GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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POLITICA - page 14

Francia: 6 nuovi elicotteri NH90 per l’Operazione Barkhane

Difesa/EUROPA/POLITICA di

La conferma arriva dalla Direction Générale de l’Armement, agenzia governativa francese responsabile delle acquisizioni militari e dei programmi di sviluppo e mantenimento delle forze armate. 6 nuovi elicotteri da trasporto tattico NH90 (modello Caiman), prodotti dalla NH Industries, colosso industriale italo-franco-olandese costituito da Finmeccanica, Airbus e Fokker entreranno a far parte della flotta francese tra il 2017 e il 2019.

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I nuovi acquisti fanno parte di un più ampio programma di rinnovamento della flotta di elicotteri che mira a raggiungere le 74 unità di Caiman (44 delle quali consegnate entro la fine del 2019). L’obiettivo è dotarsi, entro la fine del 2025, di una flotta di circa 115 elicotteri NH90 da impiegare a livello tattico, obiettivo fissato nel Security White Paper del settembre 2013. Come sottolinea Guillaume Faury, presidente e CEO dell’Airbus Helicopters, “le forze armate francesi hanno impiegato l’NH90 nei teatri operativi del Mali, dove la sua straordinaria resistenza, versatilità e manovrabilità sono state enormemente apprezzate”.

La decisione arriva in seguito alla richiesta da parte dell’Army Air Corps di rafforzare le capacità a disposizione per l’Operazione Barkhane, in Africa. Già nel gennaio scorso, il Gen. Oliver Gourlez de la Motte, capo dell’Army Air Corps, aveva annunciato l’obiettivo dell’arma di potenziare le proprie risorse aggiungendo altri 10 elicotteri alla flotta, scegliendo sia modelli da attacco che da trasporto. Il mese scorso, infatti, la DGA commissiona all’Airbus Helicopters 7 elicotteri da attacco modello Tiger, la cui consegna verrà effettuata tra il 2017 e il 2018.

L’intento è, dunque, quello di migliorare le capacità di condurre operazioni aria-terra nella regione del Sahel, nell’Africa sub-sahariana. L’NH90 è stato già impiegato in diversi teatri operativi, mostrando capacità e caratteristiche che lo rendono una risorsa importante per le forze francesi impiegate nell’Operazione Barkhane. Innanzitutto la già accennata versatilità. L’NH90 può essere impiegato per rispondere a diverse necessità tattiche:

  • trasporto di truppe e di armamenti leggeri, grazie alla sua capacità di ospitare fino a 20 soldati o 2,5 tonnellate di armamenti;
  • evacuazione dei feriti mediante 12 barelle;
  • trasporto aereo cargo;
  • operazioni di combattimento, ricerca e soccorso.

Inoltre, gli equipaggiamenti a disposizione lo rendono adatto ad assecondare i diversi e molteplici bisogni che possono presentarsi nel teatro operativo. Gli NH90 sono dotati di pilota automatico e comandi fly-by-wire (FBW), ovvero un sistema che permette di sostituire i tradizionali controlli manuali con un’interfaccia elettronica. Ciò riduce sensibilmente il carico di lavoro per il pilota, consentendo di maneggiare in modo più agevole il velivolo. Inoltre, dotazioni quali luci per la navigazione notturna, strutture corazzate e contromisure elettroniche, lo rendo adatto a operazioni di combattimento.

Ciò mette chiaramente in luce come uno strumento del genere diventi essenziale in un teatro come quello sub-sahariano. Ricordiamo che l’Operazione Barkhane è un’operazione antiterrorismo condotta dalla Francia nella regione del Sahel sin dall’agosto del 2014, con la partecipazione di Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Chad. Lo scopo è contrastare la presenza dei militanti jihadisti nella regione, sostenendo lo sforzo dei paesi partner ed impedendo la formazione di santuari di terroristi all’interno della regione. I circa 3000 soldati impiegati nella missioni sono ripartiti in due punti d’appoggio permanenti, uno a Gao (Mali), l’altro a N’Djamena (Chad). Distaccamenti vengono inviati in basi temporanee, situate nei vari paesi coinvolti nell’operazione, e da queste stesse basi vengono condotte le missioni in appoggio dei soldati del rispettivo paese. È, dunque, evidente come le capacità di trasporto di truppe e armamenti sia una condizione essenziale per poter sostenere l’operazione. Inoltre, il contesto in cui si opera –temperature, conformazione geografica del territorio, ecc.- è un fattore determinante nella realizzazione degli interventi. L’NH90 dimostra quell’adattabilità che un contesto come quello africano, date la sua versatilità, aspetto essenziale in teatri dove difficoltà e mancanza di risorse possono facilmente compromettere l’obiettivo della missione ma anche l’incolumità dei soldati. “L’ordine aggiuntivo dei sei NH90- afferma Guillaume Faury- …conferma il ruolo essenziale che le nuove generazioni di elicotteri multi-ruolo giocano nelle moderne operazioni”.

Sembra, dunque, che attentati e minacce alla nazione francese non abbiano intaccato profondamente la sua posizione circa gli impegni nei diversi teatri operativi, ed in particolar modo nella lotta contro il terrorismo islamico. Al contrario, si potenziano quegli elementi dimostratesi vincenti e si fanno pressioni nell’Esagono per veder rafforzate le capacità militari francesi, in modo tale da garantire non solo un numero maggiore di armamenti disponibili ma anche –e soprattutto- tecnologie adeguate agli ambienti e alla minaccia che si combatte.

