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Accordo Grecia – Troika: un sirtaki o un coro tragico?

ECONOMIA/EUROPA/POLITICA di

Atene e i suoi creditori della zona euro hanno concordato un accordo dell’ultima ora per estendere a 172bn di euro il programma di salvataggio del paese per quattro mesi, ponendo fine in questo  modo a intere settimane di incertezze che minacciavano di innescare l’ultima corsa agli sportelli greci, indirizzando la Grecia alla bancarotta.

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L’accordo, raggiunto in una riunione make-or-break dei ministri delle Finanze della zona euro il 20 febbraio scorso, lascia diverse questioni importanti pendenti, in particolare sulle riforme che  Atene dovrà adottare urgentemente al fine di ottenere i 7,2 miliardi di euro in aiuti che dovrebbero essere forniti al completamento del programma attuale.

Il nuovo governo greco sara tenuto a presentare le misure per la revisione al Fondo monetario internazionale e le istituzioni dell’UE lunedì e qualora non siano ritenute idonee, un’altra riunione dell’Euro-gruppo potrebbe essere chiamata già domani, martedì.

Criticamente, l’accordo del Venerdì impegna Atene ai fini del “completamento” del salvataggio, qualcosa che il nuovo governo greco ha da tempo promesso e ripetuto di voler evitare. “Fino a quando il programma non sarà stato completato, non ci sarà alcun pagamento”, ha dichiarato Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle finanze tedesco.

Alexis Tsipras, il primo ministro ha di contro ribadito che la Grecia  con l’accordo del Venerdì intende annullare gli impegni di austerity presi dal precedente governo conservatore, ma ha messo le mani avanti non promettendo miracoli. Saranno tempi duri per i greci.

“Abbiamo dimostrato che l’Europa è protesa a compromessi reciprocamente vantaggiosi, non a infliggere punizioni”, ha detto Tsipras il giorno dopo. Ma l’ accordo di venerdì non rappresenta la chiusura dei negoziati. “Stiamo entrando in una nuova fase. I negoziati diventeranno sempre più sostanziali, fino al raggiungimento di un accordo definitivo ai fini di una transizione dalle politiche catastrofiche del memorandum, delle politiche che si concentreranno sullo sviluppo, l’ occupazione e la coesione sociale”, ha continuato il primo ministro greco.

Tuttavia, l’accordo consente di evitare quello che i funzionari della Troika temevano avrebbe provocato forti scosse sui mercati e le borse. O meglio, se si fosse giunti all’accordo slittando di una settimana in più, si sarebbe dovuto arginare  la corsa dei greci al ritiro  dei depositi dal settore bancario del paese che, secondo quello che dichiarano i funzionari, stavano raggiungendo circa 800 euro al giorno, contribuendo alla creazione di un situazione al limite di una vera  e propria corsa agli sportelli. La premessa per la catastrofe.

“La trattativa  è stata intensa, perché si trattava mettere le basi di un rapporto di  fiducia tra noi”, ha detto Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle Finanze e presidente dell’Eurogruppo olandese il quale ha mediato l’accordo, anche dopo aver fallito già due volte nel corso della scorsa settimana. “Stasera è stato fatto un primo passo nel processo di ricostruzione del rapporto di fiducia…”, ha proseguito.

Alla notizia dell’accordo le borse hanno “festeggiato” al loro modo. Wall Street è salito a livelli record. L’indice S & P 500 è cresciuto da 0,6 per cento a un record di 2.110, mentre il Dow Jones ha raggiunto il massimo storico di 18.144.

La decisione di chiedere una proroga del programma atutale è una significativa “mediazione” per Tsipras, che aveva promesso nella sua campagna elettorale di abbattere il piano di salvataggio esistente.

Alle istituzioni del FMI e dell’UE, della Banca centrale europea e la Commissione europea rimangono le redini e il controllo della valutazione delle misure delle future riforme economiche greche e l’erogazione dei fondi di salvataggio, nonostante il moto dei greci diretto alla liberarazione dalla tanto odiata “troika”. Tsipras dovrà essere abile a non deludere la sua gente, non glielo perdonerebbero, troppi sacrifici, troppa stanchezza.

“Anche se Atene si è impegnata a mantenere gli avanzi primari di bilancio e di prendere più di quanto spende, quando gli interessi sul debito non verranno conteggiati” – ha detto Mr Dijsselbloem.

“Siamo riusciti a scongiurare una serie di molti anni di avanzi primari soffocanti che la nostra economia non può produrre”, ha detto Yanis Varoufakis, il carismatico ministro delle Finanze greco.

Un alto funzionario coinvolto nei colloqui ha precistao che la posizione del bilancio greco in rapido deterioramento ha messo sotto pressione Atene per giungere a un accordo. “In verità, i greci sono  spalle contro il muro”. Indiscrezioni e pressioni di corridoio.

Pare che la BCE sia già pronta a erogare nuova liquidità alla Grecia già da questa settimana. All’inizio di questo mese la BCE di Mario Draghi aveva tagliato tale prestito, costringendo le banche a fare affidamento sui tassi molto elevati della liquidità di emergenza da parte della banca centrale greca.

Tra le concessioni fatte ad Atene vi è un patto per l’astensione da qualsiasi “rollback” o “cambiamenti unilaterali” dalle misure delle riforme già esistenti. L’accordo, inoltre, non prevede di tagliare i livelli di debito della Grecia, un’altra promessa che Alexis Tsipras aveva fatto durante la campagna elettorale.

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In Libia c’è in gioco l’Europa

POLITICA di

La posizione ferma dell’ONU sul tentativo di mediazione lascia in sospeso questioni che troveranno risposta solo quando, in un modo o nell’altro si prenderà una seria iniziativa, qualunque essa sia. Non è pensabile un intervento fuori dall’ombrello dell’ONU ma è auspicabile che la faccenda si affronti a più livelli con un approccio integrato: che preveda proposte politiche e diplomatiche e sostegno diffusi, soluzioni regionali e nazionali (limitate all’area europea ed africana coinvolte) ed un’azione pragmatica nell’interesse della società libica.

