GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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POLITICA - page 15

Isis, un prodotto politico

EUROPA/POLITICA di

Istanbul, meta dei profughi di Kobane  vivono per strada. I rifugiati di Aleppo:” Assad diffonde immagini e informazioni false per conservare il potere”.

Mustafa è originario di Aleppo. Da oltre tre anni vive in Turchia a Istanbul. Come lui, tanti altri, costretti a fuggire per cercare altrove la speranza di una esistenza pacifica capace di restituire la speranza. Sono numerosi i profughi che nella capitale turca vivono per strada. Famiglie con bimbi, che mangiano e giocano sui marciapiedi, in cerca di comprensione e di qualche moneta. Quasi tutti reggono un cartello “We are from Syria. Can you help us? Thank you”. “Non mentono. Sono davvero siriani. La maggior parte di loro proviene da Kobane – spiega Mustafa, che per vivere approccia i turisti per vendere loro le gite in barca sul Bosforo. “Ne arrivano sempre di più. Io sono fuggito da Aleppo perchè vivere era diventato impossibile. Aleppo è divisa in due: da una parte c’è il Governo, dall’altra gli oppositori. Non puoi sentirti al sicuro in nessuna delle due. Se passi da una all’altra, puoi solo pregare che per te sia stata la scelta giusta”.

Mentre l’Europa decide di aprire le porte alle migliaia di profughi che chiedono assistenza e da più parti si alzano voci decise a contrastare il governo totalitario di Baghar al Assad, Mustafa racconta la sua verità. “Assad diffonde immagini e informazioni non vere al solo scopo di conservare il suo potere. Ma non è la verità quella che filtra in Occidente. Si tratta solo di un gioco politico. Isis ha iniziato a commettere brutalità nel momento in cui l’America stava tentando di rovesciare il governo Assad. Prima di allora, centinaia di uomini erano stati inviati dalla Siria in altri Stati per addestrarsi alla guerra. Poi sono stati richiamati e da quel momento Isis ha iniziato a formarsi. Isis è un prodotto politico, tutto quello che sta succedendo è soltanto una guerra di potere. Sa cosa ha detto il governo siriano dopo la morte di quel bambino annegato mentre con la famiglia scappava da Bodrum? Ha detto “Cercavano la libertà? Eccola, la libertà”. Mustafa trattiene a stento lo sdegno misto ad impotenza. “Non so cosa si possa fare per risolvere tutto ciò. So soltanto che si tratta di cose che noi non riusciremo mai a capire fino in fondo”. Anche Philippe, nome francese e cognome italiano (che evito di scrivere), è fuggito da Aleppo. Parla italiano, in onore delle sue origini, datate di un paio di generazioni, e dei viaggi compiuti nello Stivale. E’ un artigiano che vive della sua creatività nel Gran Bazar di Istanbul. “Vivo qui da tre anni. Ma non è facile. Il Governo turco mi fa pagare tre volte tanto rispetto ad un cittadino turco. Parlo delle tasse per il negozio e di tutto il resto. Tornerei a casa, ma non posso”.

 

Monia Savioli

Il problema delle migrazioni: presto a Malta vertice europeo.

BreakingNews/EUROPA/POLITICA di

Ormai, com’è noto, l’Europa ha preso realmente coscienza del problema delle migrazioni. Questo sia da un punto di vista politico e strategico, che da un punto di vista umanitario, organizzativo e gestionale. Purtroppo, il più delle volte si scrive del fenomeno nelle pagine di cronaca oltre che su quelle di politica internazionale . Sui riflessi che vengono prodotti da questo fenomeno, comunque, si è scritta una mole inimmaginabile di testi e articoli ed ancora altro si scriverà.

Quello che finalmente sorprende è proprio un interesse diffuso e concreto da parte di tutte le istituzioni europee, che finalmente si affidano più ai fatti che alle parole e che continuamente, seppur in maniera e con metodi diversi, stanno affrontando il problema.