 

Paola Fratantoni

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L’immigrazione vista da Oltremanica

EUROPA/POLITICA di

 

Che la Gran Bretagna non sia mai stata sostenitrice di un’Europa senza frontiere non è una novità. Ma ciò a cui stiamo assistendo nell’ultimo periodo è una frattura sempre maggiore tra l’atteggiamento adottato dal governo inglese in materia di asilo e di immigrazione e quello degli altri membri UE, con critiche provenienti sia da questi ultimi sia dalle forze interne al paese.

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La Corona inglese, che non aderisce a Schengen, ha una posizione particolare circa l’arrivo di stranieri sul suolo nazionale. Una politica definita rigida, che non dice un no categorico all’immigrazione ma la accetta in forma controllata. Viene favorito l’ingresso dei cosiddetti skilled workers e degli studenti, potenziali risorse per il futuro. Il principio chiave dei conservatori è semplice: tutelare gli interessi e la sicurezza del paese. Di conseguenza, chi ha voglia di lavorare sodo e contribuire a questo obiettivo è benvenuto, per gli altri non vi è posto.

Se un simile approccio in tempi normali non desta particolare scalpore, le prospettive cambiano quando una massiccia ondata migratoria va a colpire il territorio europeo, alterando gli equilibri interni dei vari paesi. Considerando gli ultimi anni, l’Europa è stata testimone di due ondate maggiori. La prima proveniente dalla Libia e l’altra dalla Siria; entrambe ancora in corso (seppur con modalità ed intensità diverse) ed entrambe legate all’esplosione di conflitti nei rispettivi paesi, che hanno spinto la popolazione a cercare un futuro al di là del Mediterraneo.

Queste ondate di rifugiati hanno determinato situazioni di emergenza nei paesi di primo arrivo – soprattutto Italia, Grecia e Spagna- che si sono ritrovati ad accogliere una quantità di persone superiore alle capacità delle strutture di accoglienza esistenti. Da qui la richiesta d’aiuto ai partner europei, nel tentativo di dividere più equamente le persone da accogliere, per poter garantire loro condizioni di vita accettabili senza compromettere la sicurezza e l’ordine del paese stesso.

La Gran Bretagna sembra fare orecchie da mercante. Durante la crisi libica, Cameron aveva messo a disposizione la Royal Navy per operazioni di salvataggio in mare, escludendo categoricamente la creazione di centri di accoglienza in territorio inglese. Ma l’aiuto che serviva non era in mare, bensì a terra, nel post-salvataggio. L’emergenza Siria non ha reso il governo inglese più incline a supportare gli alleati europei. Opt-out inglese, infatti, per il sistema delle quote, che prevede la ridistribuzione di 160.000 rifugiati, già in Grecia, Italia, o Ungheria tra i vari paesi membri UE, in modo proporzionale alle capacità del paese. Tuttavia, il PM inglese promette di accogliere 20.000 rifugiati nell’arco di 5 anni: cifra alquanto irrisoria se paragonata ai numeri di paesi come la Germania, disposta ad accettare fino a 800.000 rifugiati entro la fine del 2015. L’offerta inglese, inoltre, è rivolta soltanto ai rifugiati tutt’ora in Medio Oriente e non a quelli già in Europa, soluzione che, come fanno notare i membri UE, serve ben poco ad alleviare la situazione d’emergenza nei paesi d’arrivo.

Punto caldo in sede UE, il tema immigrazione è elemento di tensione tra le forze politiche e sociali del paese.

Le critiche maggiori provengono dal partito labourista, che giudica insufficiente l’aiuto offerto dal governo Cameron. Si richiamano i diritti umani, principi cardine dell’Unione Europea e il passato del paese, santuario di ospitalità e speranza all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Che fine ha fatto questa tradizione? Che significato hanno quei diritti sanciti nella Magna Carta o nella Dichiarazione Universale?

Ed è proprio in riferimento a questi diritti che nascono critiche anche da un altro settore, quello delle Charities inglesi. Il disaccordo maggiore è legato alle riunioni familiari, previste dal sistema in vigore ma con limitazioni. Soltanto i coniugi e i figli minorenni possono entrare nel paese e ricongiungersi ai familiari. Maggiorenni e altri parenti sono esclusi dalla rosa dei “fortunati”. Perché? Non vivono forse la stessa sofferenza? Se si guarda ai bambini la situazione forse è anche peggiore. I minori non accompagnati, non hanno il diritto di richiamare alcun familiare, neanche i genitori. Non bastano, dunque, i traumi di una guerra, di una fuga, dell’arrivo in un paese straniero di cui non si conosce neanche la lingua. A ciò si aggiunge anche la distanza dai propri cari, la consapevolezza di non poterli vedere e l’incertezza circa il loro futuro o la loro stessa vita. E i diritti umani?

La domanda è: si può fare qualcosa in più? Forse sì. E allora ci si chiede perché un paese come la Gran Bretagna, fondato su determinati valori e principi e con una capacità economica tale da potersi permettere uno sforzo maggiore, si tiri indietro, voltando le palle agli alleati europei proprio quando ve n’è bisogno, ma anche compromettendo quell’immagine di garante dei diritti che si è costruita nel corso dei secoli. Un Regno Unito che sembra voler prendere sempre di più le distanze dall’Europa al fine di proteggere i propri confini. Ma fino a che punto si può arrivare prima che un simile atteggiamento diventi controproducente? No è più solo una questione di Brexit o non Brexit; si corre il rischio di mettere in discussione valori fondamentali della Nazione, con le relative ripercussioni che ciò può avere in termini di stabilità interna.