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La crisi libica potrebbe essere un buon test per l’Europa, perchè è a livello europeo che dobbiamo affrontarla. È in gioco il modus operandi con cui l’Unione affronterà le emergenze ai suoi confini. L’Unione deve muoversi da Unione, compatta, anche se solo pochi Stati saranno attivamente coinvolti in una trattativa o in un’azione militare: quelli vicini per ragioni storiche o geografiche come Italia, Francia, Inghilterra e perfini Spagna e Germania. È un banco di prova a più livelli. L’Italia sarà sotto i riflettori, come lo sarà la nostra capacità politica e militare di reggere all’urto. D’altro canto il nostro compito ed il nostro merito sarà quello di tirare in ballo l’Europa e per farlo sarà necessaria una figura in grado di mediare sia all’interno che all’esterno (sempre che le tempistiche lo consentano). Il secondo livello è appunto europeo, qui sigioca la partita della fiducia tra Stati, cittadini, istituzioni comunitarie, la tenuta di una linea estera o di una solidarietà interna (non parliamo di politica estera perchè sembra essere troppo lontana ed inadeguata). O l’Europa agisce da Unione oppure è nuovamente a rischio non solola sua credibilità interna ma anche e soprattutto quella esterna, come hanno dimostrato in parte la crisi ucraina, l’embargo alla Russia, gli sbarchi dei migranti e perrestare in casa nostra la vicenda dei due fucilieri.

L’Europa sarà chiamata ad un impegno politico, diplomatico e militare. Quest’ultimo difficilmente avrà carattere di uma missione di peacekeeping, per il semplice fatto che non c’è alcuna pace da mantenere. Più probabilli saranno invece interventi di peace making e peace enforcing, il che significa prepararsi ad una guerra. Prima di queste soluzioni, che sono per loro stesso carattere non pacifiche anche se lo è il loro intento, il tentativo di mediazione non potrà che provenire dall’esterno. Attenzione andrà posta al ruolo per cui si proporrà l’Egitto. Attualmente al Sisi è molto attivo sul fronte libico per ragioni di sicurezza esterna ed interna (il suo è pur sempre un equilibrio instabile, che subirebbe forti sollecitazioni interne in caso di diffusione del clima fondamentalista). Gli Stati Africani potrebbero temere una crescita politica eccessiva del governo egiziano, già in passato offertosi come mediatore tra le diverse realtà islamiche e non.

È bene però che l’Europa trovi un accordo su un semplice punto, un dato di fatto: dobbiamo prepararci ad affrontare un futuro ricco di problematiche di vario genere di fronte al quale essere uniti sarà un vantaggio. Queste situaziini potranno essere un ottimo collante per l’Unione che, come tutte le unioni a carattere regionale ha dei confini ed è su questo che premeranno le future situazioni di instabilità. Le nazioni che rappresentano la cornice dell’area comunitaria e che saranno più esposte andranno sostenute politicamente, economicamente e militarmente. In questo quadro il ruolo anche simbolico di un intervento tedesco (il cui governo però sta agendo sul versante ucraino) sarebbe importante al fine di ricompattare la fiducia perduta tra gli Stati.

Se l’Europa non sarà in grado di fare questo, segnerà pesantemente il passo in un mondo che continuerà a correre e che rischia di travolgerla. Nel caso in specie l’esposizione maggiore è quella dei Paesi mediterranei, Italia in primis. Il problema che abbiamo in Libia è un problema arabo prima di tutto e poi internazionale capace di estendersi a tutto il nord Africa e, dato che l’antico Califfato inglobava anche la Spagna un coinvolgimento spagnolo sarebbe quanto meno auspicabile. Per ragioni storiche e culturali, perchè rappresenta un ponte tra due mondi. Allo stesso modo la Francia farebbe bene a proporsi attivamente sebbene per ragioni ovvie legate all’ultimo intervento, il governo francese come quello inglese farebbero meglio ad occupare una posizione di seconda fila rispetto ad una leadership sispera a guida italiana.

La risposta a questa emergenza deve essere europea, nel senso che sarebbe auspicabile che gli Stati europei prendessero l’iniziativa in ambito ONU. Qui si peserà la maturità delle istituzioni e l’adeguatezza dei suoi leaders. Non serve, come successo nel 2011 una concentrazione di fuoco sulla Libia ma una proposta politica che guidi questa nazione e per dimostrarsi all’altezza l’Europa dovrà fornire prima una prospettiva a se stessa.

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L’arma laser è realtà, ed è a stelle e strisce

INNOVAZIONE di

Non si tratta di un test, l’arma funziona ed è operativa. Così l’Ammiraglio Kunder risponde definitivamente alle domande che sorgono spontaneamente a chi legge queste righe. Operativa significa, per inciso, che è pronta ad essere usata se le condizioni lo richiedono. A fine 2014 la nuova arma, che fino a pochi anni fa sembrava solo finzione, è stata impiegata con successo dalla marina militare a stelle e strisce in una simulazione a bordo del’imbarcazione da trasporto anfibio USS Ponce a largo delle coste dell’Iran, nel Golfo Persico.

L’arma (infinitamente più potente di un semplice puntatore laser) è in grado di colpire e distruggere velivoli ed imbarcazioni con una precisione elevatissima se utilizzata alla sua massima potenza. Il suo utilizzo però può essere anche diverso dall’abbattimento di un drone o di una postazione missilistica navale: può essere infatti impiegato per distruggere o danneggiare strumenti e sensori se utilizzato a potenza ridotta. Ha dimostrato di essere molto affidabile e di non risentire particolarmente delle condizioni meteorologiche. Il sistema LaWS, Laser Weapon System può essere montato utilizzando un proprio generatore per il sostentamento oppure collegandosi alla rete elettrica dell’apparato su cui viene installato.

Le dimensioni sono piuttosto ridotte, il che lascia presumere che in futuro potrà essere fatto alloggiare su velivoli e mezzi di terra. In più garantisce un impiego a costo quasi zero. Diversamente dall’impiego di un razzo, che richiede manutenzione tecnica, meccanica, aggiornamenti e modifiche oltre che spese notevoli in carburante, il sistema LaWS comporta costi ridicoli se paragonato a quelli delle armi in commercio. In periodi di continui tagli ai budget della difesa, costruire in larga scala un apparato di questo tipo sarebbe un’ottima soluzione per rispettare i sempre più rigidi parametri di costo ed efficienza. Lo sviluppo e la realizzazione di una chimera rincorsa da tutti i governi è in realtà una nuova porta verso l’ignoto. Un altro passo importante nel campo tecnologico che gli Stati Uniti sicuramente sapranno ben combinare con quello della robotica.