Una delle istituzioni europee che si occupa di asilo e di immigrazione è l’EASO, l’European Asylum Support Office, il cui motto è, per l’appunto, “Support is our mission”. Di questa Agenzia europea, che opera nel settore Justice and Home Affairs abbiamo già parlato, qui su europeanaffairs.media.

Il ruolo dell’Agenzia, e l’approccio critico e costruttivo ai problemi che affliggono il mediterraneo ed il Vecchio continente in questi giorni, saranno oggetto di una conferenza ufficiale che si terrà a La Valletta, il prossimo 23 settembre. All’evento parteciperanno, ovviamente, personalità politiche e tecnici, oltre che i Key Leaders del settore migrazione: tra essi Mattias Reute, capo della Direzione Generale “Migration & Home Affairs” della Commissione Europea, e, molto probabilmente anche qualche qualificato rappresentante dell’UNHCR.

Inoltre presenzieranno alcuni autorevoli rappresentanti di alcune differenti istituzioni nazionali degli Stati Membri che si occupano di asilo, migrazione e rifugiati oltre che delle Agenzie Europee che trattano immigrazione o materie continue, come FRONTEX.

Oltre all’analisi della situazione attuale, ed alla proposta di studio di nuove strategie europee condivise, i delegati cercheranno di individuare concretamente le modalità di incentivare ed incrementare la cooperazione e la reciprocità degli aiuti e del supporto tecnico tra gli Stati Membri nella delicata materia dell’asilo e di riflettere sulle possibili sinergie da istituire con le istituzioni dei Paesi Terzi, non UE, dove i fenomeni migratori prendono spesso il via.

Non da meno, verrà studiato quale potrebbe essere il futuro dell’Agenzia, come la stessa potrà allargare le sue competenze e le sue prerogative e quali potrebbero essere le imminenti prospettive ed opportunità.

Europeanaffairs.media seguirà i lavori di questo vertice, importantissimo in questo momento, nella speranza che il “supporto” fornito dall’EASO e dall’Europa, divenga anche strumento di risoluzione dei problemi e, soprattutto, di solidarietà.

 

 

La Difesa italiana nel contesto globale

Difesa/EUROPA/POLITICA di

Intensificare lo sforzo della Difesa italiana per mantenere stabilità nelle aree di crisi, facendo i conti con i nuovi tagli imposti al settore e massimizzando i benefit delle cooperazioni internazionali.

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E’ questo il nuovo indirizzo della politica militare nazionale, inserita in un sistema di relazioni globali che da un lato garantiscono il supporto di sinergie operative e tecnologiche, dall’altro esigono risposte efficienti alle nuove sfide poste dal contesto geopolitico mondiale. Mentre l’America ci chiede formalmente di impegnarci ad arginare il problema dell’Ucraina e distendere i rapporti con la Russia, l’Europa ci affida un ruolo preponderante nella risoluzione della crisi mediterranea che la minaccia da vicino.

Ciò significa instaurare un dialogo “super partes” con i Paesi del medio oriente, rinsaldare i rapporti fondamentali con l’Egitto, appianare la questione libica, monitorare le rotte dei migranti e assumerci la responsabilità di stabilizzare l’intera area. Significa, soprattutto, acquisire una leadership che garantisca l’efficacia di strumenti collettivi quali l’Unione Europea e l’Alleanza atlantica per il rafforzamento della Politica Comune di Sicurezza e Difesa, promuovere la condivisione delle risorse tra i Paesi membri, anche in termini di misure fiscali che favoriscano incentivi al comparto militare.

Come da direttive del Libro Bianco presentato dal Ministro Pinotti, l’Italia punta a preferire le partnership multilaterali a quelle bilaterali, in assoluta controtendenza rispetto al passato, allo scopo di valorizzare il legame transatlantico alla luce dell’intesa tra la dimensione europea della Difesa e la NATO. Individuate quindi nelle regioni euro-atlantica e mediterranea le aree d’intervento prioritarie su cui concentrare gli sforzi, la presenza dei nostri militari impegnati in operazioni marginali è stata considerevolmente ridotta.