 

Paola Fratantoni

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Ciclone Le Pen: verso la fine dell’Europa Unita?

EUROPA/POLITICA di

La Francia tira un sospiro di sollievo. Il ballottaggio per le amministrative ha, infatti, messo fuori gioco il Front National (FN) di Marine Le Pen, che si era affermato vincitore al primo turno. L’estrema destra francese non riesce ad ottenere nessuna regione, sette invece vanno ai repubblicani e cinque ai socialisti. Ma c’è un rovescio della medaglia: al primo turno il FN ottiene 6 milioni di voti; in occasione del ballottaggio il numero sale a 6,7 milioni, circa l’11,6% in più. Questi dati mettono, dunque, in evidenza come qualcosa stia cambiando nell’elettorato francese e repubblicani e socialisti abbiano un reale avversario da combattere. Come già reso noto dalla leader dell’estrema destra, Marine Le Pen, questa sconfitta non arresterà la loro corsa e le presidenziali del 2017 sono tutto fuorché un sogno irrealizzabile.

Su cosa punta il FN e perché è così tanto temuto?

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Prima i Francesi e la Francia. In una società multietnica e multiculturale come quella francese, l’estrema destra vuole difendere in primis gli interessi della Nazione e dei suoi cittadini. Ciò inevitabilmente si scontra con le tematiche legate all’immigrazione, nei confronti della quale la Francia ha solitamente assunto posizioni meno rigide rispetto ad altri paesi europei. La signora Le Pen propone cambiamenti. Rivedere Schengen e aumentare i controlli, ridurre l’immigrazione clandestina, ma anche diminuire l’immigrazione legale e i servizi di assistenza gratuita anche per coloro non provvisti di permesso di soggiorno.

Una maggiore chiusura verso l’esterno, da un lato; dall’altro, rivalorizzare la posizione della Nazione nel mondo. Dichiaratamente euroscettica, Marine Le Pen evidenza i difetti e i limiti di istituzioni come l’Unione Europea, che con la loro tecnocrazia “tarpano le ali” alle nazioni. Una forza centrifuga che vorrebbe portare la Francia fuori dall’UE, così come dalla NATO, liberandosi dai vincoli che queste unioni comportano e ripristinando l’indipendenza politica e diplomatica della Nazione.

Immune alle accuse di fascismo e di un populismo xenofobo e anti-europeo, la Le Pen ha tutta la grinta e la determinazione per poter essere un avversario scomodo. Non solo. Ha anche quei sei milioni e passa di voti. Quei Francesi che hanno scelto un partito d’estrema destra che parla meno di comunità e altruismo, e più di cosa serva ora e praticamente per ripristinare la sicurezza e la stabilità che gli attentati degli ultimi mesi hanno portato via.

Posizioni categoriche, dunque, che spaventano l’attuale classe politica francese ma mettono in allarme anche altri paesi europei, dove negli ultimi anni partiti di stampo estremista ed euro-scettico hanno trovato maggior consenso. Parliamo dell’UKIP in Gran Bretagna, forte sostenitore della Brexit, o della Lega Nord in Italia, incline all’uscita dall’Euro e ad una modifica dell’Unione. Persino la Polonia, uno dei paesi più coinvolti nelle politiche comunitarie vede la vittoria degli euro-scettici di Diritto e Giustizia, privando l’Unione di uno dei suoi più forti sostenitori.

E’ evidente, dunque, come quella francese non sia una voce singola nello scenario europeo, ma faccia parte di quelle forze che dell’Europa Unita non vogliono neanche sentire il nome. E di certo gli avvenimenti recenti non hanno aiutato a cambiare questa idea, anzi. Hanno rafforzato le posizioni di chi si sente disilluso dall’Unione, un’Unione che c’è sulla carta ma pecca di efficienza e razionalità. Un’Unione sempre più legata alle decisioni (e agli interessi) della Germania. Un’Unione che non riesce a garantire la sicurezza dei propri membri e le cui politiche rigorose hanno di fatto inasprito la crisi economica rendendo sempre meno appetibile l’UE.

Ecco, dunque, perché si teme la Le Pen. Perché ha la forza e la volontà per assumere quel ruolo trainante ed innescare un effetto a catena tra le forze anti-europee, creando un fronte comune che possa spingere ad una modifica radicale dell’Unione. I primi passi sono già stati mossi. Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, annuncia un piano comune con Marine Le Pen per la revisione dei trattati europei, da quello di Maastricht a Schengen. In attesa del vertice di Milano a gennaio, che vedrà uniti tutti i partiti euroscettici dei vari paesi per formulare insieme una proposta alternativa all’Europa attuale.

Sembra, dunque, che lo scetticismo nei confronti dell’Unione continui ad aumentare, seppure manchi ancora un’unità d’azione. La Francia di Le Pen potrebbe assumere questa leadership e portare i partiti anti-europeisti a giocare un ruolo di primo piano sullo scenario nazionale ed internazionale. Il contesto geopolitico sta cambiando: le minacce e la paura crescono, l’insoddisfazione e la volontà di fare di più pure. L’Unione Europea deve trovare una risposta a questi cambiamenti, adattarsi al nuovo ambiente e alle esigenze della sua popolazione. Le alleanze occasionali ai ballottaggi non sono la soluzione. Come insegna Clausewitz, “la tattica senza strategia è il rumore che precede la sconfitta”.

