress tossico può disturbare lo sviluppo del cervello e di altri organi e aumentare il rischio di malattie legate allo stress, malattie cardiache, diabete, problemi del sistema immunitario, abuso di sostanze, depressione e altri disturbi mentali nell’età adulta. Dato che le esperienze di un bambino durante i primi anni di vita hanno un impatto duraturo sull’architettura del cervello in via di sviluppo, uno stato continuo di stress tossico ha conseguenze negative e durature sullo sviluppo cognitivo e sulla regolazione emotiva. In particolare, l’attivazione prolungata degli ormoni dello stress nella prima infanzia può effettivamente ridurre le connessioni neurali in aree del cervello dedicate all’apprendimento e al ragionamento, influenzando le abilità dei bambini a svolgere attività accademiche e successive nella loro vita. Le avversità estreme nella prima infanzia possono ostacolare lo sviluppo sano dei bambini e la loro capacità di funzionare pienamente, anche quando la violenza è cessata.
Brophy ha però dichiarato che “è troppo presto per capire il pieno impatto che la recente violenza ha avuto sui bambini, alcuni dei quali hanno perso un parente o una persona amata. Ciò che sappiamo è che la distruzione dell’equilibrio in ambito familiare è uno dei fattori chiave in relazione alla salute mentale dei bambini in conflitto”. Nel frattempo, Jennifer Moorehead, Direttrice di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati ha lanciato il proprio appello e ha detto: “La comunità internazionale deve poter incrementare l’assistenza e introdurre maggiore supporto psico-sociale e per la salute mentale nelle scuole, nelle attività extra curriculari e nelle case. Solo facendolo immediatamente, focalizzandosi anche sulla fine dell’embargo e sull’individuazione di una soluzione duratura e giusta, i bambini avranno maggiori speranze per il loro futuro”.
Le tante facce dell’esclusione: il rapporto di Save the Children sull’infanzia
Save the Children ha recentemente lanciato il rapporto “Le tante facce dell’esclusione” poiché povertà, conflitti e discriminazioni di genere minacciano l’infanzia di oltre la metà dei minori al mondo. Più di 1,2 miliardi di bambini rischiano di morire prima di aver compiuto 5 anni, di soffrire le conseguenze della malnutrizione, di non andare a scuola e ricevere un’istruzione o di essere costretti a lavorare o a sposarsi troppo presto. Senza sufficienti azioni urgenti il mondo non riuscirà a raggiungere l’obiettivo di garantire, entro il 2030, salute, educazione e protezione a tutti i minori, come previsto dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile approvati dall’Onu nel 2015. In questo senso anche il nostro paese deve compiere moltissimi passi poiché povertà economica ed educativa continuano a privare bambini e adolescenti delle opportunità necessarie per vivere l’infanzia che meritano e costruirsi il futuro che sognano. Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children ha dichiarato: “Non possiamo più permettere che così tanti bambini corrano il rischio di perdere la propria infanzia già dal momento in cui vengono al mondo e che siano costretti sin da subito a fare i conti con condizioni di forte svantaggio e ostacoli difficilissimi da superare. Ciò avviene perché semplicemente sono delle bambine, oppure perché nascono e crescono in contesti caratterizzati dalla povertà o dalla guerra, dove per loro altissimo è il rischio di essere costretti al lavoro minorile, di subire sulla propria pelle le conseguenze della malnutrizione oppure, per quanto riguarda le ragazze, di essere costrette a sposare uomini spesso molto più grandi di loro quando sono ancora soltanto delle bambine”. Nel rapporto viene stilato il secondo End of Childhood Index di Save the Children che confronta i dati più recenti per 175 paesi e valuta dove il maggior numero di bambini sta perdendo la propria infanzia. Singapore e Slovenia si classificano al primo posto nella classifica punteggio di 987 e altri sette paesi dell’Europa occidentale si classificano tra i primi 10 poiché raggiungono punteggi molto alti per la salute, l’educazione e lo stato di protezione dei bambini. Il Niger è l’ultimo tra i paesi intervistati, con 388 punti.