Delle oltre trenta missioni sparse in tutti i continenti, dunque, ne restano attive ventiquattro, in ambito ONU, NATO e UE. Tra queste, strategiche le missioni UNIFIL e MIBIL in Libano, volte a supportare la popolazione e le condizioni socio-economiche del Paese a seguito del conflitto siriano; la Risolute Support in Afghanistan, successiva ad ISAF e incentrata sull’addestramento delle milizie afghane; la KFOR in Kosovo, che garantisce il supporto alle organizzazioni umanitarie per l’assistenza ai profughi; le missioni European Union Training Mission in Mali, contro i gruppi terroristici locali, e in Somalia, dove l’Italia partecipa alla strategia europea per la sicurezza nel Corno d’Africa; l’operazione Prima Parthica in Iraq, di contrasto all’Isis, e infine la MIL in Libia, successiva alla guerra civile scaturita dalla caduta di Gheddafi.
Viviana Passalacqua
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Libia: la comunità internazionale aspetta Tripoli

Settimana decisiva per la composizione del governo di unità nazionale. Il ministro degli Esteri Gentiloni e il mediatore Onu Leon sono in pressing sul premier Abusahmin. All’orizzonte si profila un possibile intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Isis però diffonde un video in cui minaccia l’esecutivo di Tobruk.

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“Questo è un avvertimento ad Haftar e ai suoi compagni, gli atei che si riuniscono nel Parlamento, noi non saremo tolleranti, avremo piacere a sgozzarvi”. Queste le parole pronunciate dal jihadista Abu Yahya Al-Tunsi in un video diffuso in rete dall’Isis libico e dal titolo “Messaggio di Sirte”. Le minacce dirette al governo di Tobruk arrivano nella settimana decisiva per la formazione del governo di unità nazionale, sul quale deve sciogliere le riserve l’esecutivo di Tripoli.

Proprio non più tardi del 1° agosto, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il mediatore Onu Bernardino Leon hanno incontrato il premier di Tripoli Nuri Abusahmin. Nell’incontro, avvenuto in Algeria, si è cercato di dare un seguito all’accordo di Shikat di due settimane fa in cui tutte le fazioni, a parte il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, hanno messo nero su bianco la firma per l’istituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante le molte difficoltà nei negoziati in questi ultimi mesi, il fatto che Tripoli abbia continuato a negoziare, può far presagire che l’accordo non sia poi così distante.

C’è tuttavia urgenza da parte delle istituzioni internazionali. Un’istituzione governativa stabile, infatti, darebbe il via libera ad una possibile missione militare, ormai chiesta a gran voce dalla comunità internazionale, sotto l’egida Onu. I Paesi in campo sarebbero l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano La Repubblica, fornirebbero solo l’appoggio logistico all’operazione.

Intanto, il 3 agosto un altro video è stato diffuso in rete. Il filmato documenta le torture subite da Saadi Gheddafi, secondogenito del Rais, nel carcere di Tripoli. Immagini quanto mai eloquenti e quanto mai dure che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura Generale di Tripoli.
Giacomo Pratali

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Migranti a Calais – “Le parole sono importanti”, Cameron!

EUROPA/POLITICA/Varie di

Se fosse stato un personaggio surreale nel film “Palombella rossa”, avendo come interlocutore il Nanni Moretti impietoso di allora, David Cameron, il premier britannico, si sarebbe preso un ceffone memorabile sulle guanciotte rosee (molto british) e si sarebbe memorizzato a vita un “le parole sono importanti!!!” a seguito di quanto dichiarò ieri in tema di migranti.

“È molto complicato, lo capisco, perché c’è uno sciame di persone che arrivano attraverso il Mediterraneo, cercando una vita migliore; che vogliono venire in Gran Bretagna perché la Gran Bretagna ha posti di lavoro, è un’economia in crescita…”. Lo dice nel corso di un’intervista televisiva durante il suo tour in Vietnam, usando parole inopportune, perché no, sbagliate, per riferirsi ai migranti che da giorni tentano di attraversare l’Eurotunnel partendo da Calais.
La Gran Bretagna “non è un rifugio” per migranti e “sarà fatto tutto il necessario per garantire che i nostri confini siano sicuri”, ripete senza sosta Cameron in questi giorni. Ma in quell’intervista rilasciata a ITV News dal Vietnam, il premier si è lasciato andare usando una terminologia inaccettabile.