Forse non è un caso che l’operazione si sia svolta vicino l’Iran, sebbene fonti ufficiali riportino che si trattava di uno scenario che permetteva un test in condizioni di operatività ottimali e non. Le tempistiche del test potrebbero non rivelare particolari interessanti, per quanto restino importanti. Sicuro è che resta un messaggio per questo Stato che non può fare a meno di pretendere per se stesso la tecnologia nucleare e che ora dovrà stare attento anche a quelli che sembravano prodotti in scadenza. Si perchè la Ponce vanta già qualche decennio di carriera e nonostante ciò, grazie a questo sistema, può rivelarsi una seria minaccia. Stiamo pur sempre parlando di un’arma che necessita solamente di un generatore per funzionare.

Forse non è un caso, ma ci ritroviamo di fronte all’ultimo paradosso (in ordine di tempo) delle sfide militari e tecnologiche. Proprio l’Iran ci offre una sponda interessante: il nucleare, una tecnologia letale contenuta in un piccolo spazio che si riduce (se utilizzata) nella totale distruzione di uomini, fauna e flora. Essendo un’arma di tipo massivo e distruttivo non occorre che sia precisa. Occorre però un elevato grado di sviluppo tecnologico per la sua produzione, il suo trasporto e l’utilizzo da terra, acqua e mare. Il confronto in questo caso è con una tecnologia talmente avanzata da essere in grado di stimolare gli elettroni e farli viaggiare insieme, convogliandoli in un fascio che, dal semplice uso come puntatore per armi, elusore o guida per missili si trasforma in un’arma capace di essere millimetricamente mortale anche chilometri di distanza (l’utilizzo contro persone è vietato). I nuovi test hanno dimostrato che l’arma è estremamente affidabile in termini di precisione ed energia richiesta per l’utilizzo. In più non risente di fattori in grado di modificarne la potenza sulle lunghe distanza come polvere o sabbia.

La sfida che spetta al Pentagono ora è anche una sfida di ritorno, tutelare il segreto di questa strabiliante ed efficientissima nuova arma. E non sarà cosa da poco.

 

La “linea promessa” della politica estera russa

Asia/POLITICA di

Dal viaggio in America Latina al nuovo accordo dei Brics: la Russia tra una più consolidata politica estera e la creazione di un nuovo hub finanziario.

Il vecchio mondo bipolare sembra aver voltato pagina ma lo strascico di rivalità è tutt’altro che passato di moda: solo si sono modificate le modalità di confronto. Il viaggio di Putin effettuato in America Latina aveva come obiettivo nuove e più proficue relazioni politico commerciali con i Paesi oggetto di visita. Il messaggio ufficiale era quello di stabilire una linea promessa di alleanze. Quello indiretto poteva leggersi in due maniere: da un lato Putin arrivava oltreoceano per andare a stringere le mani ai vicini di casa degli statunitensi; dall’altro si trattava di un invito di più larga portata, per stimolare altri possibili partner ad entrare in un nuovo e diverso sistema di coalizioni politiche ed economiche tese a creare un sistema alternativo di preferenze e scambi commerciali.

Siamo onesti: il problema ucraino è qualcosa di politicamente molto fastidioso e la portata di questa nuova crisi a cavallo tra Russia e Stati Uniti è ampia ed ha influenze in molti settori. La Russia, così come tutti gli altri attori coinvolti loro malgrado deve prenderne atto. Questo rallentamento che Putin ha subito ad occidente ha però i suoi risvolti dall’altra parte del mondo: la visita presso numerosi Paesi latinoamericani; il ritorno di un presidente Russo in Nicaragua; il taglio di una  fetta enorme del debito cubano (debito che con l’attuale trend Cuba non sarebbe comunque stata in grado di saldare) con la prospettiva di rinsaldare la vecchia alleanza; nuove intese con il governo argentino sul fronte dei prestiti e degli investimenti anche e soprattutto sul nucleare; una tappa brasiliana che ha rivelato possibili accordi futuri nel settore militare, della collaborazione per lo sfruttamento del petrolio e, cosa più importante un positivo atteggiamento di fiducia nell’inaugurazione di proficui rapporti con il Cremlino. Insomma, la nazionale russa non avrà giocato la finale dei mondiali di calcio ma il suo presidente è tornato a casa soddisfatto della sua trasferta. Soddisfatto poi di un’ulteriore ma altrettanto significativo appoggio politico. Si perchè la sua visita ha raccolto consenso, da parte di alcuni dei probabili futuri partner di questa ritrovata alleanza russa, per quanto riguarda la questione ucraina. In breve, Putin offre aiuto economico a nazioni che geograficamente o economicamente (vedi l’Argentina) sono stretti nell’abbraccio di un ingombrante vicino (gli Stati Uniti) che a torto o a ragione li considera suoi condomini, con tutto quello che ne consegue. In cambio (e questo è solo uno dei successi attualmente riscontrabili), alcuni di questi Paesi considerano l’opzione di appoggiare politicamente il presidente russo in quello che si prospetta un lungo autunno.

Ed è proprio nel cortile di casa degli Stati Uniti che Putin ha segnato un importante punto. A Fortaleza la sfida è stata delle più importanti: l’ufficializzazione della creazione di un fondo monetario alternativo (CRA, Accordo di Riserva Contingente) e di una nuova banca di sviluppo. L’obiettivo è scalzare l’egemonia del dollaro e promuovere progetti nel continente africano, dando allo stesso tempo un’alternativa alla Banca Mondiale ed al Fondo Monetario Internazionale e sviluppando i propri settori produttivi interni, che diverrebbero meno esposti alle turbolenze finanziarie internazionali. Data la proporzione rilevante della popolazione dei BRICS sul totale mondiale e del PIL realizzato dallo stesso gruppo sul totale del Prodotto mondale, la nuova forza di questo accordo sta non solo nella sottrazione di spazio geografico agli ormai già stabiliti hubs economici e finanziari “occidentali”, che si vedrebbero mancare di importanti mercati e spazi di espansione economica, ma alla preparazione di un nuovo blocco di alleanze che assumerà con ogni probabilità il ruolo di frangiflutti e di strategica alleanza al tempo stesso.