I contesti di povertà e le gravi conseguenze sul futuro dei bambini
Nei paesi in via di sviluppo un minore su cinque vive in povertà estrema ma questo problema riguarda anche le aree economicamente più avanzate, con ben 30 milioni di bambini e ragazzi che nei Paesi OCSE vivono in povertà relativa grave. Vivere in un contesto di povertà crea forti ostacoli alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla protezione dei bambini, alla loro possibilità di partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano da vicino e incide fortemente sulla possibilità di andare a scuola e ricevere un’educazione. I bambini sperimentano in modo differente la povertà rispetto agli adulti: essere cresciuto in povertà ha un impatto negativo sullo sviluppo e l’apprendimento, oltre ad aumentare l’esposizione al rischio. Questi effetti durano una vita e vengono trasmessi da una generazione all’altra in quanto questi bambini non perdono l’infanzia perché poveri ma perché gli viene negato un buon inizio nella vita. Ciò avviene perché sperimentano una salute peggiore e tassi di malnutrizione e morte più alti, hanno una probabilità più alta di essere coinvolti nel lavoro minorile, di sposarsi precocemente o di essere precocemente in gravidanza. Non importa dove vivono, i bambini che vivono in povertà sono esposti a minacce di ogni tipo. Possono subire lo sfruttamento e l’abuso. Subiscono frequentemente bullismo e discriminazione, soprattutto a scuola, che causa ansia, frustrazione e rabbia. I bambini di tutto il mondo esprimono sentimenti di vergogna, insicurezza e disperazione. Nei paesi più ricchi, i bambini poveri riportano lo stigma e l’esclusione sociale nella ricezione di pasti scolastici gratuiti, di vestiti sporchi o non “alla moda”, o per non avere gli ultimi gadget, o perché non hanno i soldi per partecipare a eventi scolastici e altre attività di gruppo dei pari o perché non riescono a invitare gli amici a casa in quanto vivono in alloggi sovraffollati o sub-standard. Non mancano poi i bambini che lavorano per sostenere le proprie famiglie e così perdono il riposo, il gioco, la ricreazione e perdono l’opportunità di partecipare alla loro comunità, alla loro religione, allo sport e alle attività culturali. Dal rapporto di Save the Children emerge la stretta correlazione tra povertà e lavoro minorile, tra povertà e matrimoni precoci e tra povertà e gravidanze precoci.
I diritti negati dei minori nelle zone di guerra
“Nelle aree segnate da guerre e crisi umanitarie è molto complicato, oltre che pericoloso, poter raccogliere dati aggiornati e avere una fotografia esatta che rappresenti realmente le difficilissime condizioni che sono costretti ad affrontare i bambini, perché si tratta di Paesi al collasso, dove le persone fuggono in massa per mettere in salvo le proprie vite e dove in molti casi nemmeno gli aiuti umanitari riescono a raggiungere la popolazione. Pensiamo, per esempio, a Paesi come la Siria o lo Yemen, dove i bambini, nelle loro giovanissime vite, finora non hanno conosciuto altro che bombe, violenza e disperazione; oppure alle gravi crisi umanitarie di cui sono vittime i bambini Rohingya, i bambini in fuga dalla Repubblica Democratica del Congo o i tanti minori gravemente malnutriti che lottano per sopravvivere in Somalia, uno dei Paesi più poveri al mondo, sconvolto negli ultimi mesi da una gravissima siccità e da decenni dilaniato da instabilità e violenze. Contesti in cui i bambini vengono derubati della propria infanzia e in cui nessun di loro, in nessuna parte del mondo, dovrebbe mai trovarsi”, ha affermato Valerio Neri. Nelle aree di crisi, soffrire la violenza, assistere alla violenza o temere la violenza può causare disabilità permanenti e traumi emotivi profondi. Inoltre, la separazione dai familiari e le difficoltà economiche possono esporre ragazze e ragazzi allo sfruttamento sotto forma di lavoro minorile, matrimonio infantile, violenza sessuale e reclutamento da parte di gruppi armati. A questi si aggiungono i pericoli meno visibili per i bambini in conflitto, ovvero la mancanza di cibo e il crollo dei servizi essenziali come assistenza sanitaria, igiene e istruzione. Sebbene l’istruzione sia disponibile in alcuni campi profughi, questa è spesso disorganizzata, temporanea, con risorse insufficienti, sovraffollata e limitata all’istruzione elementare. I bambini spesso non possono accedere alle scuole nei campi esterni per motivi di sicurezza, mancanza di documentazione, restrizioni alla circolazione di determinati gruppi di popolazione, per il costo relativo all’istruzione (ad es. per uniformi, tasse scolastiche, scuola pranzi, libri, trasporti) o la mancanza di competenze linguistiche necessarie per partecipare. Per esempio, circa i due terzi dei rifugiati vivono in aree dove nessuna delle lingue ufficiali è la lingua ufficiale nel loro paese di origine. Anche la xenofobia e la stigmatizzazione sono sfide per molti bambini rifugiati che hanno perso l’istruzione. Senza istruzione, i bambini sfollati affrontano un triste futuro e, soprattutto in tempi di crisi, l’educazione può offrire stabilità al bambino, protezione e la possibilità di acquisire conoscenze critiche e abilità. Le scuole possono anche servire come spazi sociali che uniscono famiglia e membri della comunità creando legami di fiducia, guarigione e supporto. Non fornire istruzione per i bambini sfollati può essere estremamente dannoso, non solo per bambini, ma anche per le loro famiglie e le società poiché perpetuano i cicli di povertà e conflitto. Nei Paesi in conflitto, malnutrizione, malattie e mancanza di accesso alle cure sanitarie uccidono molto più delle bombe. A causa dei conflitti, sono ben 27 i milioni di minori che sono attualmente tagliati fuori dall’educazione, perché le loro scuole sono prese di mira dagli attacchi, occupate dai gruppi armati o perché i genitori hanno paura di mandare i figli a scuola. La perdita delle necessità di base richieste per l’infanzia, minaccia sia la sopravvivenza immediata che il futuro a lungo termine dei bambini. Inoltre, il conflitto tende a deprimere l’economia e ad aumentare il genere di disuguaglianze nei paesi poveri, rendendo una brutta situazione peggio per i bambini più vulnerabili.