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Un commento “irresponsabile” e “disumanizzante” lo ha definito il Consiglio per i rifugiati britannico: “Questo tipo di retorica – aggiunge l’organizzazione – è molto irritante e arriva in un momento in cui il governo dovrebbe concentrarsi e lavorare con le controparti europee per rispondere con calma e compassionevolmente a questa terribile crisi umanitaria”. Cameron si dovrebbe ricordare che sta parlando di “persone non di insetti”, ha attaccato nel corso di un’intervista alla Bbc la leader ad interim dei Labour , Harriet Harman: “Credo che sia molto preoccupante – ha detto – che Cameron sembri voler aizzare la gente contro i migranti a Calais”. Anche Andy Burnham, altro contendente nella competizione per la leadership laburista, su Twitter condanna: “Cameron che chiama i migranti ‘sciame’ è a dir poco vergognoso”.
“Cameron rischia di disumanizzare alcune delle persone più disperate del mondo. Stiamo parlando di esseri umani, non insetti”, critica anche il leader dei liberal-democratici britannici, Tim Farron. “Usando il linguaggio del primo ministro” ha aggiunto “ perdiamo di vista quanto disperato deve essere qualcuno che si aggrappa al fondo di un camion o in treno per la possibilità di una vita migliore”.
Quando a distanziarsi da tale linguaggio è pefinoNigel Farage,il leader di UKIP, celebre per la sua posizione anti-migratoria, suggerendo che il linguaggio del premier era “parte di un suo sforzo per apparire forte sull’immigrazione” e che lui non avrebbe usato un linguaggio simile.

Il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per le migrazioni, Peter Sutherland ha ricordato che il dibattito nato sui migranti in arrivo da Calais “è decisamente eccessivo”: “Stiamo parlando – ha detto alla Bbc – di un numero di persone relativamente piccolo rispetto a quello che altri Paesi si stanno trovando a fare e che devono essere aiutati da Francia e Gran Bretagna”. In numeri: la Germania l’anno scorso ha ricevuto 175 mila domande di asilo e Londra 24 mila. “Qui stiamo parlando a Calais di un numero di persone tra le 5 mila e le 10 mila che vivono in condizioni terribili. La prima cosa che dobbiamo fare collettivamente è occuparci delle loro condizioni invece di parlare di costruire muri”.

Intanto, il dibattito sul “che fare” si infuoca ogni giorno tra i sudditi si Sua Maestà. “Gli importanti flussi migratori provenienti da Siria e Africa subsahariana sono una realtà. Non sono il risultato di trattati o di direttive dell’UE. Certi rifugiati tenteranno con tutti i mezzi di giungere in Gran Bretagna passando dalla Francia. Soltanto i Paesi che cooperano malgrado tutte le difficoltà potranno gestire, o diminuire, un movimento migratorio tanto forte … Il problema non è puramente britannico o puramente francese, è una questione comunitaria. Deve essere risolto in comune, in un modo tanto umano quanto risolutivo”, riporta The Guardian il 29 luglio.

Il ministro dell’Interno britannico Theresa May ha annunciato lo stanziamento di altri 7 milioni di sterline (10 milioni di euro) per rafforzare la sicurezza nei terminal di imbarco dell’Eurotunnel a Coquelles, nel Nord della Francia, al termine del suo incontro con l’omologo francese Bernard Cazeneuve. L’annuncio arriva dopo che Eurotunnel ha riferito dell’incursione lanciata in queste notti da parte di circa 2.000 migranti che tentano il tutto e per tutto per attraversare la Manica e raggiungere la Gran Bretagna.