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“Lo Stato Islamico”, la storia del Califfato Nero nel dossier di AGC Comunication

POLITICA di

“Lo Stato Islamico ” è un volume che nasce dall’esigenza di fare chiarezza sulle dinamiche della minaccia che incombe sull’occidente. Unica vera novità del terzo millennio, lo Stato Islamico può contare su uomini armati e ben addestrati con obiettivi chiari: gasdotti, oleodotti, dighe, centrali elettriche, hub commerciali, aree agricole fertili. Riscuote tasse e consenso popolare, è dotato di un tribunale e si dedica all’educazione dei suoi cittadini.

Attira quanti sono alla ricerca dell’unica Ummah, una comunità senza confini né distinzioni di razza, che offre opportunità di lavoro e persino di carriera. E’ uno Stato in cui c’è spazio per orfani, poveri e anziani, dove il leader passa in secondo piano rispetto alla Ummah. Se dovesse morire Abu Bakr al Baghdadi, sarebbe sostituito da un successore eletto dal consiglio della Shura, insieme ai capi tribù. Un impianto socio-culturale complesso, che miscela sapientemente elementi di tradizione quali l’osservanza del Corano, della Sunnah, dei testi medievali, alla modernità dei social media, della comunicazione massmediatica, di informazione e disinformazione, non trascurando una ricca produzione cinematografica.

Il connubio efficace tra filosofia, la tecnologia e logica. L’agenzia giornalistica AGC Communication lavora su fonti aperte e sul monitoraggio della stampa estera con riferimento specifico a Medio Oriente, Centro Asia e Caucaso. I l libro è un monito ai governi occidentali: se invieranno forze di terra, e se queste venissero catturate, faranno la fine dei militari siriani e iracheni, la fine dei cooperanti presi prigionieri, quella che ci viene mostrata dalle raccapriccianti esecuzioni filmate. In questa guerra iniziata dallo Stato Islamico non c’è posto per i prigionieri di guerra, l’unico scopo è quello di portare a compimento “la promessa di Allah”, la personale “Armageddon” del Califfato del III millennio.

Parigi, una settimana dopo

BreakingNews/EUROPA/POLITICA/Varie di

 Oggi è una settimana da quel tragico venerdì 13. Un venerdì sera che per Parigi era iniziato esattamente come gli altri, i bistrot pieni di gente che, complice una serata abbastanza mite, si godeva la sua bière o la sua cena nelle terràsse. Alle 21.30 di venerdì 13 Novembre mi trovavo ad un ristorantino in Place de la Bastille, festeggiando con un’amica la nuova esperienza di essere tornate a vivere nella città che amiamo di più dopo la nostra cara Roma.

Eravamo in “terràsse” a finire il nostro vin rosè quando ci si avvicina la proprietaria del locale e con una discrezione ed una calma apparente tale ci invita “ad entrare dentro il locale perché un terrorista ha sparato sulla folla in un ristorante abbastanza vicino”. Inizia l’incredulità, poi la paura. Ci facciamo coraggio, usciamo dal locale per andare lì fuori dove avevamo appuntamento con altre amiche italiane con le quali avremmo dovuto passare una serata in un discopub. Improvvisamente iniziano ad arrivare i messaggi dall’Italia, preso il Bataclan, terroristi in giro che sparano sulla folla.

Ci ritroviamo in Rue de Lappe, famosa per avere un locale accanto all’altro, uno dei centri del divertimento dei giovani parigini. Al nostro arrivo i locali stavano iniziando ad abbassare le serrande e chiudere dentro le persone su indicazioni della polizia. Il mio piccolo gruppo viene invitato ad entrare a casa di un conoscente che chiameremo “D. “. Lui tunisino di 29 anni vive da molti anni a Parigi, doveva andare alla “Belle Equipe” per festeggiare il compleanno di una cara amica di famiglia, ma per uno scherzo del destino non è andato, ha tentato di contattare i suoi amici e parenti lì, ma nessuno gli dava notizie.

Abbiamo passato il resto della serata in questa casa, con le notizie ed i messaggi preoccupati di amici e parenti, e senza avere un televisore, perché proprio quel giorno il nostro ospite aveva portato il decoder in riparazione. Ore di incertezza, poche notizie, telefoni scarichi e nessuna voglia di uscire di lì, il rifugio sicuro. Alle tre del mattino D. ha trovato un amico “tassista privato” che lavora con Uber, lui ci ha riaccompagnato tutte a casa, dopo molta incertezza sul da farsi se fosse sicuro o meno muoversi anche in macchina.

Arrivata a casa è subentrato il dolore, acceso il computer ho iniziato a vedere le immagini dei morti, il numero che aumentava, a chiedermi se tutte le persone che conosco qui stessero bene, vedere con i miei occhi quello che si è consumato a poche centinaia di metri dal nostro “rifugio sicuro”. Il primo pensiero è stato: “P­er un qualsiasi caso potevo essere lì anche io, sono solo fortunata a poterlo raccontare”. Poi la stanchezza delle ore di tensione ha ceduto il posto ad un sonno senza sogni. La mattina dopo eravamo tutti in stato di shock.

Abbiamo appreso, il mattino seguente, che al nostro ospite D. nella sparatoria sono morti quattordici dei suoi migliori amici e due sue cugine, vite spezzate così vicine a noi. Paura ad andare al supermercato, passare la giornata incollata al computer per vedere le notizie, per sapere se stava succedendo altro, se la follia avesse davvero avuto fine, per quel momento.