Le discriminazioni contro le bambine e le ragazze
Oggi le bambine e le ragazze hanno certamente molte più opportunità che in passato, tuttavia ancora troppe di loro, specialmente quelle che vivono nei contesti più poveri, sono costrette ad affrontare quotidianamente discriminazioni ed esclusione in svariati ambiti, dall’accesso all’educazione alle violenze sessuali, dai matrimoni alle gravidanze precoci. Nei contesti di povertà, rispetto ai loro coetanei maschi, le ragazze hanno maggiori probabilità di non mettere mai piede in classe nella loro vita. Stime recenti rivelano che circa 15 milioni di bambine in età scolare (scuola primaria) non avranno mai la possibilità di imparare a leggere e scrivere rispetto a 10 milioni di coetanei maschi. Spesso le famiglie più svantaggiate credono che dare in sposa le proprie figlie sia l’unica via possibile per assicurare il loro sostentamento, ciò comporta che i matrimoni precoci siano tra i fattori trainanti della negazione dell’opportunità di apprendere e ricevere un’educazione. Oggi, nel mondo, 12 milioni di ragazze si sposano ogni anno prima dei 18 anni e ai ritmi attuali si stima che entro il 2030 tale cifra supererà i 150 milioni. Le ragioni del matrimonio infantile variano di molto a seconda del contesto ma la maggior parte di essi si basa su situazioni che peggiorano durante i conflitti. Paura di stupro e violenza sessuale, la paura di gravidanze prematrimoniali indesiderate, la vergogna o il disonore famigliare, la paura di rimanere senza un tetto o la fame sono le ragioni riportate dai genitori e dai bambini per il matrimonio precoce. In alcuni casi, il matrimonio è stato utilizzato per facilitare la migrazione da paesi colpiti dal conflitto e campi profughi. Quindi il fenomeno delle spose bambine è particolarmente rilevante anche nelle aree colpite dai conflitti, dove in molti casi le famiglie organizzano i matrimoni per proteggere le figlie da abusi e violenze sessuali. Tra i rifugiati siriani in Giordania, ad esempio, la percentuale di ragazze sposate prima di aver compiuto i 18 anni è cresciuta dal 12% nel 2011 al 32% nel 2014. In Libano, attualmente, risulta sposata prima dei 18 anni più di 1 ragazza profuga siriana su 4, mentre in Yemen la percentuale di spose bambine supera i 2/3 del totale delle giovani nel Paese, rispetto alla metà prima dell’escalation del conflitto. Il problema consiste nel fatto che si stima che 1 donna su 3 a livello mondiale abbia avuto esperienza di violenza fisica o sessuale nella propria vita e per lo più per mano dei loro partner. I tipi di violenza sperimentati possono includere selezione del sesso prenatale (feticidio – rimozione del feto femminile), infanticidio femminile, abbandono, mutilazione genitale femminile, stupro, matrimonio infantile, prostituzione forzata e delitto d’onore. Spesso la violenza sessuale e la prostituzione forzata vengono camuffate dal “matrimonio”. Queste sono gravi violazioni di diritti umani e sono state usate come armi da guerra in tutti i continenti e a questo si aggiunge che i bambini che sfuggono alla guerra e alla persecuzione sono particolarmente vulnerabili a diventare vittime della tratta. Le Ragazze e i ragazzi sono entrambi colpiti, ma il doppio delle ragazze lo sono segnalato come vittime della tratta: mentre le ragazze tendono ad essere trafficate per matrimoni forzati e la schiavitù sessuale, i ragazzi sono tipicamente sfruttati nei lavori forzati o come soldati.