La caduta del Califfato a Kobane, la città liberata dai curdi

Ben 4 mesi di combattimenti senza tregua e i peshmerga siriani sono riusciti a liberare Kobane da terroristi dell’ISIS. Era dal 16 settembre  scorso che la città resisteva all’assedio dei jihadisti sunniti. Lo ha riferito il 27 gennaio scorso l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il quale ha precisato che i resistenti curdi ormai hanno liberato quasi l’intera area della città curda di Kobane ai confini con la Turchia.

Proprio nel Kurdistan turco numerose sono state le  manifestazioni di festa alla diffusione della notizia. In migliaia hanno riempito le piazze con canti e balli, in uno spirito di grande appartenenza alla causa della lotta allo Stato Islamico e alla resistenza eroica dei combattenti peshmerga.

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Alcune conseguenze sono già tangibili in seguito alla liberazione di Kobane. In primo luogo, la grande attenzione mediatica che giustamente si è guadagnato l’intero popolo curdo tramite i suoi combattenti nelle fila della Resistenza. Un umore gelido soffia da Ankara e gli eventi  non smuovono affatto il suo leader. Erdogan lo ha dichiarato senza mandarle a dire, “non c’è nulla da festeggiare!”.

La prospettiva del Grande Kurdistan, il tanto agognato stato curdo che s’andrebbe a estendere tra Turchia, Siria, Irak e Iran rimane improponibile per Erdogan. “chi costruirà adesso le città distrutte?” ha domandato sarcastico riferendosi ai bombardamenti delle truppe americane che hanno aiutato i combattenti curdi sul territorio. Kobane è una città che conta circa 45mila abitanti.Eppure, gli strike americani hanno colpito più duro qui che a Raqqa, dove si ritiene che abbia passato molto tempo anche lo stesso capo di IS, Abu Bakr Al Baghdadi.In molte giornate di bombardamenti, Kobane è stato addirittura l’unico bersaglio degli aerei della coalizione.

D’altronde, il contributo turco alla lotta è stato unicamente quello di far passare i peshmerga curdi lasciando il confine aperto a seguito delle pressioni inderogabili della comunità internazionale. Erdogan sogna la caduta di Bashar Al Assad in Siria per espandere la sua influenza con un governo filoislamico che bloccherebbe ogni possibilità ai curdi di costituirsi a Stato. Fa pensare la notizia confermata dall’intelligence turca che parla di numerose cellule jihadiste “dormienti” in Turchia. Fanno pensare anche i movimenti quasi indisturbati di profughi siriani che dai confini turchi, attraversano il paese senza quasi venire intercettati giungendo numerosi nei Balcani.

Eppure, forse la considerazione più pregnante da portare sul tavolo della strategia nella lotta al Califfato sta in quella locuzione inglese del “boots on the ground” perché è esattamente quello che hanno fatto i peshmerga siriani del YPG (Foze di Difesa del Popolo): combattere per una porta, un vicolo, una piazza, una città. La resistenza dei curdi, non finisce a Kobane.

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Italia, Mattarella Presidente

POLITICA di

Sergio Mattarella è il dodicesimo Presidente della Repubblica italiana, eletto al quarto scrutinio da una larga maggioranza che sfiora quei due terzi degli aventi diritto al voto che sarebbero stati necessari nelle prime tre prove.

Una scelta all’altezza del ruolo che attende il nuovo primo cittadino e dei valori che deve rappresentare.   Insigne giurista e giudice costituzionale, annovera nel suo curriculum qualificate esperienze di governo, parlamentari e di partito che attestano una profonda conoscenza dell’assetto e delle prassi istituzionali e dell’organizzazione amministrativa dello Stato.

Non è un aspetto marginale in una fase in cui l’ondata di antipolitica e di delegittimazione dei partiti e delle classi dirigenti ha favorito sovente l’improvvisazione e l’incompetenza.    In trent’anni di vita politica e di esercizio di funzioni pubbliche, Mattarella ha dato prova di sobrietà, serietà e intransigenza sui princìpi, ancor più evidenziate dalla fermezza dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso, già pagata a caro prezzo dal fratello Piersanti, Presidente della Regione Sicilia, assassinato dalla mafia nel 1980.

L’elezione in tempi rapidi di una figura di alto profilo alla massima magistratura dello Stato riscatta, in un certo senso, il nostro sistema politico, pur con le sue lacerazioni e contraddizioni.  Nei momenti più solenni e delicati, infatti, si rivela in grado di esprimere scelte responsabili e lungimiranti che trascendano miserevoli tatticismi e calcoli di convenienza.     Sulla logica dei veti incrociati e del compromesso al ribasso, paventati da diversi osservatori nelle scorse settimane, prevale, con la scelta di Mattarella, il senso di responsabilità e la coscienza dell’interesse superiore del Paese.

Sebbene puntasse ad aggregare un’ampia maggioranza, come è giusto che avvenga per l’elezione del Capo dello Stato che è una figura di garanzia, il PD ha preferito utilizzare il suo sensibile vantaggio numerico per proporre agli altri partiti un unico nome, puntando coraggiosamente sul prestigio del candidato, in grado di attrarre un consenso molto ampio e trasversale.

Il Patto del Nazareno, sulla scelta dell’inquilino del Quirinale, non ha funzionato.  Questa volta, Renzi si è trovato nelle condizioni di poter prescindere dal consenso degli alleati del Nuovo Centrodestra – i cui “grandi elettori” hanno poi, comunque, in gran parte, votato per Mattarella – e dall’ “oppositore-amico” Berlusconi e di ottenere, sulla carta,  un’autonoma maggioranza di partenza ricompattando il suo partito e SEL sul nome del giudice costituzionale siciliano.

Se questa scelta di Renzi di smarcarsi dal Nazareno e, in un primo momento, anche dagli alfaniani, in un passaggio così importante, avrà effetto sulla tenuta dell’esecutivo e sul percorso delle riforme, non è dato sapere, ma probabilmente il NCD non tirerà troppo la corda, perché i rapporti di forza sono assai sbilanciati in favore del premier. E lo stesso Berlusconi non ha forse interesse, al momento, a far saltare il tavolo delle riforme – come al tempo della Bicamerale D’Alema ! -, poiché ciò comporterebbe il rischio di nuove elezioni e questo non è certo il momento più propizio per Forza Italia.