E questo è stato il clima per tutta la settimana. I parigini sono un popolo forte: dal lunedì hanno iniziato a riprendere le loro normali attività, con più silenzio, ma con la voglia di ricominciare, con il dolore ma con la volontà di non farsi vincere dalla paura. Anche con il blitz a St. Denis, gli elicotteri, i continui passaggi di vetture con sirene, alle quali ormai si fa meno caso, lentamente gli abitanti della Ville Lumière sono tornati alla loro vita.

Per noi Italiani è diverso: le continue chiamate degli amici e parenti preoccupati, una strana sensazione che, da una parte ti dice di tornare a casa, ma che dall’altra è fortemente ferma nel voler restare qui, lo status confusionale da stress post traumatico è destinato a restare dentro di noi ancora a lungo, ma i francesi sono diversi. I francesi sono un popolo coraggioso, che “si piega ma non si spezza”, unito, compatto nel dolore e nel rispetto di chi invece prova molta paura. In questi giorni ho riflettuto molto sull’essenza dParigi: la cronologia del blitz; infograficai questo popolo che ritenevo “scostante” e “superbo”, ma ho iniziato ad aver voglia di essere “un po’ più francese”. Per il coraggio che dimostrano nel ricominciare a vivere la vita. Nelle università e nelle scuole se ne parla; dovunque c’è qualcuno che ha perso un amico o un conoscente, si cerca di capire le cause di tutto ciò di spiegare come la violenza abbia preso il sopravvento sulla libertà, ma non si arriva mai all’odio indiscriminato.

Hanno perso la vita anche molti musulmani e questo i francesi lo sanno bene, sono da anni compagni di questa difficile convivenza in terra d’oltralpe. La metrò si ripopola, così come lentamente anche i bistrot, ma in un silenzio surreale. Il silenzio a Parigi, una settimana dopo, è il protagonista di una ferita talmente grande da togliere le parole, ma non la forza per ricominciare giorno dopo giorno, a guardare avanti.

La Francia di nuovo nel centro del mirino

POLITICA/Varie di

A meno di un anno dagli attentati terroristici al Charlie Hebdo, la Francia viene nuovamente colpita al cuore. Nella serata del 13 novembre, Parigi è teatro di diversi attacchi terroristici, causati la vita ad almeno 150 persone.

Diverse le location degli attacchi. Viene colpito lo Stade de France, dove era in corso l’amichevole di calcio Francia-Germania (alla presenza del presidente Hollande); tre terroristi, tre esplosioni. Repentine le misure di sicurezza per il Presidente, che viene immediatamente fatto evacuare e scortato all’Eliseo.

Attaccato anche il teatro Bataclan, che ospitava il concerto della band americana Eagles of Death Methal. Testimoni parlano di otto giovani ragazzi armati e a volto coperto. Tre di questi sarebbero morti facendo saltare in aria le proprie cinture esplosive. Un quarto, invece, colpito dalla polizia francese. Il bilancio è di circa 80 vittime e numerosi feriti.

Altre esplosioni e colpi d’arma da fuoco vengono riportati in alcuni bar e ristoranti del centro città, tra cui il Petit Cambodge e Le Carillon Bar.

Viene dichiarato lo Stato di emergenza, nonché la chiusura delle frontiere, con l’obiettivo di isolare momentaneamente la Francia: nessuno deve poter entrare e perpetuare la violenza ma allo stesso tempo si vuole evitare la fuga dei responsabili di tali atrocità. Aumentate inoltre le misure di sicurezza a Parigi, dove vengono dispiegate più di 1.500 forze, per sorvegliare scuole e palazzi. Il Presidente Hollande definisce tali violenze un “atto di guerra”, che trova le sue fondamenta nello Stato Islamico.

La rivendicazione del Califfato, infatti, non tarda ad arrivare. Secondo l’esperto della BBC Peter King, lo Stato Islamico avrebbe pubblicato una dichiarazione scritta in arabo e francese, nella quale viene elogiato l’attacco suicida degli otto fratelli contro la capitale francese. Su Twitter, inoltre, i sostenitori del Califfato pubblicano messaggi di supporto e foto accompagnate dell’hashtag #Parisinflame.

La nazione di Hollande, tuttavia, risponde ferma e resoluta. “La Francia si dimostrerà senza pietà nei confronti delle barbarie commesse da Daesh” (acronimo arabo dello Stato Islamico). “La Nazione sa come difendersi, come mobilitare le Sue forze e sconfiggere i terrorisiti” afferma il Presidente nel discorso ai cittadini. La Francia presenta una linea dura, dichiarandosi pronta a ricorrere a qualsiasi mezzo ed attaccare ovunque, all’interno e fuori la nazione. Non è soltanto un paese che si deve proteggere, sono i suoi valori e le sue idee, a cui i cittadini francesi non vogliono rinunciare. E lo dimostrano i tifosi francesi, intonando la Marsigliese durante l’evacuazione dallo Stade de France, così come le lunghe code di Parigini pronti a donare il sangue o l’hashtag #Opendoor su Twitter, per offrire un riparo a chiunque ne avesse bisogno. La Francia resta unita. La Francia è stata colpita, ma non cede.

Intanto messaggi di condoglianza e supporto arrivano dai leader di tutto il mondo, sottolineando l’atrocità di tali azioni e il bisogno di affrontare uniti la minaccia posta dallo Stato Islamico. “We will stand together. We will never bow. We will never break.”, queste le parole del vicepresidente statunitense Joe Biden. Dura anche la risposta del segretario generale NATO, Jens Stoltenberg: “We stand strong and united in the fight against terrorism. Terrorism will never defeat democracy”. La stessa Russia di Putin afferma l’importanza di creare un fronte compatto contro una minaccia terroristica reale e comune.