A tale fenomeno è poi strettamente collegato quello delle gravidanze precoci: una questione particolarmente preoccupante considerando che le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano la prima causa di morte al mondo per le giovani tra i 15 e i 19 anni. La gravidanza da teenager è una sfida globale che colpisce sia i paesi ricchi che i paesi poveri allo stesso modo, ma i tassi di natalità sono più alti nei paesi dove ci sono meno risorse. In tutto il mondo, questo fenomeno ha più possibilità di manifestarsi nelle comunità emarginate, in cui vi è mancanza di istruzione e di lavoro, dove vi è disuguaglianza di genere, dove vi è mancanza di servizi di salute sessuale e riproduttiva e dove le donne e le ragazze hanno un basso status. È stato stimate che il 10-30% delle ragazze che abbandonano la scuola lo fanno a causa della gravidanza anticipata o del matrimonio; a causa del loro livello di istruzione inferiore, sono molte le madri adolescenti che hanno meno capacità e opportunità per occupazione e ciò alimenta i cicli di povertà. Save the Children ha sottolineato che mettere fine ai matrimoni e alle gravidanze precoci porterebbe a benefici economici entro il 2030 rispettivamente pari a 500 e 700 miliardi di dollari all’anno. La fine dei matrimoni precoci potrebbe risparmiare nei paesi in via di sviluppo trilioni di dollari poiché ridurrebbe la fertilità e la crescita della popolazione per migliorare i guadagni e la salute dei bambini. Il matrimonio minorile non colpisce solo la vita di milioni di ragazze ma ha anche un enorme impatto sull’economia. L’analisi di Save the Children mette, infine, in evidenza la piaga delle violenze fisiche e sessuali (dalle mutilazioni genitali femminili agli stupri alla prostituzione forzata) di cui troppo spesso le bambine e le ragazze sono vittime nel mondo.
Neri ha concluso dicendo che “Sono ancora troppi, come sottolinea il nostro rapporto, gli ostacoli che impediscono a tantissimi bambini e bambine al mondo di vivere a pieno la propria infanzia. Dalla lotta alla malnutrizione e a ogni forma di violenza, dall’accesso alla salute e all’educazione, chiediamo pertanto ai governi di impegnarsi concretamente ed efficacemente perché nessun bambino venga più lasciato indietro e a nessuno di loro venga più sottratto il proprio futuro”.
Striscia di Gaza: almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste, 1.000 quelli rimasti feriti
Sul piano internazionale, la storia della Striscia di Gaza imbarazza poiché tutti gli attori (Stati uniti e Unione Europea in primis) che si dicono paladini della “pace in Medio Oriente” non vogliono (i primi) e non possono (la seconda) muovere un dito per affrontare radicalmente la questione. Che viene così trascurata, attenuata ogni tanto con discorsi di “investimenti”, di “sostegno allo sviluppo”, di “interventi” che non hanno alcun impatto significativo per sedare la rabbia di chi nasce, sopravvive e muore in quel pezzo di terra recintata. Le ragioni delle proteste iniziate da più di 6 settimane nella striscia di Gaza sono diverse: l’embargo di Israele verso la Striscia di Gaza (che dura da più di dieci anni), l’assenza di prospettive e di lavoro con un tasso di disoccupazione al 44%, il risentimento verso la classe dirigente palestinese, il 30% del taglio dei salari agli abitanti di Gaza solo nell’ultimo anno o anche il fatto che periodicamente mancano acqua, cibo, medicinali, elettricità e carburante. Le proteste hanno visto 108 morti di cui 60 solo nella giornata del 14 maggio. Gli scontri hanno visto da una parte i Palestinesi che cercavano di “abbattere” il muro o di lanciare pietre (pietre che hanno assunto il simbolo del dolore della popolazione palestinese), mentre dall’altra parte del muro vi erano i tiratori scelti israeliani. Amnesty International ha dichiarato che è “aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro i civili disarmati” mentre l’esercito israeliano si è difeso dicendo che tra i 60 caduti vi erano 14 che cercavano di scavalcare il muro o di lanciare molotov o ordigni improvvisati e altri 24 che facevano parte delle brigate di fondamentalisti. In questi scontri non è stato risparmiato nessuno, sono almeno 13 i bambini che hanno perso la vita a Gaza dall’inizio delle proteste mentre il numero di persone rimaste ferite ha ormai superato quota 10.000, di cui almeno 