Meglio fare buon viso e continuare a confrontarsi lealmente con Renzi sulle riforme stesse, nell’interesse superiore del Paese, tenendo conto che Mattarella, nonostante trascorsi politici di evidente avversione nei confronti del Cavaliere, nella posizione attuale, per la sua serietà e il rigore etico universalmente riconosciuto, costituirà certamente una garanzia del rispetto delle regole e dei diritti delle parti contrapposte.    E rappresenterà, soprattutto, per il Paese un baluardo della legalità costituzionale nelle acque turbolente della dialettica tra i partiti e dei processi di riforma in essere.

di  Alessandro Forlani

L’Arabia dei Saud al centro della mezza luna islamica

A prescindere da chi sia al potere e da quali siano gli alleati, da quelle parti a chiunque lo si chieda tutti sanno sempre quello che fanno.

Simile al deserto di cui è formata, l’Arabia Saudita non è il classico potere statale che ti aspetti, per lo meno non lo è all’europea. E’ di quelli che nella perfetta ottica islamica di sempre, mutano come le dune di sabbia dalla sera alla mattina. Camuffata (spesso a volto scoperto) in un ambiente che è stato la causa dei suoi mali ed allo stesso tempo benefattore della sopravvivenza della casa reale, è sopravvissuta alle numerosissime crisi che l’hanno coinvolta. La sua politica, come molte politiche nel mondo arabo che un occidentale non si sa spiegare, non va capita: queste politiche prima vanno accettate e poi, quando ci si mette nei panni di chi ha come dirimpettaio Iraq, Iran, Yemen, Egitto, Israele, (per non mettere dentro al pentolone anche inglesi, francesi e americani che sono il trito e ritrito condomino che vuoi o non vuoi dalle parti del 46° Est ti ritrovi) si può sperare di capirle. Quando la tua preoccupazione è innanzitutto il controllo della fedeltà della famiglia reale, ben prima che dei sudditi e poi delle alleanze, allora capisci che la faccenda si complica. Questa sorta di perenne insicurezza che accompagna da sempre casa Saud ha reso la sua politica interna ed esterna in alcuni casi piuttosto squilibrata, in continuo ricomponimento. Non è certo confortante se la si giudica dall’ottica della sicurezza e stabilità regionale, ma tale è.

Due aspetti di questa importante fetta della mezza luna islamica – che corre dal Magreb (lì dove tramonta il sole) passando per le sconsolate distese del Sahel, lo sfortunato e martoriato Corno d’Africa per giungere a chiudersi tra il Mar Caspio e il Pakistan, tra le steppe kazakhe – vanno considerati: il timore di un crollo interno e l’instabilità permanente ai suoi confini. L’intrinseca vulnerabilità di tutto il mondo arabo è allo stesso tempo la sua principale caratteristica, quella cioè di essere un gran caleidoscopio che riflette nelle politiche dei governi e nelle guerre l’indissolubile rivalità tra le sue anime sciita e sunnita e prima ancora la sua poliedricità etnica e tribale. L’Arabia dei Saud ha tentato tutte le strade per cercare di arginare le spinte centrifughe interne ora elargendo privilegi, ora attraverso fondi, ora (è il caso di Bin Laden ad esempio) mandando in esilio personaggi scomodi, magari in passato dimostratisi insostituibili alleati della corona contro lo sgretolamento a favore della miriade di realtà locali. Certamente scomoda la posizione della famiglia reale, in perenne dibattito e scontro più o meno dichiarato per mantenere l’equilibrio regionale senza dare troppo fastidio a grossi e grassi vicini. La religione, che guida una buona parte delle continue conflittualità, è un mezzo attraverso cui legittimare la propria leadership al governo – antico sodalizio nato nella metà del 1700 dall’incontro della fama di dominio della famiglia di Muhammad Saud con quella di Muhammad al Wahhab, fervente predicatore di un fondamentalismo devoto al solo dio Allah: da quel momento il potere politico è stato finalizzato al perseguimento della causa religiosa wahhabita in una sorta di gioco delle parti utile ad entrambi. Sistematicamente al centro di attacchi da parte del radicalismo che ne critica il tradimento filo occidentale, questo ricco e sfortunato Stato ha vissuto al centro di tumulti e guerre che ne hanno plasmato la sensazione di sicurezza e la proiezione politica.

Utile a questo punto accennare ad un momento fondamentale della storia saudita e della famiglia Saud: quello che ne ha visto la cacciata dalla regione in seguito alla morte di Turki nel terzo decennio del 1800 con la conseguente guerra civile che portò al governo la famiglia rivale Al Rashid e, l’abilità politica e militare del principe Al Aziz che dall’esilio in Kuwait fu in grado di condurre un esercito alla lenta ma inesorabile riconquista delle vecchie regioni del Neged e del Hijaz (regione simbolicamente importantissima, centro della religione islamica con le città sante di La Mecca e Medina). E’ questo un momento che ha rappresentato nella storia del regno saudita un nodo molto importante: mancando la figura di Muhammad Wahhab a rappresentare la guida religiosa e spirituale, Al Aziz assunse per se anche il titolo di Imam: da quel momento stringeva nelle sue mani la spada del potere temporale e quella del potere secolare (come il simbolo di casa Saud).