Inevitabile, infatti, l’allerta in tutta Europa, in particolare Londra e Roma, già oggetto di minacce sul web. Il PM inglese Cameroon, che negli ultimi anni ha già incrementato le misure antiterrorismo, ha convocato un meeting d’urgenza per discutere un possibile innalzamento della minaccia terroristica al livello “critico” (il primo della scala). A Roma, intanto, il Premier Renzi eleva il grado di allerta al secondo livello (quello che garantisce la possibilità di immediato intervento con reparti speciali e forze militari). La preoccupazione è legata, inoltre, all’imminente celebrazione del Giubileo 2016. Il portavoce del Vaticano, padre Lombardi, tuttavia, rassicura circa lo svolgimento dell’evento. “L’attacco di Parigi non riguarda solo il popolo francese. Ci sentiamo uniti nella responsabilità di questo mondo che viene colpito da questo odio folle. La condanna è la più decisa”. “Ora -aggiunge- c’è ancora più bisogno del Giubileo”.

La solidarietà c’è, la volontà di fermare questo orrore anche. Ora si tratta di metterle in pratica. Non mancheranno le ripercussioni internazionali, specialmente considerando le operazioni già in essere in Syria ed Iraq. Sarà, dunque, quanto accaduto il punto di svolta per un’azione più mirata, magari coinvolgendo truppe a terra o si sceglierà di proseguire con una strategia che per ora sembra aver dato ben pochi frutti? Si tratta indubbiamente di una scelta complessa, ma altresì impellente e necessaria per la sicurezza delle nostre Nazioni.

 

Paola Fratantoni

Il Califfato rallenta la sua corsa

POLITICA di

Nel 2014 gli attacchi terroristici in occidente aveva generato nell’opinione pubblica un nervosismo generalizzato, la paura di un trend in crescita difficile da fermare.

La serie di attacchi portati a termine da cellule indipendenti o da singoli ha avuto il suo culmine con la strage di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo furno stimolati dalla Fatwa che il portavoce dello Stato Islamico islamico Abu Muhammad al-Adnani aveva lanciato “…  l’incredulo americano, il francese, o uno qualsiasi dei loro alleati, spaccategli  la testa con una pietra, o  la  macellazione con un coltello, o  investitelo con la vostra auto, o  buttatelo  giù da un luogo elevato, o soffocatelo , o avvelenatelo. “

Dopo Parigi e Copenaghen però gli attacchi hanno subito un rallentamento ed è diventato chiaro che i Johadisti di base in occidente non sono stati in grado di mantenere il ritmo evidenziando il dato che quanto accaduto nell’ottobre del 2014 era una anomalia e non l’inizio di un trend inarrestabile.

Questo risultato può essere dovuto in parte all’intensificazione delle attività di intelligence e sicurezza delle varie nazioni ma anche dal fatto che la parte di popolazione a cui fa riferimento il terrorismo islamico abbia raggiunto la saturazione e il messaggio non faccia più breccia.

Questo non significa che spariranno in futuro le minacce terroristiche dei lupi solitari ma sicuramente saranno fenomeni isolati e sicuramente con un ritmo più lento.

Il fenomeno dei foreign fighters sembra essere diminuito forse anche per il fatto che i fattori di Appeal dello Stato Islamico sono in crisi,  meno successi sul campo, una espansione meno rapida, la differenza tra la vita sontuosa promessa e la realtà di una quotidianità da trincea difficile da sostenere.

In tal senso molti sono i rapporti filtrati dalle linee  parlano di esecuzioni ai danni di militanti che avrebbero voluto lasciare il campo di battagli a per tornare a casa e comunque i racconti di chi è riuscito a tornare minano fortemente la capacità di adesione che solo lo scorso anno sembrava inarrestabile.

Nonostante tutte queste difficoltà il messaggio dei terroristi islamici ha mantenuto un suo fascino quello della profezia che si avvera in un nuovo stato potente e accogliente che riporta alla memoria i fasti di un impero medioevale.

La brutale strategia del saccheggio e degli stupri non hanno allontanato o del tutto  le potenziali reclute che provengono dall’occidente mentre per i molti all’interno delle linee occupate la scelta è quella di obbedire o morire.

In sintesi il miraggio profetico di un nuovo stato islamico non scomparirà  immediatamente ma sarà sgretolato con il tempo e non riuscirà ad aumentare le sue fila cosi velocemente come si è visto recentemente. Le esecuzioni barbare, la sistematica distruzione del capitale culturale e storico delle zone occupate risveglia nei molti una indignazione più forte della volontà di appartenenza.