1.000 sono minori. Quella del 14 maggio, sottolinea Save the Children è stata una delle giornate più sanguinose dalla guerra del 2014, con 6 bambini che hanno perso la vita e più di 220 rimasti feriti, tra cui, secondo i dati del Ministero palestinese per la Salute a Gaza, più di 150 colpiti da colpi d’arma da fuoco. Lo stesso Ministero, del resto, conferma che circa 600 bambini sono stati finora ricoverati in strutture ospedaliere, mentre secondo le informazioni diffuse da un’agenzia impegnata nella protezione dei civili almeno 600 minori hanno attualmente bisogno di supporto psicosociale. Inoltre, Anche prima dell’inizio delle proteste, gli ospedali di Gaza erano quasi al collasso con il 90% dei posti letto già occupati. L’afflusso di nuovi feriti ha significato che tante persone vengono curate nei corridoi o dimesse prima di essere adeguatamente curate. A peggiorare ulteriormente la situazione, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, solo a pochissimi feriti viene permesso di lasciare Gaza per cercare assistenza medica, il che aumenta le probabilità di complicazioni e impedisce ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno. Nel frattempo, Germania e Regno unito pretendono un’inchiesta indipendente, richiesta che al consiglio di sicurezza è stata bloccata dagli Stati Uniti che riconoscono ad Israele “il diritto di difendere il loro confine”. A ciò si aggiunge il riaprirsi della frattura diplomatica tra Israele e Turchia. La Turchia ha espulso l’ambasciatore di Ankara mentre Netanyahu ferma l’importazione dei prodotti agricoli turchi e rimanda a casa il console a Gerusalemme. I palestinesi sono abituati da sempre a dare grande importanza al dibattito internazionale che si è creato intorno alla loro causa. La nuova amministrazione americana ha nominato un ambasciatore in Israele molto vicino al movimento dei coloni e soprattutto ha deciso di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, una città contesa da decenni fra israeliani e palestinesi. Una decisione che ha convinto molti palestinesi che la soluzione ai loro problemi sia sempre più lontana, per cui l’autorità palestinese ormai non considera più Washington come un mediatore imparziale.
Il comitato organizzatore della protesta si era impegnato a garantire una grande manifestazione non violenta in modo da favorire la partecipazione delle famiglie. In cinque luoghi diversi della Striscia, a circa un chilometro di distanza dalla recinzione, sono stati montati ampi tendoni per i manifestanti. Qui migliaia di persone hanno mangiato e bevuto insieme mentre gli altoparlanti trasmettevano musica leggera. Però qualche centinaio di metri più in là, a poca distanza dalla recinzione, l’atmosfera era molto diversa. A piccoli gruppi provano ad avvicinarsi sempre di più al confine israeliano per lanciare pietre, bruciare copertoni e danneggiare la recinzione. Alcuni di loro sono giovani manifestanti senza particolari affiliazioni politiche mentre altri hanno legami con Hamas. La giornata del 14 è particolare che passa tra il sorriso di Ivanka Trump e il massacro dei palestinesi: mentre delle persone morivano sotto i colpi dei fucili di precisione, a Gerusalemme si teneva la cerimonia in pompa magna per l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense. Trump ha ventilato per mesi la possibilità di partecipare lui stesso alla cerimonia ma alla fine ha mandato sua figlia Ivanka e il marito Jared Kushner. Inoltre, la data è stata scelta con precisione in quanto coincide con i 70 anni dalla nascita dello stato israeliano. Ivanka Trump ha inaugurato la sede dell’ambasciata dicendo: “A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell’ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d’Israele. Inoltre, come è stato detto: “Prevale una versione della storia della Palestina con una costante rimozione: nella terra promessa c’è un altro popolo che sente quella terra come propria per il semplice fatto che ci vive da secoli e secoli. Una contraddizione irrisolta tra il mito del focolare ebraico, dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento: Gerusalemme capitale dello stato israeliano significa anche questo”. Il 15 maggio, anniversario dei 70 anni della Nakba, era previsto come il giorno in cui le azioni di protesta sarebbero state più intense ma è stata una giornata di funerali.