Dagli attacchi terroristici alla guerra in Somalia, dalla guerra del Golfo al conflitto israelo-palestinese al vicino Iran nucleare, l’Arabia Saudita è stata più volte salvata e condannata anche dal petrolio, salvo scoprire poi che la sua presa sull’equilibrio mondiale del commercio dell’oro nero era limitata. Contrariamente alle aspettative infatti, la produzione del greggio saudita non conta così come si credeva…per lo meno fuori dal gioco del Golfo. L’eccessiva considerazione data al petrolio è stata infatti già smentita e rischia di esserlo nuovamente. E’ vero si che se escludiamo potenze come Russia e Stati Uniti il peso del greggio saudita è ancora importante ma, date le nuove tendenze, rischia di essere una spada spuntata. Il gioco di abbassare la produzione di barili per cercare di premere sbilanciando la produzione internazionale non ha funzionato in passato ed è improbabile che con i prezzi dati (il Medio Oriente continua ad essere il centro della produzione di petrolio, davanti agli Stati Uniti e all’Eurasia), i sauditi rigiochino nuovamente al ribasso, soprattutto considerando la ripresa delle estrazioni dopo le recenti rivolte libiche (che comunque non sono in grado di mettere in difficoltà il Regno). Per casa Saud non si tratta tanto di competere contro Algeria o Libia, quanto di utilizzare la moneta nera come contrappeso al rivale iraniano, costringendolo ad adattarsi ai prezzi per restare competitivo (mossa che rientra in una più ampia strategia di confronto e che sposta la rivalità dal terreno ai mercati finanziari), tentando di sbarazzarsene e di metterlo da parte nella partita anti ISIL. L’Arabia Saudita può permetterselo. L’ Iran al contrario ha bisogno di restare su picchi sempre alti di produzione, cosa resa difficile dal blocco commerciale imposto da molti paesi proprio nella speranza di rallentare il percorso sull’acquisizione di tecnologia nucleare. Inoltre, a favore dei sauditi gioca la diffusa riduzione della domanda di greggio a livello mondiale in linea con trend di crescita decisamente deboli delle economie avanzate che gli permette di fare la prima mossa mantenendo un discreto margine di vantaggio.

Resta da chiedersi con gli ultimi cambiamenti che hanno acceso nuovi focolai di cui lo Stato Islamico è la manifestazione più lampante, se la corona ha intenzione di giocare seriamente la partita apertasi in Iraq e Siria e, in questo caso: lo farà ispirandosi alla teoria del divide et impera (che non ha portato grandi risultati fino ad ora visti i vuoti di potere creatisi con gli scontri dei gruppi fondamentalisti)? Lascerà che Obama riprenda a fare il grande poliziotto di un quartiere che non è decisamente più così stimolante per gli Stati Uniti nell’ottica globale ma sembra giocoforza attirarne il coinvolgimento militare? Riuscirà a trovare una linea comune con gli emiri vicini o resterà intrappolata nel pantano di un’insicurezza che contribuisce in buona parte a creare?

L’Occidente e i sui confini sensibili

Ottobre 2014, i notiziari albanesi danno risalto a una notizia in particolare: 76 cittadini siriani sono stati fermati in territorio albanese, al confine con la Grecia. Provati dalla traversata notturna dei monti che separano i due paesi, chiariscono di provenire “dalla guerra in Siria” e chiedono asilo politico allo Stato albanese. Erano stati avvistati mentre camminavano in colonna e, una volta fermati, hanno chiarito la loro provenienza senza indugi. Stessa sorte, ma con delle zone d’ombra fitte abbastanza da far sollevare un groviglio di ipotesi è stata riservata a 24 cittadini siriani, fermati mentre attraversavano il paese a bordo di mezzi a pagamento. Erano diretti in Montenegro e da lì, non è dato sapere.

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Del primo gruppo, intervistato dalla tv albanese Top Channel, ne parla Ahmed, un profugo palestinese, che dal campo profughi in Siria è dovuto scappare di nuovo con moglie e figli. “ Abbiamo camminato per circa un mese. Dalla Turchia, alla Grecia e infine qui in Albania”, spiega, “ camminavamo perché non avevamo scelta. Non abbiamo denaro e non possiamo pagare nessuno che ci aiuti”. Non hanno progetti o paesi di riferimento che vorrebbero raggiungere, vorrebbero soltanto mettersi in sicurezza e assicurare le famiglie da guerra e miseria.

A dicembre 2014, i media albanesi parlano di cittadini siriani, richiedenti asilo, scappati dai centri di permanenza. Voci non ufficiali parlano di condizioni difficili a cui erano costretti, ma le autorità negano ogni noncuranza o mancanza di adeguate condizioni di vita all’interno dei centri.

Alla stregua delle stragi di Parigi che stanno costringendo l’intelligence dei paesi europei a dichiarare allerta n.10 in Francia, in Italia n.7, i quesiti si moltiplicano.

Ormai è abbastanza chiaro che gran parte degli autori e ideatori degli attacchi terroristici in Occidente hanno potuto viaggiare in modalità A/R per prendere contatti, indottrinarsi, addestrasi alla guerra e fare rientro in Europa per portare a termine le stragi ideate. E’ notizia di oggi che è stato scovato in Grecia un esponente dell’ISIS che coordinava il reclutamento di aspiranti terroristi in Europa, pronti a replicare il terrore dei primi giorni sanguinosi di questo mese di inizio anno. Tal Abdelamid Abaoud, o meglio conosciuto come Abu Soussi, cittadino belga (!), originario del quartiere Molenbeek a Bruxelles.

Dunque, la mappa pare consolidata. V’è una rete di confini sensibili che rendono friabile l’entrata nei grandi paesi europei. Dalla Siria, in Turchia, in Grecia, Albania, Montenegro o Kossovo, via mare verso l’Italia (anche se dimostrato fin troppo bene dai fatti che l’allerta profughi nelle coste siciliane è molto inferiore ai movimenti migratori via terra) o altrimenti verso Germania, Francia o Belgio.

Oltre a un mero fattore geografico favorevole agli scambi e per questo conteso nei secoli, le ragioni della traversata “agevolata” dei profughi, uomini, donne e bambini, ma con la alta probabilità di militanti di Isis o Al Qaeda al loro interno, vanno ricondotte anche alla  malagestione dei paesi di confine da parte delle grandi potenze.

Con uno sguardo al passato, nella guerra di Bosnia, 1992-1995, USA, Arabia Saudita, Turchia e Unione Europea si schierarono con i mussulmani bosniaci nel conflitto contro i serbi. In palio c’erano l’allargamento a est della Nato e il controllo di un’area geografica strategicamente utile per il passaggio degli oleodotti che portano gas e petrolio dall’Asia Centrale all’Europa, senza passare per l’Ucraina, fino a ieri legata alla Russia. Tra i mussulmani sostenuti dall’Occidente e dai suoi alleati, militavano anche migliaia mujaheddin provenienti dall’Asia e dall’Africa Settentrionale, che porteranno il radicalismo islamico nei Balcani, prima in Bosnia e in seguito  anche in Kossovo.  Il 3% della popolazione bosniaca oggi si dichiara wahabita e varie operazioni di antiterrorismo hanno portato a centinai di arresti in Bosnia e Kossovo. L’Al Qaeda spagnola (responsabile degli attentati di Madrid) era composta di mujaheddin addestrati nei campi presso Zenica.