Si rischia la vita ogni notte e, a volte, la si perde, come è accaduto la sera del 27 luglio quando, a perdere la vita, è stato un ragazzo sudanese di 20 anni rimasto schiacciato da un camion. A Parigi, un altro, di nazionalità egiziana, è rimasto fulminato mentre cercava di salire su un treno Eurostar.

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“Con la Francia lavoriamo a stretto contatto su una situazione che interessa  entrambi i Paesi. La Francia ha gia’ rafforzato il proprio dispositivo di polizia. Il governo del Regno Unito stanziera’ altri 7 milioni di sterline per la sicurezza a Coquelles”, ha detto May. Questi ulteriori 7 milioni si aggiungono agli oltre 15 stanziati in precedenza. Stando all’ultimo conteggio ufficiale, di inizio luglio, sono circa 3.000 i migranti presenti a Calais, per la maggior parte eritrei, etiopi, somali ed afgani.

Queste sono le misure alle quali si affidano le autorità per sedare ogni tentativo di passaggio dei migranti nel tratto della frontiera sottomarina più celebre del mondo. A sentire loro, però, nulla potrà fermare i tentativi di raggiungere l’obiettivo finale. Di certo, pensare a viaggi e odissee che durano anni per arrivare fin lì, nulla lascia pensare che l’ostacolo ultimo potrà mai farli desistere.

Il Tunnel della Manica, che collega la Gran Bretagna all’Europa continentale, divenne operativo, dando la possibilità di transitare via terra a persone e merci per ben 39 km sottomarini, dal 1994 dopo ben 8500 anni, ovvero dalla fine dell’ultima glaciazione. Una conquista dell’umanità, un’unificazione materiale che, per il suo stesso funzionamento particolare, fa da passaggio e barriera.

Iran, stop sanzioni: i riflessi geopolitici ed economici

Con il sì del Consiglio di Sicurezza Onu, finisce l’embargo imposto a Teheran. Per il governo statunitense è “l’unica chance per fermare il piano nucleare”, mentre per l’Europa e l’Italia si apre un’importante opzione commerciale.

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Grazie alla risoluzione Onu del 20 luglio, il Consiglio di Sicurezza ha detto sì all’accordo e alla fine delle sanzioni contro l’Iran decise dalla stessa assemblea nel 2006. Via libera dunque al patto siglato tra il 5+1 e Teheran a Vienna il 14 luglio scorso. Il documento entrerà in vigore non prima di 90 giorni.

Un accordo storico per l’Occidente dal punto di vista geopolitico ed economico. Geopolitico in particolar modo per gli Stati Uniti, come ricordato il 23 luglio dal segretario di Stato Kerry: “Non potevamo di certo aspettarci la capitolazione dell’Iran – ha riferito al Congresso -. Ma era l’opzione migliore. Spero che il Congresso (rivolgendosi al Partito Repubblicano, ndr) approvi perché questa è l’unica chance per fermare il piano nucleare ed evitare il rischio di uno scontro militare”, ha poi concluso.

Ma oltre agli aspetti geopolitici e strategici nel mondo arabo, gli sbocchi sono anche commerciali. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale di Saras (azienda italiana di raffinazione del petrolio) Dario Scaffardi, in un summit su business e finanza, oltre a sottolineare i benefici che il calo del prezzo del petrolio ha già portato sul mercato internazionale, ha riferito che, a seguito della fine dell’embargo, il proprio gruppo è stato contattato dall’Iran, tornatoad essere attore protagonista del mercato di greggio internazionale. Come già prospettato dopo l’accordo di Vienna, il ritorno alla produzione di greggio da parte di Teheran “potrà portare un milione di barili di greggio al giorno sul mercato una volta tolte le sanzioni. Con la possibilità di aggiungere altri 0,5-1 milione di barili abbastanza velocemente”, ha affermato il manager dell’industria della famiglia Moratti.