Lo Status di Gerusalemme
Lo scorso 6 dicembre Donald Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Gli Stati Uniti non hanno sempre sostenuto il movimento sionista (movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico). Per esempio, Roosevelt aveva capito il rischio nel supportare uno stato Israeliano in un momento in cui il mondo arabo mostrava affinità con il socialismo sovietico e possedeva la maggior quantità di petrolio. Truman invece era un simpatizzante sionista e doveva, in parte, la sua elezione alla comunità ebraica americana quindi, una volta diventato presidente, spinse molto per lo Stato di Israele, per questo gli Stati Uniti furono il primo paese a riconoscere il neonato stato ebraico. Nel 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite (che allora contava 52 Paesi membri), dopo sei mesi di lavoro da parte dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) approvò la Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 181 che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500 000 ebrei e 400 000 arabi) e di uno Stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800 000 arabi e 10 000 ebrei). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, sarebbero dovuti diventare una zona separata sotto l’amministrazione dell’ONU. Nella sua relazione l’UNSCOP giunse alla conclusione che era “manifestamente impossibile” accontentare entrambe le fazioni ma che era “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico. Le reazioni alla risoluzione dell’ONU furono diversificate. La maggior parte degli ebrei accettarono pur lamentando la non continuità territoriale mentre i gruppi più estremisti erano contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano “la Grande Israele”, nonché al controllo internazionale di Gerusalemme. Tra la popolazione araba la proposta fu rifiutata, con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico; altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso né sulla principale risorsa idrica della zona, il Mar di Galilea); altri ancora erano contrari perché agli ebrei, che allora costituivano una minoranza (un terzo della popolazione totale che possedeva solo il 7% del territorio), fosse assegnata la maggioranza (56%, ma con molte zone desertiche) del territorio (anche se la commissione dell’ONU aveva preso quella decisione anche in virtù della prevedibile immigrazione di massa dall’Europa dei reduci delle persecuzioni della Germania nazista); gli stati arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due governi. Tra il dicembre del 1947 e la prima metà di maggio del 1948 vi furono cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Venne messo a punto Il piano che aveva come scopo la difesa e il controllo del territorio del quasi neonato Stato israeliano, e degli insediamenti ebraici a rischio posti di là dal confine di questo. Questo prevedeva, tra le altre cose, la possibilità di occupare “basi nemiche” poste oltre il confine (per evitare che venissero impiegate per organizzare infiltrazioni all’interno del territorio), e prevedeva la distruzione dei villaggi palestinesi espellendone gli abitanti oltre confine, ove la popolazione fosse stata “difficile da controllare“. Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, un giorno prima che l’ONU stessa, come previsto, ne sancisse la creazione. Il giorno successivo (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, attaccarono l’appena nato Stato di Israele ma l’offensiva venne bloccata dall’esercito israeliano. Nel corso della guerra, Israele distrusse centinaia di villaggi palestinesi e fu la concausa dell’esodo degli abitanti. La guerra terminò con la sconfitta araba nel maggio del 1949, e produsse 711 000 profughi arabo-palestinesi. Dall’amministrazione Truman in poi abbiamo assistito a differenti linee guida con i democratici e i repubblicani. L’unica caratteristica che è rimasta stabile nelle differenti politiche è la soluzione a due stati, di fatto nessun presidente ha mai apertamente sostenuto la possibilità che Israele possa annettere automaticamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nella presidenza Reagan invece vi è stato il momento più forte di supporto a Israele, sotto la sua amministrazione Tel Aviv ha guadagnato il titolo di “major non-NATO ally” e che si è tradotto in grandi quantità di denaro e di armi in arrivo da Washington. Con la fine della Guerra fredda il supporto a Israele è diventato più una posizione di politica interna. Inizialmente, dopo la caduta del muro di Berlino, gli Stati uniti hanno cercato di avvicinarsi al tema dei diritti dei palestinesi per cercare alleanze con il mondo arabo che non godeva più del supporto dell’unione sovietica. Ma con gli attacchi alle Torri Gemelle del 2001 e la retorica del terrorismo, l’appoggio per la causa palestinese ha assunto sfumature diverse. Le due amministrazioni Bush e, in parte, quelle di Obama hanno mostrato una forte vicinanza a Israele ma hanno usato il tema dei diritti dei palestinesi e della difesa dei loro territori come uno strumento per farsi vedere vicini ai temi arabi.