La medesima riflessione si estende alla posizione dei paesi del Caucaso: dall’Afghanistan, dove il ritiro delle forze internazionali non ha manifestamente contribuito alla stabilità dell’area o semplicemente a limitare il numero di vittime civili di guerra, affatto limitato; alla Cecenia e i suoi trascorsi di sangue, nonché Daghestan, Ossezia Settentrionale e così via.

Solo apparentemente in secondo piano pare sia collocato il conflitto in Libia, paese in balia della totale incontrollabilità e della guerra interna tra islamisti radicali. Dall’attacco di USA, Francia e Gran Bretagna nell’estate del 2011 con conseguente morte di Gheddafi, la situazione va irrimediabilmente peggiorando. Se non ne sentiamo parlare o non ne leggiamo, non significa che non esiste.

Quando ci chiediamo chi sono, da dove vengono, chi li finanzia, domanda, in verità spesso omessa dai media mainstream, ma anche evitata con acrobazie lessicali magistrali dalla politica, chiediamoci anche perché vengono in Occidente; perché da qui partono, fanno propria quella guerra e tornano per punirci? Perché continuiamo a destabilizzare tutto intorno a noi? Le domande non sono mai indiscrete, le risposte a volte lo sono (cit.), ma non facciamoci crollare i diritti addosso, non scontiamoli a beni ereditati con beneficio d’inventario.

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La nostra casa nello spazio

EUROPA/INNOVAZIONE di

Concepita come un grande laboratorio di ricerca e studio, raccoglie i contributi tecnici e scientifici di sedici Paesi partners che dal 1998 hanno letteralmente costruito sulla Terra parti, moduli, impianti per poi montare la Stazione Spaziale direttamente in orbita a circa 400 km dalla superficie terrestre.  Un peso di centinaia di tonnellate ed un ridotto spazio pressurizzato in cui muoversi e lavorare disposti su una superficie pari ad un campo da rugby americano permettono la vita di un equipaggio permanente di sei astronauti in continuo avvicendamento. Una grande missione senza una data di fine all’interno della quale sono racchiuse le speranze di tutto il nostro pianeta. Si perchè la SSI non è una semplice missione ma un grande laboratorio in cui si conducono numerosi studi scientifici in ambiente a gravità zero. Una piattaforma di ricerca internazionale per lo sviluppo di tecnologie e pianificazione della vita umana nello spazio in missioni di durata sempre maggiore.

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Rappresenta, non è certo poco, un modello unico di cooperazione internazionale in cui i Paesi partecipanti condividono la loro esperienza in campo scientifico e collaborano nei più svariati ambiti di ricerca: medicina, biologia, fisica, ricerca spaziale, osservazione spaziale, ingegneria medica, dei materiali, robotica ecc. Si tratta forse dell’esperimento a lungo termine più importante della storia dell’umanità, di un ambizioso programma spaziale in grado di unire voli a cui prendono parte equipaggi internazionali e complessi lanci di velivoli spaziali da piattaforme collocate in diverse zone del pianeta. Una gigantesca e pionieristica missione di architettura umana nello spazio che ha preso vita grazie ai continui voli di navicelle che portavano in orbita moduli contenenti parti meccaniche, sistemi di bordo, riserve d’ossigeno, cibo, acqua, astronauti ecc. Il primo equipaggio è stato lanciato nel 2000 grazie allo sviluppo e all’implementazione dei programmi Skylab, Shuttle-Mir e Space Shuttle e da allora le missioni spaziali hanno continuato incessantemente ad alternarsi. In questi primi anni d’importante sperimentazione il nostro Paese vanta una partecipazione tecnica e professionale importantissima, la cui ultima rappresentante in ordine di tempo è Samantha Cristoforetti.

I costi per il finanziamento di questo progetto sono altissimi, come altissimo è il valore tecnico scientifico che hanno le singole missioni. L’esperienza della Stazione Spaziale va però vista anche come un impegno internazionale in vista di obiettivi che nello spazio vedranno la loro realizzazione. Si spera che l’esempio della cooperazione spaziale possa portare benefici ai rapporti tra quei Paesi che spesso sulla Terra sono molto distanti e che in un modulo spaziale riescono invece a trovare piena e positiva concretizzazione.

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Corporate security e protezione della rete: il caso F 35

Difesa/INNOVAZIONE di

Le intrusioni e i furti di dati aziendali non potranno che crescere data l’importanza che il web riveste nel commercio, nei servizi, nelle comunicazioni. Questo genere di argomento, però, risulta tanto attraente quanto poco apprezzato sotto il profilo dell’importanza che riveste.

Mossi dalla consapevolezza dell’esistenza di nuove minacce, Stati ed aziende hanno iniziato a prendere contromisure dotandosi, per così dire, di pool di esperti informatici. E’ ragionevole pensare che attacchi di una certa importanza avvengano di continuo e l’ipotesi che attori statali ne siano coinvolti in veste di attaccanti ed attaccati  non è né remota né fantascientifica. Ne è esempio il caso dell’ormai famigerato velivolo da combattimento F 35.

Il progetto di questo caccia di nuova generazione è stato al centro di un vero e proprio attacco informatico nel 2012, un’azione di spionaggio condotta a regola d’arte, che ha causato non poco imbarazzo tra le alte sfere militari ed aziendali coinvolte. La serie di eventi verificatisi ha messo in serio pericolo alcune delle armi più avanzate sul mercato, esponendo l’intero apparato ad azioni di sabotaggio e quindi di interruzione dei progetti stessi, infiltrazione all’interno dei sistemi di rete di un elevato numero di computers appartenenti ad aziende che hanno sottoscritto contratti di milioni di dollari con il governo degli Stati Uniti e quindi alla potenziale penetrazione dei sistemi informatici degli stessi apparati istituzionali.

Quella che ha descritto Shane Harris sulla base di fidate fonti d’intelligence è a tutti gli effetti un’operazione di guerra condotta da un gruppo di informatici nelle maglie di una parte del sistema industriale e della difesa statunitense. La quantità di dati rubati è impressionante: si stima sia stato sottratto l’equivalente del 2% dell’intera biblioteca del Congresso americano. Decine di progetti, migliaia di files riservati relativi allo sviluppo di tecnologia, mezzi, armamenti.