Sul fronte italiano, inoltre, i prossimi 4 e 5 agosto, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni e il titolare dello Sviluppo Economico Federica Guidi si recheranno in Iran assieme ai rappresentati dei più grandi gruppi industriali italiani. Il fine è quello di mettere nero su bianco un interscambio commerciale significativo con Teheran. Infatti, prima della rivoluzione del 1979, l’Europa era il primo partner in termini di import-export dell’ex Persia. Primato che, al momento, dagli anni’90 appartiene alla Russia, la quale, oltre ai rapporti geopolitici di amicizia, ha effettuato importanti investimenti nei settori petrolifero e gasifero del Paese mediante la società Gazprom.

 

Giacomo Pratali

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Srebrenica: un massacro che compie vent’anni

EUROPA/POLITICA/Varie di

I Balcani sono più di un’espressione geografica, molto di più. Lingue, religioni, simpatie, tradimenti, massacri, contaminazioni e scambi culturali; gli autoctoni e gli arrivati da lontano; il latino, il cirillico e l’ellenico.Un ventennio, al giudizio di popolazioni che si rinfacciano ancora oggi l’epoca bizantina e i 500 anni di dominazione ottomana, quanta peso storico porta? Un peso inquietante, un macigno se si chiama Srebrenica.

Il premier serbo Vucic è stato contestato con rabbia determinata, lancio di pietre e altri oggetti alla celebrazione dei vent’anni dal massacro. A poco servono le annotazioni bosniache su”disturbatori venuti da fuori”. A che servono, se non a mettere una pezza a un sentore incontrollabile, all’odio che trova a tutt’oggi terreno fertile nell’oblio, nell’impunità, nella latitanza pluriennale dei responsabili, dell’una e dell’altra parte, di quei giorni feroci?

“Sono passati 20 anni dal terribile crimine commesso e non ci sono parole per esprimere rimorso e dolore per le vittime, così come rabbia e rancore verso coloro che hanno commesso questo crimine mostruoso. La Serbia condanna in modo chiaro e senza ambiguità questo crimine orribile” ha scritto Vucic in una nota “ed è disgustata da quanti vi hanno preso parte e continuerà a portarli davanti alla giustizia. La mia mano resta tesa verso la riconciliazione”.

Apprezzabile la partecipazione conciliatoria e l’esperienza diplomatica a 360° del premier serbo da quando è stato eletto, ma manca la definizione di “genocidio” ne dizionario politico serbo di quanto accadde nella guerra di Bosnia. Lo dice Obama, lo dice anche il Presidente Mattarella : “fu genocidio”, dichiarano.

“ Per genocidio s’intendono gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, secondo la definizione adottata dall’ONU.

Allora, mettiamo insieme quello che di significativo abbiamo per accettare o meno una definizione che poco cambia nel bilancio della storia, ma tanto disturba nella presa delle responsabilità: “Uccidere 50mila musulmani in più non porterebbe a niente. Recupereremo in seguito. La nostra vera priorità è sbarazzarci della popolazione musulmana”, scriveva Ratko Mladic, il boia di Srebrenica nei suoi diari segreti. “I musulmani sono il nemico comune nostro e dei croati, dobbiamo cacciarli in un angolo dal quale non possano più muoversi”.

Le 3500 pagine raccolte in 18 quaderni sono la prova più schiacciante degli intenti sciovinisti di quella elite militare e paramilitare serba che pretese di fornire una sorta di “soluzione finale” adoperandosi in una pulizia etnica bella e buona nel triennio 1992-1995.

Nella cittadina bosniaca di Srebrenica, oltre 8 mila uomini , bambini, giovani e anziani musulmani , venivano uccisi a colpi di mitraglia e poi nascosti in fosse comuni scavate dalle milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladić quel 11 luglio 1995. Un massacro passato alla storia come la più grave carneficina in Europa dai tempi della Seconda Guerra mondiale.Secondo i dati ufficiali, i morti fuorono 8372, secondo altre fonti si tratterebbe di circa 10mila persone.

Cosa significa un ventennio dal massacro di Srebrenica? Significa l’identificazione in corso di morti ancora senza nome.

Libia: ad un passo dal governo di unità nazionale

Tobruk e gli altri gruppi del Paese firmano l’intesa. Adesso, c’è attesa presso le Nazioni Unite per decisione di Tripoli, attesa lunedì 6 luglio.