 

Crisi Ucraina, si ridefiniscono i rapporti internaziali

POLITICA di
La comunità  internazionale oggi si sta confrontando con problemi che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sembravano superati.
La Crisi Ucraina, invece, ha riportato indietro le lancette dell’orologio della Storia. La Piazza, le battaglie nelle citta’, i blitz e il confronto tra Occidente e Russia, hanno fatto emergere prepotentemente almeno 3 temi.
L’inviolabilità’ delle frontiere, un principio di diritto internazionale che sembrava definitivamente acquisito con la Carta di San Francisco, e’ stato messo in crisi dalle vicende della Crimea e del Donbass.
A questo si aggiunge l’iconoclastia, la sistema e preordinata distruzione del passato e delle tradizioni di un popolo finalizzata a soggiogarlo per annetterne il territorio. Infine l’epocale scomposizione e ricomposizione delle frontiere, che sono tornate ad essere fluide. Questi ultimi due aspetti sono accentuati dalle vicende mediorientali, che procedono parallele rispetto a quelle ucraine. Si tratta, in ultima istanza, dell’onda lunga della dissoluzione dell’ordine di Yalta, senza che ad essi si sia sostituito niente tranne che il caos.
In questo scenario, la Crisi Ucraina riveste un ruolo centrale, anche se i media tendono ad occuparsene meno delle altre. La centralita’ del rapporto che il paese ha con la Russia, rispetto alla quale svolge il ruolo di collo di bottiglia nella distribuzione del gas verso l’Europa, e le palesi violazioni del diritto internazionale in corso fanno di questa Crisi un punto nodale nella ridefinizione dei rapporti internazionali.
A questi aspetti strutturali se ne aggiungono altri non convenzionali.
Fra questi l’altissimo numero di rifugiati, secondo solo a quello prodotto dal conflitto in Siria: circa un milione di ucraini risultano dispersi. A cio’ si aggiunge il fenomeno dei foreign fighters: in Ucraina si contano contractors, “volontari” russofoni senza segni di riconoscimento sulle divise, guerriglieri musulmani ceceni, nonche’ avventurieri mossi da motivi personali.
L’ultimo elemento “non convenzionale” si potrebbe definire di “crisis management”: nessuno dei protagonisti sembra aver avuto in passato e di avere oggi la capacita’ di gestire la situazione, anzi tutti sembrano subirla. L’ha subita l’Unione Europea,che sembra ininfluente, così’ come la NATO, che a dispetto delle esercitazioni, non ha nessuna intenzione di confrontarsi coi russi.
Anche gli USA, per effetto delle contorsioni dell’amministrazione Obama in politica estera, non sembrano in grado di svolgere un ruolo risolutivo.
E la stessa Russia, a dispetto dei muscoli mostrati nella prima fase del confronto, e’ consapevole di giocare una partita piena di rischi e di incognite, soprattutto nel lungo periodo.
Secondo un’analisi presentata dall’allora Presidente Medvedev alla Duma, la Russia sconta tre gap strutturali: una decrescita demografica, la mancanza di un comparto tecnologico all’avanguardia e la dipendenza dell’economia dall’andamento del prezzo del petrolio.
Fattori di freno per qualunque politica espansiva Mosca possa immaginare.
Cosa succedera’, dunque?
Le opzioni sul tavolo sono numerose.
La prima, quella di un ritorno delle aree di Donetsk e Lugansk ad una piena sovranità’ ucraina, e’ quella più improbabile.
Così come una nuova ondata aggressiva russa. Anche la federalizzazione del conflitto, e cioè la nascita di un’Ucraina federale con ampia autonomia della aree russofone, non sembra realistica.
Maggiori probabilità ha il congelamento del conflitto sulle posizioni attuali, senza che nessuna delle parti prenda l’iniziativa di modificare lo status quo fin qui raggiunto. Tuttavia, in questo caso sarebbe necessaria una forza di interposizione in grado di garantire il rispetto dei deboli accordi di Minsk.
Un’ultimo scenario e’ forse quello peggiore, perché lascia spazio all’imprevedibilità della politica interna ucraina, che si sta radicalizzando. Accanto al malcontento popolare per la guerra e la povertà che ne sta conseguendo, si sta verificando un fenomeno da non sottovalutare. La Forze di Sicurezza, militari e paramilitari, si stanno gradualmente trasformando in partiti politici, e nel caso in cui dovessero ricevere consenso popolare, potrebbero trasformarsi in una miccia in grado di riaccendere le tensioni.

UE, quote e hotspot: un via libera forzato

EUROPA/POLITICA di

I Paesi occidentali votano sì alla redistribuzione di 120mila rifugiati arrivati in Italia e Grecia, le quali dovranno rendere efficienti i centri d’identificazione entro novembre. Ostruzionismo degli Stati dell’Est. Via libera ai raid contro gli scafisti.

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Via libera alla quota di 120mila rifugiati, alla creazione di hotspot entro novembre, ai raid contro gli scafisti. Tra il 22 e 24 settembre, durante la riunione straordinaria dei ministri degli Interni della Ue e il Consiglio Europeo, il pacchetto di proposte della Commissione Europea sull’immigrazione è stato accolto nelle sue linee guida. Come prevedibile e già manifestato in più occasioni nel corso di questo 2015, lo schieramento di Paesi dell’Est (“Visegrad”), composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia più la Romania, ha votato contro la ripartizione dei profughi.

Sulla distribuzione dei 120mila rifugiati giunti in Italia e Grecia, infatti, è stato necessario il ricorso alla maggioranza qualificata, data l’impossibilità di raggiungere l’unanimità. A loro volta, i due Stati del Mediterraneo si sono impegnati al rafforzamento dei centri d’identificazione, i quali dovrebbero essere pronti entro novembre, come deciso dal Consiglio Europeo.

L’obiettivo è snellire le procedure di rimpatrio per chi non detiene il diritto d’asilo e facilitare lo smistamento di tutti coloro che invece ne posseggono i requisiti. È una misura di valore storico poiché di fatto annulla la norma comunitaria del Trattato di Dublino che consente al rifugiato di potere risiedere solo presso lo Stato nel quale ha fatto domanda d’asilo.