Diversamente da quanto accade per i sistemi informatici governativi che per ovvie ragioni sono altamente sorvegliati e protetti (molto spesso le informazioni classificate non sono tenute in sistemi connessi alla rete), questo non accadeva con le aziende che collaboravano con il governo. Di conseguenza accedere a queste ultime è stato più semplice. Le indagini scontratesi con il primo ostacolo di una tardiva scoperta dell’attacco hanno dovuto affrontare poi la difficoltà di dover risalire alla fonte da cui l’infiltrazione era partita.

La complessità dell’apparato dei contractors industriali statunitensi ha reso l’operazione titanica, ed il tutto era complicato dalla particolarità del progetto del caccia stesso: l’utilizzo massiccio di alta tecnologia che permette al velivolo di compiere anche un semplice volo fa affidamento su milioni di codici che riguardano la logistica, l’avviamento dei sistemi di bordo, delle comunicazioni ecc. Un sistema così complesso ed interconnesso si è dimostrato una vera e propria spina nel fianco per gli investigatori, che hanno dovuto compiere un lavoro enorme per identificare la faglia tra le centinaia di imprese che a vario titolo erano impiegate nel progetto F 35. Insomma, continua Harris, le spie si sono trovate in quello che potrebbe definirsi un target-rich environment, un ambiente ricco di obiettivi.

Molti esperti definiscono il progetto dello Joint Strike Fighter juicy, ossia succoso per molti hackers; alcuni commentatori ritengono che il sistema alla base del funzionamento dell’aeroplano (un cervello elettronico) lo renda simile ad un drone, asserendo che il pilota più che pilotarlo si limiti a copilotarlo.  Il caccia utilizza quello che viene definito sistema fly by wire, un complesso impianto che commuta i comandi e qualunque altro tipo di indicazione in segnali elettrici, i quali intervengono in ogni istante modificando, stabilizzando, correggendo gli assetti, fornendo informazioni, dati rilevati ed occupandosi di tutto ciò che riguarda il volo ed il velivolo. Questo sistema, in uso da anni ma sempre più presente e pervasivo, gestisce e permette qualunque attività e richiede un continuo controllo e monitoraggio: proprio tale dipendenza renderebbe questa formidabile arma molto più vulnerabile ad attacchi cyber.

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Quello che stupì maggiormente i tecnici militari e dell’ FBI quando bussarono alla porta delle aziende coinvolte non deve sorprendere: alcuni manager delle compagnie i cui sistemi di sicurezza erano sottoposti ad investigazione ignoravano l’esistenza dell’aspetto cyber nella logica di protezione aziendale, sebbene la totalità delle informazioni fosse conservata online o facilmente accessibile attraverso la rete. Assieme a progetti ed informazioni sottratte riguardanti l’ F 35, le ricerche hanno portato alla luce attacchi relativi al programma missilistico Patriot, all’elicottero Black Hawk ed al famoso precursore della nuova generazione di aerei militari made in USA, l’ F 22 Raptor.

Questa vera e propria emergenza nazionale ha sollevato importanti dubbi sulle modalità di concepire e realizzare un sistema di sicurezza aziendale. L’indagine si è spinta fino ad ispezionare quali tipi di computers e quali programmi utilizzassero gli impiegati ed i dirigenti delle aziende a vario titolo coinvolte, quali dati di accesso fossero necessari, quali e quanti sistemi di sicurezza ogni impianto contemplava per la salvaguardia delle informazioni. Uno dei timori maggiori era infatti che tra i dati sottratti vi fossero quelli relativi ai sistemi di difesa ed attacco del velivolo, il che avrebbe potuto portare in caso di utilizzo dello stesso ad una perdita totale di efficacia del mezzo in caso di combattimento. In sintesi, la paura era che il caccia si trovasse ad affrontare altri velivoli in combattimento in una condizione di totale inferiorità.

L’indagine ha potuto evidenziare i punti deboli dei sistemi di sicurezza e quali colli di bottiglia presentavano le varie catene di realizzazione dei progetti portando grandi benefici alla cooperazione tra apparato governativo ed aziende. A seguito dell’inchiesta si è dato il via ad un processo di riscrittura dei codici software del velivolo che ha portato ad oltre un anno di ritardo sul progetto iniziale ed un aumento dei costi di circa il 50%.

Stando alle informazioni che la fonte di Harris rivela è verosimile che tale serie di attacchi provenisse dalla Cina, sebbene non se ne possa avere la totale certezza. Perché proprio la Repubblica Popolare? Due plausibili spiegazioni: la crescita e lo sviluppo tecnologico strabiliante conosciuto dal governo di Pechino (che secondo autorevoli membri dell’ FBI è da ritenere un risultato in parte ottenuto grazie alle informazioni sottratte) e la forte somiglianza che lega l’ F 35 e l’ F 22 con il J 20 ed il J 31 cinesi (vedi foto sopra).

Al momento la tecnologia americana resta la più avanzata ed in caso di confronto i caccia americani avrebbero di gran lunga la meglio sui rispettivi asiatici. Il punto però è anche questo: sottrarre informazioni, ammette l’FBI, permette ai competitors di superare limiti temporali legati alle tempistiche dello sviluppo di nuova tecnologia necessaria accorciando il divario con le grandi potenze e permette di ottenere guadagni significativi sui costi di sviluppo e ricerca.

La pericolosità e la gravità di tale evento ha avuto come risultato l’immediata convocazione di un tavolo di esperti del settore pubblico e privato che ha portato ad un saggio scambio di dati, pareri, buone prassi; la collaborazione ha fatto si che fossero diffusi all’interno della rete così creatasi dati relativi ad appalti, forniture, personale impiegato, software ed infrastrutture utilizzate. Ciò detto, occorre precisare che proprio gli Stati Uniti da anni sono tra gli attori principali nella guerra cibernetica e che non è recente l’utilizzo massiccio di tale tecnologia per i fini più disparati che riguardano da un lato la protezione di dati relativi ad interessi industriali e dall’altro la sacrosante sicurezza nazionale, per continuare con azioni di sabotaggio industriale ed economico nei più svariati settori.

 

Francesco Danzi
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