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Alle prime luci dell’alba di venerdì 3 luglio, Tobruk, Zintan, Misurata e i rappresentanti di altre fazioni hanno firmato l’accordo politico per “la creazione di un governo di unità nazionale libico”, riportano le Nazioni Unite. Dopo mesi di trattative, minacce di sanzioni da parte della comunità internazionale e l’incombere dello Stato Islamico e di una bancarotta finanziaria ormai annunciata, il delegato Onu Bernardino Leon raccoglie i primi frutti di questi colloqui di pace grazie alla quarta bozza messo sul tavolo delle trattative. Ora, l’attesa è tutta rivolta verso il Congresso Nazionale di Tripoli, il quale, lunedì 6 luglio, deciderà o meno di prendere parte a questo esecutivo di emergenza.

“La Libia ha bisogno di una larga intesa per avviare la ricostruzione nella sicurezza”. ha affermato il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni. “Sottrarsi a questa responsabilità sarebbe grave. Nelle prossime ore l’Italia moltiplicherà gli sforzi per giungere rapidamente ad un approdo unitario sul testo dell’accordo politico presentato dalle Nazioni Unite”, ha concluso il rappresentante del governo italiano.

 

Giacomo Pratali

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Vertice Ue, immigrazione: accordo a metà

EUROPA/POLITICA di

Dopo una nottata di trattative serrata, l’Europa approva la redistribuzione di 40mila migranti nei prossimi due anni. Le quote sono “obbligatorie” a parole ma “volontarie” fatti: ogni Paese potrà decidere il numero di persone da accogliere.

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Bicchiere mezzo pieno. O mezzo vuoto. Si può riassumere così il vertice europeo di Parigi sull’immigrazione tenutosi tra il 25 e il 26 giugno. Il Consiglio Europeo dice sì alla redistribuzione tra gli Stati membri dei 40mila migranti richiedenti asilo sbarcati in Italia e Grecia dal 15 aprile. Questa ricollocazione sarà effettuata nei prossimi due anni. Tuttavia, saranno prima la Commissione e poi lo stesso Consiglio Ue a stabilire, a luglio, le quote per ogni singolo Paese, i quali avranno il diritto di stabilire il numero delle persone da accogliere.

Una bozza o, sarebbe meglio dire, un compromesso, quello messo sul tavolo dai leader del Vecchio Continente. Un accordo frutto di accesi scontri verbali avvenuti nella notte. Due i fronti. Il primo, con l’Italia in testa e a seguire il presidente della Commissione Juncker, l’alto rappresentante Mogherini, e i leader di Germania e Francia, Merkel e Hollande. Il secondo, il blocco dei Paesi dell’Est Europa, capitanato dalla Polonia e composto anche da Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Scontri che hanno poi riguardato lo stesso capo della Commissione Europea e Tusk, reo di avere abbandonato la sua posizione di neutralità e di avere appoggiato le posizioni di Varsavia.

Già la giornata di giovedì preannunciava le difficoltà di un possibile accordo: “Non c’è consenso sulle quote obbligatorie”, affermava Tusk. Mentre Juncker e Mogherini ritenevano necessario andare oltre il Trattato di Dublino e “rivoluzionare il concetto di accoglienza dei profughi”.

Ma con la cena e l’avvicinarsi della notte, l’impasse si è fatta sempre più evidente. Testimonianze dirette raccontano di un intervento violento, dal punto di vista verbale, del premier italiano Renzi: “Se non siete d’accordo sulla distribuzione dei 40 mila migranti, non siete degni di chiamarvi Europa. Se volete la volontarietà, tenetevela”.

Accantonata ormai la prima bozza, figlia del precedente Consiglio Europeo di aprile, ma che andava incontro alle richieste spagnole in merito alle modalità di redistribuzione dei migranti, alle prime luci dell’alba i leader europei giungono all’accordo sulle 40mila persone richiedenti asilo da ripartire nei prossimi due anni, con la definizione delle quote da definire.