Dal 1947 la questione cruciale dello scontro è lo status di Gerusalemme. Le nazioni unite hanno ripetuto a più riprese la soluzione che comprendeva l’esistenza di due stati e l’amministrazione sotto l’ONU della città di Gerusalemme. Ciò non riuscì ad evitare la divisione effettiva della città tra due gruppi opposti. Sono stati svariati i tentativi di stabilire giuridicamente il possesso della città. Uno dei casi più eclatanti è in seguito alla vittoria da parte di Israele della guerra dei sei giorni e la successiva annessione dei territori del Sinai, della West Bank e delle Alture del Golan. Infatti, immediatamente dopo l’occupazione, il ministro della difesa israeliana Dayan ha proclamato Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. La comunità internazionale non ha riconosciuto l’annessione della città e si è continuato a sottolineare la necessità del regime internazionale sull’area. Ci furono ripetuti tentativi dell’ONU e diverse investigazioni sulla violazione dei diritti umani. Sullo status di Gerusalemme, per esempio, ha dichiarato inammissibile l’acquisizione di un territorio attraverso l’uso della forza, secondo quanto stabilito dalla carta Onu, e ha richiesto il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati, nel riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere e del principio di sovranità. Nel 1980, però, lo stato israeliano ha emanato la Jerusalem Law, con cui si dichiarava Gerusalemme capitale. La dichiarazione venne immediatamente rifiutata dalle Nazioni Unite e dalle altre organizzazioni internazionali. Furono adottate due risoluzioni in quell’anno, la 465 e la 478, in cui Israele veniva accusata di violazione dei diritti umani e si invitava tutti i membri dell’ONU ad interrompere le missioni diplomatiche nella città. Nel corso degli anni le risoluzioni hanno sempre confermato lo status di Israele come forza occupante e il riconoscimento di violazioni dei diritti umani. Anche nella risoluzione del 2016 (Res 2334) è stato riaffermato l’obbligo di Israele di rispettare scrupolosamente i suoi obblighi e responsabilità legali ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Inoltre, sono state condannate tutte le misure volte a modificare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, compresa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione degli insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e dislocamento di civili palestinesi, in violazione del diritto internazionale umanitario e relative risoluzioni. In relazione a Gerusalemme è stato ribadito che l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nel territorio palestinese occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale e un ostacolo principale al raggiungimento della soluzione dei due Stati e un giusto pace duratura e completa. In sintesi, le Nazioni Unite continuano a sottolineare il regime internazionale di Gerusalemme e ad accusare Israele di occupazione illecita del territorio, soprattutto di Gerusalemme est (essendo quella ovest ormai considerata de facto israeliana). Come possiamo notare la soluzione di Trump ha dimostrato di avere pesanti conseguenze e porre una rottura sia con la politica estera americana che con le decisioni internazionali. In molti hanno cercato lo scopo della mossa del presidente degli Stati uniti. C’è chi ha trovato la motivazione nell’avvicinarsi delle elezioni di Mid Term. Trump, poiché sta perdendo consensi tra i moderati, avrebbe deciso di assolutizzare ancora di più il suo messaggio politico per poter raccogliere i voti nei poli più estremi del panorama politico. Inoltre, è stata vista come mossa per tenersi più stretti i cristiani evangelisti all’interno del partito repubblicano e che simpatizzano per la questione ebraica, per evitare che vadano su posizioni più vicine ai nemici interni al partito. Va anche detto che Trump sta cercando di mantenere le sue promesse elettorali non appena gli è permesso dalla situazione. Altre ipotesi che sono state analizzate sono quelle relative agli stessi consiglieri di Trump e anche all’ansia della Casa Bianca di distogliere l’attenzione mediatica dal cosiddetto Russiagate. Ciò che rimane sicuro è che le conseguenze per l’area sono gravi e profonde anche per gli stessi alleati del presidente, come l’Arabia Saudita e l’Egitto. Questi giorni risultano essere un successo non per Israele bensì per il primo ministro Benjamin Netanyahu, per la destra e per i nazionalisti. Questi sono giorni di vittoria per il loro percorso, quello della forza, e della loro fede, quella negli eletti che possono fare tutto ciò che vogliono.