Il Consiglio Europeo che ha poi detto sì ai raid contro gli scafisti provenienti dalla Libia. Tale operazione navale, attiva dal prossimo 7 ottobre, rientra nella seconda fase della EunavFor e prevede l’abbordaggio, la perquisizione e il sequestro delle imbarcazioni con a bordo migranti.

Piccolo passo in avanti anche nei rapporti con gli enti internazionali e i Paesi vicini. La Ue ha infatti predisposto un piano di aiuti del valore di 1 miliardo di euro a favore delle agenzie Onu che aiutano i profughi. Mentre, sul fronte del trust fund, l’Europa ha chiesto un maggiore sforzo agli Stati membri, visto che i fondi per i Paesi esposti alle crisi, Siria e Iraq in primis, non sono sufficienti.

Le decisioni prese in questi due vertici sono state salutate positivamente da una parte d’Europa. Dai vertice dell’Unione Europea, passando per Italia e Francia, fino ad arrivare alla Germania, con la cancelliera Angela Merkel che ha parlato di “passo in avanti decisivo”.

Dichiarazioni a cui ha fatto seguito la replica, di certo non conciliante, del premier ungherese Orban, che ha parlato di “moralismo imperialista”. E sono proprio queste parole che evidenziano al meglio il clima che si respira tra i leader dell’Est Europa. A partire dal primo ministro slovacco Robert Fico il quale, in rappresentanza del gruppo Visegrad, ha annunciato di un’azione legale contro la norma sulla ripartizione dei rifugiati.

Ma ciò che evidenzia ancora di più la spaccatura è il comportamento dell’Ungheria. Dopo le leggi antiimmigrazione e la costruzione del muro al confine con la Serbia, il governo ha annunciato di volere innalzare un’ulteriore barriera al confine con la Croazia. Notizia che, aggiunta alle migliaia di profughi arrivati in Serbia, stanno riportando a galla le antiche ruggini tra Belgrado e Zagabria.

Sulle politiche immigratorie, così come già dimostrato sul versante economico, l’Europa viaggia a doppia velocità. Nella fattispecie, la spaccatura tra Ovest ed Est affonda le sue radici nella storia moderna e contemporanea europea. Più che il Comunismo, gli Stati orientali, come evidenziato da più fonti internazionali, sono contrari all’accoglienza perché la loro indipendenza reale è stata raggiunta recentemente, con il ricordo ancora presente del sangue versato per la propria patria. Questo divario tra le due aree dell’Unione Europea sottolinea quanto l’unità politica continentale sia ancora molto distante.
Giacomo Pratali

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Accoglienza ai rifugiati un’arma contro l’ISIS

EUROPA/POLITICA di

Fiumi di persone, famiglie intere percorrono a piedi il corridoio balcanico, chilometri infiniti da Salonicco alla frontiera Ungherese e poi la speranza di fermarsi in Germania, Austria o nei paesi del Nord come la Danimarca.

Un flusso di rifugiati che ha sorpreso l’opinione pubblica europea abituata alla tratta mediterranea con accesso a l’Italia ma sicuramente meno inattesi dalle istituzioni europee che conoscono da oltre un anno le condizioni dei campi profughi siriani al confine con la Turchia.

Il vero cambio di regia lo ha stimolato la politica estera della Turchia che ha assunto in questi anni di instabilità la delicata posizione di ago della bilancia nella geopolitica mondiale.

Stato di frontiera con la Siria da sempre nemica di Assad e delle popolazioni Curde che si dividono tra Siria, Iraq e Turchia dove alle ultime elezioni hanno conquistato una rappresentanza in parlamento grazie al 10% di preferenze votate. Una vera spina nel fianco del presidente Erdogan.

Dalle prime fasi della crisi Siriana le frontiere Turche sono state sigillate lasciando gli esuli nei campi profughi e osservando dal confine le battaglie ormai tristemente famose di Kobane.

Cosa è cambiato ? sicuramente la politica estera USA che in passato aveva chiesto alla Turchia un intervento senza però occuparsi di Assad e soprattutto senza colpire i curdi che stavano, unici e soli in quel momento, combattendo le forze dell’ISIS alle porte dei loro villaggi.

Dopo alcune dimostrazioni di forza e di immobilità generale tese soprattutto a dimostrare l’importanza strategica della Turchia nell’area gli USA hanno evidentemente dato il via libera anche su questi due punti così delicati. Visto anche l’intervento della Russia in favore di Assad che in caso di epilogo favorevole darebbe a Putin il controllo dell’area.

Da qui il via libera ai profughi siriani, confini aperti e via libera verso l’Europa che ora deve fare i connti con dei flussi che possono arrivare fino ad un milione di persone, tanti sono quelli ammassati nei campi fino ad ora.

Accoglierli sarebbe la scelta giusta anche perché lasciando la Siria mettono in seria difficolta lo Stato Islamico che si trova ora senza personale specializzato per far funzionare le infrastrutture, centrali elettriche, gasdotti, raffinerie, ospedali.

Proprio con questa chiave di lettura si devono leggere i minacciosi messaggi  che l’ISIS ha lanciato in rete in questi giorni definendo la fuga “ un grave peccato che merita una pena esemplare”.

Per questo motivo l’accoglienza dei profughi siriani e libici oltre che doverosa per chi fugge dalle guerre e dalle carestie, humus ideale per il fiorire di estremismi religiosi, potrebbe essere motivo di destabilizzazione dei programmi di crescita dei terroristi dell’ISIS.

Alessandro Conte
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