Quote che vengono definite “obbligatorie”, ma che si richiamano, nella pratica, al principio di volontarietà. A questi 40mila, infine, si aggiungeranno gli altri 20mila presenti nei campi profughi dei Paesi da cui provengono i migranti. Tutti, tranne Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, defilatesi già in precedenza.
Giacomo Pratali

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Libia: buona la quarta?

Tripoli dice sì con riserva alla bozza proposta da Leon. Daesh, questione migratoria e crisi finanziaria rendono sempre più necessario un accordo tra i due governi. La stampa internazionale, tuttavia, sottolinea l’incapacità del mediatore Onu e dei Paesi occidentali di individuare quale dei due esecutivi sia quello più adatto ad arginare l’avanzata dello Stato Islamico e arrestare l’imponente flusso di persone dirette verso l’Europa.

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Un timido passo in avanti. L’accordo tra le due parti in causa sembra essere più vicino. Questo ci dice la risposta affermativa, seppure con la “necessità di apportare alcune modifiche”, fatta pervenire al mediatore Onu il 17 giugno dal governo di Tripoli. Un’apertura ad un “Governo di Accordo Nazionale” assieme ai rappresentanti di Tobruk, come recita il documento contenente 69 articoli, che è già una notizia visti i continui contrasti tra i due esecutivi.

La paura dell’avanzata dello Stato Islamico, le pressioni dell’Unione Europea sulla questione migratoria, la ormai più che probabile bancarotta finanziaria della Libia, pongono i due governi ad una sola scelta possibile: l’accordo.

La quarta bozza, presentata ad Algeri da Leon ad inizio giugno, parte dalla precedente, ma cerca di dare più spazio alle istanze del governo filomusulmano di Tripoli. Permane la formazione di un’unica assemblea legislativa a Tobruk, ma si fa spazio una Presidenza del Consiglio tripartita, composta da un presidente e da due vice: un check and balance a favore della giusta rappresentanza delle due parti in causa.

Se comunque i due governi continuano a tirare la giacca a Leon per arrivare ad una soluzione favorevole per uno piuttosto che per l’altro, il nodo da sciogliere gira attorno alla figura del generale Haftar. Vero leader della fazione riconosciuta a livello internazionale e sostenuto dal presidente egiziano Al Sisi, viste le accuse di crimini contro i civili a suo carico, suscita non poco imbarazzo in Occidente.

E se è vero che è necessario trovare un interlocutore unico in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico e per regolamentare i flussi migratori diretti in Europa, il vero dubbio è se non solo su Haftar, ma sul governo stesso di Tobruk, sulla sua reale capacità di incidere sulla popolazione (è stato votato dal solo 25% degli aventi diritto).

Come rilanciato di recente dal Financial Times, finora Leon, nel corso di questi quasi infruttuosi negoziati, Unione Europea e Paesi occidentali non hanno capito che il vero epicentro della crisi della Libia ruota attorno a Tripoli e alla Tripolitania, la regione dove si concentrano la maggior parte degli scontri tra le milizie del Daesh e le truppe filoislamiche legate ai Fratelli Musulmani, sostenitori del governo della capitale.

In questa ottica, i governi di Tripoli e Tobruk dovrebbero avere pari riconoscimento presso il consesso internazionale. Questo perché se Tobruk viene considerato legittimo, Tripoli, da parte sua, ha in mano quello che è il reale polso del Paese. È quindi in questo direzione che la quarta bozza proposta da Leon deve andare.

In questo scenario, è assordante il silenzio dell’Unione Europea. Incapace di portare avanti una reale politica dell’accoglienza dei rifugiati e della regolamentazione dei migranti in arrivo da Africa e Medio Oriente, stenta a fare sentire la propria voce nel contesto libico. E riesce a porsi come arbitro della necessaria pace nel Paese che, alla fine dei conti, altro non è che un accordo tra Stati: Arabia Saudita, Egitto e Russia (pro Tobruk) e Turchia e Qatar (pro Tripoli).
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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