La situazione dei bambini
Jennifer Moorehead, direttrice di Save the Children nei Territori palestinesi occupati ha detto: “L’uccisione dei bambini non può essere giustificata. Chiediamo con urgenza a tutte le parti di adottare misure concrete per garantire l’incolumità e la protezione dei bambini, nel rispetto delle convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani. Chiediamo inoltre a tutte le parti di impegnarsi affinché tutte le proteste rimangano pacifiche, di affrontare le cause alla radice del conflitto e di promuovere dignità e sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi. Le famiglie che incontriamo ci dicono che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, mentre cercano di prendersi cura dei propri cari che sono rimasti feriti. Spesso non possono permettersi cure e medicinali e ci raccontano di essere estremamente preoccupate per il futuro dei loro bambini, già devastati da più di 10 anni di blocco israeliano e dal sempre minore interesse da parte dei donatori. Le continue interruzioni di corrente e il congelamento degli stipendi dovuto alle continue divisioni tra l’Autorità Palestinese che governa la West Bank e l’autorità de facto di Gaza, inoltre, significa aggravare ulteriormente le condizioni di vita di famiglie già disperate”. Nella striscia di Gaza, le ostilità hanno esposto i bambini a livelli di violenza e distruzione senza precedenti. La povertà, le condizioni in cui cresce il bambino, la mancanza di istruzione, o il fatto di non avere cibo e acqua sono solo alcune delle problematiche in cui cresce un bambino nelle zone di guerra, queste problematiche hanno effetti sulla salute fisica e mentale del bambino. In questi contesti la personalità e l’intersoggettività del bambino viene distrutta e occorrono importanti cure mediche e piscologiche che spesso solo le ONG possono portare ma trovano ostacoli nel loro operato o perdono fondi per il disinteresse internazionale. Il “rapporto 2017 – 2018 sulla situazione dei diritti umani nel mondo” di Amnesty International riporta che Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto illegalmente da Israele sulla Striscia di Gaza mantiene in vigore le consolidate restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoponendo a punizione collettiva l’intera popolazione di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto e alle misure punitive imposte dalle autorità della Cisgiordania, il blocco di Gaza da parte d’Israele ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da interruzioni dell’erogazione dell’energia elettrica, passata da una media di otto ore al giorno a un massimo di due o quattro ore giornaliere, da una ridotta fornitura di acqua potabile con implicazioni igienico-sanitarie e da crescenti difficoltà d’accesso all’assistenza medica, rendendo Gaza progressivamente “invivibile”, secondo una definizione delle Nazioni Unite.
Mosul, I bambini del fronte
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Mentre a Mosul la battaglia contro lo Stato Islamico avanza lentamente alle porte della città vecchia, i quartieri liberati che delimitano la linea del fronte riflettono l’incubo da cui molti iracheni faticano a svegliarsi. I colpi di mortaio rimbombano in continuazione, facendo traballare i palazzi pericolanti e animando le strade deserte ricoperte da cumuli di macerie. E i bambini, con sguardi spenti ma interrogativi, sono le vittime di questa terrificante e surreale desolazione.
Questa foto è stata scattata il 9 aprile a Mosul.
To be continued…
Isis: nuove conquiste in Siria
La penetrazione dell’Isis continua a mietere terreno in Siria. Nell’est del paese, vicino a Deri Ezzor, l’attacco di qualche giorno fa ha prodotto, in base ai dati diffusi dall’agenzia ufficiale siriana Sana, circa 300 vittime fra donne, bambini e anziani.
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Una strage bollata come la più grave negli ultimi cinque anni di guerra civile. Il crudo bollettino di guerra riferisce di almeno 150 decapitati nei sobborghi controllati dal regime siriano a Dayr az Zor, Ayash and Begayliya. Nel corso dell’assedio a Deri Ezzor, oltre 400, fra donne e bambini, membri delle famiglie dei combattenti di Assad, sarebbero stati rapiti alla periferia settentrionale, nel quartiere di Al-Baghaliyeh. Circa 270 di loro sono stati rilasciati. Si tratta di donne, bambini e adolescenti fino ai 14 anni. Nel contempo, le forze contrarie allo Stato Islamico continuano ad attaccare.
A Raqqa, roccaforte del califfato sono stati uccisi, nel corso dei raid aerei organizzati da russi e americani – tramite la coalizione anti Isis – circa 40 civili, fra cui 8 bambini. I numeri sono stati diffusi dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani. Fra i fumi di questa carneficina si inserisce un dato: Isis ha dimezzato lo stipendio dei militari nella regione di Raqqa. I jihadisti parlano di «circostanze eccezionali» che assumono il volto degli effetti provocati dai bombardamenti aerei che hanno colpito impianti e colonne dei pozzi petroliferi e dal crollo del prezzo del greggio.
A questi elementi si aggiungono gli effetti provocati dalla controffensiva innescata contro il califfato. Nonostante questo però le posizioni Isis in Siria si sono allargate fino a cingere le cittadina di Deir Zour nel Nord del paese. La Turchia, paese Nato, nel frattempo continua a sponsorizzare il califfato acquistando il petrolio venduto dall’Isis e favorendo il passaggio verso la Siria dei foreign fighters.
L’atteggiamento ambiguo di Erdogan continua senza grossi ostacoli. Mentre Schengen crolla e l’America, lontana a sufficienza per riuscire ancora a selezionare gli ingressi, l’Europa continua a fare i conti con flussi migratori importanti ed assiste impotente al massacro dei cristiani falcidiati nelle parti controllate dall’Isis. Il dubbio resta lo stesso. E’ davvero così importante per la comunità internazionale riuscire a contrastare Isis?
Monia Savioli
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